I palestinesi sono privi di una voce politica e i loro leader non fanno nulla al riguardo

Ramona Wadi

13 agosto 2020 – Middle East Monitor

I rifugiati palestinesi sono al centro delle narrazioni palestinesi. La comunità internazionale, tuttavia, ha classificato [quella dei] rifugiati palestinesi come una questione umanitaria. In mezzo a queste rappresentazioni divergenti, l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP) cerca di cimentarsi con entrambe le parti per sollecitare la “protezione internazionale” nel contesto della pandemia del coronavirus.

Mentre gli aiuti internazionali a favore dei rifugiati palestinesi sono appena sufficienti per i beni di prima necessità (e questo contribuisce ad accentuare la loro vulnerabilità), l’OLP ha chiesto protezione e sostegno economico all’ONU. Secondo quanto riportato, “tale protezione e sostegno devono continuare fino a quando non verrà trovata una soluzione per il problema dei rifugiati sulla base della Risoluzione 194”.

Lo sfruttamento politico dei profughi palestinesi non conosce limiti. La Risoluzione 194 delle Nazioni Unite, che era stata ciecamente accettata come la cornice entro cui avrebbe dovuto essere trovata una soluzione, viene raramente criticata per aver spostato la responsabilità [del problema, ndtr.] sulla popolazione colonizzata, piuttosto che sulla struttura di colonizzazione e insediamento che usurpa il territorio palestinese e che ha come prima cosa fatto dei palestinesi dei rifugiati. La risoluzione 194 fa parte della narrazione internazionale sulla Palestina e ha poco a che fare con la salvaguardia dei diritti dei rifugiati perché non chiede la decolonizzazione della loro terra.

Ai rifugiati palestinesi non è data una tribuna politica a livello internazionale. Da qui il costante “parlare per” i rifugiati all’interno di un contesto umanitario che a sua volta giustifica il ruolo della comunità internazionale nel decidere come debba essere promossa la causa dei profughi palestinesi per enfatizzarne l’aspetto umanitario.

L’aiuto umanitario è prima di tutto una faccenda della comunità internazionale. I destinatari sono costretti a svolgere un ruolo in questa farsa, che ignora la colonizzazione israeliana della Palestina come causa dell’intera questione.

Inoltre, la richiesta di aiuto dell’OLP promuove la narrazione internazionale del rimandare. Gli aiuti devono essere forniti finché non verrà trovata una soluzione, insiste l’OLP, ma quanta enfasi viene posta sulla ricerca e attuazione di tale soluzione? La comunità internazionale e la leadership palestinese hanno trasformato i rifugiati palestinesi in accessori per convenienza politica. In effetti, non si fa quasi mai menzione dei rifugiati palestinesi, a meno che non venga evocato un contesto umanitario, o nel caso in cui le Nazioni Unite lancino un progetto per sfruttare l’illusione dell’ “autonomia palestinese” – inesistente in un contesto umanitario compromesso a causa di carenze e di alleanze politiche con il progetto coloniale sionista.

Quindi ho un suggerimento: che ne dite di ricordare i rifugiati palestinesi come le principali vittime della colonizzazione sionista; come persone che sono state private dei loro diritti dalla comunità internazionale che permette a quella colonizzazione di procedere indisturbata? Sono passati decenni da quando l’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e il lavoro è stata incaricata di provvedere ai rifugiati palestinesi e vincolata a una visione “neutrale”, nonostante sia finanziata da Paesi che danno la priorità ai legami diplomatici ed economici con Israele a scapito dei diritti umani e della giustizia. L’autonomia palestinese per i palestinesi, compresi i rifugiati, è ancora un concetto inesistente, perché la comunità internazionale ha monopolizzato la politicizzazione degli aiuti umanitari senza consentire ai palestinesi di partecipare al processo.

Ogni volta che il legittimo diritto al ritorno dei palestinesi viene legato a richieste di aiuti umanitari, il “diritto” viene ulteriormente sminuito. Tale retorica mette ingiustamente i palestinesi in posizione passiva, posizione che l’Autorità Palestinese ama definire “di attesa”. Tali prospettive sono dannose per i palestinesi; non stanno aspettando, sono stati privati di una voce politica e la loro leadership non sta facendo nulla per contrastare questa violazione internazionale dei diritti umani.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




“Questa non è la pace. È la normalizzazione dell’occupazione”: per i palestinesi l’accordo tra Israele e gli Emirati è pericoloso

Akram Al-Waara Betlemme, Cisgiordania occupata

domenica 16 agosto 2020 – Middle East Eye

In tutti i territori i palestinesi ritengono che questo patto incoraggi l’occupazione israeliana a danno dei loro legittimi diritti.

In questi giorni nei territori palestinesi occupati l’annuncio dell’accordo di normalizzazione tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti (EAU) è stato sulle prime pagine dei giornali locali: i palestinesi e i loro dirigenti vi esprimono la propria indignazione di fronte a quello che considerano un “tradimento” da parte di un altro Paese arabo.

L’accordo, annunciato giovedì sera, è stato negoziato dal presidente americano Donald Trump e stabilisce che Israele sospenderà l’annessione di alcune parti della Cisgiordania in cambio di relazioni diplomatiche con gli EAU.

Se gli EAU sono il primo Stato arabo del Golfo a raggiungere un tale accordo pubblico con Israele, da molto tempo il Paese, come la vicina Arabia Saudita, si dimostra amichevole nei confronti di Israele e ha messo in pratica una normalizzazione “nascosta”.

Un comunicato congiunto del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e del principe ereditario di Abu Dhabi Mohammed ben Zayed (MBZ) ha celebrato questa decisione definendola “un progresso diplomatico storico” in grado di far avanzare la pace nella regione mediorientale. Tuttavia i palestinesi ritengono che questo nuovo accordo otterrà l’effetto contrario.

È una decisione pericolosa che non porterà che ulteriori persecuzioni contro i palestinesi,” garantisce a Middle East Eye Iyad Nasser, segretario generale di Fatah nel sud della Striscia di Gaza. Egli dice a MEE che, come tutti i palestinesi, giovedì, all’annuncio di questo accordo, gli abitanti della Striscia di Gaza assediata da Israele sono stati sopraffatti da disillusione e frustrazione.

Si percepiva nell’aria la sensazione di essere stati traditi dai nostri fratelli,” racconta. “Con questa decisione gli EAU non tradiscono solo il popolo palestinese, ma l’insieme degli arabi e persino la loro stessa popolazione.”

A Gerusalemme est occupata, Jawad Siyam, direttore del centro d’informazione Wadi Hilweh nel quartiere di Silwan, esprime un’opinione simile: “La normalizzazione è un tradimento. Nient’altro che questo.”

Se per lui come per molti altri il momento scelto per annunciare questa decisione è una sorpresa, Siyam precisa che la normalizzazione dei rapporti tra Israele ed Emirati Arabi Uniti era prevista da molto tempo. “Bisognava essere ciechi per pensare che non sarebbe successo,” afferma Jawad Siyam. Secondo lui “da anni si poteva vederli agire insieme. Non sono solo gli Emirati, ci sono l’Egitto, l’Arabia Saudita e gli altri Paesi del Golfo. Sono i servi di Israele e degli Stati Uniti.”

A Betlemme, città della Cisgiordania occupata, gli effetti dell’occupazione israeliana sono assolutamente visibili. Circondati da muri e colonie in espansione, i palestinesi che vi abitano vivono con il ricordo costante che Israele controlla le loro vite.

George Zeidan, 30 anni, attivista locale e cofondatore del gruppo “Diritto di Muoversi”, dichiara a MEE che l’annessione è una “realtà quotidiana per i palestinesi in Cisgiordania. Utilizzare l’annessione come giustificazione per la normalizzazione è scandaloso,” ritiene l’attivista, in riferimento alla presunta promessa di Israele di sospendere questa politica in cambio delle relazioni diplomatiche con gli EAU.

L’annessione è una pratica illegale,” afferma. “Quindi il congelamento di una politica illegale non dovrebbe concedere ad Israele la pace con le Nazioni arabe. Non è una cosa per la quale dovrebbe essere ricompensato.”

D’altra parte, secondo George Zeidan l’idea che l’annessione sia stata congelata in conseguenza di questo accordo è una farsa: “Solo un’ora o due dopo questo annuncio, Netanyahu ha chiaramente promesso che non smetterà di perseguire l’annessione. È veramente patetico. Per ottenere questo rapporto diplomatico Israele non ha ceduto su niente.”

Tutti amano la pace,” continua. “Ma questa non è la pace. È la normalizzazione di un’occupazione. È un’occupazione quotidiana sul terreno, con la quale Israele continua a umiliare tutti i giorni la popolazione palestinese nei territori occupati.”

Una farsa”

Se l’annessione ufficiale della Cisgiordania è stata sospesa, il furto e l’appropriazione continui delle terre palestinesi non sono cessati, sottolinea, aggiungendo che l’annessione era stata ufficialmente rimandata parecchi mesi fa.

George Zeidan, Iyad Naser e Jawad Siyam hanno espresso la stessa opinione: che gli EAU si attribuiscano il merito della sospensione dell’annessione è una farsa.

È demoralizzante vedere che gli EAU utilizzano l’annessione per mascherare le loro iniziative di normalizzazione,” insiste Jawad Siyam con MEE. “Cercano di mostrare che attraverso questo accordo sostengono la Palestina, ma si capisce chiaramente il loro gioco.”

Si sa che non è così. Con questo accordo gli EAU hanno offerto a Trump e a Netanyahu un regalo per aiutarli a realizzare il loro programma politico,” spiega.

Trump utilizza questo successo per la sua campagna elettorale e Netanyahu per portare avanti le sue politiche nei territori occupati,” continua Jawad Siyam. “Da quando in luglio ha sospeso ufficialmente l’annessione, Netanyahu è soggetto ad una forte pressione da parte della destra israeliana, così questo accordo lo aiuta a tenersi a galla.”

Iyad Naser sottolinea che alla fine l’annessione non è stata ufficialmente annunciata come previsto il primo luglio a causa della crescente pressione internazionale, delle minacce di condizionare l’aiuto a Gerusalemme da parte del Congresso americano e della posizione dei cittadini palestinesi e dei loro dirigenti.

Con l’aiuto della comunità internazionale abbiamo fatto pressione su Israele e sugli Stati Uniti per bloccare l’annessione,” dice. “Gli emirati non hanno fatto niente. Non gli permetteremo di usarla come scusa per mascherare la loro vergogna.”

Iyad Naser ricorda l’iniziativa di pace del 2002, che offriva un più ampio riconoscimento di Israele se quest’ultimo si fosse ritirato all’interno delle frontiere del 1967 e avesse risolto il problema dei rifugiati palestinesi.

Nel quadro dell’iniziativa di pace araba la normalizzazione con Israele avrebbe dovuto essere l’ultima tappa di questo processo,” insiste. “Prima avrebbero dovuto essere garantiti i diritti dei palestinesi, restituite le loro frontiere e le loro terre, la loro libertà, poi sarebbe venuta la normalizzazione. E non il contrario.” 

In tutto lo spettro politico gli attivisti e i dirigenti palestinesi sono d’accordo sul fatto che questo accordo tra Israele e gli EAU costituisca un pericoloso precedente nella regione e a livello internazionale.

La Giordania, l’Egitto e ora gli EAU sono per il momento gli unici Paesi arabi ad avere ufficialmente relazioni diplomatiche con Israele. I palestinesi ritengono che questo nuovo accordo aprirà la strada ad altri Paesi della regione. 

Questo accordo è pericoloso perché legittima l’occupazione dal punto di vista internazionale,” dice a MEE George Zeidan.

Quando le persone vedranno che i Paesi arabi cominciano a firmare accordi con Israele sarà più difficile fare pressioni su Israele per porre fine alle sue violazioni dei diritti umani nei territori occupati.”

Il sostegno alla nostra causa e alla liberazione tra gli Stati arabi verrà inevitabilmente indebolita,” prevede il responsabile di Fatah. “Oggi dirigenti come MBZ e MBS (il principe ereditario saudita Mohammed ben Salman) tradiscono le politiche dei loro nonni che appoggiavano la Palestina. E altri Paesi finiranno per seguire l’esempio degli Emirati.”

Nonostante un futuro che sembra oscuro e la possibilità di una normalizzazione regionale con Israele, i palestinesi dicono di sperare ancora che il sostengo alla loro causa si manifesterà tra i popoli di tutto il mondo.

Malgrado il sostegno degli Stati del Golfo a Israele, abbiamo potuto constatare più volte che i popoli arabi sostengono sempre i palestinesi e la nostra lotta per la libertà,” nota Jawad Siyam.

Anche se non abbiamo il sostegno dei loro dirigenti, speriamo che i popoli di tutto il mondo continueranno a sostenere i diritti dell’uomo e a fare pressione su Israele per mettere fine all’occupazione.”

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




Mustafa al-Barghouti: “Di fronte all’annessione occorre mostrarsi combattivi”

Mustafa Barghouti

15 agosto 2020 – Chronique de Palestine

Il governo di occupazione non cessa di intensificare i propri abusi in parecchi ambiti: l’espansione delle colonie e gli ordini di demolizione di case palestinesi, i quotidiani arresti di palestinesi – alcuni dei quali si accompagnano ad odiosi omicidi, come nel caso della martire Dalia Al-Samoudi a Jenin, gli attacchi contro le istituzioni di Gerusalemme ed il tentativo di ridurre la presenza palestinese nella città.

La decisione israeliana di costruire 1.000 nuovi blocchi di colonie nella zona E1 tra Gerusalemme e la Valle del Giordano è stata di fatto il segnale d’avvio del processo di annessione e di ebraizzazione.

Alcuni analisti pensano che questo processo sia stato rinviato o interrotto, nonostante il fatto che Benjamin Netanyahu non smetta di ripetere che esso è all’ordine del giorno e la sua attuazione viene accuratamente predisposta.

Ma occorre guardare in faccia la realtà: anche senza questo, le costanti pratiche degli israeliani sul terreno modificano lo status quo, attraverso l’ebraizzazione delle aree palestinesi e l’annessione di fatto di tutte le zone che sono purtroppo classificate come zona “C”, cioè il 62% della Cisgiordania [la zona C è sotto completo controllo israeliano in base agli accordi di Oslo del ’93, ndtr.].

Ciò dimostra l’importanza della dichiarazione dei diplomatici americani ai loro omologhi internazionali, che è stata oggetto di una fuga di notizie, relativa al mancato rispetto delle Risoluzioni 242 e 338 delle Nazioni Unite (due delle principali risoluzioni dell’ONU, del 1967 e del 1973, che essenzialmente impegnano al ritiro dai territori occupati e al diritto al ritorno dei profughi, ndtr.) e di altre risoluzioni internazionali. Queste violazioni sono antiche, essi affermano, e la realtà sul terreno cambia con gli anni e si evolve quotidianamente.

Non bisogna collegare le iniziative necessarie a contrastare il processo di annessione e impedire l’attuazione dell’Accordo del Secolo all’annuncio ufficiale dell’annessione. Bisogna collegarle in termini generali alla politica di colonizzazione israeliana e all’applicazione concreta del suo sistema di apartheid.

Il governo israeliano studia le reazioni alle sue pratiche e alle sue dichiarazioni relative all’attuazione dell’annessione ufficiale e tenta di contenere tali reazioni e prendere le sue misure in base ad esse.

Tuttavia si scontra con tre ostacoli evidenti: la presenza fisica di palestinesi che resistono ai suoi piani e rifiutano il regime di apartheid; l’eventualità di dover affrontare sanzioni concrete, compreso un boicottaggio che si sviluppa in modo esponenziale a livello popolare; l’unanimità palestinese riguardo al rifiuto dell’Accordo del Secolo, delle sue mappe geografiche e dei suoi inganni.

Inoltre per Israele il tempo stringe, perché Donald Trump potrebbe perdere le elezioni presidenziali di novembre.

Dal lato palestinese la cosa più pericolosa che potrebbe verificarsi sarebbe adottare una posizione di attesa passiva, o sopravvalutare ed esagerare le conseguenze di un’eventuale caduta di Trump ed elezione di Biden. Infatti, anche se Biden è contrario al piano di annessione di Netanyahu, non farebbe niente per impedire che proseguano i tre processi in atto sul terreno di cui ho parlato prima.

Proseguire il processo di modifica dello status quo, ufficialmente o no, significa eliminare la possibilità di creare uno Stato palestinese indipendente. Basti pensare che il numero di coloni presenti in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza non superava i 120.000 all’epoca della firma degli Accordi di Oslo (1993), mentre ora ammonta a 750.000.

Che alla Casa Bianca ci sia Trump o Biden, e che il primo ministro israeliano sia Netanyahu o Gantz, le iniziative palestinesi che devono essere avviate urgentemente sono le stesse: una reale unità nazionale, l’adozione di una strategia nazionale di lotta unitaria e azioni efficaci per imporre il boicottaggio dell’occupazione e del regime di apartheid.

Non sarà un male per il popolo palestinese se le sue differenti fazioni e dirigenti adotteranno un approccio adeguato. Ma sarà pericoloso se esse si accontenteranno di reagire invece di prendere l’iniziativa.

Il dottor Mustafa al-Barghouti è Segretario generale dell’Iniziativa Nazionale Palestinese, presidente della Società palestinese di assistenza sanitaria e membro del Consiglio Legislativo Palestinese.

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




Thomas Friedman si sbaglia di nuovo – questa volta sull’accordo tra Emirati Arabi Uniti e Israele

James North

14 agosto 2020 – MondoWeiss

Thomas Friedman [commentatore e autore politico americano, tre volte vincitore del Premio Pulitzer ed editorialista settimanale del New York Times, ndtr.] sbaglia sempre sul Medio Oriente, e ha di nuovo sbagliato. Il suo articolo sul New York Times di sabato, “Un terremoto geopolitico ha appena colpito il Medio Oriente”, interpreta male l’accordo Israele-Emirati Arabi Uniti – e mostra ancora una volta come Friedman abbia avuto paura di prendere posizione sulla prevista annessione da parte di Israele del 30 % della Cisgiordania palestinese.

Friedman l’ha presa al contrario. L’accordo, che si limita a ratificare la cooperazione già esistente tra gli Emirati Arabi Uniti e Israele, non è un “terremoto” – ma, almeno per ora, ha ridotto le occasioni di disordini in Palestina ed evitato un’enorme crisi del sostegno statunitense a Israele, in particolare all’interno della comunità ebraica. Lo stesso Friedman riconosce che:Se Israele avesse annesso parte della Cisgiordania, avrebbe diviso ogni sinagoga e comunità ebraica in America in annessionisti intransigenti contro anti-annessionisti progressisti.

Oggi riconosce che l’annessione costituirebbe “un disastro incombente” per “la comunità ebraica americana”.

Fermiamoci un attimo e consideriamo il patetico primato di Friedman nelle ultime settimane. È il giornalista di affari esteri più influente al mondo, venerato specialmente in molte delle case ebraiche statunitensi. Si è fatto un nome coprendo dal 1980 il Medio Oriente. Ma non ha pubblicato una sola parola contro l’annessione di Israele fino a ieri, quando gli Emirati Arabi Uniti e Donald Trump lo hanno spiazzato. Friedman è un codardo intellettuale. Si è comportato esattamente come l’organizzazione di punta della lobby israeliana americana, l’AIPAC, che allo stesso modo non ha dichiarato alcun allarme per l’annessione, ma è subito intervenuta nel sostenere l’accordo Emirati Arabi Uniti-Israele.

Larticolo di Friedman include ulteriori prove della sua negligenza giornalistica. Dopo aver sottolineato che la proposta di annessione è “un piano molto pro-Israele” – punto di vista su cui aveva sinora mantenuto il silenzio – ha aggiunto: “(Mi chiedo se l’ambasciatore di Trump in Israele, David Friedman, un estremista pro-colonie, abbia incoraggiato Bibi [Netanyahu] a pensare che avrebbe potuto farla franca.)”

Friedman “si chiede”? Il punto centrale dell’essere un giornalista influente è poter raggiungere al telefono chiunque si voglia. Ieri non ha avuto problemi ad ottenere immediatamente una risposta di prima mano da Itamar Rabinovich, ex ambasciatore israeliano, e da Ari Shavit, lo scrittore.

Non ha Friedman sicuramente qualche fonte in Israele che avrebbe potuto fornire dettagli eloquenti sull’ “estremismo pro-colonie” dell’ambasciatore statunitense Friedman? Il quotidiano israeliano Haaretz copre Friedman continuamente.

Thomas Friedman ha commesso in passato errori peggiori sul Medio Oriente. Ha appoggiato con entusiasmo l’invasione dell’Iraq del 2003 e, a differenza di molti appassionati sostenitori dellepoca non ha mai ammesso di essersi sbagliato o detto di essere dispiaciuto. “Lo rifarei”, ha detto. Ha parlato enfaticamente del sovrano de facto dell’Arabia Saudita, il principe ereditario Mohammed, e ha fatto un po’ marcia indietro solo dopo che il principe ereditario ha ordinato il terribile omicidio del giornalista dissidente saudita Jamal Khashoggi.

Ma ci sono segnali incoraggianti del fatto che l’influenza di Friedman stia progressivamente diminuendo. I commenti dei lettori all’editoriale di oggi, ad esempio, sono fortemente critici. La migliore risposta a Friedman da un lettore, “Russell in Oakland”, andava direttamente al punto: Insomma Israele ha annunciato il suo piano per commettere un crimine, l’annessione dei territori della Cisgiordania, e poi accetta di firmare la “pace” con un paese con cui, per quanto ne so, non era in guerra in cambio di non commettere quel crimine. Per ora.

La tragedia è che Friedman continua ad occupare spazi giornalistici che potrebbero essere occupati da qualcuno intelligente che non ha paura di scrivere quello che pensa.

(traduzione dall’ inglese di Luciana Galliano)




“Simpatizzanti di sinistra per Bibi”? Smascherata una manipolazione propagandistica a favore di Netanyahu

Itamar Benzaquen e The Seventh Eye

12 agosto 2020+972 Magazine

Secondo una serie di post su Facebook, il primo ministro israeliano starebbe conquistando tra i sostenitori della sinistra – salvo il fatto che nessuna delle persone in questione esiste.

Sharon Epstein era una persona di sinistra. Credeva nella pace e nella restituzione dei territori occupati ai palestinesi. Ma poi sono iniziate le proteste anti-Netanyahu e qualcosa è cambiato. Stufa delle presunte istigazioni all’odio contro il primo ministro, Sharon Epstein è diventata, secondo le sue stesse parole, una “bibi-ist”, una sostenitrice di Benjamin Netanyahu.

Epstein, la cui immagine sul profilo Facebook mostra una giovane donna con i capelli castani e gli occhi azzurri, ha condiviso il suo passaggio da sostenitrice della sinistra a sostenitrice di Netanyahu su una pagina Facebook chiamata “Zionist Spring” [primavera sionista, ndtr.] Solo che nella vicenda manca un dettaglio fondamentale: Sharon Epstein non esiste. È, invece, un personaggio immaginario creato come parte di una campagna politica.

Ci sono diverse Sharon Epstein in Israele, ma nessuna di loro è la “Sharon Epstein” che ha condiviso su Facebook una storia di trasformazione politica. L’immagine del profilo utilizzata è stata generata da un software per computer utilizzando una tecnologia nota come “sintesi di immagini umane”, che elabora le foto di persone reali per creare un’immagine composita di qualcuno che non esiste, ma che è ingannevolmente realistica.

Questa tecnica, che aiuta i produttori di fake news ad aggiungere credibilità alle loro storie, è diventata sempre più popolare negli ultimi anni e fa parte del mondo della produzione high-tech i cui prodotti sono noti come “deepfakes” [lett. manipolazioni profonde, ndtr.]. Recentemente, si è scoperto che una serie di storie diffuse dai media di destra, presentate come scritte da esperti geopolitici che dissertavano su argomenti che andavano dall’influenza nefasta dell’Iran sulla regione alla forza di Dubai, era opera di questi personaggi fittizi – abbinate alle immagini, false, dei [loro] profili.

La pagina Facebook “Zionist Spring” ha adottato un approccio più elementare: invece di creare una nuova immagine per “Sharon Epstein”, gli amministratori della pagina hanno semplicemente utilizzato la prima foto che appare alla voce di Wikipedia sulla composizione di immagini umane, che viene fornita come esempio della tecnologia. La descrizione della foto afferma che proviene da un sito web chiamato “Questa persona non esiste“.

Tra le crescenti manifestazioni anti-Netanyahu a Gerusalemme e il calo delle preferenze elettorali per il primo ministro, sono apparse su “Zionist Spring” ulteriori false confessioni come quella di “David Smolansky” – un’altra persona inventata, a giudicare dal nome (“smolan” in ebraico significa “di sinistra”). Come “Sharon Epstein” anche “David Smolansky” si è identificato come un simpatizzante di sinistra fino a quando il suo sgomento per le presunte istigazioni contro Netanyahu lo avrebbe trasformato in un sostenitore del primo ministro. Anche la sua immagine sul profilo è stata creata dal sito web responsabile dell’immagine di “Sharon Epstein”. Evidentemente, tuttavia, la tecnologia in questo caso non ha funzionato come previsto: la punta di un terzo orecchio è visibile sul lato della testa di “David”.

Una terza storia falsa su “Zionist Spring” proviene da “Dana Overlander”. Come nei post precedenti, la testimonianza di “Dana” è caratterizzata da un senso di disillusione e dal tentativo di suscitare sentimenti di rimorso e dubbio tra i manifestanti di sinistra.

“Sono delusa dalla mia area [politica]”, scrive “Dana”. “Ho dimostrato per tutta la vita a favore della pace e ho sempre votato per la sinistra, dal Labour-Meretz a Yesh Atid. [i primi due, partiti israeliani di centro-sinistra, il terzo di centro, ndtr.] Sono sempre andata alle manifestazioni a sostegno della pace, della tolleranza e dell’uguaglianza … Abbiamo oltrepassato il limite con le recenti proteste, che stanno principalmente danneggiando noi, la sinistra … Mi mancano i leader della sinistra israeliana del passato, cosa ci rimane oltre all’odio?”

La testimonianza di “Dana” è stata condivisa su Facebook più di 3000 volte. L’immagine sul profilo che la accompagna, che presenta alcune somiglianze con quella di “Sharon Epstein”, non compare da nessun’altra parte su Internet. Né, attraverso una ricerca completa su Twitter, Facebook, Instagram e i database visibili online, viene fuori una donna israeliana con il nome “Dana Overlander”.

Zionist Spring” è una pagina di propaganda che ha condiviso in modo aggressivo i post di Netanyahu su Facebook insieme a quelli di propagandisti che hanno fatto parte ufficialmente delle campagne elettorali del Likud, noti sostenitori di Netanyahu, e di Yair Netanyahu, figlio del primo ministro. È quindi chiaro il motivo per cui i gestori delle pagine hanno ignorato i commenti sui post pubblicati da presunti simpatizzanti di sinistra pentiti, [commenti] che hanno sottolineato che le persone in questione in realtà non esistono.

Una delle false testimonianze è stata condivisa da una fan page non ufficiale del canale di notizie israeliano di estrema destra Channel 20, i cui responsabili e follower hanno attribuito poca importanza al fatto che i post fossero fittizi. “Viene condiviso online. Perché dovrebbe essere importante la sua origine?” ha scritto un commentatore. In un commento separato, uno degli amministratori della fan page di Channel 20 ha scritto: “Prima di caricare questo post, inoltre, non sono riuscito a trovare un profilo con questo nome. Non cambia il fatto che [la testimonianza] ha ragione e che la sinistra sionista in Israele è scomparsa ed è persino più esigua dell’estrema sinistra. Un numero significativo di persone di sinistra ha detto la stessa cosa, quindi anche se questa persona è falsa, ciò che è stato scritto è azzeccato “.

Non è chiaro chi ci sia dietro a “Sharon Epstein”, “David Smolansky” e “Dana Overlander”, né alla pagina Facebook di “Zionist Spring“. Il presunto amministratore della pagina, che si chiama Uri Tzvi, non ha risposto a una richiesta di commento.

Notizie false

A poche ore dalla pubblicazione di questa storia sul Seventh Eye [Settimo Occhio, rivista israeliana indipendente, ndtr.], l’8 agosto, la pagina Facebook di “Zionist Spring” è scomparsa da Facebook, insieme al profilo di Tzvi. Non è ancora noto se la pagina sia stata cancellata dal suo gestore o rimossa da Facebook.

Tuttavia le iniziative di manipolazione sui social media non sono un fenomeno isolato nella politica israeliana. Pochi giorni fa, l’esperto di media Yossi Dorfman ha denunciato come falsi alcuni profili di “sinistra” su Facebook – poi rimossi dal sito – che postavano presunte istigazioni contro Netanyahu, intese a ritrarre chi protesta contro di lui come violento.

Dorfman ha anche rivelato che un profilo a nome di “Dana Ron”, che Netanyahu ha accusato di aver pubblicato l’invito ad ucciderlo, era falso. Anche quel profilo è stato rimosso da Facebook. Un’indagine della polizia sulla provenienza del post ha rivelato che l’account era gestito dall’ estero, anche se non è stato ancora accertato da chi.

Questa ondata di post falsi sui social media deriva da precedenti post di propaganda fittizi a sostegno di Netanyahu. Due mesi fa si è diffusa sui social media una serie di finte testimonianze da parte di presunti sostenitori di Netanyahu, accompagnate da foto di celebrità americane.

Ad aprile, Yair Netanyahu e l’attivista di estrema destra e leader di Otzma Yehudit [partito israeliano di estrema destra, ndtr.] Itamar Ben-Gvir hanno entrambi condiviso una foto di fedeli musulmani sui tetti degli edifici – presumibilmente in Israele – per tentare di istigare contro i palestinesi. In realtà la fotografia è stata scattata a Dubai. In precedenza, Yair Netanyahu aveva condiviso una foto di presunte rivolte violente a Giaffa, che era stata scattata diversi anni prima a Wadi Ara [regione del distretto di Haifa popolata prevalentemente da arabo israeliani, ndtr.]. E l’anno scorso, durante la seconda delle tre recenti elezioni israeliane, nel tentativo di esortare la destra ad andare a votare, ha pubblicato una foto che mostrava in apparenza una fila di elettori palestinesi in attesa di esprimere il loro voto – un’immagine che in realtà si riferiva ad elettori in Turchia.

Una versione di questo articolo è stata originariamente pubblicata in due puntate su The Seventh Eye.

Itamar Benzaquen è un reporter di The Seventh Eye.

The Seventh Eye è tra i media israeliani l’unico cane da guardia indipendente. Fondato nel 1996, oggi pubblica quotidianamente rassegne mediatiche, articoli, editoriali e rapporti investigativi volti a denunciare pratiche giornalistiche inaccettabili, interessi stranieri nei media israeliani, censura e autocensura, discriminazione e razzismo. I giornalisti del sito seguono e documentano i progressi nel mondo dei media israeliani, dalla rinascita dei sindacati dei giornalisti alla denuncia di contenuti “pubblicitari” nascosti, il tutto con l’obiettivo di incoraggiare un giornalismo indipendente, equo e imparziale.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Un tribunale italiano ha detto alla RAI TV che “Gerusalemme non è la capitale di Israele”

Romana Rubeo

7agosto 2020 – Palestine Chronicle

Flavio Insinna, presentatore del popolare programma televisivo italiano “L’Eredità”, la prossima volta che andrà in onda dovrà fare la seguente dichiarazione: “Il diritto internazionale non riconosce Gerusalemme come capitale dello Stato di Israele.”

Questo ordine ufficiale è stato deciso dal tribunale di Roma, che il 5 agosto ha sentenziato a favore di due organizzazioni italiane filo-palestinesi contro l’impresa pubblica italiana di radiodiffusione RAI.

La vicenda risale al 21 maggio, quando è stato chiesto alla concorrente di un programma televisivo quale sia la capitale di Israele. La risposta “Tel Aviv” è stata considerata sbagliata. Quella giusta, è stato detto alla concorrente, è “Gerusalemme”.

In Italia l’incidente ha scatenato un dibattito pubblico. La politica estera italiana continua ad essere coerente con il diritto internazionale, che non riconosce Gerusalemme come capitale di Israele.

Il 5 giugno Insinna, il presentatore del programma, cercò di attenuare la polemica con una dichiarazione che affermava in modo parziale che “sull’argomento ci sono punti di vista differenti.”

Tuttavia gli avvocati italiani Fausto Gianelli e Dario Rossi, che rappresentano rispettivamente l’“Associazione Palestinesi in Italia” e l’“Associazione benefica di solidarietà con il popolo palestinese”, hanno deciso di portare il caso in tribunale.

Dopo aver riflettuto, la giudice Cecilia Pratesi ha comunicato la tanto attesa sentenza: “Lo Stato italiano non riconosce Gerusalemme come capitale di Israele.”

“È ben noto che il 21 dicembre 2017 l’Italia ha votato a favore di una risoluzione dell’Assemblea Generale dell’ONU che ha respinto la decisione degli Stati Uniti di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele,” ha detto la giudice.

“È altrettanto noto che la stessa ONU ha ripetutamente espresso la propria opinione, condannando l’occupazione israeliana dei territori palestinesi e di Gerusalemme est e negando qualunque valore legale alla decisione di Israele di trasformare Gerusalemme nella sua capitale,” ha aggiunto.

“Le risoluzioni dell’ONU,” prosegue la sentenza, “devono essere considerate leggi ordinarie, direttamente applicabili nel nostro sistema giuridico.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




“Una pugnalata alle spalle”: i palestinesi denunciano l’accordo di normalizzazione tra gli Emirati e Israele

MEE e agenzie

venerdì 14 agosto 2020 – Middle East Eye

I palestinesi e i loro sostenitori hanno condannato duramente l’accordo concluso da Abu Dhabi con Israele, che ha peraltro annunciato per bocca del suo primo ministro Benjamin Netanyahu che l’annullamento del progetto di annessione che si pensava fosse previsto nel patto non è garantito

Questo giovedì in un comunicato l’Autorità Nazionale Palestinese ha denunciato l’accordo di normalizzazione delle relazioni diplomatiche tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti (EAU) con il sostegno degli Stati Uniti, definendolo un “tradimento di Gerusalemme, di Al-Aqsa e della causa palestinese” ed esigendone il ritiro.

Questo accordo, che dovrà essere firmato tra tre settimane a Washington, farebbe di Abu Dhabi la terza capitale araba a seguire questa via dalla creazione di Israele.

La direzione (palestinese) afferma che né gli EAU né nessun’altra controparte hanno il diritto di parlare in nome del popolo palestinese, né consente a chicchessia di intervenire negli affari palestinesi riguardanti i loro legittimi diritti sulla loro patria.”

L’Autorità Nazionale Palestinese ha richiamato il suo ambasciatore ad Abu Dhabi e chiesto una “riunione d’urgenza” della Lega Araba e dell’Organizzazione per la Cooperazione Islamica (OCI) per denunciare il progetto.

La normalizzazione delle relazioni tra Israele e le potenze del Golfo come Bahrein, Arabia Saudita ed Emirati è uno degli aspetti del piano dell’amministrazione Trump per il Medio Oriente, accolto dagli israeliani ma duramente criticato dai palestinesi.

Questo piano prevede anche l’annessione da parte di Israele della Valle del Giordano e di centinaia di colonie ebraiche in Cisgiordania, giudicate illegali dal diritto internazionale. Giovedì sera il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha detto di aver “rinviato” questo progetto, senza tuttavia “avervi rinunciato”.

La dirigenza palestinese “rifiuta questo scambio tra la sospensione dell’annessione illegale e la normalizzazione con gli EAU che avviene a spese dei palestinesi,” continua il comunicato, che definisce l’accordo tra Israele e gli Emirati “un’aggressione contro i palestinesi.”

Hanan Ashrawi, una dei maggiori esponenti dell’Autorità Nazionale Palestinese che governa la Cisgiordania, ha dichiarato che in questo modo Israele è stato ricompensato per le sue azioni illegali dal 1967 nei territori palestinesi.

Gli EAU hanno rivelato alla luce del sole i loro rapporti segreti e la normalizzazione con Israele. Vi preghiamo, non fateci dei favori. Non siamo la foglia di fico di nessuno!” ha twittato.

Possiate voi non provare mai la sofferenza di vedersi rubare il proprio paese; possiate voi non provare mai il dolore di vivere prigionieri sotto occupazione; possiate voi non assistere mai alla demolizione della vostra casa o all’uccisione dei vostri cari. Possiate voi non essere mai venduti dai vostri ‘amici’,” ha aggiunto.

Awni Almashni, un responsabile del movimento Fatah del presidente palestinese Mahmoud Abbas, e attivista della città di Betlemme, in Cisgiordania, ha dichiarato a Middle East Eye che la pace nella regione non potrà essere ottenuta che risolvendo i problemi che i palestinesi devono affrontare.

Gli accordi che Israele cerca di concludere con i Paesi musulmani ed arabi sono un mezzo per eludere ed evitare la questione palestinese, ma qualunque piano di pace con un Paese arabo non è che un’illusione e non risolverà il problema principale tra Israele e la Palestina,” ha avvertito.

In passato Israele ha cercato di costruire la pace con certi Paesi arabi, ma noi sappiamo che non ha raggiunto nessun tipo di pace nella regione.”

L’attivista nota che l’annessione è stata congelata molto prima dell’annuncio di giovedì, grazie al popolo palestinese e al rifiuto categorico da parte della comunità internazionale.

Secondo lui legare l’annessione all’intesa tra gli EAU e Israele “è un tentativo di presentare l’accordo con Israele come un successo, cosa che non è affatto.”

Hamas, il movimento palestinese che governa la Striscia di Gaza assediata da Israele, ha definito “pericoloso” l’accordo tra Israele e gli Emirati.

L’accordo tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti è uno sviluppo pericoloso nel segno della normalizzazione e un colpo a tradimento contro i sacrifici del popolo palestinese,” ha dichiarato.

Per i comitati di resistenza popolare della Striscia di Gaza l’accordo “rivela l’ampiezza della cospirazione contro (il) popolo e (la) causa (palestinesi).”

Lo consideriamo una pugnalata alle spalle perfida e velenosa contro la nazione e la sua storia,” ha aggiunto l’organizzazione.

Anche la Jihad islamica, un altro gruppo della resistenza che opera da Gaza, ha condannato il patto: “Chiunque non sostenga la Palestina con una pallottola dovrebbe vergognarsi,” ha dichiarato.

Da parte sua l’Alleanza Nazionale Democratica, nota anche con il nome di partito Balad [gruppo politico arabo-israeliano, ndtr.], ha dichiarato che la decisione “incoraggia Israele a continuare con le attuali politiche (…) che privano i palestinesi dei loro legittimi diritti storici. Gli EAU si sono ufficialmente uniti a Israele contro la Palestina e si sono collocati nel campo dei nemici del popolo palestinese.”

Una “sciocchezza strategica di Abu Dhabi e di Tel Aviv”

Anche vari Paesi della regione hanno condannato l’accordo.

Questo venerdì la Turchia ha così accusato gli Emirati Arabi Uniti di “tradire la causa palestinese” accettando di firmarlo.

Gli Emirati Arabi Uniti cercano di presentarlo come una sorta di sacrificio per la Palestina, mentre tradiscono la causa palestinese per i propri meschini interessi,” ha reagito in un comunicato il ministero degli Esteri turco.

La storia e la coscienza dei popoli della regione non dimenticheranno questa ipocrisia e non la perdoneranno mai,” ha aggiunto.

Ardente difensore della causa palestinese, il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan critica regolarmente i Paesi arabi che accusa di non adottare un atteggiamento sufficientemente fermo di fronte a Israele.

La vivace reazione di Ankara arriva anche nel momento in cui le relazioni tra la Turchia e gli Emirati Arabi Uniti, due rivali regionali, sono tese. I due Paesi si scontrano in particolare in Libia, dove sostengono campi opposti.

Anche l’Iran ha condannato duramente l’accordo, descritto come una “sciocchezza strategica di Abu Dhabi e di Tel Aviv, che rafforzerà senza dubbio l’asse della resistenza nella regione. Il popolo oppresso di Palestina e tutte le Nazioni libere del mondo non perdoneranno mai la normalizzazione dei rapporti con l’occupante e il regime criminale di Israele, così come la complicità con i crimini del regime,” ha dichiarato in un comunicato il ministero iraniano.

La Giordania, che nel 1994 ha firmato un trattato di pace con Israele, diventando il secondo Paese arabo dopo l’Egitto a farlo, non ha né accolto favorevolmente né condannato l’accordo, ritenendo che il suo futuro dipenderà dalle prossime iniziative di Israele e in particolare dal fatto che possa spingere Israele ad accettare uno Stato palestinese sulla terra che ha occupato dopo la guerra arabo-israeliana del 1967.

Se Israele l’ha considerato come un incitamento a mettere fine all’occupazione (…) ciò porterà la regione verso una pace giusta,” ha dichiarato il ministro degli Affari Esteri Ayman Safadi in un comunicato ai mezzi di informazione statali.

Annullamento o semplice rinvio dell’annessione?

Secondo Abu Dhabi, in cambio di questo accordo Israele ha accettato di “mettere fine alla realizzazione dell’annessione dei territori palestinesi.”

Durante una telefonata tra il presidente Trump e il primo ministro Netanyahu si è trovato un accordo per mettere fine a una qualunque ulteriore annessione,” ha affermato il principe ereditario di Abu Dhabi, lo sceicco Mohammed ben Zayed al-Nahyane sul suo account twitter.

Ma il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu non lo ha confermato, parlando di un semplice “rinvio”.

L’annessione di parti di questo territorio palestinese occupato è “rinviata”, ma Israele non vi ha “rinunciato”, ha affermato Netanyahu. “Ho portato la pace, realizzerò l’annessione,” ha persino proclamato.

La formulazione è stata scelta con cura dalle diverse parti. ‘Pausa temporanea’, non è definitivamente scartata,” ha sostenuto da parte sua l’ambasciatore americano in Israele David Friedman.

Ciononostante l’accordo è stato ben accolto da gran parte della comunità internazionale.

Così la Francia ha giudicato che “la decisione presa in questo contesto dalle autorità israeliane di sospendere l’annessione dei territori palestinesi (è) una tappa positiva, che (dovrebbe) diventare una misura definitiva,” secondo il capo della diplomazia francese, Jean-Yves Le Drian.

Per le Nazioni Unite questo accordo potrebbe creare “un’occasione per i dirigenti israeliani e palestinesi di riprendere negoziati concreti, che portino a una soluzione dei due Stati in base alle risoluzioni dell’ONU a questo riguardo,” ha dichiarato il segretario generale dell’organizzazione, António Guterres.

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




Israele attacca la Striscia di Gaza come “rappresaglia” per i palloni incendiari

MiddleEastEye

12 agosto 2020 middleeasteye

L’esercito israeliano afferma di aver colpito delle infrastrutture controllate da Hamas, comprese “infrastrutture sotterranee e posti di osservazione”

Israele ha ripetutamente attaccato la Striscia di Gaza come rappresaglia per il lancio nei giorni scorsi dall’enclave assediata di palloni incendiari.

L’esercito israeliano ha detto mercoledì di aver effettuato attacchi notturni su bersagli di Hamas, comprese “infrastrutture sotterranee e posti di osservazione”.

“Jet, elicotteri d’attacco e carri armati hanno colpito diversi obiettivi di Hamas”, si legge in un comunicato.

L’esercito ha detto che gli attacchi sono stati di “rappresaglia” per il lancio di molti palloni dall’enclave gestita da Hamas. I vigili del fuoco nel sud di Israele hanno detto che solo martedì i palloni hanno causato 60 incendi ma nessuna vittima.

Gli esplosivi legati a palloncini e aquiloni sono apparsi per la prima volta come arma a Gaza durante le intense proteste del 2018, quando i dispositivi improvvisati attraversavano il confine ogni giorno, provocando migliaia di incendi nelle fattorie e nelle comunità israeliane.

La scorsa settimana, per tre volte questi palloni sono stati lanciati da Gaza verso Israele, provocando ogni volta attacchi di rappresaglia contro le posizioni di Hamas.

Lunedì Hamas ha lanciato anche diversi razzi in mare dopo i ripetuti scambi di fuoco con Israele degli ultimi giorni, come hanno riferito fonti della sicurezza palestinese e testimoni oculari.

I razzi erano un “messaggio” a Israele per fargli sapere che i gruppi armati di Gaza non “rimarranno in silenzio” di fronte all’assedio israeliano e all’ “aggressione”, ha detto all’Agenzia France-Press una fonte vicina ad Hamas.

Un altro funzionario di Hamas ha detto che si è trattato di un tentativo di attrarre l’attenzione sul blocco ai tentativi di fornire aiuti alla Striscia.

“Hanno affermato che c’erano intese e accordi sull’avanzamento dei progetti, principalmente nel campo delle infrastrutture e sul piano umanitario, ma tutto sembra essere bloccato”, ha detto il funzionario ad Haaretz.

Chiusi i passaggi di frontiera

In risposta ai recenti lanci di palloncini Israele ha chiuso il passaggio delle merci verso la Striscia di Gaza a Kerem Shalom.

Hamas ha detto che la mossa dimostra “l’ostinazione di Israele nell’assedio” a Gaza, e segnalato che la cosa potrebbe causare un ulteriore peggioramento della situazione umanitaria nel territorio.

Dopo la chiusura del valico di Kerem Shalom, martedì per la prima volta da aprile è stato aperto il valico di Rafah tra Gaza e l’Egitto.

Il traffico in entrambe le direzioni avrebbe dovuto essere consentito per tre giorni, permettendo agli abitanti di Gaza di lasciare l’enclave per la prima volta dall’inizio della pandemia.

Il valico di Rafah rappresenta per Gaza l’unico accesso al mondo esterno non controllato da Israele.

Il territorio palestinese è sotto il blocco israeliano dal 2007.

Hamas e Israele hanno combattuto tre guerre dal 2008.

Nonostante una tregua l’anno scorso, sostenuta da Nazioni Unite, Egitto e Qatar, le due parti si scontrano sporadicamente con razzi, colpi di mortaio o palloni incendiari.

Alcuni analisti palestinesi affermano che il fuoco transfrontaliero da Gaza è spesso usato come moneta di scambio perché Israele dia il via libera all’ingresso nel territorio degli aiuti finanziari dal Qatar.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




“Una rara opportunità”: palestinesi attraversano un varco nella barriera di separazione per godersi il mare

Ahmad Al-Bazz e Oren Ziv 

11 agosto 2020 – +972

Migliaia di famiglie palestinesi stanno passando attraverso grandi buchi nella barriera della Cisgiordania per visitare la costa, mentre l’esercito israeliano per lo più fa finta di niente.

Nelle ultime due settimane decine di migliaia di palestinesi della Cisgiordania hanno viaggiato liberamente nelle città e paesi al di là della Linea Verde [il confine tra Israele e i territori occupati, ndtr.] attraverso brecce nella barriera di separazione israeliana, e la maggior parte di loro si è diretta verso le spiagge.

Questo attraversamento di massa, avvenuto mentre i soldati israeliani stavano a guardare, ha coinciso con la festa musulmana del Eid al-Adha [festa del sacrificio], che dura quattro giorni ed è iniziata il 30 luglio. Ogni anno i palestinesi che celebrano la ricorrenza in occasione della festa presentano domanda per avere permessi, che a volte il ministero della Difesa concede in base a condizioni molto restrittive.

Quest’anno Israele non ha concesso permessi festivi, apparentemente a causa della crisi da COVID-19, ma il varco nella barriera di separazione ha consentito ai palestinesi di andare comunque verso la costa, in genere a loro vietata, per festeggiare i giorni di festa.

I buchi nella barriera si trovano soprattutto lungo la parte centro-settentrionale della Cisgiordania, benché ce ne siano alcuni anche nei pressi di Hebron [Al-Khalil in arabo] e Modi’in [nella zona centro-meridionale, ndtr.]. Uno dei principali punti di passaggio si trova nei pressi del villaggio cisgiordano di Far’oun, a ovest di Tulkarem, dove sono stati usati dai viaggiatori locali almeno due buchi larghi tre metri.

Lo scorso mercoledì, quando +972 ha visitato quella parte della barriera, che è attrezzata con sensori di movimento e telecamere di sorveglianza, i palestinesi attraversavano tranquillamente in sicurezza sotto gli occhi di due soldati israeliani che stavano controllando la zona. +972 ha visto tre jeep militari israeliane passare davanti ai varchi senza impedire ai palestinesi di attraversare.

Sul lato israeliano della barriera decine di autisti di autobus offrivano ai palestinesi che passavano dalla loro parte di portarli ad Haifa, Giaffa e Acre [città israeliane da cui nel ’48 furono espulsi molti palestinesi, ndtr.]. Dalla parte opposta, oltre a qualche ambulante che vendeva i propri prodotti nell’affollato punto di passaggio, c’erano autisti che offrivano di riportarli nelle città cisgiordane di Nablus e Tulkarem.

Questa mattina l’esercito israeliano ha chiuso con filo spinato il buco nella barriera a Far’oun e sparato lacrimogeni contro i palestinesi che si trovavano lì vicino e stavano cercando di attraversare. Tuttavia i viaggiatori si sono spostati verso altri varchi aperti più avanti lungo la barriera.

Che permesso potrei avere?”

Dalla fondazione di Israele nel 1948 i palestinesi sono stati sottoposti a limitazioni sempre diverse sugli spostamenti, prima sotto il governo militare all’interno della Linea Verde sui cittadini palestinesi di Israele fino al 1966, poi sotto l’occupazione della Cisgiordania e della Striscia di Gaza.

Queste restrizioni sono state notevolmente estese in seguito alla firma degli accordi di Oslo negli anni ’90 e alla costruzione del muro di separazione israeliano iniziata negli anni 2000. Mentre ai palestinesi della Cisgiordania con permessi viene in genere richiesto di attraversare certi posti di controllo per soli palestinesi, i cittadini israeliani viaggiano liberamente senza permessi e con pochi controlli attraverso i checkpoint per soli israeliani sulla Linea Verde.

Sto visitando Giaffa per la prima volta dal 1999,” dice K.J., che ha chiesto l’anonimato per la sua sicurezza personale e ha viaggiato con sua moglie e due figlie. Aggiunge di non aver potuto andare al di là della Linea Verde o all’estero a causa di un “divieto dovuto a motivi di sicurezza” imposto alla sua famiglia dalle autorità israeliane. “Questo buco è una rara opportunità di visitare il territorio del 1948 (all’interno della Linea Verde).

Il sistema di permessi di Israele, gestito dal ministero della Difesa, vieta agli uomini palestinesi con meno di 50 anni e alle donne con meno di 45 di attraversare la Linea Verde senza un permesso. Chiunque sia più giovane deve fare richiesta per ragioni specifiche, come lavoro o cure mediche.

Alcuni palestinesi che attraversano i varchi nella barriera affermano di non avere i requisiti per ottenere i permessi in base alla rigida normativa israeliana. “Sono giovane e celibe. Che permesso potrei avere?” dice M.A., affermando che non gli è mai stato concesso un permesso di viaggio.

Lunedì pomeriggio centinaia di palestinesi hanno continuato ad attraversare la barriera nella zona di Tulkarem. La mattina soldati israeliani che stazionavano a Far’oun hanno lanciato lacrimogeni contro quelli che cercavano di attraversare, ma in seguito la gente ha continuato a passare dall’altra parte senza problemi.

La polizia militare israeliana ha arrestato e rimandato indietro decine di palestinesi che cercavano di attraversare la barriera tra Zeita, un villaggio palestinese nella zona di Tulkarem, e Jatt, una cittadina palestinese in Israele. Uno degli arrestati afferma di essere entrato in Israele con un permesso, ma che voleva tornare indietro attraverso quel punto di passaggio. “Possiamo tornare da dove vogliamo,” dice.

Salah, un altro palestinese arrestato, mentre veniva preso da una jeep militare ha raccontato a +972: “Se non vogliono che entriamo, perché hanno aperto la barriera? O chiudono i buchi o smettono di intervenire quando noi entriamo (in Israele) per andare a lavorare o alla spiaggia.” Un soldato gli ha risposto: “È una barriera, perché di punto in bianco la state attraversando? Non potete attraversare qui.”

Chi ha fatto il buco?

Secondo gli abitanti palestinesi di Far’oun il buco nella barriera, come molti altri come questo, è stato praticato in origine da passeur che portano lavoratori palestinesi a giornata all’interno della Linea Verde. Questo varco è stato a lungo una causa di conflitto tra l’esercito israeliano e i lavoratori palestinesi “che a volte è finito con incursioni nel mio villaggio e persino con spari contro i lavoratori,” afferma Khaled Badir, un giornalista palestinese che vive a Far’oun.

Secondo lui, in seguito alla crisi del COVID-19 e alle conseguenti restrizioni imposte sui lavoratori con permesso, un numero maggiore di persone ha iniziato a utilizzare i buchi nella barriera, ma l’esercito israeliano non ha fatto niente per bloccare il crescente uso. “Abbiamo iniziato a renderci conto che l’esercito sta implicitamente consentendo ai lavoratori di attraversare non presentandosi vicino alla barriera durante le ore in cui passano i pendolari,” dice.

È stata la prima volta che Badir ha assistito al fatto che i soldati israeliani abbiano fatto finta di niente mentre i palestinesi passavano attraverso la breccia nella barriera per entrare in Israele. “Sono sicuro che si tratta di una decisione presa dagli alti comandi. Ma non capisco la ragione che ci sta dietro,” afferma.

All’inizio di agosto, durante l’Eid, il buco nei pressi di Far’oun è diventato sempre più trafficato, in quanto i palestinesi sono stati informati attraverso le reti sociali della rara opportunità di attraversare la barriera. Ci sono state reazioni contrastanti riguardo a quelli che approfittavano del varco: anche se alcuni invitavano gli amici a visitare luoghi in genere a loro vietati, altri hanno criticato il fatto di contravvenire alla chiusura totale dovuta al COVID-19 imposta dall’Autorità Nazionale Palestinese durante l’Eid.

L’ANP deve ancora emanare un comunicato ufficiale riguardo agli spostamenti a Far’oun. Tuttavia i mezzi di informazione palestinesi hanno riportato che la ministra della Salute dell’ANP, Mai Kaileh, ha evidenziato i “gravi rischi” di viaggiare nelle “zone del ‘48” a causa dell’alto numero di casi di COVID-19 tra gli israeliani.

Nel contempo Bashar Masri, un imprenditore e uomo d’affari palestinese, ha chiesto all’ANP di riconsiderare le attuali regole riguardanti il COVID-19, affermando che queste “provocano una depressione economica sul mercato palestinese… dopo che improvvisamente l’occupazione ha aperto i posti di controllo, cosa che ha spinto le persone a viaggiare per svago e per fare spese (nei mercati israeliani).”

Ma le affermazioni di Masri, ed altre simili, hanno provocato grandi proteste da parte dei palestinesi, che hanno invitato altri come loro “a viaggiare ed andare a vedere le città da cui sono stati espulsi nel 1948.” In risposta alcuni palestinesi hanno postato su Facebook storie in cui i visitatori cantano canzoni palestinesi di liberazione, mentre altri foto dei loro parenti rifugiati che visitano, per la prima volta dopo molti anni, le città di origine da cui vennero cacciati.

Se solo potessimo entrare sempre”

A poche decine di chilometri di distanza, lungo il litorale tra Giaffa e Tel Aviv, migliaia di palestinesi si sono goduti la spiaggia, e qualcuno ci è rimasto fino a notte. Quelli che hanno viaggiato dalla Cisgiordania erano facilmente identificabili, perché continuavano a stare in acqua persino dopo che per quel giorno i bagnini erano tornati a casa. Molti di loro hanno postato sulle reti sociali immagini riprese in diretta per le loro famiglie rimaste a casa.

Osama, 43 anni, di Nablus, che è andato in spiaggia a Giaffa con la moglie e i figli, non aveva visto il mare da 34 anni. i suoi familiari ci sono stati per la prima volta.

È una sensazione incredibile,” dice. “Mio nonno era di Giaffa, di Kufr Salame [villaggio a sud di Tel Aviv, distrutto dalle milizie sioniste nel 1948, ndtr.]. Per guadagnarsi da vivere confezionava arance, e venne espulso durante la Nakba [la “catastrofe” in arabo, cioè la pulizia etnica a danno dei palestinesi nel ’48, ndtr.].”

Osama aggiunge di non essere sicuro se sia stato per ragioni economiche o politiche che gli è stato concesso di attraversare la Linea Verde, ma ciò non incide sulla sua gioia per aver avuto questa possibilità. “Spero di poter tornare, ma chissà cosa succederà domani,” dice.

Rashid, 16 anni, di Deir Abu Mash’al, nei pressi di Ramallah, racconta come lui e i suoi amici sono entrati in Israele attraverso il varco nei pressi del villaggio di Ni’lin senza essere bloccati dai soldati.

Questa è la seconda volta nella mia vita che vado al mare,” afferma. “Sono contentissimo. Se solo potessimo entrare sempre!”

Alaa, una laureata in pubbliche relazioni di Nablus, è andata in spiaggia con i suoi amici, con cui ha raccolto conchiglie e ha scritto parole sulla sabbia. “Sono entusiasta di essere qui,” dice. “Non ho avuto paura di attraversare la barriera.”

Basel, 42 anni, di Qalquilya, dice di non essere mai stato sulla spiaggia prima. È stato accompagnato da sua moglie e da tre figli, che sono rimasti in mare dopo il tramonto. “Siamo rimasti rinchiusi per cinque mesi, per via del coronavirus, in isolamento a casa. Dovevamo uscire a prendere aria,” dice Basel. “La gente è disoccupata. È meglio che (la barriera) sia aperta, in modo che la gente possa lavorare e andare a farsi un giro. È meglio che morire chiusi in casa imprigionati.”

Anche il valico di Allenby dalla Cisgiordania alla Giordania è soggetto a nuove restrizioni a causa della pandemia da coronavirus, facendo sentire i palestinesi ancor più in gabbia del solito.

Basel stenta a descrivere le sue impressioni su Giaffa: “È veramente la sposa del mare, come si dice. Dopo la spiaggia andremo al (famoso ristorante di Giaffa) “Il vecchio e il mare”, che ci hanno detto essere eccellente.” Benché il viaggio sia stato dispendioso, dato che è disoccupato, Basel afferma di aver intenzione di tornare il prossimo mese.

La scorsa settimana sono tornato qui tre volte,” dice un giovane di Jayyous, nei pressi di Qalqilya. “Sono passati cinque anni dall’ultima volta che sono stato in spiaggia.”

Le scene sulla spiaggia di Giaffa hanno ricordato quanto il litorale sia vicino alla Cisgiordania, e come sarebbe una situazione “normale”, senza separazioni.

Se fosse un vero confine, pensi che lo lascerebbero attraversare dalle persone?”

Questa settimana il confine tra Israele e la Cisgiordania era praticamente del tutto cancellato,” ha twittato sabato un giornalista israeliano. Questa è stata infatti l’impressione presso la barriera di separazione e in spiaggia. Molte persone hanno evidenziato che non c’erano soldati presenti nei vari punti attraverso i quali sono passati in Israele, o se c’erano, i soldati sono semplicemente rimasti a guardare da lontano.

Un cinquantenne di Betlemme, che con la moglie e la figlia ha viaggiato da Far’oun a Giaffa, dice: “La situazione della Cisgiordania è arrivata a un punto di rottura. C’è tensione, e trovare la barriera aperta sta consentendo alle persone di respirare un po’, di godersi la spiaggia.”

Benché l’Eid sia finito la scorsa settimana, durante il fine settimana e anche dopo il flusso di visitatori verso la spiaggia è continuato. Anche se non si sa per quanto tempo questa politica ufficiosa durerà, i media israeliani sono rimasti relativamente indifferenti alla questione, e qualcuno ha notato che la situazione pone scarsi rischi per la sicurezza o per la salute. Ci sono stati persino commenti ironici sul fatto che, in assenza dei turisti dall’estero, ci sono stati almeno turisti palestinesi dalla Cisgiordania.

Si sono fatte varie supposizioni sul perché sia stato consentito ai palestinesi di entrare in Israele attraverso buchi nella barriera di sicurezza, e un’ipotesi è che ciò rappresenti un’esibizione di autorità da parte di Israele.

La ragione per cui è tutto aperto è politica,” dice un autista di Taybeh in attesa di passeggeri. “(Israele) vuole dimostrare chi comanda, e indebolire l’ANP. Quando l’ANP istituisce una chiusura totale, Israele apre tutto.”

Nei pressi di uno dei varchi nella barriera un palestinese di 60 anni dà una spiegazione simile. “Vogliono dimostrare che non ci sono Israele e Palestina, ma solo un unico territorio. Si stanno preparando ad annettere tutta la Cisgiordania. Se ci fosse un vero confine, pensi che lascerebbero passare la gente? Vogliono annullare la frontiera.”

Ci hanno impedito di entrare, ma io sto andando in Palestina,” ha detto un altro mentre stava attraversando la barriera con la sua famiglia. “Abbiamo aspettato per decenni che (il confine) fosse aperto, e ora possiamo andare liberamente in spiaggia.”

Il portavoce dell’esercito israeliano ha affermato che loro non si occupano della questione del movimento dei palestinesi attraverso i varchi nella barriera di separazione.

Ahmad Al-Bazz è un giornalista e documentarista che vive nella città cisgiordana di Nablus. Dal 2012 è membro del collettivo di fotografi “Activestills” [collettivo di fotografi impegnato nel sostegno dei diritti dei popoli oppressi con particolare riguardo ai palestinesi, ndtr.].

Oren Ziv è fotoreporter, membro fondatore del collettivo di fotografia “Activestills” e redattore di Local Call [versione in lingua ebraica di +972, ndtr.]. Dal 2003 ha documentato una serie di questioni sociali e politiche in Israele e nei territori palestinesi occupati, con particolare attenzione alle comunità che si mobilitano e alle loro lotte. I suoi reportage si sono concentrati sulle proteste popolari contro il muro e le colonie, sulle case popolari e altre questioni socio-economiche, sulle lotte contro il razzismo e la discriminazione e su quelle a favore della libertà degli animali.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Rapporto OCHA del periodo 28 luglio -10 agosto

Il 7 agosto, nella città di Jenin, durante scontri tra palestinesi e forze israeliane, una donna palestinese 23enne è stata uccisa da un proiettile penetrato nella sua casa.

Gli scontri sono avvenuti nel corso di un’operazione di ricerca-arresto, durante la quale giovani palestinesi hanno lanciato pietre ed esplosivi artigianali contro le forze israeliane, che hanno risposto sparando lacrimogeni. Secondo quanto riferito, la donna è stata colpita dal proiettile nel momento in cui stava chiudendo la finestra della casa, per impedire l’afflusso di gas lacrimogeno. Anche l’ambulanza che ha trasportato la donna in ospedale è stata colpita con proiettili di arma da fuoco. Fonti palestinesi hanno attribuito alle forze israeliane lo sparo fatale. Secondo l’esercito israeliano, citato dai media, le forze israeliane coinvolte nell’operazione non hanno usato le armi da fuoco. Gli scontri si sono conclusi senza feriti o arresti.

In Cisgiordania, in vari scontri, sono rimasti feriti 100 palestinesi, tra cui 15 minori [segue dettaglio]. L’episodio più grave, che ha causato 91 feriti, è avvenuto il 7 agosto nel villaggio di Turmus’ayya (Ramallah) durante una protesta contro la confisca di terreni [palestinesi] e l’espansione degli insediamenti colonici [israeliani]. Altri otto feriti sono stati registrati durante quattro delle 117 operazioni di ricerca-arresto condotte durante il periodo di riferimento. Un altro palestinese è rimasto ferito durante le manifestazioni settimanali a Kafr Qaddum (Qalqiliya). Quattro dei 100 ferimenti sono stati causati da armi da fuoco, 11 da proiettili di gomma e 13 da aggressione fisica, mentre i rimanenti sono stati curati per inalazione di gas lacrimogeno. Inoltre, nell’area H1 della città di Hebron, un soldato israeliano, colpito da una pietra, è rimasto ferito.

Dal 5 agosto, palestinesi della Striscia di Gaza hanno quotidianamente lanciato decine di palloni igniferi, provocando estesi incendi di terreni agricoli nel sud di Israele. Questa pratica era stata interrotta nel dicembre 2019, in seguito alla sospensione delle proteste collegate alla “Grande Marcia del Ritorno”. A partire dal 10 agosto, l’Autorità israeliana per la Natura ed i Parchi ha segnalato l’incendio di almeno 100 ettari di terra. A seguito di questi atti, l’aviazione israeliana ha colpito diversi siti militari a Gaza, senza provocare vittime.

Il 2 agosto, un gruppo armato palestinese ha lanciato un razzo [da Gaza] verso il sud di Israele; a seguire, l’aviazione israeliana ha attaccato la postazione di un gruppo armato e terreni coltivati. Da entrambe le parti sono stati segnalati limitati danni alle proprietà.

Nella Striscia di Gaza, presumibilmente per far rispettare [ai palestinesi] le restrizioni di accesso alle aree prossime alla recinzione perimetrale israeliana e al largo della costa, in almeno 27 occasioni, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento. Non sono stati segnalati ferimenti né danni alle proprietà.

In Cisgiordania, per mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, sono state demolite o sequestrate 43 strutture palestinesi, causando lo sfollamento di 108 persone e ripercussioni su altre 240 [seguono dettagli]. Trentatré delle strutture erano in Area C, e 13 di esse si trovavano in quattro Comunità beduine palestinesi situate all’interno o a ridosso di un’area destinata [da Israele] all’espansione dell’insediamento colonico di Ma’ale Adummim (l’area E1). Sempre in Area C, 14 persone sono state sfollate nel villaggio di Susiya (Hebron sud) dopo che la tenda dove vivevano, finanziata da donatori, è stata demolita. Altre quattro strutture sono state prese di mira a Khallet Sakariya (Betlemme) e Fraseen (Jenin) sulla base di un “Ordine Militare 1797”, che consente di effettuare le demolizioni entro 96 ore dall’emissione degli ordini di rimozione. A Fraseen, 18 strutture sono state raggiunte da ordini di fermo-lavori o ordini di rimozione. Le altre dieci strutture demolite erano a Gerusalemme Est ed includevano cinque case auto-demolite dai proprietari [palestinesi] a seguito dell’emissione degli ordini di demolizione.

Tre palestinesi sono stati feriti e proprietà palestinesi sono state vandalizzate da aggressori ritenuti coloni [seguono dettagli]. A quanto riferito, tre degli episodi hanno avuto come protagonisti coloni dell’insediamento avamposto [non autorizzato] di Adei Ad, nel nord-est di Ramallah: un’aggressione fisica a due contadini; uno speronamento con auto che ha ucciso otto pecore e ne ha ferite altre 12; e, infine, l’incendio di 30 viti. Durante quest’ultimo episodio, un colono ha sparato contro palestinesi che tentavano di spegnere il fuoco, costringendoli ad andarsene; non sono stati segnalati feriti. In prossimità dell’insediamento colonico di Shilo, altre 15 pecore sono morte, a quanto riferito, per aver mangiato erba che era stata avvelenata. A Kafr ad Dik e Yasuf (Salfit), 15 ulivi sono stati vandalizzati e recinzioni e pali di ferro sono stati rubati. A Fara’ata (Qalqiliya), due veicoli sono stati dati alle fiamme e sui muri di alcune case del villaggio sono state spruzzate scritte in ebraico.

Secondo fonti israeliane, una donna israeliana è stata ferita e sei veicoli in transito su strade della Cisgiordania sono stati danneggiati dal lancio di pietre effettuato da palestinesi.

Ultimi sviluppi (fuori dal periodo di riferimento)

12-13 agosto: in risposta al continuo lancio, dalla Striscia di Gaza, di palloni incendiari che hanno bruciato terreni agricoli nel sud di Israele, le autorità israeliane hanno interrotto l’ingresso della maggior parte delle merci dirette a Gaza, (compreso il carburante), hanno ridotto l’area di pesca consentita [ai palestinesi] lungo la costa ed hanno attaccato diverse postazioni militari.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it

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