Il coronavirus tradisce Netanyahu

Akiva Eldar

8 agosto 2020 – Al Jazeera

La cattiva gestione del ritorno della pandemia e la sua proposta di elezioni anticipate potrebbero far cadere il primo ministro israeliano.

Non molto tempo fa ho scritto un commento per Al Jazeera in inglese, suggerendo che il primo ministro Benjamin Netanyahu “passerà alla storia come il primo leader che deve il suo incarico a un virus”.

Ad aprile, infatti, è stata la paura pubblica della pandemia che ha indotto il leader dell’alleanza Blu e Bianco Benny Gantz a violare la sua promessa elettorale agli elettori di non formare una coalizione .

Il primo ministro in carica, usando il gergo militare, aveva detto che tutti “dovevano tenere su la barella” per esortare i suoi rivali politici a unire le forze con lui per sconfiggere il comune nemico virale. Aveva presentato delle opzioni alternative – o un cosiddetto “governo di unità” che mettesse insieme politicamente la destra e il centrosinistra, o quarte elezioni politiche, che sarebbero state una scelta palesemente antipatriottica e in pratica sovversiva.

Gantz ha seguito il suo invito e probabilmente se ne sta già pentendo. Oggi sembra sempre più che Netanyahu non solo non sia in grado di gestire le conseguenze politiche ed economiche della pandemia, ma sia anche disposto a gettare il Paese in subbuglio per salvarsi dalla prigione.

Mentre Israele sta affrontando una seconda ondata di COVID-19, gli ospedali si stanno riempiendo, la disoccupazione e i fallimenti stanno aumentando e un buco di bilancio sta minacciando la posizione finanziaria di Israele a livello mondiale, Netanyahu sta spingendo per nuove elezioni, nonostante solo pochi mesi fa demonizzasse tale prospettiva.

A luglio, notizie sui media israeliani hanno rivelato che il primo ministro sta cercando di sciogliere la coalizione e provocare elezioni anticipate nel tentativo di riprendere il controllo del ministero della Giustizia e assicurarsi di non essere costretto a lasciare il suo incarico per affrontare il processo.

In effetti, Netanyahu sta trascinando gli israeliani alle urne per la quarta volta in meno di 18 mesi all’inizio di quello che si prevede sarà un cupo inverno. Ma questa volta ciò potrebbe portare alla sua fine politica.

Il 2 agosto Miki Zohar, membro di coalizione della Knesset, ha paragonato il rapporto tra il Likud di Netanyahu e Blu e Bianco di Gantz a una coppia che “vuole divorziare e sta per mettere la firma da un momento all’altro”. Lo sfacciato legislatore, che è uno dei più stretti confidenti di Netanyahu, ha aggiunto che “non importa quello che faremo, tra noi e Blu e Bianco sta per andare a monte”.

Netanyahu non ha alcuna garanzia di ottenere la custodia della maggior parte dei figli, in particolare dei molti indecisi e disoccupati che sono così stufi di tutta la faccenda che potrebbero quindi abbandonare la loro affiliazione politica. Un sondaggio di aprile ha dato alla gestione della crisi sanitaria da parte di Netanyahu un indice di gradimento del 68%, mentre sull’ Israely Voice Index [rubrica periodica di statistica, ndtr.] di luglio condotto dall’Israel Democracy Institute [centro indipendente di ricerca e azione dedicato al rafforzamento delle basi della democrazia israeliana, ndtr.] solo il 25% degli intervistati ha approvato la sua perfomance nell’affrontare la crisi, e solo il 30% degli stessi il modo in cui lui gestisce il governo.

Nella primavera del 2020 il coronavirus ha sorriso a Netanyahu, dipingendolo come un eroe nazionale che ha messo a tacere l’epidemia, un leader unico, insostituibile, degno di gloria e, ovviamente, di clemenza. Quando a giugno l’epidemia ha risollevato la testa e Israele si è distinto tra gli Stati più pericolosi del mondo le vanterie di Netanyahu secondo cui Israele stava facendo “meglio della maggior parte dei Paesi” sono diventate una commedia da cabaret trito e ritrito.

Netanyahu, che inizialmente aveva imposto misure rigorose per arginare la diffusione del COVID-19, alla fine di maggio sotto forti pressioni pubbliche e politiche, ha deciso di allentare le restrizioni. Ha ignorato gli esperti che davano i consigli al suo Consiglio di sicurezza nazionale, il quale ha insistito sull’adozione di un modello corretto per alleggerire il blocco, cosa che avrebbe potuto ridurre significativamente la diffusione della malattia.

In una lettera del 27 giugno a Netanyahu e al ministro della Salute Yuli Edelstein, lo staff ha scritto che il Paese “ha perso il controllo della pandemia” e ha avvertito che in assenza di misure immediate per fermare le infezioni, Israele avrebbe potuto ritrovarsi sotto un altro blocco.

Insieme al disprezzo per i consigli degli esperti sanitari, Netanyahu ha mostrato insensibilità per la difficile situazione economica dei molti israeliani duramente colpiti dalla pandemia, tra cui circa un milione di disoccupati e decine di migliaia di piccoli imprenditori. Il sostegno finanziario del governo a chi ne ha bisogno è stato troppo scarso e troppo lento.

Nonostante la crescente rabbia dell’opinione pubblica, alla fine di giugno Netanyahu ha chiesto alla Knesset di approvare rimborsi fiscali retroattivi per le spese della sua villa privata a Cesarea. Alla fine ha espresso rammarico per la tempistica, ma non per la richiesta in sé, che la Knesset ha esaudito.

Il suo successivo errore di giudizio, che potrebbe costargli l’incarico, è stato quello di essersela presa con coloro che manifestavano fuori dalla sua residenza ufficiale a Gerusalemme contro la corruzione del governo, fianco a fianco artisti, studenti, attivisti sociali e molti altri che ritengono che il governo li abbia abbandonati al loro destino.

Netanyahu ha dipinto i manifestanti come “anarchici” e “di sinistra”, intenzionati a rovesciare “un forte leader di destra”.

Contrariamente alle sue affermazioni, le decine di migliaia di manifestanti a Gerusalemme e altrove nel Paese non sono certo anarchici finanziati da organizzazioni di estrema sinistra. Tra i manifestanti che ho incontrato c’erano elettori del Likud, israeliani religiosi e ultraortodossi e persino sostenitori della famiglia Netanyahu.

Il 31 luglio, Channel 12 [canale televisivo israeliano privato, ndtr.] ha trasmesso un monologo dell’ architetto di interni Moshik Galamin, che in precedenza era stato protagonista nelle clip della campagna elettorale di Netanyahu. “Sono preoccupato per il mio futuro e per quello dei miei amici lavoratori autonomi, quelli di cui a voi lassù non frega niente”, ha affermato in prima serata la celebrità di Tel Aviv. “Questo non è sicuramente un problema di destra o di sinistra e io non sono assolutamente un anarchico. Ovviamente sai che non sono contro di te. Sono semplicemente Moshik Galamin, un lavoratore autonomo, un cittadino preoccupato che vive in questo Paese, che vuole che tu tenga conto anche di me.”

Israeli Voice Index di luglio rivela che la maggior parte degli israeliani non vuole elezioni in questo momento, né per l’impasse del bilancio tra Netanyahu e Gantz né per qualsiasi altra ragione.

Netanyahu sta già puntando il dito contro Gantz, che insiste sul fatto che Netanyahu onori il suo accordo di coalizione con Blu e Bianco e presenti un bilancio pubblico per i prossimi due anni piuttosto che per un anno su cui ora insiste, per ciò che rimane del 2020.

Il prossimo futuro non è di buon auspicio per Netanyahu, e non solo per il rifiuto del virus di soddisfare i suoi interessi personali. A novembre, potrebbe non solo perdere le elezioni, ma anche il suo benefattore della Casa Bianca e trovarsi a dover fare i conti con le maggioranze democratiche in entrambe le camere del Congresso degli Stati Uniti. A partire dal 21 gennaio, la sua agenda sarà piena di comparizioni in tribunale per difendersi dalle accuse di corruzione e inevitabilmente contro richieste secondo cui è inadatto a rimanere in carica.

Il virus che ha portato Netanyahu al comando ora sembra far presagire la sua fine politica.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

Akiva Eldar è un analista politico israeliano.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Israele, che ha distrutto il Libano, si atteggia a suo salvatore

Tamara Nassar  

6 agosto 2020 – Electronic Intifada

Anche nel pieno della catastrofe, l’ipocrisia di Israele non conosce limiti.

Martedì un’enorme esplosione ha scosso Beirut, uccidendo almeno 135 persone, ferendone più di 5.000 e costringendo centinaia di migliaia a sfollare.

È probabile che il bilancio delle vittime salga, con i soccorritori che perlustrano la devastata capitale libanese.

L’esplosione ha lasciato poco di intatto: i cittadini stanno pubblicando foto e video di case distrutte, auto danneggiate ed edifici crollati in tutta la città.

Si indaga ancora sulla causa dell’esplosione. I funzionari libanesi la imputano alle 2.750 tonnellate di nitrato di ammonio depositato da sei anni nei magazzini del porto senza misure di sicurezza.

Ora Israele sta sfruttando la tragedia per cancellare i propri crimini contro il Libano, distogliere l’attenzione dall’occupazione militare e ripulire la propria immagine – una strategia di propaganda chiamata bluewashing.

Il bluewashing

Attraverso i suoi canali diplomatici, Israele ha annunciato che offrirà aiuti umanitari al Libano.

“Questo è il momento di trascendere il conflitto”, ha twittato l’account ufficiale dell’esercito israeliano.

Mercoledì sera il municipio di Tel Aviv si è persino illuminato e issava la bandiera libanese.

L’incredibile ipocrisia non è passata inosservata fra gli utenti di Twitter, che hanno pubblicato foto famose scattate durante l’invasione israeliana del 2006. Le immagini mostrano bambini israeliani che scrivono messaggi sulle granate di artiglieria prima che l’esercito le spari sul Libano.

Un utente del social media ha scritto: “I vostri cesti regalo avranno la stessa firma dei missili?”.

L’offerta di aiuti “umanitari” proviene dallo stesso paese che ha ucciso e ferito decine di migliaia di civili palestinesi e libanesi e minaccia regolarmente di distruggere le infrastrutture civili del Libano, come ha già ripetutamente fatto.

Durante l’invasione del 2006, Israele ha scaricato sul Paese più di un milione di munizioni a grappolo.

“Abbiamo fatto una cosa folle e mostruosa, abbiamo sganciato bombe a grappolo su intere città “, ha detto ad Haaretz, quotidiano di Tel Aviv, un ufficiale dell’esercito israeliano.

Nel corso di quella guerra, Israele sganciò qualcosa come 7.000 bombe e missili e inoltre bombardò l’intero Libano con artiglieria terrestre e navale.

Più di 1.100 persone furono uccise e circa 4.400 ferite, di cui la stragrande maggioranza civili.

Un’indagine di Human Rights Watch ha totalmente smentito le affermazioni di Israele secondo cui l’orribile bilancio fosse il risultato di “danni collaterali” perché i combattenti di Hezbollah si sarebbero nascosti tra i civili o li avrebbero usati come “scudi umani”.

Human Rights Watch ha concluso che Israele ha indiscriminatamente preso di mira le aree civili – una strategia nota col nome di “Dottrina Dahiya”, dal nome del sobborgo meridionale di Beirut che Israele ha deliberatamente raso al suolo.

E i leader israeliani spesso minacciano di farlo di nuovo.

Ad esempio, nel 2018 Yisrael Katz, importante membro del governo del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, ha minacciato di bombardare il Libano fino a ridurlo all’ “età della pietra” e “all’epoca degli uomini delle caverne”.

E solo pochi giorni fa, dopo aver affermato che i combattenti di Hezbollah avevano tentato di attaccare l’esercito israeliano oltre la frontiera, Netanyahu ha fatto allusione alla guerra del 2006.

Il 27 luglio il leader israeliano ha dichiarato che nel 2006 il leader di Hezbollah Hassan Nasrallah “ha commesso un grosso errore nel mettere alla prova la determinazione di Israele a difendersi, e lo Stato libanese ha pagato un prezzo pesante per questo”.

“Gli suggerisco di non ripetere l’errore”, ha soggiunto Netanyahu – minaccia appena velata di ripetere la stessa distruzione di massa.

Netanyahu ha ribadito le sue minacce poche ore prima dell’esplosione a Beirut.

Diffondere voci

Secondo quanto viene riportato, per la massima resa in termini di propaganda Israele insisterebbe nel mantenere il marchio ebraico su tutte le spedizioni di aiuti che potrebbe inviare in Libano, sebbene il Libano quasi certamente li rifiuterà.

Nel frattempo, Israele si è affrettato a diffondere voci infondate per accusare Hezbollah dell’esplosione.

“Dopo la tragedia di Beirut, Israele ha ufficialmente offerto assistenza umanitaria al Libano”, ha twittato 4IL [Defending Israel Online, sito “che combatte le bugie e l’ipocrisia della campagna BDS”, ndtr.], un organo di propaganda del Ministero degli Affari Strategici di Israele.

“Questo nonostante le prove che l’esplosione sia scoppiata in un magazzino di munizioni di Hezbollah”, aggiunge il resoconto.

Nessuna prova del genere è mai emersa.

 

L’ONU piazza Israele

 

Israele vìola regolarmente lo spazio aereo e la sovranità libanese, facendo volare aerei senza pilota e jet da combattimento sul sud del paese e persino sulla capitale.

Invece di condannare tali violazioni e chiedere giustizia per le vittime dei crimini di guerra israeliani in Libano, Nickolay Mladenov, l’inviato di pace delle Nazioni Unite per il Medio Oriente, ha lodato Israele per la sua offerta d’aiuto.

Mladenov è sembrato usare cinicamente la tragedia come opportunità per portare avanti un’agenda politica di normalizzazione dei legami regionali con Israele.

L’account Twitter della propaganda in lingua araba di Israele ha continuato a lanciare spudorate affermazioni di “solidarietà” con il popolo libanese; tuttavia, non tutti erano compresi.

Moshe Feiglin, ex vice presidente del parlamento israeliano, ha celebrato l’esplosione a Beirut come un “grandioso spettacolo pirotecnico ” e una “celebrazione meravigliosa” in coincidenza con la data designata dagli ebrei per la festa dell’amore [festività minore israeliana simile al giorno di S. Valentino, ndtr.].

È lo stesso Feiglin che durante l’attacco israeliano a Gaza nel 2014 propose un piano per “concentrare” i palestinesi nei campi di confine e “sterminare” chiunque resistesse, distruggendo tutte le abitazioni e le infrastrutture civili.

Ma la maggior parte dei politici israeliani ha evidentemente ricevuto un promemoria che questo genere di dichiarazioni non è l’immagine che Israele vuole inviare.

Anche se Israele illumina il municipio di Tel Aviv in una cinica dimostrazione di sostegno, pochi libanesi dimenticheranno che quasi 14 anni fa Israele stava illuminando i cieli del Libano con missili e bombe.

 

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Urlate se sentite la parola “Palestina” dice il nuovo responsabile per l’antisemitismo di Berlino

Ali Abunimah  

4 agosto 2020 – Electronic Intifada

Il Senato della città-stato di Berlino, capitale della Germania, ha nominato un nuovo funzionario per combattere l’antisemitismo.

Ma Samuel Salzborn, docente di scienze politiche, è estremamente intollerante nei confronti dei palestinesi e ben lontano dall’essere un campione nella lotta contro l’intolleranza.

Quando siete seduti in treno e le persone vicino a voi cominciano a parlare della ‘Palestina’ senza nessuna ragione apparente, vuol dire che è ora o di scendere dal treno o di mettersi gli auricolari o di mettersi a urlare” ha twittato Salzborn lo scorso ottobre, facendo seguire al messaggio la parola “antisemitismo.”

Non sembra che Salzborn abbia twittato nient’altro prima o dopo questa affermazione per contestualizzarla. Sembra essere una pura e semplice espressione del suo ribrezzo al solo pensiero dell’esistenza della Palestina o dei palestinesi.

Per anni Israele e la sua lobby hanno denigrato i palestinesi, e coloro che sostengono i loro diritti, bollandoli come antisemiti, ma Salzborn ha portato le cose alla loro logica ed estrema conseguenza: ai suoi occhi persino la sola menzione della parola Palestina è un attacco contro gli ebrei che va messo a tacere e che si merita come risposta l‘aggressione.

Già in precedenza Salzborn aveva fatto eco alla propaganda del governo israeliano affermando, per esempio, che per Israele si usano “due pesi e due misure ” e che gli attivisti per i diritti umani stanno tentando di “delegittimarlo”.

Ha persino affermato che la causa principale del conflitto fra israeliani e palestinesi è “l’aggressione da parte dei palestinesi.”

Salzborn ha anche affermato che è “completamente assurdo” paragonare gli insediamenti coloniali israeliani costruiti sulla terra palestinese occupata all’apartheid in Sudafrica.

Dopo la notizia dell’incarico a Salzborn, il suo tweet di ottobre ha ricevuto una rinnovata attenzione e molti hanno espresso la loro costernazione o hanno semplicemente twittato in risposta la parola ‘Palestina’ ripetuta molte volte.

Yossi Bartal, attivista israeliano di sinistra che vive a Berlino, ha ironicamente twittato che “da ebreo berlinese, aspetto con impazienza il mio nuovo ‘referente per l’antisemitismo’.”

Bartal ha aggiunto uno screenshot in cui si vede che egli è stato bloccato da Salzborn.

Questo è un chiaro segno che il professore ha in mente di mettere in pratica ciò che predica: bloccare ogni voce dissenziente, incluse quelle degli ebrei critici verso i delitti e i soprusi di Israele contro i palestinesi.

Divulgare le bugie di Israele

Fra quelli che hanno gradito la nomina di Salzborn c’è Katharina von Schnurbein, coordinatrice dell’Unione europea contro l’antisemitismo.

Von Schnurbein ha twittato le sue congratulazioni dicendo che non vede l’ora di lavorare con lui.

Von Schnurbein, una stretta alleata della lobby israeliana, ha fatto poco per combattere il vero antisemitismo, nonostante segni allarmanti che in Germania il nazismo sia una forza che sta riemergendo.

Si è invece concentrata per anni a diffondere la propaganda e le bugie di Israele e a inventare accuse contro gli attivisti per i diritti umani dei palestinesi.[ vedi zeitun ndr]

Ha anche sostenuto una definizione dell’antisemitismo fuorviante e orientata da ragioni politiche che mette sullo stesso piano le critiche alle politiche di Israele e il fanatismo antiebraico.

Né Salzborn né la von Schnurbein hanno risposto alle richieste da parte di The Electronic Intifada di fare un commento.

La nomina di Salzborn è stata accolta con favore anche nella sede di Berlino del Comitato degli ebrei americani, uno dei principali gruppi di pressione israeliani.

Ci si aspetta che anche Salzborn, come già la von Schnurbein, continui a ripetere a pappagallo la propaganda israeliana.

La sua nomina è un ennesimo segno della crescente intolleranza verso la difesa dei diritti dei palestinesi in Germania, un Paese dove il sostegno automatico e incondizionato a favore di Israele è considerato come l’espiazione per l’assassinio di milioni di ebrei europei nei campi di sterminio da parte del governo tedesco durante la Seconda guerra mondiale.

Vittoria per i tre di Humboldt

Le notizie dalla Germania per i sostenitori dei diritti dei palestinesi non sono tutte negative.

Lunedì si è finalmente concluso il lungo processo contro i tre attivisti coinvolti nelle manifestazioni nel giugno 2017 contro un politico israeliano alla Humboldt University di Berlino.

È finito con quella che Ronnie Barkan, uno dei tre di Humboldt, ha definito una vittoria.

Barkan, israeliano e Majed Abusalama, attivista palestinese, sono stati assolti dall’accusa di violazione di domicilio.

Secondo Barkan, il giudice voleva far cadere le accuse contro tutti e tre, ma il pubblico ministero ha insistito per procedere con l’accusa di violenza contro la terza imputata, l’attivista israeliana Stavit Sinai, per essere andata a sbattere contro la porta di un’aula dopo che era stata presa a pugni.

Rivendichiamo di aver vinto perché Majed e Ronnie sono stati assolti con formula piena, mentre Stavit ha ricevuto il minimo della pena, probabilmente per salvare la faccia al pubblico ministero,” ha dichiarato Barkan.

Durante tutto il processo abbiamo insistito nel fare dichiarazioni chiare che sottolineavano il nostro obbligo legale e morale di opporci ai delitti israeliani contro l’umanità.”

Sinai ha dichiarato che si rifiuterà di pagare la multa di 500 dollari che le è stata comminata.

Ali Abunimah è cofondatore di The Electronic Intifada, autore di The Battle for Justice in Palestine [La battaglia per la giustizia in Palestina], recentemente pubblicato da Haymarket Books, e di One Country: A Bold-Proposal to End the Israeli-Palestinian Impasse. [Un solo Paese: una proposta audace per porre fine all’empasse israelo-palestinese]

Le opinioni espresse in questo articolo sono solo mie.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




L’università di Manchester disinveste dalle aziende complici dell’occupazione israeliana

Asa Winstanley

3 Agosto 2020 – The Electronic Intifada

L’università di Manchester ha disinvestito oltre 5 milioni di dollari dalla Caterpillar e dalla società madre del sito di viaggi Booking.com.

Lunedì gli attivisti hanno detto che si è trattato di “un’enorme vittoria del movimento di solidarietà con la Palestina in Gran Bretagna” e di “una svolta decisiva”.

L’università è stata un bersaglio della campagna fin dal 2016, a causa dei suoi investimenti in aziende complici dell’occupazione israeliana della terra palestinese.

L’anno scorso gli studenti hanno interrotto una riunione del consiglio chiedendo di disinvestire da Caterpillar.

Caterpillar fornisce all’esercito israeliano bulldozer che vengono usati come armi per distruggere le case palestinesi e per condurre uccisioni extragiudiziarie.

Booking Holdings Inc. compare nel database delle Nazioni Unite, pubblicato all’inizio di quest’anno, delle aziende coinvolte nelle colonie israeliane nella Cisgiordania occupata.

La società madre e Booking.com sono entrambe inserite nella lista nera a causa delle loro inserzioni di immobili in affitto in colonie israeliane costruite su terra palestinese rubata in violazione del diritto internazionale.

La campagna prosegue

Dati visionati da The Electronic Intifada, pubblicati dall’università in risposta a richieste sulla libertà di informazione, confermano che il disinvestimento è avvenuto tra aprile 2019 e il 31 marzo 2020.

In una e-mail del 23 luglio 2020 in risposta alla richiesta degli attivisti, la responsabile dell’informazione dell’università ha pubblicato il suo ultimo elenco di investimenti.

Ha detto che le linee guida di investimento etico dell’università adesso escludono le aziende sulla base di una serie di fattori, compresa la fornitura di “armamenti discutibili”.

In una dichiarazione rilasciata immediatamente dopo la pubblicazione di questo articolo, un portavoce dell’università di Manchester ha smentito che il disinvestimento avesse alcuna relazione con la campagna BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni, ndtr.). “Le decisioni relative alle nostre specifiche quote di partecipazione vengono prese dai nostri gestori degli investimenti con lo scopo di raggiungere tutti i nostri obbiettivi di investimento”, hanno detto.

Ma gli attivisti hanno dei dubbi. “Gli investimenti in aziende che sostengono il regime di apartheid israeliano non avrebbero dovuto esistere fin dall’inizio”, ha dichiarato l’attivista Huda Ammori. “Il disinvestimento dell’università di Manchester dalle aziende complici dimostra la capacità del movimento di base degli studenti nel rendere responsabili le nostre istituzioni.”

Ammori ha lanciato la campagna BDS all’università di Manchester quando vi studiava nel 2016.

In una dichiarazione di lunedì gli attivisti di ‘Apartheid off Campus’ [Apatheid fuori dall’ università], una nuova rete studentesca, hanno detto che “la vittoria del disinvestimento a Manchester, la più grande università d’Europa, si prevede sia un momento di svolta per il movimento BDS nei campus del Regno Unito.”

Ma hanno detto che continueranno a mantenere l’università di Manchester come obbiettivo delle campagne BDS.

Secondo la rete ‘Apartheid off Campus’ l’università “ha ancora molti legami con il regime di apartheid israeliano, compreso il programma di scambi con l’università ebraica di Gerusalemme, che manda studenti a studiare nella terra palestinese occupata e rubata.”

Leeds è stata la prima università inglese a disinvestire dall’apartheid israeliano nel 2018, quando ha ritirato più di 1.200.000 dollari da diverse aziende coinvolte nel commercio di armi con Israele.

Asa Winstanley è un giornalista d’inchiesta e condirettore di The Electronic Intifada. Vive a Londra.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Israele non può più nascondere le prove della sua occupazione

Zena Agha

3 agosto 2020 – Foreign Policy

Per più di 20 anni un’oscura legge USA ha tenuto nascoste le immagini satellitari delle attività di Israele nei territori occupati. In seguito a un brusco capovolgimento, la tecnologia satellitare ora può essere utilizzata per difendere i diritti umani dei palestinesi.

Negli ultimi 20 anni c’è stato un generale, e per lo più indiscusso, accordo in base al quale le immagini satellitari dei territori israeliani, palestinesi e siriani occupati da Israele rimanessero riservate. Ciò in seguito a una normativa USA del 1996, nota come il Kyl-Bingaman Amendment [Emendamento Kyl-Bingaman] (KBA), che ha limitato la qualità e la disponibilità di immagini satellitari ad alta risoluzione fornite da imprese USA che riguardano Israele (e, per implicita estensione, i territori palestinesi e delle Alture del Golan occupati). Il risultato è che immagini disponibili a tutti su piattaforme come Google Earth sono state deliberatamente sgranate e sfuocate.

Il 25 giugno, in seguito a due anni di forti pressioni da parte delle istituzioni accademiche e della società civile, il KBA, composto da 97 parole, è stato inaspettatamente modificato, rendendo legalmente accessibili e facilmente disponibili a tutti immagini satellitari ad alta risoluzione. La notizia, benché positiva, solleva alcune domande: in primo luogo, quali sono stati gli effetti del KBA? Secondo, dato che nei 24 anni da quando esso è stato approvato le immagini satellitari sono migliorate in modo significativo sia come scala che definizione, perché ci è voluto così tanto per questa modifica?

Il KBA è stato un sottoprodotto della fine della Guerra Fredda, quando l’industria delle immagini satellitari era ancora agli inizi. Il presidente Bill Clinton cercò di rimettere mano alla tecnologia utilizzata in precedenza per lo spionaggio a favore di un suo uso commerciale più ampio. Si attivò anche per declassificare immagini dei satelliti spia USA degli anni ‘60 e ’70.

La combinazione di attività commerciali e declassificazione fece suonare un campanello d’ allarme in alcuni ambienti. Israele, spinto dalla volontà di segretezza della Guerra Fredda, fece pressione sul Congresso per una regolamentazione più stringente, che portò all’approvazione del KBA: l’unica censura del governo USA sulle immagini di qualunque parte del mondo.

La legge, messa in atto con il pretesto di proteggere la sicurezza nazionale di Israele, fu in effetti più che altro un atto di censura. Dopotutto, immagini satellitari ad alta risoluzione consentono ai ricercatori di comprendere, identificare e documentare i cambiamenti del territorio. La National Oceanic and Atmospheric Administration [Amministrazione Nazionale degli Oceani e dell’Atmosfera] (NOAA) all’interno del Dipartimento del Commercio USA è responsabile di mettere in pratica le norme riguardanti il rilevamento a distanza. Dato che il KBA non specificava la definizione consentita, la norma venne fissata a 2 metri per pixel.

Al contrario, le immagini commerciali disponibili oggi sono più frequentemente tra i 0,25 e i 0,6 metri per pixel. È la differenza tra vedere il contorno complessivo di un grande edificio e poter vedere i singoli veicoli parcheggiati all’esterno. Entro il limite di 2 metri è possibile identificare sostanziali cambiamenti nell’uso del territorio (per esempio, gli edifici di colonie delle dimensioni di una città oppure la distruzione con i bulldozer di strutture palestinesi), ma cambiamenti meno percettibili, come la crescita di un avamposto di una colonia o piccole installazioni militari, sono più difficili da individuare. Per 24 anni la legge ha oscurato i dannosi effetti dell’occupazione israeliana nascondendoli letteralmente alla vista.

La censura su Israele e i territori occupati ha avuto implicazioni negative dal punto di vista archeologico, geografico e umanitario. Presumibilmente i più eclatanti sono stati gli effetti sul monitoraggio della pluridecennale occupazione israeliana, compresa la documentazione della demolizione di case, di dispute territoriali e della crescita delle colonie. Le immagini a bassa risoluzione hanno impedito i tentativi di bloccare e verificare violazioni dei diritti umani, soprattutto in zone difficili da raggiungere come la Striscia di Gaza, che è sotto assedio dal 2007. Per esempio, immagini satellitari ad alta risoluzione potrebbero essere utilizzate da gruppi di ricercatori come “Forensic Architecture” [organizzazione di architetti che monitora le violazioni dei diritti umani in Palestina e altrove, ndtr.], per identificare il punto esatto da cui è stato sparato un colpo letale contro manifestanti disarmati.

Benché la legge KBA si applicasse solo alle imprese USA, i maggiori attori sul mercato globale – imprese come Maxar e Planet, e punti di accesso libero in rete come Google e Bing – sono americani. Anche se negli anni 2010 imprese straniere hanno iniziato a produrre immagini ad alta definizione, la predominanza USA ha comportato che, in realtà, il KBA di fatto è stato applicato su scala globale.

Nonostante esempi di resistenza silenziosa nel corso degli anni al limite di due metri da parte di giganti della tecnologia come Google Earth e Bing Maps, così come richieste di cancellazione del KBA, ci sono stati fino a poco tempo fa pochi tentativi di modifica. La censura sulle immagini satellitari di Israele e dei territori occupati è diventata una di quelle eccezioni apparentemente immutabili che caratterizzano il conflitto israelo-palestinese.

Il KBA ha avuto anche un impatto negativo sulla ricerca scientifica. Le immagini satellitari sono uno strumento fondamentale di controllo e monitoraggio, e immagini a bassa risoluzione non hanno il livello di dettaglio necessario per una disciplina come l’archeologia per rilevare le modifiche a siti archeologici o scavi da parte di ladri. Allo stesso modo analisi di cambiamenti climatici spesso si basano su dati derivati da immagini satellitari, che non sono state disponibili nonostante i pericoli posti alla regione dai cambiamenti climatici.

Presi insieme questi effetti rappresentano una zona d’ombra deliberata creata dal KBA, che ha direttamente impedito l’insostituibile lavoro di ricercatori, accademici e operatori per i diritti umani.

Il KBA è stato generalmente vago, ma ha stabilito che le limitazioni sulle immagini satellitari su Israele si applicassero solo finché le immagini satellitari ad alta definizione non fossero facili da ottenere da imprese non statunitensi. Se aziende straniere avessero iniziato a rendere pubbliche immagini più dettagliate, le restrizioni imposte dal KBA alla risoluzione [delle immagini] sarebbero state modificate continuamente nel tempo perché corrispondessero alla qualità di quelle prodotte da imprese non statunitensi. Ma non è stato così.

Il problema è diventato evidente quando un certo numero di aziende non USA – a cominciare dalla francese Airbus nel 2011 – si sono messe a produrre e a vendere immagini satellitari ad alta risoluzione di Israele e dei territori occupati. Di fatto lo stesso Israele fornisce immagini aeree gratuite ad alta risoluzione dei territori che controlla, rendendo nel contempo inutile il KBA e contraddicendo l’affermazione secondo cui esso garantisse gli interessi della sicurezza nazionale di Israele.

Questi progressi hanno reso anacronistico e obsoleto il KBA per quasi un decennio. E benché esso avrebbe dovuto essere periodicamente rinnovato, non c’è stata alcuna revisione formale fino al 2017, con il risultato che la tecnologia ha superato la politica e le imprese USA sono state svantaggiate.

Questa contraddizione sta al cuore della richiesta di annullare il KBA. Gli archeologi dell’università di Oxford che hanno identificato questa mancata modifica, Michael Fradley e il defunto Andrea Zerbini, nel 2018 hanno pubblicato un documento rivoluzionario chiedendo la sua modifica.

Le loro ricerche hanno esplicitamente dimostrato che esso è obsoleto, dato che una serie di imprese non statunitensi hanno prodotto immagini che avrebbero dovuto provocare la riforma e la ridefinizione dei limiti della legge.

Questi dati hanno portato a una pressione durata due anni sulla NOAA, sul dipartimento del Commercio e sul Congresso. La richiesta era semplice: consentire alle imprese USA di produrre e distribuire immagini ad alta risoluzione di Israele e dei territori palestinesi occupati oppure dichiarare superato il KBA.

Poi, improvvisamente, durante la riunione dell’Advisory Council of Commercial Remote Sensing [Comitato Consultivo del Rilevamento Commerciale a Distanza] alla fine di giugno, è stato annunciato che la NOAA aveva finalmente riconosciuto che da parte di fonti non statunitensi erano disponibili immagini con una risoluzione maggiore ai due metri per pixel, fino ad una risoluzione massima di 0,4 metri per pixel, che sarebbe diventata il nuovo punto di riferimento per le restrizioni; quando alla fine di quest’anno Airbus lancerà la sua nuova generazione di satelliti, potrebbe essere richiesto alla NOAA di scendere fino a 0,3 metri.

Le implicazioni di questo cambiamento sono ad ampio raggio. Quella più evidente è che le imprese tecnologiche USA saranno più competitive rispetto a quelle straniere. Da un punto di vista scientifico, la riforma darà come risultato un significativo miglioramento delle possibilità di monitorare da remoto questa regione fragile dal punto di vista ambientale. Riguardo ai mutamenti climatici, le immagini ad alta definizione consentiranno il rilevamento più accurato di cambiamenti della vegetazione, delle condizioni delle coltivazioni, dell’ulteriore diffusione della desertificazione (un impatto fondamentale del cambiamento climatico nella regione), mutamenti nella distribuzione delle acque, l’abuso di fertilizzanti e le discariche inquinanti – modificazioni che sono notevolmente più difficili da individuare e registrare con immagini satellitari a bassa risoluzione. Per discipline come l’archeologia ciò contribuirà a identificare siti e monitorare i danni.

Significativamente il cambiamento potenzia le associazioni per i diritti umani che lavorano per rendere responsabile Israele delle sue violazioni del diritto internazionale, comprese le uccisioni illegali e la costruzione di colonie (che, in base alla Quarta Convenzione di Ginevra, costituisce un crimine di guerra). Forse è per questa ragione che la cancellazione del KBA ha già provocato qualche inquietudine negli ambienti militari israeliani. Essa ha anche ripercussioni geopolitiche. Le immagini satellitari delle zone di confine di Giordania, Siria, Libano ed Egitto sono state finora sia poco definite che scarsamente rilevate (con molti operatori prudenti nel riprendere qualunque parte del territorio israeliano). Il cambiamento legislativo fornirà immagini non censurate di quelle zone e consentirà che vengano controllate e indagate, soprattutto riguardo a problemi ambientali come lo sfruttamento idrico.

Infine, in prospettiva della giustizia storica e della responsabilizzazione, immagini non censurate e ad alta definizione consentono ai palestinesi di elencare accuratamente i resti dei villaggi e cittadine distrutti durante gli avvenimenti del 1948 e successivi. Il potere di democratizzazione della riforma consentirà ai palestinesi di utilizzare la tecnologia per riscoprire un passato cancellato e per immaginare un futuro alternativo.

La riforma del KBA potrebbe aver vinto la battaglia sulla commercializzazione, ma la declassificazione rimane nel complesso una battaglia a sé. La prossima frontiera è garantire che vengano rese pubbliche al livello corretto di risoluzione le immagini satellitari di Israele e dei territori occupati archiviate – infatti fu in primo luogo un’immagine declassificata del reattore di Dimona (un’istallazione nucleare israeliana situata nel deserto del Negev) sui mezzi di informazione israeliani che innescò la spinta che portò al KBA. La declassificazione di fotografie della Palestina prese dall’aviazione britannica tra il 1944 e il 1948 ha già mostrato gli enormi cambiamenti del paesaggio da allora; immagini declassificate USA dell’ultima metà del XX secolo potrebbero rivelare molto di più.

Il ruolo che possono giocare le innovazioni tecnologiche nella protezione dei diritti umani deve ancora essere definito. Che controllino la persecuzione degli uiguri nei cosiddetti campi di rieducazione cinesi, la pulizia etnica dei rohingia e di altre minoranze in Myanmar o gli attacchi con i droni da parte degli USA in Somalia, le immagini satellitari sono state usate per molto tempo da gruppi di difesa internazionali, ricercatori, giornalisti e comuni cittadini per documentare e monitorare atrocità e crimini di guerra.

Lo stravolgimento del KBA dopo 24 anni ha messo tutti allo stesso livello e fornito uno strumento fondamentale a quanti lavorano per la libertà, la giustizia e l’uguaglianza. Tuttavia di per sé il monitoraggio può arrivare solo fino a un certo punto. Le immagini satellitari ad alta risoluzione rimangono un mezzo – non il risultato finale – perché si possa ottenere che i responsabili di violazioni ne paghino le conseguenze.

Zena Agha è una giornalista e politologa di Al-Shabaka, la rete politica palestinese.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Gestire l’occupazione e nascondere i crimini di guerra: come Israele ha trasformato il paesaggio in Palestina

Clothilde Mraffko

sabato 1 agosto 2020 – Middle East Eye

Vegetazione, architettura, strade, muri…Il progetto sionista ha rimodellato il paesaggio in Israele e nei territori occupati, creando complessi intrecci in cui la presenza palestinese è nascosta, quando non è messa sotto sorveglianza o rinchiusa

Per il viaggiatore europeo che arriva dall’aeroporto di Tel Aviv l’ingresso a Gerusalemme offre un panorama stranamente familiare. Poco prima che la città santa scopra le sue prime colline, l’autostrada si snoda tra monti verdeggianti. Qui gli alberi ricordano più le foreste europee che i paesaggi del vicino Libano. Lungi dall’immagine biblica di uliveti, sono pini e cipressi a coprire i rilievi.

Ancor prima della creazione di Israele nel 1948 “gli immigrati sionisti che arrivarono qui dall’Europa, in particolare da quella dell’est, volevano che il paesaggio fosse più verde, con alberi, che assomigliasse a quello che conoscevano”, ricorda a Middle East Eye Noga Kadman, ricercatrice indipendente, autrice del libro Erased from Space and Consciousness: Israel and the Depopulated Palestinian Villages of 1948 [Cancellati dallo spazio e dalla consapevolezza: Israele e i villaggi palestinesi spopolati del 1948].

Allora molti emigrarono con in testa un mito: la Palestina è una terra senza popolo per un popolo senza terra, gli ebrei. Solo che in realtà, all’inizio del 1948 circa 900.000 palestinesi vivevano all’interno delle frontiere di quello che sarebbe diventato Israele.

Nell’immaginario dei nuovi arrivati ebrei sussisteva nonostante tutto l’“idea che il paese fosse stato abbandonato per centinaia di anni,” continua Noga Kadman. Quindi gli immigrati si misero a piantare a tutto spiano sul territorio, ricorrendo principalmente a due specie di alberi: l’eucalipto e il pino di Aleppo, o pino di Gerusalemme.

Importato dall’Australia l’eucalipto venne inizialmente piantato ovunque: serviva a prosciugare le paludi e soprattutto cresceva molto in fretta. Ma, troppo avido di acqua, non era effettivamente adatto alla Palestina.

Venne sostituito un po’ alla volta dal pino di Aleppo che, a differenza di quello che farebbe pensare il suo nome, non è neppure lui una specie locale. Si trova piuttosto nel Mediterraneo occidentale, ad esempio nel sud della Francia. Anch’esso cresce rapidamente, resiste alla siccità, ma al contempo è più vulnerabile agli incendi.

Il paesaggio si trasformò dunque un po’ alla volta, soggetto alle iniziative del Fondo Nazionale Ebraico (FNE). L’agenzia, creata dall’inizio del XX secolo per acquisire terre in Palestina per gli immigrati ebrei, dal 1948 venne incaricata di occuparsi delle terre da cui erano stati cacciati i palestinesi, definite, in assenza dei loro proprietari, proprietà dello Stato.

Attualmente il Fondo gestisce soprattutto le foreste in Israele e si vanta di aver piantato “centinaia di milioni di alberi”, asserisce in sua difesa uno dei portavoce del Fondo, Alon Brandt, in una lettera di risposta a Middle East Eye. Precisa che l’organizzazione non ha piantato solo pini di Aleppo, ma anche ulivi, la specie locale per eccellenza.

Ma alcune critiche fanno notare che le piantagioni del FNE non hanno creato dei veri ecosistemi. Al contrario, dato che queste specie non sono abbastanza diversificate, questi luoghi non hanno l’aspetto di vere foreste: i pini hanno reso il suolo acido e gli animali non abitano effettivamente in questi luoghi in cui il sottobosco non ha messo radici.

Prendere possesso della terra”

Ma il FNE non cerca solo di rinverdire la Palestina. “Piantare alberi era un modo per prendere possesso della terra,” sostiene Noga Kadman. A tutt’oggi, nelle “località palestinesi in Israele, se non si vuole che le città si ingrandiscano con la costruzione di nuove case, gli si piantano attorno dei boschi,” aggiunge.

Nel Negev, nel sud di Israele, le autorità israeliane hanno demolito addirittura un intero villaggio per rimboschire il deserto. Lo scorso 12 febbraio la località di al-Araqib è stata distrutta per la 175sima volta. Su appezzamenti di terra che gli abitanti, beduini arabi israeliani discendenti dei palestinesi rimasti sulle loro terre nel 1948, sostengono essere loro, nel 2006 il FNE ha iniziato a piantare alberi: conta di crearvi con il tempo due boschi.

Gli alberi servono anche a nascondere le stigmate della nascita violenta di Israele: “La priorità della politica di riforestazione portata avanti dal FNE è di nascondere i suoi crimini di guerra in modo che Israele sia considerato come l’unica democrazia del Medio Oriente,” denunciava nel 2005 il militante israeliano dei diritti civili Uri Davis.

Tra il 1947 e il 1949, dai 750.000 agli 800.000 palestinesi vennero espulsi dalle proprie terre dalle milizie sioniste, cacciati con la forza o in fuga dai combattimenti per trovare rifugio nei Paesi confinanti. Nel maggio 1948 venne creato lo Stato di Israele; per i palestinesi questa data infausta è commemorata come la Nakba, la “catastrofe” in arabo.

Più di 400 villaggi vennero allora distrutti, ricorda Noga Kadman: “La metà di questi villaggi sono sepolti sotto cittadine israeliane o sono stati inglobati in esse.”

Ma una parte di essi, secondo lei 68, si trovano oggi su terre appartenenti al FNE, di cui “46 sono sepolti sotto un bosco.” Dal 1948 gli alberi vennero rapidamente piantati sulle rovine delle case palestinesi; Israele sperava così di dissuadere i rifugiati dal tentare di tornare e ricostruire le loro abitazioni.

Una politica proseguita nel 1967. Durante la guerra dei Sei Giorni le battaglie di Latrun permisero agli israeliani di impossessarsi di tutta Gerusalemme. Spinsero anche sulla via dell’esilio circa 10.000 palestinesi che vivevano in questa enclave, all’epoca sotto controllo della Transgiordania, molto vicina alla città santa.

Oggi palestinesi e israeliani conoscono il luogo soprattutto perché è uno degli spazi di svago più belli nei dintorni di Gerusalemme: 700 ettari con cascate, piste ciclabili e tavoli per scampagnate all’ombra.

Solo che il parco Ayalon in realtà è stato costituito sulle rovine di due villaggi palestinesi, Amwas e Yalu, totalmente rasi al suolo nel 1967, così come sulle terre di un’altra località, Beit Nuba. Oggi non ne resta che un santuario e dei fichi d’india che, in Palestina, servivano per delimitare i terreni delle famiglie. Le forme spinose con frutti rossi e gialli, che hanno paradossalmente dato il loro nome agli israeliani (sabra [frutto dei fichi d’india in ebraico. Si riferisce agli ebrei nati n Palestina, ndtr.]), costellano i sentieri del parco, come per ricordare che una volta vi si trovavano dei villaggi palestinesi.

I generosi donatori canadesi che resero possibile la costituzione del parco Ayalon, inaugurato dal FNE nel 1976, di questa tragica storia non ne sapevano niente.

Nel 1991 un servizio della televisione canadese rivelò al pubblico d’oltre Atlantico che il parco non solo venne in parte costituito dall’altra parte della Linea verde, la frontiera internazionalmente riconosciuta nel 1949 tra un futuro Stato palestinese e Israele – quindi su territorio occupato -, ma che servì soprattutto a seppellire le rovine di più di un migliaio di case distrutte. Il FNE fu costretto a scusarsi. Non ha risposto alle domande di MEE su questo argomento.

Si dovrà attendere il 2006 e una decisione della giustizia israeliana perché i visitatori potessero finalmente venire a conoscenza della tragica storia del luogo, sintetizzata in ebraico su cartelli in legno. L’organizzazione israeliana “Zochrot”, “Ricordi” in ebraico [associazione israeliana che si dedica a mantenere viva la memoria dei villaggi palestinesi distrutti da Israele, ndtr.], ha intentato un’azione legale contro il FNE per obbligarlo a non cancellare la memoria di Amwas e Yalu.

Una segregazione visibile

Se centinaia di villaggi palestinesi vennero rasi al suolo quando fu creato Israele, le grandi città vennero preservate, ma depurate da ogni presenza araba. Così, racconta lo storico israeliano Ilan Pappé nella sua opera “La pulizia etnica della Palestina”, nel 1948, insieme al mercato, “uno dei più belli del suo genere”, 227 case furono demolite a Haifa e circa 500 altre abitazioni palestinesi furono ridotte in polvere a Tiberiade, nel nord-est del Paese, a Jaffa e ancora a Gerusalemme ovest.

Israele si costruì così su un principio: nessuna mescolanza tra ebrei israeliani e quelli che vengono chiamati arabi israeliani, discendenti dei palestinesi rimasti sulle loro terre nel 1948 e che vissero sotto amministrazione militare fino al 1966.

Salvo rare eccezioni, spesso nelle zone più povere, “su tutto il territorio si nota una segregazione tra israeliani e palestinesi,” spiega a Middle East Eye Efrat Cohen-Bar, architetto dell’Ong israeliana per la difesa dei diritti umani “Bimkom”. L’idea principale “è che non si voglia stare insieme, e questo vale per entrambe le parti,” ritiene. A ognuno il suo quartiere, ognuno nella sua città.

Un credo ancora più evidente in Cisgiordania, territorio palestinese sotto occupazione israeliana dal 1967. Qui due mondi, i coloni israeliani e i palestinesi sotto occupazione, si incrociano ma non si incontrano mai. Una segregazione iscritta, in modo molto più brutale, nel paesaggio.

Così, dall’uscita da Gerusalemme, lungo la strada di Betlemme, il simbolo più evidente di questi paesaggi sotto occupazione compare da quando si supera il primo tunnel: a volte fatto di blocchi di cemento, a volte di staccionate più alte dei muri antirumore delle autostrade o ancora imponente recinzione, il muro di separazione costruito da Israele negli anni 2000, giudicato illegale dalla Corte Internazionale di Giustizia chiude l’orizzonte. In basso le case palestinesi si distinguono appena.

Questa frontiera, iscritta nel paesaggio, incarna di per sé sola tutte le altre strutture militari contro cui vanno a sbattere i palestinesi quando si avventurano fuori dalle loro città e villaggi: blocchi stradali, check point, torri di guardia, barriere…

Al contrario, attraverso un ingegnoso dedalo di tunnel, strade riservate alle vetture israeliane e ponti, i coloni israeliani passano da una colonia all’altra senza mai entrare in contatto con una località palestinese. Uno stato di fatto che l’annessione delle colonie, promessa da Israele in questi ultimi mesi con l’appoggio degli Stati Uniti, dovrebbe rafforzare. La segregazione non potrà che essere più impressionante.

La collocazione stessa delle colonie racconta questa storia di dominazione: “Storicamente i villaggi palestinesi erano costruiti in base a dove si trovavano le fonti d’acqua, quindi generalmente non sulla cima delle colline,” spiega Efran Cohen-Bar.

Ma praticamente tutte le colonie israeliane sono iniziate dalla cima. Anche un modo per dire: noi possediamo questa terra, è nostra.” La cima delle colline, meno fertile, è anche spesso il luogo più a disposizione per nuove costruzioni.

L’occupazione israeliana si sviluppa in modo strategico: il paesaggio cambia in base all’evoluzione degli interessi israeliani.

All’inizio era un tentativo di controllare il territorio, un po’ come se le colonie fossero dei mezzi corrazzati e delle basi militari. Poi sono state piazzate in modo da bloccare la creazione di uno spazio palestinese contiguo, distruggendo così la possibilità di uno Stato,” precisa a Middle East Eye Eyal Weizman, fondatore di “Forensic Architecture” [Architettura Forense], un’organizzazione che indaga le violazioni dei diritti dell’uomo utilizzando, tra le altre cose, l’architettura.

Del resto la mappa dello Stato palestinese immaginato da Donald Trump nel quadro del suo “piano di pace” è il risultato di questa strategia: vi si individua un insieme di isolette palestinesi legate le une alle altre da tunnel e ponti, senza omogeneità geografica.

Così in Cisgiordania il visitatore può identificare due mondi con un solo colpo d’occhio: da una parte case palestinesi con i tetti piatti, sparse sul fianco della collina, sopra i campi, dall’altra le colonie, spesso un insieme di edifici tutti uguali, identificabili per i loro tetti rossi, a punta, all’occidentale, e arroccati sulla cima dei rilievi.

In Israele non abbiamo bisogno di quel tipo di tetti, che servono per la neve,” rileva Efran Cohen-Bar. “Ma non volevamo assomigliare a loro (ai palestinesi), volevamo differenziarci.”

Per parte sua Eyal Weizman sostiene che i tetti rossi erano obbligatori: permettono all’esercito israeliano di individuare rapidamente dal cielo le colonie, e quindi i luoghi da non bombardare.

Le case dei coloni israeliani sono disposte in cerchio e “si affacciano sul paesaggio per sorvegliare, per ragioni militari e di sicurezza e per godere del panorama”, spiega. “Da un lato gli israeliani non vogliono palestinesi sul posto, hanno distrutto la loro cultura e vogliono che se ne vadano. Ma dall’altra leggono gli elementi tradizionali del paesaggio, ad esempio gli uliveti e le case di pietra, come rappresentazioni bibliche.”

Perché Israele, pur avendo modificato profondamente il paesaggio palestinese per i suoi scopi strategici, continua a vendere ai turisti e ai suoi abitanti l’immagine di una terra vergine, identica a quella dove gli ebrei vivevano ai tempi della Bibbia.

Quando fanno pubblicità (per spingere la gente a sistemarsi nelle colonie) dicono: ‘Venite a vivere nella natura, venite a vivere nel Paese della Bibbia’,” evidenzia Eyal Weizman. Un paesaggio tuttavia plasmato da quelli che essi [gli israeliani] non vogliono vedere: i palestinesi. È un paradosso,” conclude l’architetto.

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




“Voglio che Battir vada all’inferno”. Coloni avanzano su un sito palestinese patrimonio dell’umanità

Yuval Abraham

29 luglio, 2020 +972

I palestinesi del villaggio agricolo di Battir in Cisgiordania si imbattono in coloni israeliani armati che cercano di cacciarli dalla loro terra.

Khaled e Miriam Muammar vivono a Battir, un villaggio agricolo nella Cisgiordania occupata, a sud di Gerusalemme.Khaled lavora nell’edilizia e Miriam nel campo di famiglia, dove coltiva melanzane, per le quali Battir – iscritta nella lista del Patrimonio mondiale dell’UNESCO e del Patrimonio mondiale in pericolo nel 2014 – è nota. “Ogni melanzana è di 40 centimetri [16 pollici]. Sono enormi. Il mondo intero le vuole “, dice Khaled.

Un mese fa, quando Miriam venne a lavorare nei campi, vide qualcosa che la fece immediatamente tornare a casa: otto coloni israeliani armati e un doberman camminavano per il campo. Hanno costruito una tenda in un appezzamento di terreno vicino, appartenente al residente di Battir Ghassan Alyan, dove avevano legato le loro pecore. Rimasero fino al tramonto prima di andarsene.

“Questo è quello che hanno fatto per un mese, un gruppo di coloni, più volte alla settimana. Ieri (26 luglio) sono venuti di nuovo ” afferma Alyan. “Ho una cisterna da cui bevo. Il colono si spoglia e si arrampica nella cisterna per nuotare al suo interno. “Se ti dessi un bicchiere d’acqua e ci avessi messo un dito prima, lo berresti?” Chiede Alyan. “Penso proprio di no. Quindi ora immagina cosa provo. È ripugnante. Mi fa impazzire. Sono impotente “.

L’uomo a cui Alyan si riferisce è Lior Tal, un capo dei coloni che arriva in questo punto ad est di Battir dalla sua casa nell’avamposto illegale di Neve Ori, a soli 4 km di distanza, costruito meno di un anno fa. Alyan dice di aver visto per la prima volta Tal allevare pecore nella terra di Battir. “Non ho avuto problemi con questo, purché non distrugga nulla – perché dovrebbe importarmene? Ma ora è andato oltre. Arriva, lega le pecore al sole dalle 8 di mattina fino a sera e non le fa pascolare. Lui rimane lì. Per provocazione. La scorsa settimana, ha bussato alle porte dei residenti di Battir e ha chiesto loro di presentargli i documenti di proprietà terriera “.

Khaled Muammar spiega che l’area è strategicamente importante per l’ attività di insediamenti in Cisgiordania. “Vogliono occupare quest’area per tre motivi: prima di tutto, a causa della sua altezza: si affaccia sulla regione. In secondo luogo, separa [Battir da] al-Walajeh; stabilirsi lì crea un cuneo tra due villaggi palestinesi. E in terzo luogo, perché crea continuità geografica tra [l’insediamento israeliano] Har Homa e Gerusalemme ”.

Dror Etkes, uno dei maggiori esperti israeliani di insediamenti e il capo di Kerem Navot, un’organizzazione che controlla e ricerca la politica fondiaria israeliana in Cisgiordania, ritiene che l’arrivo dei coloni a Battir alla fine di giugno non sia una coincidenza. “Perché? A causa del piano Trump ” spiega. “Questa area, secondo il piano, dovrebbe essere territorio palestinese. Vogliono ora occupare l’area, prima che il governo dichiari che accetterà il piano. Per creare fatti sul terreno. “

Questa non è la prima volta che i coloni hanno tentato di conquistare quest’area. Nel dicembre 2018, centinaia di coloni sono arrivati durante la notte con bulldozer e trattori, hanno scavato una strada di accesso attraverso la montagna e hanno cercato di impiantare un avamposto. Hanno fallito: ha piovuto, i veicoli si sono bloccati e al mattino l’amministrazione civile – il braccio del governo militare israeliano che governa i 2,8 milioni di palestinesi in Cisgiordania – li ha evacuati.

 

Una coppia palestinese torna a casa lungo i binari della ferrovia dopo una giornata di lavoro, nel villaggio palestinese di Battir, Cisgiordania, 23 aprile 2014. (Hadas Parush / Flash90)

“Il lavoro nel 2018 è stato ben finanziato”, aggiunge Etkes. “Tutto è stato fatto in modo molto professionale, con veicoli pesanti. È un investimento di centinaia di migliaia di shekel. “

Un esercito indifferente

Quando Alyan vide la tenda di Tal sulla sua terra, chiamò la polizia israeliana, che a sua volta chiamò l’esercito. “Alcuni soldati arrivarono rapidamente”, racconta Muammar, che all’epoca era con Alyan. “Abbiamo indicato Lior. Abbiamo detto che era solo seduto qui con i suoi doberman e armi e che c’erano varie persone con lui, tutte armate. Spiegammo che erano entrati nelle piantagioni di ulivi e datteri, che stavano creando un attrito non necessario che avrebbe portato qualcuno a farsi male. Abbiamo detto loro che questo non va bene, che non vogliamo problemi.

“Le prime tre volte, uno dei soldati mi ha detto:” Non parlare con Lior. Ignoralo. Lo rimuoveremo “, continua Muammar. “Quindi il soldato andò da Lior e gli disse: ‘Sei in terra palestinese privata. Devi andartene. “Ed è quello che è successo. “Ma le cose sono cambiate. Le ultime due volte è arrivato un soldato diverso. Si è seduto vicino a Lior gli ha parlato. Poi mi ha detto che non potevo stare qui. Ho detto: “Che vuoi dire? Questa è la mia terra, ecco i documenti. “Ma non mi ha ascoltato. Ha detto che Lior può stare qui e se c’è un problema, devo andare all’Amministrazione Civile di Gush Etzion [il vicino blocco degli insediamenti] e dimostrare che è la mia terra ”.

Quando Tal e la sua banda sono arrivati di nuovo il 25 luglio, gli abitanti di Battir decisero di non chiamare l’esercito. “Ci siamo resi conto che non avrebbero fatto nulla. Non ha senso. “

Confische annuali

Non c’è nulla di casuale nella decisione dei coloni di costruire la loro tenda sulla terra di Alyan. Nel 1982, Israele dichiarò la sua proprietà, insieme a una parte sostanziale della terra nella zona, “terra statale”, usando il codice della terra ottomana – un meccanismo legale del 19 ° secolo adottato da Israele che gli conferiva l’autorità di trasformare terreni agricoli incolti in terra statale.

Dall’inizio dell’occupazione nel 1967, Israele ha usato il Codice per sequestrare centinaia di migliaia di dunam di terra; Il 99,76 percento delle terre statali nei territori occupati è stato assegnato agli insediamenti israeliani, mentre un minuscolo 0,24 percento è stato assegnato per uso palestinese.

Alyan spiega che non ha coltivato la sua terra per un breve periodo perché l’aveva usata per coltivare tabacco e voleva lasciarla riposare prima di avviare colture diverse. “Quando sono tornato a lavorare sulla mia terra, è venuto un rappresentante dell’Amministrazione Civile e mi ha detto che ero in terra statale. Mi ha chiesto di lasciare i locali e fatto multe ai miei dipendenti. L’amministrazione civile non mi ha neppure informato di aver espropriato la terra “.

Alyan continua: “È una buona terra. Appartiene alla mia famiglia da generazioni, con un atto di proprietà. Voglio piantarci sopra, ma per lavorare la terra ho bisogno di trattori per l’aratura. Abbiamo portato un trattore e l’abbiamo usato per tre o quattro ore. Poi venne l’Amministrazione Civile e ci disse che questo era proibito perché eravamo in terra statale. Hanno confiscato il trattore. Ogni anno proviamo a lavorare la terra: vengono e confiscano “.

Battere i pugni sull’”affare del secolo”

L’avamposto di Tal, Neve Ori, è stato costruito senza permesso a soli cinque minuti di auto da Battir. Adolescenti da tutta Israele vengono come volontari all’avamposto, dove “lavorano, sudano e assorbono molti valori”, secondo il sito web di Neve Ori. Le famiglie sono anche invitate “a divertirsi con i loro figli e prendere parte alla presenza ebraica sulla montagna e alla protezione della terra”. C’è anche uno zoo.

Ho chiamato Tal per chiedergli perché sta invadendo la terra di Battir. Ha insistito sul fatto che ha agito “legalmente” sulla terra che lo stato “ha ripreso”, affermando che “Loro [palestinesi] mi hanno rubato la terra”. Ho chiesto perché fosse venuto a Battir dato che si trova a 4 miglia di distanza dal suo avamposto, e Tal ha risposto “La mia fattoria è su un terreno che appartiene al Fondo nazionale ebraico ed è circondata da un terreno privato con uliveti. [La terra di Battir] è l’unica terra nell’area di cui nessuno può rivendicare la proprietà “.

Tal è esplicito nel suo antagonismo verso i palestinesi di Battir. “Voglio che tutto Battir vada all’inferno … lo Stato di Israele appartiene al popolo ebraico”, dice. “Non ho alcun problema che rimangano [i palestinesi] se concordano con le Sette Leggi di Noè [una serie di divieti che gli ebrei ortodossi ritengono vincolanti per tutti] o se vogliono convertirsi”.

È facile definire Tal un fanatico religioso. Ma l’essenza delle sue parole – il desiderio di massimizzare l’insediamento ebraico a spese dei palestinesi – ha sempre caratterizzato anche l’ala sinistra del movimento sionista. Ciò include il partito di colombe Meretz, che ha rappresentanti nel Jewish National Fund – la stessa organizzazione sulla cui terra Tal ha costruito il suo avamposto.

Quando Neve Ori è stata fondata nel 2019, l’amministrazione civile ha affermato che le strutture di insediamento “sono state erette illegalmente e senza un permesso adeguato e saranno quindi evacuate”. Da allora è passato quasi un anno e l’avamposto è ancora in piedi. Martedì, un portavoce dell’amministrazione civile ha dichiarato che “l’applicazione in loco verrà eseguita in accordo con le autorità e le procedure e soggetta alle priorità [dell’amministrazione]”.

Secondo l’ONG Kerem Navot, i coloni hanno creato 37 nuovi avamposti israeliani in Cisgiordania negli ultimi cinque anni. Il processo attraverso cui vengono creati questi avamposti è molto simile: una famiglia si stabilisce in “terra statale” e inizia a costruire strutture senza permessi, e quelle strutture rimangono “illegali” fino a quando lo stato non le approva retroattivamente.

La sessantenne Mariam Bader innaffia il suo raccolto sulle antiche terrazze di Battir, con vista sui binari della ferrovia israeliana che attraversavano il terreno agricolo del villaggio, West Bank, 7 aprile 2014. (Hadas Parush / Flash90)

L’avamposto più recente è stato istituito solo una settimana fa, ad est della città palestinese di Yatta vicino a Hebron, anch’esso su un terreno che secondo il piano Trump dovrebbe essere dalla parte palestinese. “I tempi e la posizione non sono una coincidenza”, afferma Etkes di Kerem Navot.

“Lo spazio si sta esaurendo”

Vivien Sansour, una attivista ecologista palestinese, è nata nella città di Beit Jala in Cisgiordania, un’area panoramica piena di antiche terrazze, sorgenti, vigneti e uliveti – e anche il sito scelto dai coloni israeliani per stabilire l’avamposto di Tal. Esplorare i dintorni di Beit Jala ha “plasmato” Sansour da bambina, dice. Ma Tal ha cambiato le cose. “Da quando l’avamposto è stato istituito l’anno scorso, non mi sento più a mio agio ad avvicinarmi”, afferma. “Un uomo armato è lì costantemente. Non mi sento sicuro come donna, e certamente no come donna palestinese ”.

L’avamposto, aggiunge Sansour, è anche dannoso per l’ambiente. “C’è un recinto per animali di plastica nera enorme, brutto, che non corrisponde al tradizionale modo [palestinese] di costruire su una montagna – dato che si basano su materiali naturali. L’avamposto ha tagliato una contiguità geografica che esisteva da secoli. Camminavamo qui da una collina all’altra a piedi, su sentieri, e poi è finito. Ciò danneggia l’ambiente, l’ecologia e, naturalmente, gli esseri umani. “

Sansour gestisce una biblioteca di semi di famiglia di Battir. “La cultura ecologica palestinese viene distrutta. Salvando questi semi, sto salvando chi sono, la mia cultura e ricordando alle generazioni seguenti che siamo preziosi “, afferma. “La terra presa da questo colono è l’ultimo spazio di Battir a respirare”, continua Sansour. “Le persone sono costrette a emigrare a Betlemme perché non ci permettono di costruire qui”.

Battir è circondato dall’Area C, sotto il pieno controllo militare israeliano, su cui raramente ai palestinesi vengono concessi permessi di costruzione. L’amministrazione civile respinge il 98,6 % delle richieste di permessi in queste aree e distrugge ciò che i palestinesi costruiscono di propria iniziativa. “Le persone sono stipate in città dove lo spazio si sta esaurendo”, afferma Sansour. “Di giorno in giorno, le città palestinesi si stanno trasformando in ghetti, in campi di rifugiati di cemento. È impossibile coltivare cibo sul cemento. Da ricca società agricola, stiamo diventando dipendenti dalle aziende israeliane per nutrirci ”.

Una versione in ebraico di questo articolo è stata pubblicata su Local Call. Read it here.

Yuval Abraham è fotografo e studente di lunguistica

Traduzione a cura di Alessandra Mecozzi da palestinaculturalibertà.org




L’espansione degli insediamenti costringe le famiglie palestinesi di Hebron a vivere in grotte

Taghreed Albb

31 luglio 2020 Al Monitor

HEBRON, Cisgiordania – Ai piedi delle montagne rocciose di Hebron, Munther Abu Aram, 48 anni, vive una vita primitiva in una grotta naturale con sua moglie e quattro figli. Quando le autorità israeliane hanno demolito la casa di Abu Aram, non hanno avuto altra scelta che vivere in una grotta senza infrastrutture, elettricità, acqua o servizi igienici.

La piccola grotta di circa 150 metri quadrati (500 piedi quadrati) si trova a Khirbet Janba nella Cisgiordania occupata. “La vita all’interno della grotta è molto difficile, ma ci siamo abituati dopo che i bulldozer dell’occupazione israeliana hanno demolito la mia casa nel 2018, costruita con mattoni e cemento , perché costruita senza licenza. È stato ricostruita  e demolita  di nuovo nel 2019 ”, 

Secondo un rapporto dell’agenzia turca Anadolu dal dicembre 2019, circa 19 famiglie palestinesi , in totale 100 persone , vivono nelle grotte del sud di Hebron , senza accesso all’elettricità o all’acqua, alle scuole o alle strade.

Israele proibisce ai palestinesi di costruire nell’area C e demolisce le case che costruiscono. Secondo un rapporto dell’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem ,pubblicato il 6 febbraio 2019, le forze israeliane hanno demolito 1.401 case palestinesi nell’area C, provocando lo sfollamento di 6.207 palestinesi, tra questi 3.134 bambini di età inferiore ai 16 anni, tra il 2006 e 2018.

Il 15 gennaio 1997, l’Organizzazione per la liberazione della Palestina e Israele hanno firmato l’ accordo di Hebron , noto anche come protocollo di Hebron, che prevede la divisione della città in due settori: H1 : l’80% dell’area della città è soggetta all’amministrazione palestinese. H2 il restante 20% della città,  costituito principalmente dal centro storico, è sotto il controllo di sicurezza israeliano. La sua popolazione è stimata in 40.000 persone.Abu Aram ha dichiarato: “L’occupazione israeliana vuole allontanarci da Khirbet Janba, confiscare la terra e trasformarla in aree militari chiuse . ampliare l’insediamento di Kiryat Arba e gli avamposti che la circondano”. Ha aggiunto che le autorità israeliane si rifiutano di fornire elettricità e acqua a Khirbet Janba e hanno rimosso e distrutto più volte i pali della rete elettrica e delle reti idriche.

Abu Aram e la sua famiglia coltivano e allevano  bestiame. Usa  un carro per asini per recarsi nelle città vicine e comprare acqua potabile e altre provviste, nonché per portare  i suoi figli nelle scuole del  villaggio più vicino , distante decine di chilometri .

Usa le lanterne a combustibile per illuminare la grotta e sua moglie prepara il cibo sul fuoco. Durante l’estate, la famiglia dorme fuori per paura dei serpenti e degli scorpioni che spesso fanno delle caverne le loro case.

Khalil Jabreen, 41 anni, vive con la sua famiglia in una grotta di 250 metri quadrati (820 piedi quadrati) vicino al sito della sua casa demolita a Khirbet al-Fakhit, distrutta dalle autorità israeliane nel 2000 e altre due volte nel 2015 e 2018.

 L’esercito israeliano ha dichiarato  che ogni volta che avesse ricostruito la sua casa,  l’avrebbe demolita .

“Le forze israeliane ci sfrattano costantemente dalla zona, ma rifiutiamo tutti i tentativi di sfollamento e vogliamo evitare che la nostra terra venga rubata da  loro per costruire nuovi avamposti”.

Ha spiegato che i coloni attaccano costantemente lui e i suoi figli, mentre le forze israeliane continuano a erigere checkpoint militari agli ingressi di Khirbet al-Fakhit per impedire loro di portare cibo, acqua e altro.

Jabreen ha aggiunto: “Nell’area  dove  viviamo mancano le scuole, i centri sanitari e le cliniche e ogni volta che si verifica un’emergenza, siamo  costretti  a fare un lungo e pericoloso viaggio ,su una carretta trainata da asini, per arrivare in ospedale o permettere ai  bambini di poter  frequentare la scuola.”

Abdel Hadi Hantash, membro del Comitato generale per la difesa della terra palestinese in Cisgiordania, ha dichiarato ad Al-Monitor: “Il governatorato di Hebron, nella Cisgiordania meridionale, comprende 27 insediamenti israeliani e 32 avamposti”. Ha osservato che Israele mira a giudaizzare Hebron e ad  annettere la Città Vecchia all’insediamento di Kiryat Arba, al quale il governo israeliano ha concesso lo status municipale.

Ha continuato, “Gli israeliani considerano Hebron una città religiosa”, sottolineando che i coloni in questa zona sono particolarmente caratterizzati dal fanatismo religioso e dall’estremismo politico.

Hantash ha osservato: “Esistono due tipi di insediamenti a Hebron. Il primo è certificato dal governo israeliano e dal consiglio degli insediamenti in Cisgiordania, che presenta i suoi piani attraverso canali politici, in modo da poter essere legittimati . Tuttavia  vi è  un’espansione non ufficiale degli insediamenti, effettuata attraverso organizzazioni sioniste e persone influenti nel governo israeliano .Le autorità israeliane hanno emesso oltre 16 ordini di demolizione nella zona di Masafer Yatta a Hebron, hanno confiscato 250.000 dunum e li hanno dichiarati aree militari chiuse. Ai palestinesi non è permesso vivere o costruire e  e le [forze israeliane] cercano costantemente di costringerli a lasciare le loro terre ”.

Hantash ha invitato le autorità ufficiali palestinesi a costruire infrastrutture nelle aree minacciate di confisca e sequestro. Dovrebbero fare appello alla Corte penale internazionale (ICC), che l’occupazione teme ,poiché può emettere mandati di arresto per i leader che commettono crimini di guerra e confiscano  terre.Dovrebbe  costringere la CPI a emettere decreti che rendano giustizia ai palestinesi e diano forza alla  loro resistenza. “

da Frammenti Vocali in Medio Oriente




Netanyahu incita alla violenza definendo i manifestanti un chiaro e tangibile pericolo

Lily Galili da Tel Aviv, Israel

30 luglio 2020 – Middle East Eye

Nel 1995 il primo ministro provocò l’odio che portò all’assassinio di Rabin, Questa volta sta facendo in modo che gli eventi producano direttamente l’odio contro i manifestanti

Nell’aria c’è violenza, un senso di pericolo. Di fatto c’è violenza anche sul campo. Settimana dopo settimana, in manifestazioni eccezionalmente persistenti e burrascose, c’è una costante violenza. Si teme un altro tipo di violenza, che uccide non solo la democrazia, ma può davvero uccidere anche le persone.

Lo stesso primo ministro di Israele Benjamin Netanyahu pone le basi per questo tipo di violenza.

Giorno dopo giorno, provoca i manifestanti e li offende. Essi sono “anarchici”, tramano un “golpe” contro di lui e contro il governo di destra. Non si fa neppure scrupoli riguardo all’argomento antisemita degli “ebrei che diffondono malattie”.

Nella versione dello Stato ebraico di Netanayhu, i dimostranti pisciano nei cortili e quindi diffondono malattie infettive. Ciò è quanto ha detto riguardo alle proteste di massa davanti alla sua residenza a Gerusalemme.

In precedenza il suo figlio alter ego, Yair, ha twittato la foto di un manifestante che urinava davanti alla residenza del primo ministro. L’unico problema è che la fotografia era stata scattata negli Stati Uniti, un esempio di una lunga lista di notizie false intenzionalmente diffuse per gettare benzina sul fuoco.

Giorno dopo giorno Netanyahu solleva la questione di un pericolo chiaro e tangibile per lui e per la sua famiglia. Egli ne scrive continuamente nei suoi molto attivi interventi sulle reti sociali e agisce su questo mobilitando misure di protezione senza precedenti fornitigli dai servizi di sicurezza israeliani.

La sua residenza ufficiale a Gerusalemme e la villa privata della sua famiglia a Cesarea, entrambi luoghi in cui si svolgono manifestazioni di massa, sembrano più che altro fortezze.

Questa è in effetti una reazione molto inusuale per gli standard israeliani. In precedenza molti ex-primi ministri e importanti politici sono stati vittime di incitamenti all’aggressione e di esplicite minacce: per citarne solo qualcuno, i primi ministri Ariel Sharon, Menachem Begin e Yitzhak Rabin, che venne effettivamente ucciso da un giovane ebreo di estrema destra.

Tutti minimizzarono le minacce, forse per orgoglio e machismo fuori luogo.

Netanayhu, tuttavia, ingigantisce ed esagera a dismisura il “pericolo incombente”. Politici del Likud sono impegnati a sollevare in ogni occasione l’argomento del “pericolo per la vita del primo ministro”.

Non siamo spaventati dalle critiche, ma piuttosto della violenza contro il primo ministro e la sua famiglia,” ha detto durante un’intervista radiofonica Amir Ohana, ministro della Sicurezza Pubblica.

Ma quando gli è stato chiesto se la vita di Netanyahu sia realmente in pericolo, il generale di divisione in congedo Amiram Levin, ex-comandante in capo di un’unità militare d’élite ed ex- vice capo del Mossad, ha subito ribattuto: “Assolutamente no!”

È tutta una sua invenzione per delegittimare la protesta contro di lui,” ha detto a Middle East Eye. Però Levin ha dato brutte notizie: “Nelle prossime settimane uno o due manifestanti contro Netanyahu verranno uccisi da un proiettile, una granata o una qualunque altra arma. È solo una questione di tempo, un tempo piuttosto breve.”

L’avvertimento di Levin è arrivato quando un piccolo numero di dimostranti ha subito accoltellamenti, lanci di pietre e percosse da un gruppo violento di sostenitori di destra di Netanyahu, decisi a proteggere il loro uomo.

La sua fosca previsione è profondamente radicata nella storia delle proteste in Israele: la pallottola, o la granata, è sempre lanciata dalla destra contro la sinistra. Non ci sono precedenti di un proiettile sparato in direzione contraria.

È ancora più temibile ora, quando un super propagatore di incitamenti all’odio come Netanayhu sta giocando un ruolo da protagonista in questo pericoloso processo. È quello che fece 25 anni fa, partecipando attivamente all’istigazione che terminò con l’assassinio di Rabin.

Fortunatamente per lui, non c’è un Netanayhu che inciti contro Bibi [diminutivo dello stesso Netanayhu, ndtr.].

Un’atmosfera analoga

Amiram Goldblum, da moltissimi anni attivista per la pace ed ex-capo del movimento Peace Now [Pace Subito, movimento israeliano per la fine dell’occupazione e la pace con i palestinesi, ndtr.], ha ricordato che in precedenza importanti dirigenti e primi ministri hanno chiaramente evitato questo comportamento.

Al contrario di oggi, ai tempi della nostra protesta dell’‘83, l’incitamento venne dalla base del Likud, mai dallo stesso Begin,” dice, in riferimento ad una serie di manifestazioni di massa contro la prima guerra del Libano.

In modo più specifico, si riferisce alla manifestazione del 10 febbraio 1983 a Gerusalemme, dove uno dei dimostranti, Emil Grunzweig, venne ucciso da una granata lanciata contro il raduno per la pace da Yonah Avrushmi. L’assassino era l’esatto prototipo degli autoproclamati mercenari di destra, imbevuti di odio, che agiscono oggi contro le proteste.

Goldblum stava marciando accanto a Grunzweig quando esplose la granata. “L’atmosfera è molto simile a quella di decenni fa,” dice Goldblum a MEE.

Di fatto si tratta di un’altra fase della guerra civile iniziata con l’assassinio di Rabin e ora l’odio è molto più tangibile. Non ho paura, ma sicuramente quando partecipo alle manifestazioni cerco di fare attenzione. Li posso riconoscere da lontano e alcuni di loro mi possono riconoscere.”

Il parallelo finisce qui. Le proteste del 1983 erano concentrate su un problema: la guerra in Libano. Il corteo del 1995 era in appoggio alla democrazia e agli accordi di Oslo. Le dimostrazioni del 2020 sono invece uno scoppio di rabbia, frustrazione e sconforto avvertiti da almeno tre generazioni, che sono disperate per quello che è diventato il loro Paese e per quello che il loro Paese ha fatto a loro.

Proprio come un terremoto mette in luce tutto quello che è nascosto sotto le rovine, la pandemia da coronavirus ha scoperto tutta la decadenza sottostante. Un primo ministro imputato per corruzione c’era già, come l’erosione sistematica della democrazia.

Entrambi avevano già spinto gli israeliani in piazza con rabbia, ma solo in pochi.

C’è voluto un terribile virus perché molti israeliani si rendessero conto che il sistema non era solo corrotto, ma anche totalmente inefficiente, cinico e slegato dalla vita quotidiana dei cittadini di cui dovrebbe essere al servizio.

Di fatto questa è una delle pochissime occasioni in cui lo scoppio della rabbia che ha occupato le strade praticamente ogni giorno può essere fatto risalire a una serie di avvenimenti.

In primo luogo ci sono state le foto di Netanyahu che festeggiava la tradizionale cena del Seder della Pasqua ebraica con il suo figlio adulto, mentre a milioni di israeliani sottoposti al blocco totale veniva ordinato di passare in totale solitudine la serata [da passare] in famiglia. Soli, tristi e senza lavoro.

Poi c’è stata la riunione della commissione finanze del parlamento per discutere (ed approvare) la richiesta del primo ministro di retrodatare i rimborsi fiscali sulle spese nella sua villa privata a Cesarea. Durante la discussione il parlamentare del Likud [il partito di Netanyahu, ndtr.] Miki Zohar ha sostenuto che le tasse avrebbero lasciato Netanyahu “finanziariamente in ginocchio”. Netanyahu è multimilionario.

Questo dibattito tragicomico ha avuto luogo alla fine di giugno, all’inizio della seconda ondata della pandemia da coronavirus, con un milione di israeliani disoccupati e ormai migliaia alla fame. Ciò ha fatto colpo sugli israeliani perplessi, persino ardenti sostenitori di Netanyahu.

Poi c’è stata la farsa dei “finestrini aperti”. Il governo che doveva occuparsi del contagio ha elaborato una soluzione per il trasporto pubblico ed ha escogitato una soluzione veramente sensata: alla maggior parte delle linee degli autobus sarebbe stato consentito di riprendere a circolare con i finestrini aperti, per evitare la diffusione del virus.

Ha senso? Per niente. Da circa un decennio gli autobus in Israele non hanno finestrini che si aprono. Ma i parlamentari da oltre dieci anni non sono saliti su un autobus, quindi, come potevano saperlo?

Cos’altro non sanno della vita delle persone di cui si devono occupare? Di fatto, molto di più. Pochi giorni dopo il governo ha deciso di chiudere tutti i ristoranti a cui avevano consentito di riaprire solo qualche giorno prima. Ristoratori obbedienti e sul lastrico hanno buttato via tutti i prodotti che avevano comprato e annullato tutte le prenotazioni, solo per venire a sapere poche ore dopo che di fatto i ristoranti potevano rimanere aperti. Da allora la maggior parte di loro non ha più seguito le decisioni del parlamento.

Nel pieno della seconda ondata e dell’inizio delle dimostrazioni di massa, Netanyahu ha convocato un’altra conferenza stampa e ha orgogliosamente promesso un corona bonus universale per ogni cittadino, che secondo lui sarebbe arrivato sui conti bancari in pochi giorni. Ciò il 15 luglio. Non ci sono ancora soldi in banca.

Offesi, disillusi, arrabbiati

Potrebbe sembrare una volgare litania di piccoli problemi nel bel mezzo di una pandemia mondiale. Non lo è. È il vero scontro tra gli israeliani, i loro dirigenti e il regime. Hanno imparato che il sistema sanitario non funziona: c’è una carenza di letti e di personale sanitario negli ospedali.

Hanno appreso che il sistema di welfare non funziona: nel bel mezzo della crisi sanitaria ed economica, quando i più deboli avevano bisogno di aiuto e di sostegno, gli operatori sociali sottopagati hanno fatto un lungo sciopero. Ci sono volute settimane prima che il governo prestasse attenzione e raggiungesse un accordo con loro.

Soprattutto, gli israeliani vedono i loro politici autoreferenziali, slegati dalla vita quotidiana dei loro elettori, come se vivessero su un altro pianeta.

È stato allora che sono scesi in piazza. Grandi folle con un’energia e una resilienza senza precedenti. Offesi, disillusi e arrabbiati, profondamente preoccupati per il loro futuro.

La forza e la debolezza di questa protesta è nella sua diversità. Alcuni protestano contro la corruzione di Netanyahu e vogliono che se ne vada. Dato che egli si è vantato di tutto quello che ha funzionato nei primi mesi della pandemia, è a lui che va data la colpa quando le cose vanno male. Altri sono scesi in piazza per salvare la democrazia israeliana; altri ancora sono terrorizzati per il loro futuro economico. Tutte queste persone hanno perso fiducia nella classe politica del Paese.

Molti non sono neppure sicuri che gli ultimi “incidenti per la sicurezza con Hezbollah” sul confine settentrionale non siano altro che un evento mediatico per distrarre l’attenzione. Ogni tanto compare tra la folla persino un manifestante contro l’annessione.

La buona notizia è la riapparizione della giovane generazione nelle manifestazioni di massa. Per anni israeliani di mezz’età o anche anziani si sono costantemente guardati intorno alla ricerca della giovane generazione che guidasse la protesta. Oggi le organizzazioni studentesche hanno annunciato che si uniranno alle manifestazioni.

Si sentono abbandonati. Finalmente sono lì, gli unici che possano determinare il cambiamento indispensabile.

Nel frattempo la minaccia di una quarta tornata elettorale minaccia gli israeliani. Netanyahu non sta governando il Paese. Nelle ultime settimane sta facendo una campagna elettorale.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Israele trasforma le moschee in sinagoghe o bar

Middle East Monitor

28 luglio 2020, Middle East Monitor

Uno dei punti di riferimento di Tiberiade è la moschea, nota anche come moschea Zaydani, prodotto dell’architettura mamelucca, con una grande cupola e un minareto.

“Come la maggior parte dei palestinesi, gli abitanti di Tiberiade sono fuggiti in Siria e in Libano dopo la Nakba”, ha detto Kamal Khatib dell’Alto comitato di controllo per i cittadini arabi di Israele, all’Agenzia Anadolu.

“La famiglia Zaydani, tuttavia, si è trasferita nella città adiacente di Nazareth”, ha detto.

Khatib ha detto che la famiglia Zaydani ha chiesto alle autorità israeliane di concedere il permesso di restaurare la moschea Umari.

“Il Comune di Tiberiade, però, si è rifiutato, sostenendo che l’avrebbe ristrutturata, ma non è successo nulla”, ha detto.

“Anche da quando la moschea è stata chiusa, le autorità israeliane hanno vietato l’ingresso ai fedeli e ai visitatori”, ha detto.

Lo studio ha anche dimostrato che 40 moschee sono state distrutte, chiuse o abbandonate, mentre altre 17 sono state trasformate in bar, ristoranti o musei.

Per esempio, secondo lo studio, la moschea Al-Ahmar nella città settentrionale di Safed è stata trasformata in una sala da concerto, mentre la moschea Al-Jadid nella città di Cesarea in un bar.

Khatib ricorda che le moschee pre-Nakba erano piene di fedeli. “Dopo la Nakba, però, le moschee furono distrutte, specialmente quelle dei villaggi. Altre moschee furono trasformate in sinagoghe, bar, musei, caffè o ristoranti”.

Khatib si è lamentato che la polizia israeliana “non tiene conto dei sentimenti dei musulmani”, citando il cimitero di al-Isaaf a Giaffa, dove le tombe sono state rase al suolo nonostante le proteste dei residenti locali.

Khatib ha detto che le autorità israeliane hanno promulgato una legge per confiscare i beni dei palestinesi, che sono fuggiti dalle loro case.

“La Knesset (il parlamento di Israele) ha approvato la legge degli assenteisti, con la quale Israele ha confiscato edifici e proprietà dei cittadini arabi [che lasciarono le loro case si trasferirono in altre zone]”, ha detto.

Israele nega le accuse di usare le moschee per scopi diversi dal culto.

A ottobre del 2015, il Ministero degli Esteri israeliano ha detto che c’erano circa 400 moschee in Israele e che il numero dei fedeli è raddoppiato cinque volte negli ultimi 25 anni.

Khatib però respinge l’affermazione israeliana, dicendo “Nella storia del paese il governo israeliano non mai costruito una moschea”.

Traduzione di Elisabetta Valento – Assopace Palestina