Cinema palestinese: Mai Masri, pioniera su tutti i fronti
Marina Da Silva
19 settembre 2020 – Orient XXI
Pubblicato in inglese, Love and resistance in the films of Mai Masri [Amore e resistenza nei film di Mai Masri] di Victoria Brittain rende finalmente omaggio al formidabile lavoro, ininterrotto, della prima regista palestinese.
Con 3000 notti, suo primo film di finzione uscito nel 2015, in cui tratta della detenzione delle donne palestinesi in Israele, Mai Masri ottiene un clamoroso successo. Del resto la carriera della prima regista palestinese, essenzialmente costituita da documentari e da opere impegnate, non è iniziata ieri. In ‘Love and resistance in the films of Mai Masri’, (purtroppo non ancora tradotto in francese [né in italiano, ndtr.], la giornalista Victoria Brittain si lancia in un’analisi appassionata del lavoro e del percorso della regista. Pubblicato per le edizioni Palgrave Macmillan, in una collana che si occupa di illustrare il cinema del mondo arabo nel suo contesto storico, geografico e culturale, la prefazione è dedicata “agli artisti, poeti, scrittori, registi palestinesi che hanno mantenuta viva la memoria e la speranza”. L’autrice sintetizza e spiega il percorso di Mai Masri e del suo compagno di lavoro e di vita Jean Chamoun, deceduto a Beirut nel 2017. Si erano incontrati nel 1981 nella capitale libanese, appena prima dell’invasione israeliana, e non si sarebbero più lasciati, legati dal loro amore e dalla certezza del potere di trasformazione del cinema, che avrebbero messo in pratica sul campo della guerra e dell’occupazione.
Nelle prigioni israeliane
Victoria Brittain ha scelto di ripercorrere l’opera di Mai Masri in modo non esaustivo né cronologico, come se volesse coglierne immagini dense, nei suoi film e nella sua vita, che gettano luce le une sulle altre. Il primo capitolo è ampiamente dedicato a 3000 notti, al suo processo di realizzazione – girato in un carcere dismesso in Giordania – e che ha maturato in lei per una ventina d’anni, alimentato dalla sua conoscenza intima della detenzione che mutila tutte le famiglie palestinesi, e che è una metafora dell’occupazione.
Quando era tornata a Nablus per filmare la prima intifada era già stata colpita dalla storia di una donna che aveva partorito in prigione, ammanettata e circondata da soldati, che si sarebbe incarnata nella figura di Layal, la protagonista: “Nel 2015, quando è stato realizzato il film, nelle prigioni israeliane si trovavano 6000 palestinesi, uomini, donne e minori. È la storia di una di loro.” Il film si avvale anche della sua relazione di vicinanza con ex detenute, tra cui Kifah Afifi o Soha Bechara, rinchiuse nel sinistro campo di tortura di Khyam nel sud del Libano. Mai Masri tornerà a girare con loro dopo la liberazione del sud del Libano, nel 2000 (Donne oltre la frontiera), conservando per sempre, contro l’oblio, le immagini e la memoria del campo che sarebbe stato distrutto dall’esercito israeliano durante l’invasione del 2006.
Donne e bambini in prima linea
Il capitolo intitolato “Gli israeliani e la mia casa – Nablus e Shatila: Sotto le macerie (1983); I bambini del fuoco (1990)” lega tra loro due opere a prescindere dalla data della loro realizzazione. La presenza di donne e bambini e la brutalità con cui vengono precipitati nella guerra sono ricorrenti nei film che spesso ha girato sotto il frastuono delle bombe e vivendo lei stessa le peggiori situazioni di esposizione al pericolo.
Che si tratti della Palestina occupata o dei campi dei rifugiati, non smette di mostrare il loro destino comune: in “Tortura e amore nel sud del Libano: Fiori selvatici – donne del sud del Libano, 1986; Donne oltre le frontiere, 2004”, dove si ascolta Kifah Afifi rievocare la brutalità del campo di Khyam: “Sono morta cento volte ogni giorno in quella cella”, e Soha Bechara, che ha messo in gioco la propria vita per la liberazione del suo Paese, ripetere: “Non dimentichiamo la Palestina”.
“La Linea Verde: la generazione della guerra – Beirut (1989)” documenta più da vicino la guerra civile libanese e gli scontri fratricidi al di là della linea di confine est-ovest della capitale, considerato “uno dei film contro la guerra più potenti del cinema arabo”, secondo il quotidiano L’Orient le jour.
Gli scomparsi della guerra civile libanese
Con “Gli scomparsi: Sogni sospesi (1992); Lanterne di memoria (2009)” entrano nell’obbiettivo della cinepresa i 17.000 scomparsi della guerra civile. A 25 anni di distanza i film testimoniano il lavoro accanito delle famiglie per ritrovare i loro cari. Wadad Hilwani, uno dei personaggi di Sogni sospesi, alla ricerca del suo sposo, crea insieme ad altri una dinamica che si ispira alla “lezione dell’Argentina, dove le madri di Plaza de Mayo hanno costretto il governo a rivelare ciò che sapeva.” La costruzione di questo processo politico di rivendicazione delle famiglie finirà per costringere a sua volta lo Stato libanese a porre la questione all’interno dell’agenda politica del Paese.
Lanterne di memoria è dedicato più specificamente al ritorno in Libano di Samir Qantar, militante del Fronte per la Liberazione della Palestina, liberato nel 2008 nel quadro di uno scambio di prigionieri negoziato da Hezbollah. Prigioniero per 27 anni, è accolto come un eroe nazionale. Verrà assassinato dagli israeliani durante un raid in Siria nel 2015.
La Palestina nei campi
In “La mia Palestina: I ragazzi di Shatila (1998)” Victoria Brittain spiega che Mai Masri indulge sul campo profughi palestinese più emblematico, presso il quale viveva, con l’obbiettivo di riferirsi ai massacri che vi furono commessi nel settembre 1982. Con tenacia, e il più delle volte con la complicità di Jean Chamoun, la regista esplora la memoria storica personale e collettiva dei palestinesi, la collega al presente, rifiuta di rinunciare al sogno e alla speranza del ritorno. In “E’ il mio Paese: Frontiere di sogni e di paure (2001)” accompagna nell’arco di cinque anni un percorso di incontro tra ragazzi dei campi di Shatila e di Dheisheh, vicino a Betlemme, descrivendo i legami che riescono a tessere al di là delle frontiere.
Contro la negazione e l’oblio
C’è poi “Museo della memoria: Diari di Beirut” (2006) sulla morte di Rafik Hariri; “Lasciate che gli arabi vedano: 33 giorni” (2007), sulla guerra del 2006. Mai Masri è dovunque, in tutti i momenti forti, quelli chiari e quelli bui. Farà anche il ritratto di Hanan Ashrawi, scrive l’autrice in “Andando avanti: Hanan Ashrawi – una donna del suo tempo (1995)”. Racconta non solo la storia delle persone, ma dà loro un volto e ci fa entrare in relazione con loro. Registra tutte le lotte, in Palestina e in Libano, accompagna una nuova generazione che lotta in continuità con coloro che hanno conosciuto il trauma del 1948, inventando forme artistiche per “prendere il controllo della narrazione”, contro la narrativa che nega la loro esistenza.
Nella sua conclusione Victoria Brittain mostra come, al di là di tutte le vicende di distruzione, violenza e tortura, Mai Masri si sia sempre sforzata di individuare i momenti di vita e di resistenza. “I suoi film sono l’antitesi degli stereotipi che disumanizzano e tolgono i loro diritti ai palestinesi”. Ciò rende uniche le sue immagini che, lungi dalla disperazione e dall’afflizione, si ostinano a cercare, anche nella più grande sofferenza, l’amore e la bellezza. In questo, dice Victoria Brittain, “lei non documenta solo ciò che viene fatto subire ai palestinesi dal 1948, ma mostra chi sono veramente.”
Marina Da Silva
Giornalista e militante di base.
(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)