La polizia israeliana sa come placare i sospetti aggressori – quando sono ebrei

Oren Ziv

21 settembre 2020 – +972 magazine

Quando un israeliano pare abbia cercato di investire con la sua auto i manifestanti anti-Bibi, la polizia lo ha sopraffatto in modo pacifico. I palestinesi spesso non sono così fortunati.

Non è un segreto che le forze di sicurezza israeliane trattino ebrei israeliani e palestinesi, sia cittadini [di Israele] che vittime dell’ occupazione militare, in modo molto diverso. Mentre i cittadini ebrei spesso godono del beneficio del dubbio da parte della polizia, i palestinesi sono spesso trattati come sospetti terroristi che devono prima di tutto essere repressi.

Questo divario è stato del tutto evidente domenica notte, quando la polizia israeliana ha sventato un sospetto tentativo di investimento con l’auto da parte di un uomo ebreo-israeliano durante la manifestazione settimanale contro il primo ministro Benjamin Netanyahu a Gerusalemme.

Un video dell’attacco, che ho realizzato e pubblicato per la prima volta su Local Call [versione in ebraico di +972, ndtr.], mostra il responsabile che accelera mentre guida la sua macchina in direzione dei manifestanti in King George Street. L’auto viene vista avvicinarsi a un posto di blocco della polizia prima di fermarsi all’alt facendo stridere i freni, dopodiché l’autista viene portato via dal veicolo e arrestato dagli agenti.

In seguito all’incidente la polizia israeliana ha pubblicato una dichiarazione secondo cui “le forze che operano in King George Street hanno arrestato un sospetto che si dirigeva velocemente con un veicolo verso i posti di blocco della polizia, rappresentando un pericolo per i manifestanti e la polizia”. In seguito all’incidente, il vice sovrintendente della polizia Alon Halfon ha dichiarato: “È arrivato un veicolo, l’uomo è stato arrestato ed è sotto inchiesta. La recinzione [della polizia] gli ha impedito di continuare e provocare danni “.

È troppo presto per determinare cosa abbia spinto il guidatore a condurre l’auto verso i manifestanti. Quando la polizia lo ha preso in custodia, gli ho chiesto perché avesse cercato di investire i manifestanti. Non ha voluto rispondere e ha cercato di aggredirmi.

Un gruppo di quattro manifestanti era seduto su delle sedie in mezzo alla strada a pochi metri da dove l’auto si è fermata di colpo. Hanno detto che pensavano che sarebbero stati investiti e che forse qualcosa all’ultimo momento ha impedito al conducente di aggredirli. Forse ha visto la polizia, forse ha cambiato idea.

Tutto ciò che si sa al momento sul sospetto è che ha 20 anni e risiede a Gerusalemme. Al contrario i nomi e i dettagli sui sospetti palestinesi vengono spesso rilasciati dalle forze di sicurezza subito dopo il fatto.

Gli agenti, ovviamente, devono essere elogiati per la sensibilità con cui hanno gestito la situazione. A quanto pare coloro che hanno arrestato il conducente hanno creduto che si trattasse di un tentativo di aggressione, o almeno hanno sentito le loro vite in pericolo, dal momento che circa quattro di loro hanno estratto e puntato le armi. Eppure non hanno aperto il fuoco, mostrando invece con precisione come fermare un autista pericoloso senza sparare un solo colpo.

Come ha osservato un giornalista esperto, la polizia ha riportato i fatti dal punto di vista degli agenti senza aggiungere alcun ulteriore commento. Non si è discusso di un “tentativo di attacco” e anche le parole “tentato investimento con un’auto” non sono state inserite nel rapporto della polizia. Ciò nonostante l’autista ha chiaramente accelerato e ha frenato all’ultimo momento a pochi metri da un gruppo di manifestanti – un evento che miracolosamente non si è concluso con delle vittime.

Non ci vuole molto per immaginare come sarebbe finito un evento del genere se l’autista fosse stato un palestinese: esecuzione sul posto, prima di lasciare il corpo a terra fino all’arrivo di un artificiere per escludere la possibilità di un ordigno esplosivo. Entro pochi minuti dall’incidente la polizia avrebbe rilasciato una dichiarazione su un tentato attacco terroristico.

Questo è esattamente quello che è successo nel caso di Yacoub Abu al-Qi’an, un cittadino beduino che è stato ucciso dalla polizia nel gennaio 2017, e Ahmed Erakat, un palestinese di Gerusalemme che quest’anno è stato ucciso dalle forze di sicurezza israeliane ad un checkpoint. Subito dopo aver sparato la polizia israeliana e i media li hanno immediatamente descritti come aggressori, nonostante prove discutibili nei loro confronti.


Abu al-Qi’an ed Erakat sono solo due degli innumerevoli palestinesi che hanno perso la vita e sono stati subito definiti terroristi. Ma lunedì la polizia ci ha ricordato che esiste un altro modo di gestire i sospetti che non include aprire il fuoco sui presunti aggressori. Un modo, a quanto pare, riservato solo ai cittadini ebrei.

Oren Ziv è un fotoreporter, membro fondatore del collettivo fotografico Activestills [formato da fotografi israeliani e internazionali con il proposito di utilizzare la fotografia come strumento di cambiamento sociale e politico, ndtr.] e un redattore di Local Call. Dal 2003 ha documentato una serie di questioni sociali e politiche in Israele e nei territori palestinesi occupati con una particolare attenzione sulle comunità di attivisti e sulle loro lotte. Il suo reportage si è concentrato sulle proteste popolari contro il muro e le colonie, sugli alloggi a prezzi accessibili e su altre questioni socioeconomiche, sulle lotte contro il razzismo e la discriminazione e sulle battaglie animaliste.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Cinema palestinese: Mai Masri, pioniera su tutti i fronti

Marina Da Silva

19 settembre 2020 – Orient XXI

Pubblicato in inglese, Love and resistance in the films of Mai Masri [Amore e resistenza nei film di Mai Masri] di Victoria Brittain rende finalmente omaggio al formidabile lavoro, ininterrotto, della prima regista palestinese.

Con 3000 notti, suo primo film di finzione uscito nel 2015, in cui tratta della detenzione delle donne palestinesi in Israele, Mai Masri ottiene un clamoroso successo. Del resto la carriera della prima regista palestinese, essenzialmente costituita da documentari e da opere impegnate, non è iniziata ieri. In ‘Love and resistance in the films of Mai Masri’, (purtroppo non ancora tradotto in francese [né in italiano, ndtr.], la giornalista Victoria Brittain si lancia in un’analisi appassionata del lavoro e del percorso della regista. Pubblicato per le edizioni Palgrave Macmillan, in una collana che si occupa di illustrare il cinema del mondo arabo nel suo contesto storico, geografico e culturale, la prefazione è dedicata “agli artisti, poeti, scrittori, registi palestinesi che hanno mantenuta viva la memoria e la speranza”. L’autrice sintetizza e spiega il percorso di Mai Masri e del suo compagno di lavoro e di vita Jean Chamoun, deceduto a Beirut nel 2017. Si erano incontrati nel 1981 nella capitale libanese, appena prima dell’invasione israeliana, e non si sarebbero più lasciati, legati dal loro amore e dalla certezza del potere di trasformazione del cinema, che avrebbero messo in pratica sul campo della guerra e dell’occupazione.

Nelle prigioni israeliane

Victoria Brittain ha scelto di ripercorrere l’opera di Mai Masri in modo non esaustivo né cronologico, come se volesse coglierne immagini dense, nei suoi film e nella sua vita, che gettano luce le une sulle altre. Il primo capitolo è ampiamente dedicato a 3000 notti, al suo processo di realizzazione – girato in un carcere dismesso in Giordania – e che ha maturato in lei per una ventina d’anni, alimentato dalla sua conoscenza intima della detenzione che mutila tutte le famiglie palestinesi, e che è una metafora dell’occupazione.

Quando era tornata a Nablus per filmare la prima intifada era già stata colpita dalla storia di una donna che aveva partorito in prigione, ammanettata e circondata da soldati, che si sarebbe incarnata nella figura di Layal, la protagonista: “Nel 2015, quando è stato realizzato il film, nelle prigioni israeliane si trovavano 6000 palestinesi, uomini, donne e minori. È la storia di una di loro.” Il film si avvale anche della sua relazione di vicinanza con ex detenute, tra cui Kifah Afifi o Soha Bechara, rinchiuse nel sinistro campo di tortura di Khyam nel sud del Libano. Mai Masri tornerà a girare con loro dopo la liberazione del sud del Libano, nel 2000 (Donne oltre la frontiera), conservando per sempre, contro l’oblio, le immagini e la memoria del campo che sarebbe stato distrutto dall’esercito israeliano durante l’invasione del 2006.

Donne e bambini in prima linea

Il capitolo intitolato “Gli israeliani e la mia casa – Nablus e Shatila: Sotto le macerie (1983); I bambini del fuoco (1990)” lega tra loro due opere a prescindere dalla data della loro realizzazione. La presenza di donne e bambini e la brutalità con cui vengono precipitati nella guerra sono ricorrenti nei film che spesso ha girato sotto il frastuono delle bombe e vivendo lei stessa le peggiori situazioni di esposizione al pericolo.

Che si tratti della Palestina occupata o dei campi dei rifugiati, non smette di mostrare il loro destino comune: in “Tortura e amore nel sud del Libano: Fiori selvatici donne del sud del Libano, 1986; Donne oltre le frontiere, 2004”, dove si ascolta Kifah Afifi rievocare la brutalità del campo di Khyam: “Sono morta cento volte ogni giorno in quella cella”, e Soha Bechara, che ha messo in gioco la propria vita per la liberazione del suo Paese, ripetere: “Non dimentichiamo la Palestina”.

La Linea Verde: la generazione della guerra – Beirut (1989)” documenta più da vicino la guerra civile libanese e gli scontri fratricidi al di là della linea di confine est-ovest della capitale, considerato “uno dei film contro la guerra più potenti del cinema arabo”, secondo il quotidiano L’Orient le jour.

Gli scomparsi della guerra civile libanese

Con “Gli scomparsi: Sogni sospesi (1992); Lanterne di memoria (2009)” entrano nell’obbiettivo della cinepresa i 17.000 scomparsi della guerra civile. A 25 anni di distanza i film testimoniano il lavoro accanito delle famiglie per ritrovare i loro cari. Wadad Hilwani, uno dei personaggi di Sogni sospesi, alla ricerca del suo sposo, crea insieme ad altri una dinamica che si ispira alla “lezione dell’Argentina, dove le madri di Plaza de Mayo hanno costretto il governo a rivelare ciò che sapeva.” La costruzione di questo processo politico di rivendicazione delle famiglie finirà per costringere a sua volta lo Stato libanese a porre la questione all’interno dell’agenda politica del Paese.

Lanterne di memoria è dedicato più specificamente al ritorno in Libano di Samir Qantar, militante del Fronte per la Liberazione della Palestina, liberato nel 2008 nel quadro di uno scambio di prigionieri negoziato da Hezbollah. Prigioniero per 27 anni, è accolto come un eroe nazionale. Verrà assassinato dagli israeliani durante un raid in Siria nel 2015.

La Palestina nei campi

In “La mia Palestina: I ragazzi di Shatila (1998)” Victoria Brittain spiega che Mai Masri indulge sul campo profughi palestinese più emblematico, presso il quale viveva, con l’obbiettivo di riferirsi ai massacri che vi furono commessi nel settembre 1982. Con tenacia, e il più delle volte con la complicità di Jean Chamoun, la regista esplora la memoria storica personale e collettiva dei palestinesi, la collega al presente, rifiuta di rinunciare al sogno e alla speranza del ritorno. In “E’ il mio Paese: Frontiere di sogni e di paure (2001)” accompagna nell’arco di cinque anni un percorso di incontro tra ragazzi dei campi di Shatila e di Dheisheh, vicino a Betlemme, descrivendo i legami che riescono a tessere al di là delle frontiere.

Contro la negazione e l’oblio

C’è poi “Museo della memoria: Diari di Beirut” (2006) sulla morte di Rafik Hariri; “Lasciate che gli arabi vedano: 33 giorni” (2007), sulla guerra del 2006. Mai Masri è dovunque, in tutti i momenti forti, quelli chiari e quelli bui. Farà anche il ritratto di Hanan Ashrawi, scrive l’autrice in “Andando avanti: Hanan Ashrawi – una donna del suo tempo (1995)”. Racconta non solo la storia delle persone, ma dà loro un volto e ci fa entrare in relazione con loro. Registra tutte le lotte, in Palestina e in Libano, accompagna una nuova generazione che lotta in continuità con coloro che hanno conosciuto il trauma del 1948, inventando forme artistiche per “prendere il controllo della narrazione”, contro la narrativa che nega la loro esistenza.

Nella sua conclusione Victoria Brittain mostra come, al di là di tutte le vicende di distruzione, violenza e tortura, Mai Masri si sia sempre sforzata di individuare i momenti di vita e di resistenza. “I suoi film sono l’antitesi degli stereotipi che disumanizzano e tolgono i loro diritti ai palestinesi”. Ciò rende uniche le sue immagini che, lungi dalla disperazione e dall’afflizione, si ostinano a cercare, anche nella più grande sofferenza, l’amore e la bellezza. In questo, dice Victoria Brittain, “lei non documenta solo ciò che viene fatto subire ai palestinesi dal 1948, ma mostra chi sono veramente.”

Marina Da Silva

Giornalista e militante di base.

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




Una fuga di notizie dimostra che il proprietario del Chelsea Abramovich ha finanziato un’associazione di coloni israeliani

Oliver Holmes

lunedì 21 settembre 2020 – The Guardian

Imprese dell’oligarca russo hanno donato 85 milioni di euro a Elad, accusata di cercare di impossessarsi di quartieri palestinesi

Secondo documenti filtrati visionati da BBC News Arabic [canale pubblico di notizie in arabo che trasmette solo in Gran Bretagna, ndtr.], imprese controllate dal proprietario del Chelsea [importante squadra di calcio inglese, ndtr.] Roman Abramovich avrebbero donato decine di milioni di sterline a un’associazione di coloni israeliani molto controversa, accusata di espellere famiglie palestinesi da Gerusalemme. Il miliardario e oligarca russo, a cui nel 2018 è stata concessa la cittadinanza israeliana, è stato un grande filantropo in Israele, ha donato cospicue somme per progetti di ricerca e sviluppo ed ha investito in imprese locali.

Tuttavia, secondo BBC News Arabic, quattro aziende di cui è proprietario o che controlla nelle Isole Vergini britanniche hanno finanziato con più di 100 milioni di dollari (circa 85 milioni di euro) Elad, un’organizzazione che appoggia colonie nel quartiere palestinese chiamato Silwan, nella Gerusalemme est occupata.

Inoltre [BBC News Arabic] aggiunge che queste cifre indicano che negli ultimi 15 anni il proprietario del club calcistico britannico è stato il maggiore donatore individuale di Elad, una parola che in ebraico significa “eterna fede di dio”. Il gruppo, che riceve sostegno anche dal governo israeliano, ha cercato di rafforzare la presenza ebraica nel quartiere di Silwan a spese dei suoi abitanti arabi.

Elad gestisce a Silwan un sito archeologico noto come la Città di Davide, che è diventato un’importante attrazione turistica. Gli scavi sono stati criticati da diplomatici dell’Unione Europea in quanto intendono ignorare la storia diversificata della città antica a favore di “una narrazione esclusivamente ebraica, slegando il luogo dal suo contesto palestinese.”

Il sito web della Città di Davide afferma di essere “impegnato a continuare l’eredità di Re Davide così come a svelare e mettere in rapporto le persone con l’antico glorioso passato di Gerusalemme attraverso quattro attività fondamentali: scavi archeologici, sviluppo turistico, programmi educativi e rivitalizzazione abitativa.”

Elad, come altre organizzazioni dei coloni, si è allargata comprando case palestinesi e utilizzando controverse leggi israeliane che consentono allo Stato di impossessarsi di proprietà palestinesi. A Silwan circa 450 coloni vivono ora vicino a circa 10.000 palestinesi.

BBC News in arabo ha scoperto le donazioni di Abramovich cercando tra migliaia di documenti filtrati che dettagliano 2 trilioni di dollari di potenziali operazioni corruttive riciclate attraverso il sistema finanziario USA.

Più di 2.000 rapporti su attività sospette (SAR) archiviati presso la Financial Crimes Enforcement Network [Rete di Controllo dei Reati Finanziari] (FinCEN) del governo USA sono stati fatti filtrare a Buzzfeed News, che li ha condivisi con il Consorzio Internazionale dei Giornalisti Investigativi, di cui la BBC fa parte.

Banche e altre istituzioni finanziarie inviano SAR quando pensano che un cliente stia usando i loro servizi per attività potenzialmente delittuose. Mentre una SAR di per sé non obbliga una banca a smettere di operare con il cliente in questione, esse segnalano azioni discutibili nascoste nel mondo finanziario.

La fuga di notizie, denominate i Documenti FinCEN, ha già scosso il settore finanziario, con accuse riguardanti la libera circolazione di denaro sporco in tutto il mondo. Lunedì le azioni del settore bancario sono crollate. In una SAR sono state anche individuate altre figure di alto profilo, come l’ex-consigliere politico di Trump, Paul Manafort.

Il servizio della BBC non dice se le imprese di Abramovich o le donazioni siano incluse in una SAR, né accusa Abramovich o le aziende di aver violato la legge di un Paese. Abramovich è stato oggetto di una SAR nel 2016 riguardo a società fantasma riguardanti i suoi affari nel calcio.

Nel reportage, mandato in onda nel suo programma di punta Panorama, BBC News Arabic cita Elad, che ha dichiarato di attenersi a tutte le norme relative alle organizzazioni no profit israeliane, ma non ha confermato se Abramovich sia stato un donatore.

Il canale di notizie ha citato un portavoce di Abramovich, che ha affermato: “(Egli) è un convinto e generoso sostenitore di Israele e della società civile ebraica e nel corso degli ultimi 20 anni ha donato oltre cinquecento milioni di dollari per sostenere il servizio sanitario, la scienza, l’educazione e le comunità ebraiche in Israele e in tutto il mondo.”

In base alle leggi internazionali le attività di insediamento su terre occupate sono considerate illegali. Israele sostiene che tutta Gerusalemme è un territorio sotto la sua sovranità, benché questa affermazione sia ampiamente rifiutata.

Il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele da parte di Donald Trump ha incoraggiato il governo israeliano e il potente movimento dei coloni. L’ambasciatore USA in Israele ed esplicito sostenitore delle colonie, David Friedman, ha partecipato ad un’inaugurazione presso la Città di Davide.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




La Corte Penale Internazionale esclude l’indagine sulla Freedom Flottiglia a Gaza

Maureen Clare Murphy 

19 Settembre 2020 – Electronic Intifada

Una giuria della Corte Penale Internazionale ha respinto il ricorso contro la decisione della procuratrice capo di non procedere nell’indagine sull’attacco mortale di Israele a una nave in acque internazionali nel 2010.

I soldati israeliani avevano ferito a morte 10 persone a bordo della Mavi Marmara  dopo aver fatto irruzione sulla nave, che era parte di una flottiglia civile intenzionata a rompere l’assedio in corso a Gaza.

La decisione della camera preliminare di questa settimana sembra porre fine a sette anni di procedimenti legali e di botta e risposta tra la procuratrice Fatou Bensouda e il collegio dei giudici che le hanno ripetutamente chiesto di riconsiderare la sua decisione di non indagare.

Bensouda ha riconosciuto che “c’è un ragionevole margine di dubbio per credere che siano stati commessi crimini di guerra” dalle forze israeliane quando sono salite a bordo della Mavi Marmara.

Ma ha insistito sul fatto che l’attacco israeliano in alto mare non è “sufficientemente grave” da giustificare un procedimento giudiziario.

I giudici hanno identificato una serie di errori che è stato chiesto a Bensouda di correggere.

Nella loro decisione di questa settimana, i giudici affermano che Bensouda “non ha veramente riconsiderato” la sua decisione del 2014 di eludere l’indagine. Secondo i giudici, ha anche “commesso nuovi errori” lo scorso anno nel riaffermare le proprie decisioni.

Gli errori includono la valutazione del pubblico ministero della gravità dell’eventuale causa derivante dai fatti.

Nella sua conferma del 2019 della decisione di non perseguire, Bensouda ha affermato che i commando israeliani che hanno preso d’assalto la Mavi Marmara sembrano essere i principali responsabili dei presunti crimini e sarebbero perciò stati al centro di qualsiasi indagine.

Ha ritenuto non esserci basi ragionevoli per credere che gli alti comandi israeliani e i leader civili non presenti sulla Mavi Marmara fossero responsabili.

Come riassumono i giudici, Bensouda ha sostenuto che l’ambito dell’eventuale causa [giudiziaria] sarebbe probabilmente limitato e che l’identificazione degli autori dei crimini di omicidio intenzionale e lesioni gravi sarebbe difficile data la “situazione caotica” durante l’attacco alla Mavi Marmara.

I giudici sottolineano che la procuratrice ha “essenzialmente escluso dall’ambito” di un’eventuale indagine, “a parte gli stessi responsabili, altre categorie di persone, dai comandanti diretti… agli alti comandi [militari] e leader israeliani”.

I giudici aggiungono che una valutazione iniziale “non dovrebbe mai portare all’esclusione di alcune categorie di persone ancor prima che le indagini siano iniziate”.

La procuratrice ha dichiarato di essere stata incaricata in fase istruttoria non di “valutare se l’indagine si sarebbe estesa” a comandanti e funzionari di alto livello, “ma se si potesse portarla avanti per i principali responsabili, chiunque fossero”.

Non considerate le nuove prove

Bensouda inoltre si è basata solo sulle informazioni messe a sua disposizione al novembre del 2014. Ciò escluderebbe le prove derivanti tra l’altro dalle testimonianze a una commissione pubblica del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e di Ehud Barak, ministro della Difesa israeliano al momento dell’attacco alla Mavi Marmara.

Le affermazioni di Bensouda sono state contestate dal governo delle Comore, di cui la Mavi Marmara batte bandiera. In un appello presentato nel marzo di quest’anno, le Comore hanno sostenuto che le prove “dimostrano che l’intera operazione è stata attentamente pianificata e diretta da diversi ministeri e dai vertici” dell’esercito israeliano.

Le richieste della camera preliminare affinché Bensouda riconsiderasse la sua decisione, tuttavia, sostenevano che la cosa “avrebbe dovuto essere condotta sulla base delle informazioni già in possesso della procuratrice.

La quale era già in possesso di informazioni che “possono ragionevolmente suggerire che ci fosseroro un’intenzione e un piano preesistenti di uccidere i passeggeri”, notano i giudici. Si tratta dell’uso di armi da fuoco da parte dei militari israeliani deciso prima dell’assalto alla Mavi Marmara.

I giudici hanno anche criticato come “prematura” la decisione della procuratrice secondo cui il presunto maltrattamento dei passeggeri sulla Mavi Marmara da parte dei soldati israeliani non si qualifica come trattamento disumano.

“La procuratrice avrebbe dovuto riconoscere che c’era una ragionevole base per credere che fosse stato commesso il crimine di guerra di tortura o di trattamento disumano”, affermano i giudici.

Aggiungono che “il deliberato rifiuto di cure mediche nella giurisprudenza della Corte e di altri tribunali [israeliani] è da considerarsi equivalente a un trattamento crudele che costituisce un crimine di guerra … o altri atti disumani costituiscono un crimine contro l’umanità”.

I soldati israeliani e la polizia negano abitualmente cure mediche ai palestinesi colpiti da colpi di arma da fuoco in quelli che Israele sostiene siano attacchi ai suoi militari, ma che in molti casi non sono altro che uccisioni illegali.

I giudici accusano inoltre la procuratrice di aver introdotto considerazioni irrilevanti ai fini della valutazione della gravità dell’eventuale causa facendo riferimento alla “resistenza violenta dei passeggeri” sulla Mavi Marmara, ipotizzando addirittura che i soldati israeliani possano aver agito per legittima difesa.

Nella sua decisione del 2014 di non indagare, Bensouda comunque ha stabilito che i passeggeri a bordo della Mavi Marmara fossero protetti dalle Convenzioni di Ginevra e che la loro uccisione o lesioni fossero crimini di guerra.

Bensouda considerava che vi fosse un margine ragionevole per credere che fosse stato commesso un crimine che rientrasse nella giurisdizione della Corte. Per questo motivo, affermano i giudici, “non è appropriato che faccia affidamento su incertezze o sull’esistenza di diverse spiegazioni plausibili in merito alla presunta attuazione dei crimini”.

I giudici incolpano il pubblico ministero anche di non aver “dichiarato come abbia valutato il danno subito dalle vittime”, portandoli a concludere che “non ha attribuito alcun peso all’impatto dei presunti crimini sulle vittime dirette e indirette”.

Questo è altro rispetto all’entità dei crimini, che “si riferisce al numero delle vittime, all’area geografica colpita e alla durata e ‘intensità nel tempo dei presunti crimini “.

Secondo i giudici l’impatto è in relazione all’entità del danno subito dalle vittime, sia esso fisico, psicologico o materiale, e affermano che il numero delle vittime registrate per partecipare al procedimento relativo all’assedio di Mavi Marmara “è vicino a 500”.

Altri casi “di gravità paragonabile o minore” rispetto alle circostanze della Mavi Marmara erano stati riconosciuti tali da giustificare ulteriori azioni da parte della Corte, notano i giudici.

La “mancata e coerente applicazione del requisito di gravità” da parte di Bensouda …. “sottopone la Corte alle critiche di doppio standard e di arbitrio”, affermano.

Conclusione scioccante

I giudici, tuttavia, alla fine hanno respinto l’appello del governo delle Comore perché si proceda nell’indagine perché non è chiaro “se e in quale misura si possa chiedere alla procuratrice di correggere gli errori individuati dalla camera (preliminare)”.

Meno di 10 paragrafi nelle 51 pagine dell’istanza sono dedicati a spiegare il rigetto.

È una conclusione scioccante, viste le critiche alla procuratrice di non aver considerato in modo soddisfacente gli errori nel resto dell’istanza.

Il rifiuto della Corte Penale Internazionale ad indagare su quei crimini di guerra sarà senza dubbio frustrante per le vittime di Mavi Marmara che invocano giustizia da più di un decennio. Ancora una volta, Israele non deve farsi carico di conseguenze durature per presunti crimini di guerra.

Ma non si è liberato della CPI.

Nel dicembre dello scorso anno, dopo una lunga indagine preliminare, Bensouda ha raccomandato al tribunale di indagare sui presunti crimini di guerra perpetrati in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza.

La stessa camera preliminare dei giudici che hanno liquidato la vicenda della Mavi Marmara presso la CPI sta attualmente valutando se il tribunale internazionale eserciti giurisdizione sul territorio palestinese occupato.

L’amministrazione Trump a Washington ha adottato una misura senza precedenti imponendo sanzioni economiche a Bensouda e a un altro membro della Corte Penale Internazionale a causa delle indagini della Corte in Afghanistan, che potrebbero portare all’incriminazione di personale statunitense, così come nella situazione in Palestina.

Nonostante le Comore abbiano portato il caso della Mavi Marmara alla Corte Penale Internazionale, si ipotizza che l’isola dell’Oceano Indiano sarà tra le prossime nazioni della Lega Araba a normalizzare le relazioni con Israele.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Per il momento la dirigenza palestinese è immune agli accordi di normalizzazione

Daoud Kuttab

18 settembre 2020 – Al-Monitor

In seguito agli accordi di normalizzazione tra EAU, Bahrein e Israele, potrebbero essere concessi incentivi finanziari all’Autorità Nazionale Palestinese, benché senza un pieno consenso palestinese nessun cambiamento sia in vista.

In tempi normali continue pressioni e l’uso combinato di carota e bastone in genere rendono più malleabile la maggior parte dei leader politici. Ma quando si ha a che fare con un conflitto durato decenni come quello israelo-palestinese e con un leader ostinato come il presidente Mahmoud Abbas, spesso le pressioni ottengono i risultati opposti.

La posizione del dirigente palestinese sembra aver sorpreso il presidente USA e la sua cerchia ristretta. Il 16 settembre il presidente Donald Trump, parlando con i giornalisti, ha rivelato le sue tattiche di pressione finanziaria nei confronti dei palestinesi. Si è vantato di aver tagliato 750 milioni di dollari di supporto annuale ai palestinesi e di aver fatto pressioni sui Paesi arabi perché facessero altrettanto.

Ho smesso di finanziare i palestinesi abbastanza presto perché stavano parlando male del nostro Paese. Quindi da subito ho smesso di finanziarli. Penso che finalmente i palestinesi stiano per rendersi disponibili [a un accordo],” ha detto Trump durante una conferenza stampa alla Casa Bianca.

Trump ha sostenuto che i due Paesi del Golfo che hanno normalizzato i rapporti con Israele smetteranno di finanziare i palestinesi. Tuttavia il ministro dell’Economia degli EAU Abdullah bin Touq Al Marri ha lasciato intendere che, invece di tagliare gli aiuti, gli Emirati Arabi Uniti stanno prendendo in considerazione investimenti sia in Israele che nei territori palestinesi, affermando che nei loro impegni economici bilaterali gli EAU ed Israele stanno progettando di includere alcune aree palestinesi.

Finora i palestinesi si sono opposti agli accordi, una posizione che si è ulteriormente rafforzata quando David Friedman, ambasciatore [USA] in Israele si è messo nei guai allorchè ha pubblicamente chiesto che Abbas venga sostituito da Mahmoud Dahlan [ex-responsabile dell’intelligence di Fatah a Gaza ed espulso dall’organizzazione per aver partecipato all’assassinio di Arafat e per corruzione, ndtr.], l’ex-leader di Fatah che vive negli EAU.

In un’intervista su Israel Hayom [giornale israeliano gratuito di destra, ndtr.] è stato chiesto a Friedman se l’amministrazione Trump stesse cercando di “nominare” Dahlan nuovo leader palestinese. Secondo l’articolo di Israel Hayom, Friedman ha risposto: “Ci stiamo pensando.” Ed ha aggiunto: “Non vogliamo progettare la dirigenza palestinese.” In seguito Friedman ha affermato che intendeva dire: “Non ci stiamo pensando.”

Ma, indipendentemente dalle sue intenzioni, il danno era stato fatto. L’attivista palestinese Dimitri Diliani, di Gerusalemme, portavoce della cosiddetta ala riformista di Fatah, ha stigmatizzato le affermazioni di Friedman, insistendo sul fatto che i palestinesi continueranno a scegliersi i propri dirigenti.

La dichiarazione di Friedman ha persino obbligato Dahlan a fare altrettanto. Dahlan ha twittato: “Chiunque non sia eletto dal proprio popolo non può guidarlo e raggiungere l’indipendenza nazionale…Penso fermamente che la Palestina abbia disperatamente bisogno di rinnovare la legittimità di qualunque dirigenza e istituzione palestinese, e ciò si otterrà solo attraverso corrette elezioni nazionali e non è ancora nato chi possa imporci la propria volontà.”

Invece di obbligare Abbas ad ammorbidire la sua posizione, le pressioni di USA e EAU sembrano avergli dato una nuova vitalità politica.

Si potrebbe sostenere che l’appoggio popolare emerso a favore di Abbas sarà di breve durata, ma la situazione è che i palestinesi stanno godendo di una rara atmosfera di unità nazionale. Di fronte a un pericolo esiziale sia l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina che i dirigenti islamici hanno seppellito l’ascia di guerra per rafforzare la pace, mettendo da parte le differenze tra loro.

Mentre i rivali politici di Abbas sono in svantaggio, l’opinione pubblica è ancora scettica riguardo alla dirigenza e alla strategia. Gli attuali tentativi di intensificare la resistenza popolare non sono riusciti a prendere piede. Mentre i dirigenti palestinesi stanno ancora guidando macchine di lusso e vivono agiatamente, la popolazione palestinese sta soffrendo e i dipendenti pubblici non ricevono lo stipendio.

L’impatto definitivo degli accordi sulla dirigenza palestinese alla fine porterà alle elezioni a lungo attese. Un complessivo riesame popolare degli obiettivi, dei mezzi e della dirigenza per una nuova strategia per la liberazione può essere fatto solo all’interno di un contesto di elezioni sia legislative che presidenziali, così come con la riconvocazione dei rappresentanti del Consiglio Nazionale Palestinese [organo legislativo dell’OLP, che negli ultimi 22 anni si è riunito solo una volta, ndtr.]. Il tentativo di unità nazionale verrà preso seriamente solo quando sarà annunciata la data per le elezioni e verrà riformata l’OLP.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




COVID-19 in Palestina: annessione nella Valle del Giordano

Yumna Patel

17 settembre 2020 – Mondoweiss

Se seguite le notizie su Israele e Palestina, avrete probabilmente sentito parlare della Valle del Giordano.

È l’area del territorio palestinese che si trova al confine tra la Giordania e la Cisgiordania occupata. È un’enorme superficie di terra, che si estende per oltre 100 chilometri e costituisce quasi un terzo dell’intera Cisgiordania.

È inoltre una delle principali aree di cui Israele ha previsto l’annessione – una politica che vedrebbe il governo israeliano imporre unilateralmente la sua sovranità su migliaia di ettari di terra palestinese occupata.

Si dà il caso che in base al diritto internazionale questa politica sia illegale e che sia stata ampiamente condannata dalla comunità internazionale.

Nell’ambito della serie di puntate sul COVID-19 in Palestina ci siamo recati nella Valle del Giordano per vedere com’è lì la vita per i palestinesi mentre combattono due battaglie: una contro il coronavirus e una contro l’annessione.

Mentre attraversiamo la Valle del Giordano è possibile notare decine di gruppi di piccoli villaggi e accampamenti.

Molti palestinesi qui sono in realtà beduini e comunità di pastori che dipendono per il loro stile di vita dall’agricoltura. Ma a causa dei piani di annessione di Israele sono minacciati di sfollamento forzato, minaccia che affermano si sia effettivamente accentuata durante il periodo della pandemia di coronavirus.

“La pandemia da coronavirus è ovunque nel mondo ma nelle aree palestinesi, in particolare nella Valle del Giordano abbiamo due pandemie: la pandemia dell’occupazione [israeliana] e poi il coronavirus”, dice a Mondoweiss Motaz Bisharat, un attivista palestinese che abita nel nord della Valle del Giordano.

In quest’area l’occupazione – afferma – è per noi persino peggiore della pandemia da coronavirus. Le forze di occupazione hanno approfittato della pandemia da coronavirus per impossessarsi di altre porzioni del territorio della Valle del Giordano”.

Secondo Bisharat durante l’epidemia da coronavirus Israele ha confiscato nella valle del Giordano settentrionale oltre 1800 ettari di terra di proprietà palestinese e l’ha posta sotto il controllo dello Stato.

Abdelrahim Abdallah, abitante di al-Hadidiya, un piccolo borgo nella valle del Giordano settentrionale, è uno delle centinaia di palestinesi della zona a cui nel corso della pandemia da coronavirus è stata confiscata la terra e che hanno subito la minaccia di demolizione delle loro case.

L’assistenza sanitaria è un diritto dell’uomo. Il governo israeliano dovrebbe avere un po’ di umanità a ragione di questa emergenza e della pandemia che ha attaccato il mondo intero”, afferma Abdallah a Mondoweiss dall’interno della sua casa – una piccola tenda di incerata appoggiata su una lastra di cemento.

“Invece hanno accentuato i loro attacchi e le pressioni su di noi: raid notturni, arresti, divieti di pascolo e attacchi ai terreni agricoli”, aggiunge Abdallah. “Questo è ciò che stanno facendo le forze di occupazione.”

Dall’inizio della pandemia Abdallah e suo figlio, insieme ad altri uomini del villaggio, sono stati arrestati in varie occasioni dalle forze israeliane.

Abdallah afferma che in una circostanza le forze israeliane lo hanno accusato di “aver rubato l’acqua” da una sorgente naturale posta nel territorio palestinese, ma sottratta dai coloni israeliani durante la pandemia.

All’una del mattino sono arrivati più di 100 soldati e ci siamo svegliati con loro in piedi davanti a noi”, afferma. “Ci hanno arrestati e ci hanno ammanettati, ci hanno coperto gli occhi e ci hanno portato in una base militare a pochi chilometri di distanza”.

“Ci hanno tenuti lì dall’una di notte alle nove – racconta Abdallah – senz’ acqua, senza liberarci le mani e senza nemmeno permetterci di usare il bagno”.

Oltre ad affrontare le aggressioni quotidiane da parte dei militari israeliani, le comunità palestinesi della Valle del Giordano vivono senza avere accesso ai beni di prima necessità come l’elettricità, l’acqua corrente e all’assistenza sanitaria.

L’ospedale o la clinica più vicini dove fare il test per COVID-19 si trova a circa 25 chilometri da al-Hadidiya e per arrivarci si impiegano 30 minuti in auto.

Anche se i residenti potessero avere la disponibilità di un veicolo privato dovrebbero percorrere strade non asfaltate e superare lungo il percorso una serie di posti di blocco e insediamenti militari israeliani.

“Per tutta la nostra esistenza non abbiamo certo avuto una vita decente perché l’occupazione ci ha negato tutto ciò di cui abbiamo bisogno per vivere”, dice Abdallah.

“L’unica cosa che non possono negarci è l’aria che respiriamo. Se potessero negarcela, lo farebbero”.

Motaz Bisharat sottolinea il fatto che “la Quarta Convenzione di Ginevra prevede che lo Stato occupante si assuma la responsabilità dell’area occupata”.

“Dovrebbero fornire assistenza sanitaria, istruzione, acqua e tutto il resto“, afferma. “Ma ciononostante l’occupazione non offre assolutamente nulla”.

Ad agosto Israele ha raggiunto un accordo con gli Emirati Arabi Uniti, il che ha reso gli Emirati il terzo Paese arabo a normalizzare le relazioni con Israele.

Come parte dell’accordo gli Emirati Arabi Uniti hanno rivendicato la responsabilità di aver fermato l’annessione. Ma i palestinesi della Valle del Giordano affermano che nella realtà l’annessione è in corso da anni, specialmente durante la pandemia da coronavirus, ed è una politica che Israele probabilmente non smetterà mai di cercare di applicare.

“Il presupposto secondo cui gli Emirati Arabi Uniti avrebbero stipulato questo accordo con Israele per fermare l’annessione è una totale assurdità“, sostiene Bisharat. “Qualsiasi civile, qualsiasi leader, qualsiasi politico nel mondo che afferma che l’occupazione ha fermato l’annessione sta delirando“.

Le forze di occupazione hanno fatto l’opposto. Hanno accentuato gli attacchi e hanno scoperto che il coronavirus rappresenta la migliore occasione per portare a termine il loro piano di annessione sul campo”.

“Il nostro messaggio al mondo, alle persone libere del mondo, è di mettere il loro Paese al posto della Palestina”, dice Abdallah. “Accetteresti che i tuoi figli vivano come vivono i bambini palestinesi? Accetteresti di perdere i tuoi diritti come i palestinesi, che non hanno (più) diritti?”

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Il principale sindacato del Regno Unito approva una mozione anti-apartheid contro Israele

17 settembre 2020 – Palestine Chronicle

Il principale sindacato britannico, il Trades Union Congress [Congresso dei Sindacati] (TUC), ha approvato una mozione che riconosce Israele come Stato che pratica l’apartheid e fa appello di continuare ad appoggiare il popolo palestinese.

Martedì il TUC, che ha quasi sei milioni di iscritti, ha votato a favore di una mozione presentata da Unite the Union [Unire il Sindacato, il più grande sindacato generale del Regno Unito, ndtr.] che si oppone al piano dell’attuale governo israeliano di annettere oltre il 30% della Cisgiordania.

La mozione identifica l’annessione come “un ulteriore considerevole passo nella creazione di un sistema di apartheid” ed è stata accolta positivamente dai rappresentanti della società civile palestinese.

La mozione è giunta una settimana dopo una dichiarazione rilasciata da oltre 20 associazioni benefiche, sindacati, gruppi religiosi e organizzazioni della società civile che chiede agli enti pubblici di “assumersi le proprie responsabilità etiche e giuridiche per garantire che i diritti umani e le leggi internazionali vengano rispettati,” come risposta agli illegali progetti di annessione da parte di Israele.

“Il Congresso rimane unito nella sua totale opposizione all’intenzione dichiarata del governo israeliano di annettere vaste parti della Cisgiordania,” afferma la mozione del TUC, definendo l’iniziativa come “illegale in base alle leggi internazionali” che “afferma chiaramente che da parte di Israele non c’è alcun tentativo di porre fine all’occupazione e di riconoscere il diritto del popolo palestinese all’autodeterminazione.”

Una simile iniziativa “sarebbe un’ulteriore significativo passo nella creazione di un sistema di apartheid,” afferma il TUC.

“Per troppo tempo la comunità internazionale è rimasta a guardare mentre allo Stato israeliano veniva consentito di perpetrare i propri crimini e ciò non può più essere tollerato o accettato,” prosegue la mozione. “È ora urgente e necessaria un’azione decisiva riguardo alle attività di Israele contro i palestinesi.”

Il congresso del TUC invita a “sostenere pienamente e a giocare un ruolo attivo nelle attività della Campagna di Solidarietà con la Palestina per costituire un’ampia coalizione contro la prevista annessione israeliana e per sollecitare ogni affiliato a fare altrettanto.”

Verrà inviata una lettera al primo ministro britannico “per chiedere che il Regno Unito prenda misure ferme e risolute, comprese sanzioni, per garantire che Israele smetta o receda dall’annessione illegale, ponga fine all’occupazione della Cisgiordania e al blocco di Gaza e rispetti il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Perché i leader arabi si inchinano improvvisamente all’opportunità di normalizzare i rapporti con Israele

Miko Peled

17 settembre 2020MintPress News

I leader arabi capiscono che i rapporti con Israele forniscono l’accesso all’impero USA e a tutto ciò che ne deriva, compresi gli agognati armamenti statunitensi ed altri vantaggi come la cooperazione economica e per la sicurezza.

Mentre scrivo queste parole i Ministri degli Esteri degli Emirati Arabi Uniti e del Bahrein sono a Washington per firmare accordi di normalizzazione dei rapporti tra i loro Paesi e lo Stato di Israele. Mentre gli Stati Uniti ed Israele sono rappresentati dal Presidente Donald Trump e dal Primo Ministro Benjamin Netanyahu, gli Stati arabi hanno inviato alla cerimonia per la firma i loro ministri degli esteri in rappresentanza dei loro Paesi. Ciò potrebbe avere a che fare meno con il protocollo quanto piuttosto con il fatto che sia Trump che Netanyahu stanno lottando per la propria vita politica e per loro questa è stata un’esibizione di pubbliche relazioni estremamente necessaria.

Lo spettacolo odierno appare ben lontano dalla posizione risoluta, di principio e coraggiosa presentata dai leader arabi a Kartoum quasi esattamente 53 anni fa. Appena dopo l’attacco israeliano alle terre arabe nel 1967, mentre le canne dei fucili erano ancora fumanti, nella capitale sudanese Kartoum fu convocata una riunione dei capi degli Stati arabi. Questo incontro produsse una coraggiosa risoluzione che affermava il rifiuto del riconoscimento, di negoziati e della pace con Israele. Gli eserciti arabi dell’Egitto, il più grande degli Stati arabi, della Siria e della Giordania vennero completamente distrutti, circa 18.000 soldati arabi uccisi e centinaia di migliaia di civili restarono senza casa, eppure i leader degli Stati arabi furono fermi nel dire “no” al potente aggressore, Israele.

La risoluzione degli Stati arabi di respingere il brutale regime di apartheid israeliano fu accettata nell’agosto 1967 al summit della Lega Araba, appena due mesi dopo che Israele aveva decimato gli eserciti di tre Stati arabi ed aveva occupato con la violenza le alture del Golan siriano, la penisola del Sinai egiziana ed aveva completato la conquista della Palestina occupando la Cisgiordania, Gerusalemme est e la Striscia di Gaza.

La risoluzione, che in seguito venne conosciuta come quella dei “tre no”, viene tuttora usata dalla propaganda sionista per dimostrare la mancanza di volontà degli Stati arabi di fare la pace con Israele e riconoscere il cosiddetto Stato ebraico. Tuttavia, alla luce del mortale attacco israeliano a questi Paesi, il loro rifiuto di capitolare fu eroico. Ciò che invece è deplorevole è il successo del movimento sionista nel ribaltare l’impegno arabo per la Palestina. Passo dopo passo, a partire dallo Stato più grande, l’Egitto, e poi la Giordania, ed ora gli Stati del Golfo e persino il Sudan, i regimi arabi sono andati “normalizzando” i rapporti con Israele.

 

Accesso all’impero

Se si potesse solo per un momento mettersi nei panni del capo di uno Stato arabo, cosa si proverebbe? Si vedrebbe che i Paesi arabi che erano determinati nell’appoggiare la causa palestinese sono ora distrutti. A partire dall’Iraq, lo Yemen, la Libia e la Siria. La punizione di quelli che non hanno voluto arrendersi è stata dura. A parte c’è l’Iran, che mentre per ora è al riparo da un attacco militare totale, soprattutto perché gli USA ed Israele non sono in grado di affrontare di petto le forze iraniane, sta soffrendo molto a causa di dure sanzioni.

I rapporti con Israele danno accesso agli agognati armamenti di fabbricazione USA e ad altri vantaggi, come la cooperazione economica e per la sicurezza. Che scelta potrebbe essere fatta nei panni di leader di uno Stato Arabo? I commentatori della CNN hanno ripetutamente affermato che i leader degli EAU e del Bahrein, e forse di altri Stati arabi che presto normalizzeranno i rapporti con Israele, hanno deciso di abbandonare la causa palestinese e di concentrarsi su altre questioni come la cooperazione economica e il turismo, e porre le necessità e sicuramente il futuro dei propri Paesi al di sopra della questione palestinese.

E’ facile criticare gli Stati arabi per aver voltato le spalle ai loro fratelli e sorelle palestinesi. Tuttavia Paesi più grandi ed influenti non si comportano diversamente. Russia, Unione Europea, Cina e India fanno una quantità di affari con Israele e si sono da tempo scordati dei palestinesi. Israele è riuscito a cancellare la causa palestinese dalla scena mondiale. A prescindere da quanto frequenti siano gli attacchi israeliani contro Gaza, o da quanto siano feroci, a prescindere da quanti palestinesi siano detenuti nelle carceri israeliane e da quanto drammatiche siano le condizioni di vita dei palestinesi, Israele è riuscito a far voltare il mondo dall’altra parte.

L’opposizione

Ci sono state informazioni circa una resistenza popolare in Bahrein da parte di gruppi che si oppongono alla normalizzazione dei rapporti con Israele e giustamente la considerano un tradimento del popolo palestinese. E’ probabile che queste voci verranno velocemente messe a tacere dal governo del Bahrein.

Inoltre fonti del governo del Kuwait hanno informato che “la posizione del Kuwait nei confronti di Israele non è cambiata dopo il suo accordo con gli Emirati Arabi Uniti”. Dirigenti del Kuwait hanno anche negato ad aerei israeliani il diritto di volo nello spazio aereo del Paese.

Il Sudan

I tentativi di Israele di costruire alleanze vanno oltre la penisola arabica e si spingono anche in Africa. Il Primo Ministro sudanese Abdalla Hamdokmet ha recentemente incontrato il Segretario di Stato USA Mike Pompeo, che ha visitato il Sudan dopo un viaggio per incontrare dirigenti israeliani a Gerusalemme. Israele è stata la prima tappa di Pompeo in un tour ideato per convincere ulteriori Paesi arabi a normalizzare i legami con lo Stato sionista. Inoltre ci sono conferme che la visita a Kartoum del Segretario di Stato USA era finalizzata a discutere i rapporti tra Sudan ed Israele.

Il Primo Ministro sudanese ha detto a Pompeo che il suo governo “non aveva mandato per normalizzare i rapporti con Israele” ed ha aggiunto che la cancellazione del Sudan dall’elenco degli Stati che sponsorizzano il terrorismo non dovrebbe essere correlata alla normalizzazione dei rapporti con Israele. Chiaramente la cancellazione da quell’elenco è la carota che Pompeo sta offrendo al Sudan.

Dopo l’incontro il Dipartimento di Stato USA ha affermato in una dichiarazione che Pompeo e Hamdok hanno discusso di “positivi sviluppi nei rapporti tra Sudan ed Israele”, cosa che non dovrebbe sorprendere. E’ difficile immaginare che la leadership sudanese possa osare rifiutare un’offerta degli USA, sicuramente non una attraente come la cancellazione dell’etichetta di Stato sponsor del terrorismo, che aprirebbe le porte e consentirebbe la crescita economica della Nazione africana.

Ora torniamo un attimo indietro e presumiamo di essere il capo di una Nazione africana o araba. La scelta è tra capitolare e accettare rapporti con il regime di apartheid israeliano, il che aprirebbe nuove possibilità economiche, e mantenere una posizione ferma e di principio, e subire devastazioni per una guerra o soffocare lentamente a causa di sanzioni.

Miko Peled è uno scrittore e attivista per i diritti umani, nato a Gerusalemme. E’ autore di “Il figlio del generale. Viaggio di un israeliano in Palestina”, e “Ingiustizia, la storia dei cinque della Fondazione Terra Santa.”

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di MintPress News.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)

 

 




I palestinesi indicono la “giornata della rivolta” contro l’accordo di normalizzazione tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrain

Shatha HammadMohammed al-Hajjar

15 settembre 2020 – Middle East Eye

Un nuovo gruppo della società civile palestinese costituito da diverse fazioni ha protestato martedì contro la firma dei controversi accordi.

I palestinesi della Striscia di Gaza e della Cisgiordania occupata sono scesi in piazza per denunciare gli accordi di normalizzazione firmati martedì a Washington tra Israele, Bahrain ed Emirati Arabi Uniti (EAU).

Sia l’Autorità Palestinese (ANP) che il movimento di Hamas, che governa la Striscia di Gaza, hanno condannato gli accordi mediati dagli Stati Uniti come una “pugnalata alle spalle” al loro popolo.

Dalla prima mattina di martedì si sono svolte manifestazioni nella Cisgiordania occupata a Ramallah, Tulkarem, Nablus, Gerico, Jenin, Betlemme e Hebron, in altre località più piccole nonché a Gaza.

I manifestanti hanno cantato ed esposto cartelli che denunciavano la normalizzazione e si appellavano all’unità araba contro l’occupazione israeliana. 

Martedì il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e gli alti diplomatici degli Emirati Arabi Uniti e del Bahrain hanno firmato gli accordi per normalizzare le loro relazioni, senza alcun progresso verso un accordo israelo-palestinese.

Ismail Haniyeh, leader di Hamas, che martedì era a Beirut per un incontro con i segretari delle fazioni palestinesi, ha detto al presidente Mahmoud Abbas al telefono che tutte le fazioni palestinesi erano unite contro l’accordo e “non permetteranno che la causa palestinese sia un ponte per il riconoscimento e la normalizzazione della potenza occupante a scapito dei nostri diritti nazionali, della nostra Gerusalemme e del diritto al ritorno”.

Lunedì, il primo ministro palestinese Mohammad Shtayyeh ha descritto gli accordi come un altro “giorno nero” per il mondo arabo.

“Un’altra data da aggiungere al calendario della disgrazia palestinese”, ha detto, aggiungendo che l’Autorità Nazionale Palestinese dovrebbe “rettificare” le proprie relazioni con la Lega Araba a causa del rifiuto di condannare i due accordi di normalizzazione conclusi nel mese scorso.

Il ministro degli Esteri del Bahrain Abdullatif al-Zayani e il ministro degli Affari Esteri degli Emirati Arabi Uniti Abdullah bin Zayed bin Sultan Al Nahyan sono arrivati a Washington domenica, mentre Netanyahu è arrivato lunedì nel pieno delle molte richieste in Israele di dimissioni per le indagini in corso sulla sua corruzione e la cattiva gestione del suo governo della pandemia di coronavirus.

Il Bahrain e gli Emirati Arabi Uniti non hanno combattuto guerre contro Israele, a differenza di Egitto e Giordania, che hanno firmato trattati di pace con Israele rispettivamente nel 1979 e nel 1994.

“Giornata di rivolta popolare”

Un nuovo gruppo della società civile, costituito da varie fazioni, ha chiamato martedì a una “giornata di rivolta popolare” in coincidenza con la firma dell’accordo.

Il gruppo, chiamato Leadership Palestinese Unita per la Resistenza Popolare (UPLPR), si è formato la scorsa settimana dall’incontro tra i leader di tutte le fazioni politiche palestinesi nella capitale libanese Beirut.

Nella sua prima dichiarazione, il gruppo ha lanciato un appello per manifestazioni nazionali –definite “il giorno nero” – in tutti i territori palestinesi per chiedere la cancellazione del cosiddetto “accordo del secolo” e dell’occupazione israeliana. 

Ha lanciato anche un altro giorno di protesta – denominato “giorno di lutto” – per venerdì, durante il quale dovranno essere issate bandiere nere per esprimere il rifiuto dell’accordo di normalizzazione.

Martedì, le proteste sono iniziate alle 11 in tutta la Cisgiordania occupata.

A Hebron, secondo un corrispondente di Middle East Eye, a Bab al-Zaweya, al termine di una manifestazione sono scoppiati piccoli scontri tra giovani palestinesi e forze israeliane.

Fahmy Shaheen, rappresentante delle forze nazionali e islamiche a Hebron, ha affermato che le proteste in città riflettono la rabbia per i conflitti praticamente quotidiani tra gli abitanti, i coloni israeliani e le forze dell’esercito a causa della continua espansione degli insediamenti nella città storica.

“Stiamo manifestando il nostro rifiuto alla normalizzazione perché avviene a scapito dei diritti e dei sacrifici del popolo palestinese”, ha detto Shaheen a MEE.

“È anche un omaggio gratuito a Stati Uniti e Israele, offerto a scapito delle aspirazioni arabe alla libertà. Non contiamo sui regimi arabi che stanno svendendo le aspirazioni dei loro popoli e la nostra causa palestinese. Contiamo piuttosto sul popolo arabo che è unito [nella sua convinzione] che la causa della Palestina sia fondamentale”.

Anche Jamal Zahalka, a capo del partito Assemblea Nazionale Democratica, che martedì stava prendendo parte a una protesta a Wadi Ara, ha descritto la firma dell’accordo di normalizzazione come “un regalo pericoloso dagli Emirati Arabi Uniti e dal Bahrein a Trump e Netanyahu, vittime di una soffocante crisi politica nei loro paesi”.

“Oggi, gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrain dichiarano di sostenere l’occupazione israeliana contro il popolo palestinese. Ciò che si sta discutendo non è la normalizzazione, ma piuttosto un’alleanza strategica”, ha detto.

“Chiunque stringa alleanza con Israele non potrà mai stare con il popolo palestinese e con i suoi giusti diritti”.

Faisal Salameh, capo del comitato popolare di Tulkarem, ha detto a MEE che le manifestazioni hanno portato “un messaggio di amore e rispetto per tutti i popoli arabi”, nonostante le critiche ai governi degli Emirati Arabi Uniti e del Bahrain.

Razzi e proteste da Gaza

Appena firmati gli accordi a Washington, sono giunte notizie di diversi razzi lanciati verso Israele dalla Striscia di Gaza. Sebbene non sia chiaro quale fosse il gruppo responsabile del lancio di razzi, Israele ritiene il movimento di Hamas responsabile di tutti gli attacchi dall’enclave.

Si sono viste a Gaza anche manifestazioni per tutto il giorno, con centinaia di persone che marciavano contro l’accordo di normalizzazione.

I manifestanti si sono radunati davanti al palazzo dell’Unesco a Gaza per esprimere la loro disapprovazione all’accordo.

Abdel-Haq Shehadeh, membro della più alta leadership del movimento di Fatah a Gaza, ha criticato gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrain per non aver rispettato l’Iniziativa di Pace araba del 2002, che delineava tutti i passi per porre fine al conflitto israelo-palestinese.

Shehadeh ha detto che vorrebbe chiedere a qualsiasi paese stia pensando di seguire le orme degli Emirati Arabi Uniti e del Bahrain di fermarsi e riconsiderare, sottolineando di non credere che la gente nel mondo arabo sia d’accordo con una scelta simile – messaggio rimbalzato martedì durante le proteste palestinesi.

Durante la manifestazione Ismail Radwan, alto funzionario di Hamas, ha definito l’iniziativa guidata dagli Stati Uniti “un pugnalata alle spalle del popolo palestinese” e ha assicurato che si stava organizzando “una strategia globale e unificata di tutte le fazioni palestinesi per contrastare Israele”.

“Ai governanti degli Emirati e del Bahrain: avete dismesso il sostegno al popolo palestinese ma le generazioni palestinesi non dimenticheranno le vostre scelte”, ha detto Radwan, lodando i cittadini che nei due paesi si erano espressi contro le decisioni dei loro governi.

A Washington, 50 ONG hanno lanciato una protesta davanti alla Casa Bianca durante la cerimonia della firma per esprimere la loro opposizione.

Martedì anche le fazioni palestinesi in Libano hanno organizzato proteste per condannare l’accordo.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Gli accordi di Abramo visti da Gaza: “È la fine della nazione araba. La vecchia guardia ha fallito”

Umberto De Giovannangeli

16 settembre 2020 Globalist

Quei missili lanciati da Gaza, e l’immediata risposta israeliana, raccontano che la pace, quella vera, non può prescindere dai palestinesi. “Non ci sarà nessuna pace in Medio Oriente finché durerà l’occupazione israeliana dei territori palestinesi”, scandisce il presidente Abu Mazen. “È un giorno buio”, ripete il premier palestinese Mohammed Shtayyeh.

  “Tradimento” grida la folla scesa in strada a Ramallah. E dalla Striscia di Gaza, controllata da Hamas, diversi razzi sono stati lanciati nella notte su Israele, inducendo decine di migliaia di residenti di Asheklon e Ashdod a precipitarsi nei rifugi antiaerei. Due soli i feriti, stando a quanto riferiscono i media locali, ma la paura è grande. In risposta, aerei ed elicotteri da combattimento israeliani avrebbero colpito “10 obiettivi terroristici di Hamas a Gaza”Fra questi, fa sapere il portavoce militare israeliano, anche degli stabilimenti per la produzione di armi e di esplosivi nonché una base di addestramento utilizzata per condurre esperimenti nei lanci di razzi. “La organizzazione terroristica di Hamas – ha precisato il portavoce militare israeliano – è responsabile di ogni evento che abbia origine dalla Striscia”. Un chiaro riferimento agli attacchi di ieri verso le città israeliane. 

Sulla escalation di violenza in mattinata è intervenuto anche Netanyahu. “Non mi stupisco dei terroristi palestinesi – ha detto il premier in partenza da Washington-. Hanno sparato contro Israele proprio durante una cerimonia storica. Vogliono far retrocedere la pace, ma non ci riusciranno. Noi colpiremo chiunque tenti di colpirci, ma porgiamo una mano di pace a quanti vogliono la pace con noi”. Al ritorno in Israele, ha aggiunto, lo attendono adesso tre compiti urgenti: “Combattere il coronavirus, combattere il terrorismo ed allargare il cerchio della pace“.

Punto di non ritorno

Per cogliere gli umori della gente palestinese, Globalist ha scelto di affidarsi alle considerazione di un giovane intellettuale palestinese, non arruolato in una delle tante fazioni dell’arcipelago palestinese: Muhammad Shehada,  scrittore e attivista della società civile della Striscia di Gaza.

“Oggi il Medio Oriente è giunto un punto di non ritorno – annota Shehada su Haaretz -. Non che un leader palestinese avrebbe potuto fermare la frenesia della normalizzazione tra il Golfo e Israele. Ma la debolezza, il cinismo e la frammentazione dei leader palestinesi ora in carica hanno criticamente minato ogni potenziale capacità di prevenire, ritardare, impegnarsi o rispondere in modo significativo all’innovativo strisciare degli Emirati Arabi Uniti e del Bahrein verso Israele, e verso Donald Trump. Questo non ha impedito agli eserciti troll saudita e degli Emirati Arabi Uniti di investire i loro sforzi nell’incolpare i palestinesi per il loro stesso abbandono, non offrendo alcuna ragione chiara per l’abbandono dei loro regimi di quella che una volta era la causa del consenso della regione. Questa settimana, almeno un leader palestinese ha raccolto parole di lotta. Il primo ministro palestinese Mohammad Shtayyeh ha dichiarato lunedì che “Domani, l’iniziativa di pace araba muore, così come il consenso arabo… [è] un giorno buio nella storia della nazione araba e della Lega araba”.  Il tradimento della Palestina da parte degli Emirati Arabi Uniti infrange finalmente il mito della nazione araba. L’amore tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti è stata una pubblicità provocatoria, non un affare di pace. Il problema con i monarchi del Golfo – famosi per la brutale repressione delle loro popolazioni – non è mai stata la loro mancanza di consapevolezza delle tribolazioni che i palestinesi subiscono. I loro difetti fatali sono la mancanza di coscienza, l’assenza di una bussola morale e la priorità degli interessi egoistici: mantenere i loro troni e far progredire la loro egemonia regionale. Nessun discorso emotivo o anche solo eloquente potrebbe influenzare i regimi arabi autocratici a rinunciare a vendere la causa palestinese a buon mercato, solo azioni drastiche. I leader dell’Autorità palestinese lo sapevano fin troppo bene, ma non sono riusciti a gestire questo rischio: hanno ripiegato sui discorsi.

Negli ultimi quattro anni  prosegue Shehada – è stato chiarissimo che i regimi arabi si sono mossi verso la normalizzazione. Mentre l’Autorità Palestinese  ha investito grandi sforzi nell’approfondire i rapporti con i governi europei, ha fatto molto meno per rafforzare i rapporti con i Paesi arabi nel proprio cortile di casa – e ancor meno per contrastare la corsa alla normalizzazione.

Invece, i funzionari dell’AP ci hanno assicurato in ogni occasione che la sua posizione regionale era eccellente e che nessuno Stato arabo avrebbe mai osato staccarsi dal consenso di lunga data sull’Iniziativa di pace araba.  Seriamente e incautamente, il capo negoziatore palestinese Saeb Erekat ha sfidato il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu a nominare un Paese arabo con il quale Israele ha migliorato le sue relazioni. Più recentemente, Erekat ha dichiarato che il Bahrein è ‘pienamente impegnato’ nell’Iniziativa di pace araba, il che significa nessun riconoscimento unilaterale di Israele senza un progresso verso uno Stato palestinese. Sei giorni dopo è stato annunciato l’accordo Bahrein-Israele. Erekat era ingenuo, fuorviato  o cieco a ciò che non voleva vedere? Nel corso degli ultimi quattro anni i leader palestinesi hanno volontariamente presentato le dichiarazioni ufficiali senza senso dei regimi del Golfo come promesse di ferro. Questo è servito ad alleviare le preoccupazioni dell’opinione pubblica, assicurandogli (erroneamente) che i loro interessi e diritti erano protetti. Nel frattempo, quei leader palestinesi non hanno reagito con sufficiente forza all’aumento delle prove sul terreno della strisciante normalizzazione.  Questa strategia è nata da una serie di ipotesi radicalmente superate, se non addirittura auto-elusive, su gran parte del mondo arabo. L’Autorità Palestinese ha dato per scontata la lealtà di un regime arabo di base alla causa palestinese. La sua strategia è nata da una serie di ipotesi radicalmente superate, se non addirittura auto-elusive, su gran parte del mondo arabo. L’Autorità palestinese ha dato per scontata la fedeltà di un regime arabo di base alla causa palestinese: era un presupposto fatalmente falso. Credeva che la causa palestinese godesse ancora dello stesso potere simbolico di sempre, non ultimo per i governanti arabi che tradizionalmente usavano la questione per mobilitare, placare e distrarre il loro pubblico.

Ma il Medio Oriente è coinvolto in altri conflitti, crisi e distrazioni. L’Autorità Palestinese ha anche lavorato con l’errata convinzione che l’equità e la giustezza della nostra causa sarebbero ancora sufficienti per ottenere simpatia e sostegno da parte dei governanti arabi. ‘Ciò che ci lega al mondo arabo non sono solo le relazioni o gli interessi, è il sangue e il sangue non diventerà mai acqua’, mi disse una volta un alto funzionario dell’AP. Quella falsa fiducia ha portato la leadership dell’AP a sedersi tra il pubblico, ma poi, scioccato, si è affrettato ad agire ogni volta che sono arrivate notizie di paesi arabi che si avvicinavano alla piena normalizzazione.

Capolinea per la vecchia guardia

La strategia dell’AP o la sua mancanza, è nata dal presupposto che il diritto prevarrà sempre inevitabilmente sulla falsità, l’ingiustizia e l’oppressione. Tutto quello che dovevano fare era stare fermi, resistere alla pressione e aspettare che le condizioni maturassero a loro vantaggio.  Più l’AP ha aspettato con ansia e si è bloccata, per quanto amaramente, con lo status quo, più ha perso. Come recita l’adagio arabo ‘Un diritto non si perde mai, finché qualcuno si sforza di rivendicarlo’. Gli attuali leader palestinesi non sono riusciti a lottare adeguatamente per i diritti dei palestinesi. Tanto per cominciare, il raggiungimento dell’unità palestinese avrebbe dovuto essere la loro priorità assoluta, in modo che la comunità internazionale potesse prenderci sul serio e che nessuno dei due campi palestinesi minasse l’altro. Per mantenere viva la lotta, per fare notizia piuttosto che reagire sempre ad essa, i leader palestinesi dovrebbero partecipare ad atti di resistenza popolare e non violenta, piuttosto che partecipare ad interminabili vertici in sale conferenze patinate. Mobilitare una simpatia e un sostegno più attivo nel mondo arabo sarebbe un monito ai governanti arabi che cercano di abbandonare la causa palestinese. .L ‘AP avrebbe dovuto amplificare il suo valore per i governanti del Golfo: unendosi alla coalizione contro l’Isis, o coltivando gli sforzi per aumentare la visibilità positiva dei palestinesi, come gli scambi culturali e il commercio. E quei leader avrebbero dovuto mantenere la lotta attiva diplomaticamente offrendo un’alternativa al prepotente racconto della ‘normalizzazione senza concessioni’: mettere sul tavolo le loro creative proposte di pace. Salam Fayyad ha recentemente chiesto all’Olp di modificare il suo statuto per includere gli appelli per le soluzioni a uno e due Stati contemporaneamente. Abbas ha accennato solo una volta, e di sfuggita, che avrebbe sostenuto una confederazione israelo-palestinese, ma non è mai stata fatta alcuna proposta ufficiale. Israele ha determinato la sua nuova era di relazioni con i regimi arabi attraverso decenni di lobbying, cooperazione, innumerevoli incontri, tangenti, pacificazione, manipolazione, costruzione della fiducia e altre tattiche che hanno aperto la strada fino al momento opportuno, quando è emersa la disperazione di Trump per la spedizione elettorale, mentre l’AP ha perso per decenni di inadeguatezza e fiducia nelle sue tattiche obsolete. Ora che abbiamo superato il punto di non ritorno, i leader palestinesi si sono finalmente svegliati e si sono riuniti. Hanno lanciato un comitato nazionale unificato per la resistenza popolare, che ha chiesto ai palestinesi di iniziare atti di resistenza civile non violenta: issare la bandiera palestinese il giorno della firma degli accordi, e marciare verso i confini della Cisgiordania, bloccati o murati, una settimana dopo. Il cambiamento inizia quando i leader palestinesi di tutte le fazioni si rivolgono al loro pubblico effettivo piuttosto che l’uno all’altro, trattando il popolo palestinese come un elettorato e non come un suddito, permettendogli di decidere chi è più meritevole di guidare la causa palestinese e in quale direzione. Il minimo che si dovrebbe fare ora è indire elezioni nazionali che rianimino il pubblico, gli diano voce al proprio destino e lo rendano di nuovo visibile alla loro leadership.  È il momento di iniettare nuovo sangue nell’AP e nell’Olp da parte delle giovani generazioni molto più sensibili alle priorità e ai terribili bisogni dell’opinione pubblica, e non così concentrate sulla salvaguardia dei loro peccati.  L’opinione pubblica palestinese dovrebbe decidere, attraverso le elezioni, se vuole una leadership che si impegni o resista alla nuova realtà mediorientale. Solo leader freschi, più trasparenti e responsabili possono determinare una vera svolta per il futuro palestinese”.

Di certo, quello di Muhammad Shehada è un pensiero condiviso da molti, soprattutto dai giovani, a Gaza. Quegli accordi sono un punto di non ritorno, anche per il notabilato palestinese. E forse la vera sfida a Israele è quella di uno Stato binazionale.