La ‘normalizzazione’ di Israele: l’Arabia Saudita sta ammorbidendo la sua posizione?

16 settembre 2020 – Al Jazeera

Dopo gli accordi con Emirati Arabi Uniti e Bahrain, ci sono segnali che l’Arabia Saudita stia preparando la sua gente a relazioni amichevoli con Israele.

Quando nel corso del mese uno dei principali leader musulmani dell’Arabia Saudita ha chiesto ai suoi correligionari di evitare “emozioni irruente e passioni infuocate” nei confronti degli ebrei, ciò ha costituito un netto cambiamento di tono da parte di chi in passato ha versato lacrime durante le sue prediche a favore della Palestina.

Il sermone di Abdulrahman al-Sudais, imam della Grande Moschea della Mecca, trasmesso dalla televisione di Stato saudita il 5 settembre, è arrivato tre settimane dopo che gli Emirati Arabi Uniti avevano concordato uno storico accordo per normalizzare le relazioni con Israele e pochi giorni prima che lo Stato del Golfo del Bahrain, uno stretto alleato saudita, ne seguisse l’esempio.

Sudais, che in passato pregava nei suoi sermoni perché i palestinesi conseguissero la vittoria sugli ebrei “invasori e aggressori”, ha spiegato come il profeta Maometto fosse buono con il suo vicino ebreo e ha sostenuto che il modo migliore per persuadere gli ebrei a convertirsi all’Islam fosse “trattarli bene”.

Anche se non ci si aspetta che l’Arabia Saudita segua presto l’esempio dei suoi alleati del Golfo, le osservazioni di Sudais potrebbero essere un indizio su come il regno affronta il delicato tema dell’amicizia con Israele – una prospettiva un tempo inconcepibile. Nominato dal re, egli è una delle figure più influenti del paese, che riflette le opinioni della propria istituzione religiosa conservatrice e della corte reale.

I plateali accordi con gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrain hanno costituito un colpo di scena da parte di Israele e del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, che si sta atteggiando a pacificatore in vista delle elezioni di novembre.

Ma il grande risultato diplomatico riguardo un accordo con Israele riguarderebbe l’Arabia Saudita, il cui re è il custode dei siti più sacri dell’Islam e governa il più grande Stato esportatore di petrolio del mondo.

“Testare la reazione del pubblico”

Marc Owen Jones, un accademico dell’Istituto di studi arabi e islamici dell’Università di Exeter, ha affermato che la normalizzazione degli Emirati Arabi Uniti e del Bahrain ha consentito all’Arabia Saudita di mettere alla prova l’opinione pubblica, ma un accordo formale con Israele sarebbe un “compito gravoso” per il regno.

“Dare una ‘spintarella’ ai sauditi tramite un influente imam è ovviamente un passo nel tentativo di testare la reazione del pubblico e di incoraggiare il concetto di normalizzazione”, ha aggiunto Jones.

L’appello di Sudais onde evitare emozioni accese è ben distante dal suo passato, quando decine di volte è scoppiato in lacrime nel pregare per la moschea Al-Aqsa di Gerusalemme, il terzo luogo più sacro dell’Islam.

Il sermone del 5 settembre ha suscitato una reazione mista, con alcuni sauditi che lo difendevano con la motivazione che egli stesse semplicemente comunicando gli insegnamenti dell’Islam. Altri su Twitter, per lo più sauditi all’estero e apparentemente critici nei confronti del governo, lo hanno definito “il sermone sulla normalizzazione”.

Ali al-Suliman, intervistato in uno dei centri commerciali di Riyadh, ha detto, in risposta all’accordo con il Bahrain, che da parte degli altri Stati del Golfo o facenti parte del più vasto Medio Oriente sarebbe stato difficile abituarsi alla normalizzazione con Israele, poiché “Israele è una nazione occupante e ha cacciato i palestinesi dalle loro case”.

Il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman (MBS), il sovrano di fatto del regno, ha promesso di promuovere il dialogo inter-religioso come parte delle sue riforme interne. Il principe aveva affermato in precedenza che gli israeliani hanno il diritto di vivere pacificamente nella propria terra con la condizione di un accordo di pace che assicuri stabilità a tutte le parti.

La paura condivisa di Arabia Saudita e Israele nei confronti dell’Iran potrebbe essere un fattore chiave per lo sviluppo dei legami.

Ci sono stati altri segnali che l’Arabia Saudita, uno dei paesi più influenti del Medio Oriente, stia preparando la sua gente a stabilire rapporti di amicizia con Israele.

Una serie televisiva, “Umm Haroun” [La madre di Haroun, ndtr.], andata in onda alla televisione della MBC [la più grande compagnia privata di radio-telediffusione satellitare del Medio Oriente e del Nord Africa, controllata dai sauditi, ndtr.] ad Aprile durante il Ramadan, in un periodo in cui il numero di spettatori in genere aumenta, era incentrata sui processi subiti da un’ostetrica ebrea.

La serie immaginaria parla di una comunità multireligiosa in uno Stato non specificato del Golfo arabo dagli anni ’30 ai ’50. Lo spettacolo ha attirato le critiche del gruppo palestinese di Hamas, secondo cui [la serie] ritraeva gli ebrei sotto una luce di indulgenza.

All’epoca, la MBC ha sostenuto che lo spettacolo fosse lo sceneggiato ambientato nel Golfo più apprezzato in Arabia Saudita nel corso del Ramadan. Gli autori dello spettacolo, entrambi del Bahrain, hanno affermato che non conteneva nessun messaggio politico.

Ma esperti e diplomatici hanno detto che si trattava di un altro indizio dello spostamento del discorso pubblico su Israele.

All’inizio di quest’anno, Mohammed al-Aissa, ex ministro saudita e segretario generale della Muslim World League [organizzazione non governativa islamica che si propone di diffondere il panislamismo, ndtr], ha visitato Auschwitz. A giugno ha preso parte a una conferenza organizzata dall’American Jewish Committee [gruppo di difesa ebraica, ndtr.] dove ha auspicato un mondo senza “islamofobia e antisemitismo”.

“Certamente – ha affermato Neil Quilliam, ricercatore presso la Chatham House [Royal Institute of International Affairs, comunemente noto come Chatham House, centro di studi britannico, specializzato in analisi geopolitiche, ndtr.] – MBS è intenzionato a moderare i messaggi approvati dallo Stato condivisi dall’istituzione clericale, e ciò in parte probabilmente funzionerà per giustificare qualsiasi accordo futuro con Israele, che in precedenza sarebbe sembrato impensabile”.

Palestinesi isolati

La normalizzazione tra Emirati Arabi Uniti, Bahrain e Israele, firmata martedì alla Casa Bianca, ha ulteriormente isolato i palestinesi.

L’Arabia Saudita, il luogo di nascita dell’Islam, non ha preso direttamente parte agli accordi di Israele con gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrain, ma ha affermato di rimanere impegnata per la pace sulla base delle iniziative di pace arabe di vecchia data.

L’Arabia Saudita, che non riconosce Israele, ha elaborato l’iniziativa del 2002 con la quale le nazioni arabe si sono offerte di normalizzare i legami con Israele in cambio di un accordo con i palestinesi per uno Stato [indipendente] e del completo ritiro israeliano dal territorio occupato nel 1967.

Trump ha detto che si sarebbe aspettato che l’Arabia Saudita aderisse agli accordi per normalizzare i rapporti diplomatici e creare nuove e ampie relazioni.

Ma il re dell’Arabia Saudita Salman bin Abdulaziz ha detto al presidente degli Stati Uniti che il paese del Golfo intende prima vedere una soluzione equa e permanente per i palestinesi.

Non è chiaro se e come il regno cercherà di scambiare la normalizzazione con un accordo sui termini dell’Iniziativa di pace araba.

In un altro accattivante gesto di buona volontà, il regno ha consentito ai voli Israele-Emirati Arabi Uniti di utilizzare il suo spazio aereo. Il genero e alto consigliere di Trump, Jared Kushner, che ha uno stretto rapporto con MBS, ha elogiato la mossa la scorsa settimana.

Un diplomatico del Golfo ha detto che per l’Arabia Saudita la questione è più legata a quella che ha definito la sua posizione religiosa come guida del mondo musulmano, e un accordo formale con Israele richiederebbe tempo ed è improbabile che avvenga mentre il re Salman resta al potere.

“Qualsiasi normalizzazione da parte saudita aprirà le porte a Iran, Qatar e Turchia per chiedere l’internazionalizzazione delle due sacre moschee”, ha detto, riferendosi alle periodiche richieste degli oppositori di Riyadh affinché la Mecca e Medina siano poste sotto la supervisione internazionale.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Sprofondate nella disperazione: le politiche di Israele colpiscono le famiglie di Gaza che vivono di pesca

9 settembre 2020 – B’Tselem

Il 12 agosto 2020 Israele ha ridotto da 15 a 8 miglia nautiche [da 27 a 15 km, ndtr.] la zona di pesca nelle acque di Gaza, ufficialmente a causa dei palloni esplosivi lanciati verso Israele. Il 16 agosto 2020 ha poi interdetto totalmente l’accesso al mare di Gaza, ma il 2 settembre 2020 l’ha riaperto entro le 15 miglia. Questa restrizione va ad aggiungersi a varie altre forme di pene collettive inflitte ai pescatori palestinesi dall’inizio del blocco imposto da Israele sulla Striscia nel 2007. Israele ha arrestato pescatori e ne ha confiscato le imbarcazioni, proibito l’importazione di materie prime usate per le riparazioni e sparato ai pescherecci accusati di oltrepassare i limiti permessi. A oggi il fuoco israeliano ha ucciso sette pescatori, ferendone centinaia. Le restrizioni hanno quasi portato al crollo dell’industria ittica: al momento ci sono meno di 4.000 pescatori invece dei circa 10.000 di vent’anni fa. Chi è rimasto soffre per le pericolose condizioni di lavoro imposte da Israele e vive con la propria famiglia in povertà estrema.

Le seguenti testimonianze sono state raccolte sul campo per noi da Olfat al-Kurd fra mogli e madri di pescatori e pescivendoli a Gaza. Descrivendo la loro dolorosa realtà e il loro futuro incerto, le donne hanno parlato della costante paura per i loro cari e dei gravi problemi economici creati dalle restrizioni israeliane al loro sostentamento e destinate a peggiorare a causa della pandemia.

Nella sua testimonianza del 5 agosto 2020, Intesar a-Sa’idi (52 anni), mamma con sei figli che vive nel campo rifugiati di a-Shati’ a Gaza City, descrive le difficoltà economiche e la tragedia personale che affliggono la sua famiglia:

Quando Muamen va a lavorare sono preoccupata perché penso che non ritornerà, mi tranquillizzo solo quando è di nuovo a casa.

Agli inizi del 2018, Muamen era andato a pesca e non era tornato per molto tempo. Ho avuto paura per la sua vita quando ho saputo da altri pescatori della nostra famiglia che i soldati l’avevano arrestato. Ero terrorizzata e in lacrime. All’epoca i soldati avevano in custodia anche suo fratello. Avevo paura che non sarebbe tornato a casa. Nostro figlio Muhammad aveva solo sette mesi.

Per tre settimane non abbiamo saputo dove lo tenessero e non ho quasi dormito o mangiato. Finalmente l’hanno liberato. Quando è entrato in casa, quasi non credevo ai miei occhi, piangevo e ridevo, l’ho abbracciato, ero così felice.

Dopo l’arresto, nonostante i rischi, è tornato a pescare, è l’unico lavoro che sa fare. Fra il 2013 e il 2017 i soldati hanno confiscato tre dei pescherecci della famiglia e finora ne hanno restituito solo uno. L’anno scorso i fratelli di Muamen hanno comprato una barca e lui ha ricominciato a lavorare con loro, 5 fratelli in una barca. Ogni fine-settimana riceve 150 shekel (circa 40 euro), ma non è abbastanza per noi quattro, specialmente perché i bambini sono piccoli e hanno bisogno di pannolini e latte ogni giorno. La mia vita gira intorno a prestiti e debiti con famigliari e amici. Mia suocera ogni tre o quattro mesi prende 750 shekel (185 euro) dal Ministero del Welfare e li divide fra i figli. Mio marito li usa tutti per saldare i nostri debiti. Qualche volta fa dei prestiti per comprare reti e remi e quando vende il pesce usa tutti i soldi per ripagare i debiti.

Quando sento che i soldati hanno aperto il fuoco contro i pescatori chiamo immediatamente i miei cognati per sapere di Muamen e non sono tranquilla finché non è a casa. Anche lui ha paura di essere arrestato o ucciso, questo mi rende ancora più agitata. Gli chiedo di non dire cose così e di tornare sano e salvo, se dio vuole.

Qualche volta dico a Muamen che spero cambi lavoro per i pericoli che vengono dal mare e dall’esercito israeliano. Gli chiedo di cercarsene un altro e di smettere con la pesca, ma lui dice che la situazione a Gaza è difficile e non c’è nient’altro. Mi chiede di essere paziente e sperare in tempi migliori.

Prego dio che tenga I’esercito israeliano lontano da mio marito e dagli altri pescatori. Prego che la nostra situazione economica migliori, per un futuro sicuro per i nostri figli e perché mio marito rimanga sano e salvo e che non venga ferito.

Anche ‘Ula a-Sa’idi (36), mamma di nove bambini che vive nel campo rifugiati di a-Shati’ a Gaza City, parla delle difficoltà di dipendere dalla pesca:

Mio marito (42 anni) ha fatto il pescatore fin da quando ci siamo sposati 18 anni fa. È un lavoro impegnativo e non mi piace perché è molto pericoloso, anche se tutti i miei parenti sono pescatori. Ma è la nostra sola fonte di reddito, così dobbiamo vivere con questo rischio.  Abbiamo dei problemi economici. Dall’inizio del blocco, il guadagno di mio marito è crollato a 700 shekel (~170 euro) al mese. Adesso, anche se lavora duro, guadagniamo al massimo 500 shekel (~120 euro). È piuttosto poco e non basta per le nostre necessità. Prendevo un sussidio di 1.800 shekel (~445 euro) dal Ministero dei servizi sociali ogni tre o quattro mesi. Dopo quattro anni è sceso a 700 shekel che non bastano per vivere e qualche volta neppure per i bisogni giornalieri o per comprare dei vestiti nuovi ai bambini per le vacanze.

Dallo scoppio del coronavirus, le cose sono persino peggiorate perché la situazione economica a Gaza è pessima e la gente compra meno pesce, ci sono meno stranieri, meno grandi eventi e ordinazioni.  

Mio marito lavora con il fratello sulla sua barca. Va in mare alle tre del mattino e torna dopo le tre del pomeriggio. Quando va a pesca, prego dio che lo tenga lontano dai soldati e dai loro proiettili. Non sono tranquilla fino a quando non torna a casa o mi chiama. Quando è fuori, sono molto in ansia, specialmente quando sento che sparano ai pescatori. Divento nervosa e lo chiamo immediatamente per controllare che stia bene. Anche i miei bambini stanno in ansia quando sentono degli spari e si chiedono quale dei pescatori è stato arrestato e sperano non sia papà. Io cerco di calmarli, dico di essere pazienti, che papà tornerà a casa. Quando mio marito è in ritardo, nostro figlio Anas di 9 anni è così preoccupato che va al porto ad aspettarlo.

Per una moglie avere un marito pescatore è la cosa peggiore. D’inverno mio marito soffre per il gran freddo e così mi preoccupo anche di quello, oltre ai pericoli del mare e più di tutto delle sparatorie contro i pescatori. Ogni volta che qualcuno mi dice che i soldati hanno sparato contro i pescatori, sento che sto per perdere mio marito. Prego dio che ce lo riporti sano e salvo.

I soldati hanno arrestato mio marito varie volte, l’ultima nel 2018. Nel 2007 è stato in prigione per sei mesi. Avevano anche confiscato due delle nostre barche e quattro motori e li hanno bloccati nel porto di Ashdod. Di solito l’esercito non li restituisce dopo la confisca.

Spero che un giorno la nostra situazione migliori. Vorrei che ci restituissero i nostri pescherecci, così mio marito avrebbe la sua barca, e che allarghino la zona di pesca. Voglio vivere dignitosamente, sicura per il futuro dei bambini e in grado di soddisfare i loro bisogni e desideri. Spero che non diventeranno pescatori, è un lavoro duro e pericoloso.

A.M. (49 anni), sposata e con nove figli, vive nel campo rifugiati di a-Shati’ a Gaza City, il cui marito è un commerciante di pesce, in una testimonianza rilasciata il 9 agosto 2020 dice:

Mi sono sposata nel 1989. Mio marito ha lavorato nel settore del pesce da quando aveva 12 anni. Lavorava con il padre pescivendolo e con altri parenti. Ho nove figli dai sei ai 29 anni. Viviamo vicino alla costa e molti dei nostri parenti sono in questo settore.

Nei primi anni di matrimonio c’era un sacco di pesce e poca concorrenza. Mio marito andava al mercato alle 3 del mattino e portava a casa grandi quantità di pesce, lo puliva e lo portava al mercato. Di solito lo vendeva tutto nel giro di due ore e tornava a casa. Avevamo un buon reddito di circa 3.000-4.000 shekel mensili (~ 740-990 euro).

È andata avanti così per anni e avevamo un alto livello di vita, ci siamo comprati la casa e avevamo tutto quello che ci serviva, mi ero persino comprata dei gioielli d’oro. Abbiamo allevato i nostri figli in un momento in cui le nostre finanze erano ottime, non gli è mancato niente, vivevamo felici e tranquilli.

Circa 13 anni fa, quando Israele ha cominciato il blocco su Gaza, le cose sono cambiate. Gli affari ne hanno sofferto, la zona di pesca è stata limitata e talvolta la pesca è stata completamente vietata. Il pesce era scarso e caro per i commercianti e i consumatori. D’estate quando ce n’era tanto, la gente ne comprava 4/5 chili, adesso uno o due.

Qualche volta mio marito deve portarsi a casa un po’ o quasi tutto il pesce. Sta al mercato tutto il pomeriggio e la sera cercando invano di venderlo. È impossibile tenere al fresco il pesce per la scarsità di energia elettrica e qualche volta va a male.    

Dall’inizio del blocco le nostre finanze sono peggiorate. Mio marito non possiede una bancarella al mercato e così affitta uno spazio largo un metro o due a circa 10 shekel (~2,50 euro) al giorno. I bambini lavorano con lui, ma in totale non guadagniamo più di 1,500 shekel (~ 370 euro) al mese e siamo in 14 in famiglia. Due figli sono sposati e uno ha dei bambini, ma viviamo tutti nella stessa casa. Anche se siamo una famiglia numerosa, non prendiamo sussidi perché mio marito lavora in proprio. Per saldare i debiti e pagare per i matrimoni dei nostri figli ho venduto tutto il mio oro e 250 mq di terra che avevo comprato. Uno dei nostri figli ha abbandonato l’università perché non potevamo continuare a pagare le rette. Dall’inizio della crisi da coronavirus la situazione è peggiorata: ristoranti e hotel non comprano quasi più pesce perché restano chiusi per lunghi periodi e a Gaza non ci sono visitatori perché i confini sono chiusi. La crisi ha veramente danneggiato il lavoro di mio marito al mercato.  

È molto dura non essere in grado di soddisfare le necessità dei miei figli. Non ho potuto comprare i vestiti per le vacanze da festa e per l’inizio dell’anno scolastico. Devono usare vestiti, zainetti e persino scarpe dell’anno scorso. Mi fa male al cuore perché avrei veramente voluto dar loro delle cose nuove! Ma non possiamo permettercelo e quando chiedono qualcosa, come andare in gita, ogni volta devo rimandare. Mi fa male perché mi piacerebbe vedere i loro occhi riempirsi di gioia.

La situazione è deprimente e opprimente, ma so che non c’è un altro lavoro per mio marito o per i nostri figli. Spero che la nostra situazione migliori.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




La normalizzazione di Israele potrebbe portare alla divisione della moschea di Al-Aqsa

Mersiha Gadzo

14 settembre 2020 – Al Jazeera

Secondo alcuni analisti una clausola degli accordi Emirati -Bahrain e Israele spalanca la porta alle preghiere degli ebrei nel luogo sacro.

Una frase inserita negli accordi di normalizzazione fra Emirati Arabi Uniti (EAU), Bahrain e Israele, mediati dagli Stati Uniti, potrebbe portare alla divisione del complesso di Al-Aqsa perché viola lo status quo, dicono alcuni analisti.

Secondo un’inchiesta di Terrestrial Jerusalem (TJ) un’organizzazione non governativa israeliana, le affermazioni segnano un “cambiamento radicale dello status quo” e hanno ” conseguenze di vasta portata e potenzialmente esplosive”.

Secondo lo status quo stabilito nel 1967, solo i musulmani possono pregare sull’al-Haram al-Sharif [il Nobile Santuario in arabo, cioè la Spianata delle Moschee, ndtr.], Monte del Tempio, secondo gli ebrei, noto anche come complesso della moschea Al-Aqsa, un’area di 14oo mq.

I non-musulmani possono visitare il sito, ma non pregare. Benjamin Netanyahu, il primo ministro israeliano, aveva confermato questo status quo in una dichiarazione formale nel 2015.

Tuttavia una clausola inclusa nei recenti accordi fra Israele e gli Stati del Golfo Arabo indica che potrebbe non essere più così.

Secondo la dichiarazione congiunta fra USA, Israele e EAU rilasciata il 13 agosto dal presidente americano Donald Trump: “Come sancito nella Visione di Pace, tutti i musulmani che vengono in pace possono visitare e pregare nella moschea di Al-Aqsa e gli altri siti sacri a Gerusalemme devono restare aperti ai fedeli pacifici di tutte le fedi.”

Ma Israele definisce Al-Aqsa come ‘struttura di una moschea’, come nella dichiarazione, chiarifica la relazione di TJ.

“Secondo Israele (e apparentemente gli Stati Uniti), tutto quello che c’è sul Monte che non sia la struttura della moschea, è definito come ‘uno degli altri siti sacri di Gerusalemme’, aperto a tutti, ebrei inclusi, per pregare,” dice la dichiarazione.

“Questa scelta di terminologia non è né casuale né un passo falso e non può essere vista se non come un tentativo intenzionale, seppure furtivo, di lasciare la porta spalancata alla preghiera ebraica al Monte del Tempio, cambiando così radicalmente lo status quo.”

La stessa dichiarazione è stata ripetuta nell’accordo con il Bahrain, annunciato venerdì.

Khaled Zabarqa, un avvocato palestinese specializzato nelle questioni relative ad Al-Aqsa e Gerusalemme, ha detto ad Al Jazeera che si “dice molto chiaramente che la moschea non è sotto la sovranità musulmana”.

“Quando gli EAU hanno accettato tale clausola, si sono detti d’accordo e hanno dato il via libera alla sovranità di Israele sulla moschea di Al-Aqsa,” ha detto Zabarqa.

“È una chiara e significativa violazione dello status quo legale internazionale della moschea di Al-Aqsa (concepito) nel 1967 dopo l’occupazione di Gerusalemme e secondo cui tutto ciò che si trova all’interno delle mura è sotto la custodia giordana.

Non è un errore innocente’

I palestinesi sono preoccupati da tempo per i possibili tentativi di partizione della sacra moschea, come è successo con la moschea di Ibrahimi [la Tomba dei Patriarchi per gli ebrei, ndtr.] a Hebron.

Nel corso degli anni si è sviluppato un Movimento del Tempio, costituito in gran parte da ” di ebrei religiosi nazionalisti di estrema destra” che cercano di cambiare lo status quo, riferisce TJ.

Alcuni chiedono la preghiera per gli ebrei all’interno del complesso sacro, mentre altri mirano a costruire il Terzo Tempio sulle rovine della Cupola della Roccia che, secondo le profezie messianiche, annuncerebbe la venuta del messia.

Nel corso degli anni, l’ONG israeliana Ir Amim ha pubblicato numerose relazioni di questo gruppo, un tempo marginale, ma che oggi fa parte di una tendenza politica e religiosa dominante e gode di stretti legami con le autorità israeliane.

Questi attivisti credono che permettere agli ebrei di pregare nel complesso e dividere il sito sacro fra musulmani ed ebrei sia un passo verso la sovranità, per raggiungere un giorno il loro scopo finale, la costruzione del tempio.

In anni recenti, un numero crescente di visitatori ebrei hanno cercato di pregare in violazione dello status quo.

Daniel Seidemann, un avvocato israeliano specializzato nella geopolitica di Gerusalemme, ha detto ad Al Jazeera di essere “profondamente preoccupato per quello che sta succedendo “.

“Quello che stiamo vedendo a Gerusalemme è l’ascesa delle fazioni religiose che usano la religione come un’arma. Siamo su una strada che ci porterà a una conflagrazione.

Noi sappiamo che queste clausole, ogni singola parola, sono state elaborate insieme da un gruppo congiunto USA/ Israele. Il passaggio dal termine Haram al-Sharif a quello di moschea di Al-Aqsa non è un errore,” secondo Seidemann.

‘Scritto con astuzia’

Una dichiarazione più sfacciata è stata inclusa nell’ “accordo del secolo”, il piano per il Medio Oriente svelato alla fine di gennaio da Trump e Netanyahu alla Casa Bianca.

Jared Kushner, importante consigliere e genero di Trump, è stato la persona di maggior spicco che ha lavorato alla proposta, mentre a Ron Dermer, ambasciatore israeliano negli USA, è stata attribuita la formulazione dell’accordo.  

Il piano stipula che “lo status quo del Monte del Tempio/Haram al-Sharif dovrebbe rimanere inalterato”, ma nella frase successiva si dice anche che: “persone di ogni fede possono pregare sul Monte del Tempio/Haram al-Sharif.”

La clausola ha causato polemiche e ha spinto David Friedman, ambasciatore USA in Israele, a tornare sui suoi passi durante l’incontro con la stampa il 28 gennaio. “Non c’è nulla nel piano che imporrebbe modifiche dello status quo senza l’accordo fra tutte le parti,” ha detto.

Un alto funzionario americano, che conosce sia le parti in causa che i problemi, ha detto ad Al Jazeera che “non ha dubbi che il linguaggio nella dichiarazione Israele-EAU è stato scelto con malizia premeditata da parte di Israele, senza una chiara comprensione da parte degli Emirati e con la complicità di mediatori americani incompetenti.”

“La rapida ritrattazione di Friedman della frase contenuta nel piano di Trump attesta che probabilmente Dermer l’aveva inserita e che Kushner non l’aveva capita,” ha rivelato il funzionario in forma anonima.

“Il fatto che sia stato Friedman a ritrattare e non la Casa Bianca significa anche che il linguaggio del piano di Trump è ancora ufficiale e determinante quando si arriverà al dunque… Anche se gli idioti Kushner-Friedman hanno capito le conseguenze, è chiaro che se ne fregano.”

Eddie Vasquez, esperto consigliere e portavoce del Dipartimento di Stato americano, ha riferito in un’email ad Al Jazeera di una scheda informativa pubblicata dopo l’annuncio “dell’accordo del secolo” che dice che lo status quo non verrà modificato.

“Tutti i musulmani sono benvenuti a visitare in pace la moschea di Al-Aqsa,” dice uno dei punti. Ma non si chiarisce perché negli accordi con gli EAU e Bahrain sia stato usato il termine di moschea di Al-Aqsa e non Haram al-Sharif.

Sovranità israeliana su Al-Aqsa’

Gli accordi di normalizzazione arrivano dopo che, la scorsa settimana, le autorità israeliane hanno installato degli altoparlanti sui lati est e ovest del complesso di Al-Aqsa senza il permesso del Waqf, (istituzione islamica).

Il complesso sacro è amministrato dal Waqf islamico con sede in Giordania. Secondo lo status quo, Israele è responsabile solo della sicurezza fuori dai cancelli.

“La polizia israeliana dice che è per motivi di sicurezza, ma noi non riusciamo a vedere questi motivi,” dice Omar Kiswani, direttore del complesso di Al-Aqsa.

“Noi consideriamo questa azione un tentativo di imporre il controllo sulla moschea di Al-Aqsa e di indebolire il ruolo del Waqf nella moschea,” dice Kiswani.

Zabarqa afferma che la Giordania, custode del sito, “non ha alcun potere di trattare con le [autorità] di occupazione “.

“Credo che la Giordania debba cambiare e trovare nuovi alleati, come la Turchia. Dovrebbe usare le relazioni finanziarie e diplomatiche con Israele per far pressione, ma invece sembra così debole da mettersi al fianco degli americani,” aggiunge Zabarqa.

Nel suo rapporto TJ nota che nell’accordo non si parla del Waqf e del suo ruolo autonomo.

“Le rivendicazioni musulmane su Haram al-Sharif/Al-Aqsa sono state trasformate da quelle di proprietario a quelle di ‘ospite benvenuto’ con il diritto di visitare e pregare,” conclude.

Una bomba’

Zabarqa sostiene che la clausola è “rivoluzionaria nella narrazione israelo-americana ” e crede che gli ” EAU abbiano accettato di fare da apripista “.

Zabarqa rileva che nel 2014 gli EAU sono stati coinvolti nel trasferimento della proprietà di oltre 30 edifici a coloni israeliani illegali a Silwan, nella Gerusalemme est occupata.

“Questo ci mostra il ruolo evidente che gli Emirati giocano nel cambiare il termine di status quo con un altro che riconosca la sovranità israeliana su Al-Aqsa,” afferma Zabarqa.

Seidemann dice che martedì, quando gli emiratini e i rappresentanti del Bahrain prenderanno parte alla cerimonia tenuta da Trump alla Casa Bianca per firmare una “storica dichiarazione di pace” con Israele dovrebbero chiedere dei chiarimenti per assicurarsi che lo status quo resti immutato.

Ci sarebbe solo bisogno che Kushner e Netanyahu dicano: ‘Continuo a credere a quello che ho detto nel 2015.’ Nelle ultime due settimane gli è stato chiesto, ma non l’hanno ancora detto. Questa non è ingenuità,” commenta Seidemann.

“Questa è una bomba che le amministrazioni di Trump e Netanyahu lasciano alle successive, al prossimo governo israeliano. Stanno giocando con Haram al-Sharif/Al-Aqsa/ Monte del Tempio. Accenderà una miccia,” dice Seidemann.

“Forse è una miccia lunga, ci sarà un’esplosione, ma non è troppo tardi per evitare che scoppi.”

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




I palestinesi si uniscono mentre gli Stati arabi “normalizzano” le relazioni con Israele

Ali Adam

15 settembre 2020 Al Jazeera

Fatah, Hamas e le altre fazioni si riunificano dopo la “pugnalata alle spalle” degli Stati arabi negli accordi con Israele.

Gaza – Spinte dagli Stati arabi che vanno normalizzando le relazioni con Israele, le frammentate fazioni politiche palestinesi stanno lavorando scrupolosamente in colloqui multilaterali per ripristinare l’unità e ricucire la divisione tra la Striscia di Gaza e la Cisgiordania, in negoziati molto più promettenti rispetto agli sforzi precedenti.

I Ministri degli Esteri degli Emirati Arabi Uniti (EAU) e del Bahrain firmeranno martedì alla Casa Bianca un trattato con Israele che stabilisce pieni accordi in violazione all’Iniziativa Araba di Pace [iniziativa di pace per il conflitto arabo-israeliano proposta nel 2002 al vertice di Beirut della Lega Araba, ndtr.] La decisione è una minaccia per le richieste arabe di vecchia data, che Israele ponga fine alla decennale occupazione e concordi con i palestinesi una soluzione a due Stati.

Sabato i gruppi palestinesi di Hamas e Fatah hanno concordato una “leadership unificata sul campo” che comprenda tutte le fazioni per guidare “una resistenza popolare totale” contro l’occupazione israeliana, si legge in un comunicato.

Vi si fa appello affinché martedì – quando la cerimonia della firma si svolgerà a Washington – sia un giorno di “rifiuto popolare”. I palestinesi a Gaza e in Cisgiordania stanno pianificando dimostrazioni da “giorno della rabbia” e sono previste altre proteste davanti alle ambasciate di Israele, Stati Uniti, Emirati Arabi Uniti e Bahrain in tutto il mondo.

La formazione di un gruppo di leadership congiunto e il progresso nei colloqui per l’unità intra-palestinese sono arrivati dopo il tanto atteso incontro del 3 settembre tra il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas, Ismail Haniya di Hamas, il capo della Jihad islamica Ziyad al-Nakhala e i leader di varie entità palestinesi. Le riunioni si sono svolte a Ramallah nella Cisgiordania occupata e a Beirut, in Libano.

Erano anni che Hamas e altri partiti palestinesi chiedevano che si tenesse un simile incontro, ma Abbas aveva sempre rifiutato, chiedendo che prima Hamas onorasse precedenti patti di unità.

Ma con le tante sfide che ultimamente sta affrontando la causa palestinese – la più grave delle quali è la normalizzazione tra i paesi arabi e Israele – Abbas ha accettato di intrattenere i colloqui

Un grande progresso”

Husam Badran, membro dell’ufficio politico di Hamas, ha elencato ad Al Jazeera i diversi fattori che stanno riunificando i palestinesi, tra cui “l’accordo del secolo” del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, i piani di annessione di Israele delle aree palestinesi e la normalizzazione da parte degli Stati arabi delle relazioni con “l’occupazione, e come questa rappresenti una sleale pugnalata alle spalle dei palestinesi “.

Badran ha definito l’incontro fra i dirigenti un “importante passo avanti”, che ha prodotto decisioni chiare su diverse questioni urgenti.

“La fretta di molti paesi arabi nel normalizzare le loro relazioni con lo Stato di occupazione ha spinto in cima all’agenda delle azioni palestinesi la questione della formazione di una leadership unificata per la resistenza popolare “, ha detto Badran.

Ha aggiunto che le decisioni di normalizzazione “richiedono che i palestinesi cooperino e rafforzino il fronte interno, e mettano da parte tutte le differenze per salvare la causa palestinese”.

“I leader palestinesi stanno trasformando il rifiuto di tutti i piani che vogliono liquidare la causa palestinese in realistiche azioni sul campo”, ha detto Badran.

Durante gli incontri sono stati formati tre comitati: il primo centrato sulla formazione di una leadership unitaria sul campo per sollevare la lotta popolare contro l’occupazione israeliana; il secondo responsabile del raggiungimento di una visione concordata per porre fine alla divisione tra Gaza e la Cisgiordania; un terzo incaricato di rilanciare l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP).

Ai comitati è stato fissato un termine di cinque settimane per presentare suggerimenti al presidente palestinese. Abbas ha promesso che accetterà qualunque suggerimento gli arriverà.

Riconciliazione tra Hamas e Fatah

Hamas e Fatah sono divise dal 2007, quando dopo mesi di tensione Hamas ha destituito le forze di sicurezza di Fatah a Gaza. Da allora sono stati fatti diversi tentativi per colmare il divario tra i due, ma senza successo.

Le relazioni tra Hamas e Fatah, tuttavia, hanno di recente registrato significativi miglioramenti.

Negli ultimi due mesi, i due principali movimenti palestinesi, a causa del piano di annessione israeliano, si sono impegnati in colloqui positivi centrati sulla presentazione di un rifiuto unitario ai piani israelo-americani.

“L’intento di unità dei palestinesi arriva in un momento molto delicato, in cui la causa palestinese è sottoposta a serie minacce e sfide strategiche, a cominciare dagli sforzi dell’amministrazione americana di imporre sul terreno realtà che legittimino l’occupazione israeliana, e ai piani israeliani di annessione della Cisgiordania “, ha detto ad Al Jazeera l’analista politico palestinese Husam al-Dajani.

“L’ultima di queste minacce è stata la decisione degli Emirati Arabi Uniti di normalizzare le relazioni con Israele senza riguardo per i diritti palestinesi o per la causa palestinese. La decisione di normalizzazione degli Emirati Arabi Uniti ha reso urgente e accelerato i colloqui intra-palestinesi e ha convinto tutte le parti a riunirsi”.

Al-Dajani ha detto che se la causa palestinese vuole sopravvivere la divisione deve finire per sempre.

“Si deve fare un lavoro tenace per ripristinare l’attenzione sul progetto nazionale palestinese. Questo lavoro inizia con la fine della divisione, per essere in grado di affrontare tutte le minacce e le sfide”, ha detto al-Dajani.

Iyad Nasser, alto funzionario e portavoce di Fatah, ha dichiarato ad Al Jazeera: “Le minacce e i pericoli che il popolo palestinese deve affrontare e la causa palestinese sono ciò che ha portato al successo nella formazione dei comitati e nella istituzione di una leadership nazionale sul campo per la resistenza popolare”.

Nasser ha detto che il suo partito è ottimista sul fatto che gli sforzi per ricucire le divisioni avranno esito positivo.

“In questa fase, è necessaria l’unità per contrastare tutti i progetti e i piani che mirano a liquidare la causa palestinese e i diritti dei palestinesi. In questo momento critico, dobbiamo mettere da parte le piccole controversie delle fazioni per una piena dedizione nel difendere e far avanzare il problema centrale, che è il problema Palestina “, ha aggiunto Nasser.

“Contrastare la normalizzazione richiede l’accelerazione nel raggiungimento dell’unità nazionale e l’intensificarsi della resistenza popolare nella terra palestinese occupata”.

Contrastare Israele”

Il successo negli sforzi di riconciliazione tra Hamas e Fatah è stato invano perseguito per più di un decennio, e dunque il popolo palestinese generalmente guarda ogni nuovo tentativo con scetticismo.

Al-Dajani ha osservato: “La ragione dei progressi tra Hamas e Fatah è che questa volta il punto di partenza per i colloqui tra i due movimenti è stato di contrastare Israele e proteggere la causa palestinese, in contrapposizione alla divisione del potere e alle ambizioni politiche di ciascuno.

“Se l’equazione si mantiene, e il progresso della causa palestinese rimane la ragione dei colloqui per l’unità palestinese, allora questa verrà e sarà naturalmente raggiunta”.

Il dialogo tra Hamas e Fatah negli ultimi due mesi si è concentrato sulla messa da parte dei disaccordi e la ricerca di un terreno comune. 

Oltre all’unanime rifiuto dei provvedimenti israeliani e americani contro i palestinesi, i due movimenti hanno concordato che la resistenza popolare non violenta è la migliore strategia.

La leadership congiunta, guidata da Hamas e Fatah, dovrebbe attivare la resistenza popolare in Cisgiordania questa settimana, anche se non è stato progettato un piano in dettaglio.

Jibril Rajoub, segretario generale del comitato centrale di Fatah – che ha proposto all’interno di Fatah l’idea di rilanciare i colloqui con Hamas a giugno – ha detto ai giornalisti che le fazioni palestinesi hanno concordato che ci sarà un cambiamento nelle regole di ingaggio con le forze di occupazione israeliane.

“Non permetteremo all’occupazione di sradicare un ulivo o di ferire un palestinese senza pagarne il prezzo”, ha detto Rajoub.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Un tribunale israeliano condanna a tre ergastoli un colono nella causa per il rogo doloso della famiglia Dawabsheh

Redazione di MEE

14 settembre 2020 – Middle East Eye

Amiram Ben-Uliel è stato riconosciuto colpevole di aver ucciso nel 2015 tre palestinesi, tra cui un bambino di 18 mesi, nel villaggio cisgiordano di Duma

Lunedì un tribunale israeliano ha emesso una condanna a tre ergastoli contro un colono estremista colpevole dell’uccisione nel 2015 di una famiglia palestinese durante un attacco incendiario nella Cisgiordania occupata.

Amiram Ben-Uliel, 25 anni, è stato condannato in maggio dal tribunale distrettuale di Lod per tre omicidi e due tentati omicidi con una sentenza che il servizio di sicurezza interna Shin Bet ha descritto all’epoca come “una pietra miliare nella lotta contro il terrorismo ebraico.”

Lunedì è stato condannato a tre ergastoli per le succitate accuse, così come a 40 anni per altri reati.

Il tribunale lo ha anche multato di 258.000 shekel (circa 70.000 euro) a titolo di risarcimento per Ahmad Dawabsheh, il figlio scampato per miracolo all’attacco incendiario in cui subì gravi ustioni per le quali è ancora in cura.

La gravissima aggressione aveva provocato sdegno all’interno e all’estero, in quanto costò la vita a Alì Dawabsheh, di 18 mesi, ai suoi genitori Saad e Riham e rese orfano suo fratello Ahmad, che all’epoca aveva quattro anni e che rimase gravemente ustionato su tutto il corpo.

In base alla sentenza, Ben-Uliel aveva spiato le case del villaggio di Duma per operare un attacco, scegliendo quella dei Dawabsheh in quanto supponeva, al momento dell’aggressione, che all’interno ci fosse gente.

Ben-Uliel lanciò prima una bottiglia molotov in una casa vuota, poi ne lanciò un’altra dalla finestra della camera da letto dei Dawabsheh mentre stavano dormendo. Prima dell’attacco scrisse anche sui muri della casa “Vendetta” e “Lunga vita al Messia” con una bomboletta spay.

Il padre di Riham, Hussein Dawabsheh, che è anche il tutore del nipote Ahmad, dopo la sentenza ha affermato che “la condanna non riporterà indietro niente.”

Suo nipote, l’unico sopravvissuto all’incendio, nell’attacco ha perso un orecchio. Ora non può indossare una mascherina come gli altri bambini, dice il nonno.

Perché mi hanno fatto questo? Perché non sono come tutti gli altri bambini?” dice suo nipote, come afferma Hussein citato da Haaretz [quotidiano israeliano di centro sinistra, ndtr.].

Non è sufficiente”

Nella sua sentenza di maggio il tribunale aveva assolto Ben-Iliel dall’accusa di partecipazione a un’organizzazione terroristica, una decisione che la famiglia Dawabsheh aveva definito offensiva.

Ben-Uliel faceva parte del gruppo “Gioventù delle colline”, un movimento di coloni israeliani ultranazionalisti radicali che intende insediarsi ad ogni costo, anche con la violenza, su terra cisgiordana, che ritengono sia stata loro assegnata a pieno titolo da dio.

Anche se la condanna afferma che nella notte dell’aggressione Ben-Uliel agì da solo, molti resoconti dell’epoca citarono testimoni oculari che sostenevano di aver visto almeno due uomini mascherati scappare dalla scena dell’attacco.

Un sospetto non identificato, minorenne all’epoca dell’attacco, ha patteggiato ed è stato imputato solo di aver tramato per commettere l’aggressione, nonostante ci sarebbero prove che indicano un suo ruolo fondamentale nella realizzazione del rogo mortale.

In maggio la famiglia Dawabsheh aveva affermato che la condanna di Beb-Uliel “non è sufficiente.”

Ciò non ci restituirà la nostra famiglia, né il padre di Ahmad,” ha detto in maggio a Middle East Eye Naser Dawabsheh, il fratello di Saad Dawabsheh. “Una persona è stata condannata…ma gli altri vivono ancora negli avamposti illegali che circondano i nostri villaggi e rappresentano una costante minaccia per le nostre comunità.”

Secondo Haaretz, la moglie di Ben-Uliel, Orian, dopo la sentenza di lunedì ha affermato: “I giudici non hanno cercato la giustizia e la verità, hanno deciso di condannare mio marito ad ogni costo, nonostante tutte le prove che dimostravano che mio marito non l’ha fatto… ci stiamo preparando per la (Corte) Suprema. Non so come i giudici, se si possono chiamare tali, la notte possano dormire. Gli assassini se ne vanno in giro liberi.”

Un’occupazione crudele genera crimini di odio”

Yousef Jabareen, membro della Lista Unita araba al parlamento israeliano, ha accolto positivamente la sentenza, notando però che la continua retorica antipalestinese da parte di dirigenti israeliani è responsabile di favorire il clima in cui sono avvenuti simili attacchi mortali.

La sentenza emessa oggi è significativa per la famiglia e per il popolo palestinese, dato che la maggioranza dei crimini commessi dai coloni contro palestinesi non arriva in tribunale,” ha affermato lunedì Jabareen in un comunicato.

Tuttavia importanti rappresentanti del governo hanno condotto continue campagne di incitamento all’odio e a favore dell’omicidio politico ed hanno creato un’atmosfera di odio razzista. Questa sentenza non li assolve dalla responsabilità per quelle azioni.

La crudele occupazione e l’impresa di colonizzazione alimentano crimini di odio di questo genere e, finché non finiranno, crimini d’odio di questa natura continueranno ad avvenire.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




L’ANP accusata di essere uno ‘Stato di polizia’ a causa dell’arresto di un regista palestinese

Shatha Hammad da Nablus, Palestina

14 settembre 2020 – Middle East Eye

L’Autorità Nazionale Palestinese ha effettuato 30 arresti politici, 33 convocazioni per interrogatori e nove incursioni a partire da agosto

Di fronte al palazzo del Consiglio dei Ministri palestinese a Ramallah il 66enne Asaad Thaher cammina con il suo bastone, accanto a decine di poliziotti antisommossa e transenne di ferro, per andare a sedersi e prendere fiato.

Thaher è arrivato da Nablus, la sua città nel nord della Palestina, ad un’ora circa di macchina, per recarsi al quartier generale dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) a Ramallah a chiedere giustizia per suo figlio Abdel-Rahman.

Il regista trentottenne è detenuto dall’ANP dal 19 agosto, quando è stato arrestato dal corpo di sicurezza preventiva.

Non so niente di Abdel-Rahman. Non lo vedo da quando è stato arrestato”, ha detto Thaher a Middle East Eye. “Sono molto preoccupato ed ho paura per lui…Non ho la minima informazione che possa alleviare le mie preoccupazioni”, ha detto prima di scoppiare in lacrime, incapace di continuare a parlare.

Invece ha interpellato un gruppo di circa 50 giornalisti che il 9 settembre avevano tenuto un presidio di solidarietà, insieme alla famiglia di Abdel-Rahman, davanti all’ufficio del Primo Ministro Mohammed Shtayyeh. Hanno chiesto il rilascio del detenuto, il rispetto della libertà di parola e di espressione e la fine della detenzione da parte dell’ANP di giornalisti e attivisti.

Nel contempo le forze di sicurezza dell’ANP hanno formato uno stretto cordone intorno all’ufficio di Shtayyeh, hanno dispiegato poliziotti antisommossa e minacciato l’immediata interruzione del sit-in se qualcuno avesse tentato di avanzare.

Abdel Rahman è stato arrestato la sera del 19 agosto mentre lasciava il suo posto di lavoro al centro televisivo An-Najah a Nablus, dove produce e presenta diversi programmi in tv.

Il giorno dopo all’una di notte le forze di sicurezza hanno fatto irruzione a casa sua ed hanno confiscato la sua attrezzatura, computer e files.

Il raid è stato terribile. I miei figli, uno di quattro anni e l’altro di otto, hanno visto il loro padre con le manette ai polsi ed in un tale stato di umiliazione”, ha detto a MEE Rasha, la moglie di Rahman.

Questo ha provocato loro un forte trauma psicologico. Non ho potuto spiegar loro che cosa stava succedendo.”

Il regista ha una laurea in architettura, ma ha a lungo lavorato nel campo dei media e dell’arte come giornalista e presentatore, con programmi su canali quali la televisione giordana Ro’ya, la televisione locale Wattan e la televisione britannica Al Araby. Abdel Rahman ha anche prodotto parecchi documentari e programmi satirici.

Arresto arbitrario

Secondo il suo avvocato Muhannad Karajeh dell’associazione di Ramallah ‘Avvocati per la Giustizia’, quasi un mese dopo Abdel Rahman resta in prigione con accuse che includono “vilipendio dell’autorità”.

La causa è pendente, e il tribunale continua a prorogare la sua detenzione basandosi sulle richieste della procura di “proseguire le indagini”.

Abdel Rahman non ha commesso alcun reato. Lo stanno interrogando solo relativamente al suo lavoro artistico e di informazione”, ha affermato Rasha.

Karajeh ha spiegato a MEE che non è ancora riuscito ad incontrare il suo cliente di persona e quindi non conosce dettagliatamente le sue condizioni di detenzione e durante gli interrogatori. All’avvocato è stato anche impedito di prendere visione dell’intera documentazione sull’indagine e di averne una copia.

Mi è stato permesso di vedere solo delle parti della documentazione investigativa e tutte riguardano il suo lavoro artistico e sui media, che è critico riguardo all’Autorità Nazionale Palestinese e al suo comportamento, e si tratta di lavori che sono stati diffusi sui canali televisivi di Ro’ya e Al Araby”, ha detto Karajeh a MEE.

L’avvocato ha detto che accusano Abdel-Rahman anche sulla base di generiche attività come “avviare un gruppo WhatsApp” e “comunicare in rete con persone influenti fuori dalla Palestina”, e che per la maggior parte gli interrogatori hanno riguardato il suo lavoro prima del 2016.

In base al documento che Karajeh ha visionato, una delle domande che il procuratore capo ha rivolto ad Abdel-Rahman è stata: “Qual è la tua definizione di libertà di opinione e di espressione?”, cosa che secondo Karajeh dimostra, insieme ai fatti relativi all’intero caso, che la sua detenzione riguarda quello che ha detto.

Avvocati per la Giustizia’ afferma che la protratta detenzione di Abdel- Rahman è una violazione della legge fondamentale palestinese, che garantisce la libertà di opinione e di espressione.

In una dichiarazione l’associazione ha affermato che “ciò che viene attribuito a Thaher non si discosta da un naturale esercizio di libertà di opinione e di espressione” e ha definito il suo arresto “arbitrario”.

Le forze di sicurezza dell’ANP hanno rifiutato di rilasciare commenti pubblici sul caso o fornire informazioni ai giornalisti.

Karajeh ha sottolineato che finora le autorità hanno trattato Abdel-Rahman ignorando le garanzie di un processo equo, come le visite dell’avvocato, negandogli una copia della documentazione e rifiutando il suo rilascio.

Il periodo di fermo di Abdel -Rahman è scaduto, ma il servizio di sicurezza preventiva continua a chiedere ulteriori proroghe della sua detenzione col pretesto di indagine in corso,” ha aggiunto.

Rasha ha potuto visitare Abdel-Rahman solo una volta dal suo arresto, per mezz’ora. Dice che suo marito ha cercato di rassicurarla, ma che “non stava per niente bene.”

Cercava di mostrarsi forte, ma non era così e aveva paura di parlare”, aggiunge. Afferma che, quando lo ha visto in tribunale, “mostrava segni di stanchezza, sfinimento e malattia.”

In seguito la famiglia è venuta a sapere che il loro figlio era stato portato in ospedale almeno una volta.

Stato di emergenza

Lo stato di emergenza imposto dall’ANP a partire da marzo per contrastare la diffusione del Covid-19 è stato caratterizzato da continui arresti politici in un contesto di violazioni della libertà di espressione, nonostante le dichiarazioni di Shtayyeh che avrebbe garantito la libertà di parola.

Il Comitato delle Famiglie dei Prigionieri Politici nella Cisgiordania occupata ha condannato le violazioni dei diritti umani fondamentali da parte dei servizi di sicurezza, rilevando soprattutto il continuo rinnovo dello stato di emergenza in violazione della Legge Fondamentale Palestinese. Il comitato ha affermato in una dichiarazione di aver osservato un incremento delle violazioni da parte dell’ANP a partire da agosto, compresi 30 casi di arresti politici, 33 convocazioni per interrogatori e nove irruzioni in case e posti di lavoro.

L’attivista per i diritti umani e giornalista Majdouline Hassouna dice a MEE di ritenere che la protratta detenzione di Abdel-Rahman e l’indagine sulle sue produzioni artistiche e sui media rappresentano una grave escalation contro la libertà dei giornalisti e le libertà di opinione e di espressione.

Gli attacchi ai giornalisti da parte dell’ANP non sono mai cessati. Tuttavia oggi appare chiaro che aumenteranno e diventeranno sistematici”, ha detto Hassouna. “È facile per i servizi di sicurezza accusarci di appartenere a qualche partito e costruire accuse per fornire una copertura alla nostra detenzione per via dei nostri diritti di opinione, espressione e del nostro lavoro giornalistico.

Oggi non esiste alcuna struttura giudiziaria o politica che faccia pressione sui servizi di sicurezza per il rilascio di Abdel-Rahman. Siamo diventati uno stato di polizia”, ha affermato, aggiungendo che lei e i suoi colleghi intendono rivolgersi ad ambasciate e consolati per premere per il suo rilascio, nel timore che venga sottoposto a tortura o ricatto per estorcergli una confessione. 

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Rapporto OCHA del periodo 25 agosto – 7 settembre 2020

In due distinti episodi, palestinesi hanno ucciso un civile israeliano ed hanno ferito un ufficiale di polizia israeliano e un soldato

Il 26 agosto, nella città israeliana di Petah Tikva, un palestinese ha accoltellato mortalmente un israeliano. Il sospetto aggressore, un uomo di 46 anni della zona di Nablus, a quanto riferito in possesso di un permesso di lavoro, è stato successivamente arrestato. In Cisgiordania, al checkpoint di Za’atra, nel governatorato di Nablus, un palestinese ha guidato la sua auto contro forze israeliane, causando lievi ferite a un soldato e ad un ufficiale di polizia. Secondo quanto riferito, l’aggressore è poi sceso dall’auto e, brandendo un coltello, è corso verso i militari; questi hanno sparato, ferendolo ed arrestandolo. Il 6 settembre, nei pressi dell’insediamento di Ariel (Salfit), un palestinese ha tentato di accoltellare un soldato israeliano ed è stato arrestato.

In Cisgiordania, nel corso di vari scontri, sono rimasti feriti settanta palestinesi e due soldati israeliani [segue dettaglio]. La maggior parte dei feriti palestinesi sono stati registrati in scontri scoppiati durante cinque operazioni di ricerca-arresto. Altri otto palestinesi sono stati colpiti con armi da fuoco e feriti nel nord della Cisgiordania, in vari tentativi di entrare in Israele attraverso varchi aperti nella Barriera. Tre palestinesi e due soldati israeliani sono rimasti feriti durante scontri nella città di Hebron. Dei settanta palestinesi feriti, dieci sono stati colpiti con armi da fuoco, due sono stati colpiti da proiettili di gomma, due sono stati aggrediti fisicamente; i rimanenti hanno necessitato di cure mediche per aver inalato gas lacrimogeno.

In Cisgiordania, le forze israeliane hanno complessivamente svolto 152 operazioni di ricerca-arresto, arrestando 117 palestinesi [seguono dettagli]. Nella notte del 7 settembre, nel governatorato di Hebron, si è svolta un’operazione su vasta scala, conclusa con l’arresto di almeno 30 palestinesi. Un’altra grande operazione è stata effettuata il 26 agosto, a Gerusalemme Est, in più quartieri contemporaneamente: dieci persone sono state arrestate, secondo quanto riferito, per aver lavorato per l’Autorità Palestinese a Gerusalemme Est, in violazione della legge israeliana. Sempre a Gerusalemme Est, nel quartiere Al ‘Isawiya, sono continuate le consuete attività di polizia, con relative tensioni: un giornalista è stato arrestato e la sua attrezzatura è stata confiscata.

Il 31 agosto, a Gaza e nel sud di Israele, dopo oltre tre settimane di ostilità intermittenti, è ritornata una relativa calma ed Israele ha revocato le restrizioni di accesso imposte durante la situazione precedente. Durante le fasi di tensione, sono rimasti feriti 12 palestinesi e sei israeliani, e da entrambe le parti sono stati registrati estesi danni alle proprietà. A seguito della riduzione delle tensioni, Israele ha nuovamente autorizzato l’ingresso di merci, compresi materiali da costruzione e carburante; le interruzioni di corrente si sono così ridotte a 12-16 ore giornaliere; le zone di pesca consentite sono state ripristinate [da Israele] al livello pre-crisi, cioè fino a 15 miglia nautiche dalla riva meridionale [di Gaza].

Nella Striscia di Gaza, presumibilmente per far rispettare ai palestinesi le restrizioni loro imposte sia sull’accesso alle aree adiacenti la recinzione perimetrale israeliana, sia al largo della costa, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento in almeno 17 occasioni; non sono stati registrati feriti. Inoltre, in tre occasioni, le forze israeliane sono entrate a Gaza ed hanno effettuato operazioni di spianatura del terreno e di scavo vicino alla recinzione perimetrale.

Il 31 agosto, mentre raccoglievano rottami metallici nei pressi del villaggio di Khuza’a (Khan Younis), due minori palestinesi di 8 e 12 anni, sono stati feriti dalla esplosione di un residuato bellici (ERW) che essi stavano maneggiando. A Gaza, dal 2014, data della fine dell’ultimo conflitto,19 palestinesi sono stati uccisi e 172 sono stati feriti da residuati bellici.

Trentatré strutture di proprietà palestinese sono state demolite o sequestrate per mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, sfollando 98 palestinesi, di cui oltre la metà minori, e diversamente coinvolgendo circa 100 persone [segue dettaglio]. La maggior parte delle demolizioni e degli sfollamenti sono stati registrati in Area C: il più alto numero di sfollati (45 persone) si è avuto, in due momenti diversi, nella Comunità beduina di Wadi As Seeq (Ramallah). Inoltre, 12 persone sono state sfollate a seguito della demolizione di cinque strutture nella Comunità di pastori di Jinba (Hebron), situata in un’area designata [da Israele] “zona per esercitazioni a fuoco” e destinata all’addestramento dell’esercito israeliano. A Ras at Tin, presso un’altra Comunità di pastori dell’area di Ramallah, situata anch’essa in una “zona per esercitazioni a fuoco”, sono state sequestrate parti di una scuola in costruzione, finanziata da donatori, insieme ad attrezzature e materiali da costruzione. A Gerusalemme Est, quattro demolizioni hanno provocato lo sfollamento di 39 persone; in tre di questi episodi le demolizioni sono state eseguite dai proprietari, costretti a farlo per evitare costi aggiuntivi e multe.

In azioni compiute da coloni, due palestinesi sono rimasti feriti e proprietà palestinesi sono state vandalizzate [segue dettaglio]. Palestinesi di Kafr Malik (Ramallah) si sono scontrati con coloni israeliani mentre questi ultimi tentavano di creare un nuovo avamposto colonico sul terreno del villaggio; forze israeliane intervenute sul posto hanno sparato, ferendo un palestinese. In un’altra circostanza, una donna palestinese, che transitava sulla Strada 60, nel governatorato di Nablus, è stata colpita con pietre e ferita; altre tre auto hanno subito danni dal lancio di pietre. Nel villaggio di At Tuwani (Hebron meridionale) un pastore ha riferito che un colono ha speronato con l’auto le sue pecore, uccidendone dieci e ferendone cinque. In tre episodi distinti, coloni hanno vandalizzato quattro veicoli in Asira al Qibliya e Huwwara (entrambi in Nablus), dove hanno anche spruzzato graffiti su muri di case, e nel governatorato di Hebron, sulla strada 60. Inoltre, nella zona H2 di Hebron, una scalinata che porta ad un asilo è stata danneggiata da coloni.

Secondo fonti israeliane, tre israeliani sono rimasti feriti e 12 veicoli sono stati danneggiati dal lancio di pietre da parte di aggressori ritenuti palestinesi. Le pietre sono state lanciate contro veicoli israeliani che percorrevano strade della Cisgiordania.

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nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




I palestinesi devono respingere e ignorare le false dichiarazioni degli USA e a livello internazionale

Ramona Wadi

3 settembre 2020 – Middle East Monitor

Come prevedibile, il consigliere esperto di Donald Trump, Jared Kushner, non ha dato mostra di alcuna sagacia storica quando ha giustificato la normalizzazione dei rapporti tra Israele e gli EAU e riguardo a quanto ciò influenzerà di diritti politici del popolo palestinese. I palestinesi, ha dichiarato, non dovrebbero “rimanere attaccati al passato”. Questa è stata un’affermazione generica, tipica non solo degli USA, ma anche della comunità internazionale e delle sue astrazioni riguardo a “pace” e “negoziati”, che hanno preso il sopravvento rispetto a chiamare l’espansione colonialista israeliana su terra palestinese esattamente per quello che è.

C’è una differenza tra gli sforzi diplomatici per raggiungere un accordo favorevole per entrambe le parti e la coercizione per obbligare una popolazione colonizzata ad accettare le richieste del colonizzatore e dei suoi alleati. Riguardo ai palestinesi, ha aggiunto Kushner, “devono venire al tavolo delle trattative. La pace sarà a loro disposizione, ci sarà un’opportunità pronta per loro appena saranno pronti a coglierla.”

Quello che Kushner dice non è altro se non che i palestinesi saranno obbligati ad accettare di essere colonizzati come parte di un accordo, oppure obbligati ad essere colonizzati senza di esso. Più o meno nello stesso modo in cui il compromesso dei due Stati garantiva la preservazione di Israele, che venisse o meno messo in pratica il paradigma.

La normalizzazione non è ciò che sembra, cioè, con le parole del primo ministro Benjamin Netanyahu, “pace in cambio di pace”. L’accordo tra Israele e gli EAU elimina i palestinesi dall’equazione, quindi non c’è pace, ma una metaforica e verbale eliminazione della popolazione indigena dall’attuale narrazione politica, per abbinarsi alla pulizia etnica che i paramilitari sionisti hanno operato prima, durante e dopo la Nakba del 1948.

A livello internazionale il discorso è simile. L’ONU e i leader internazionali stanno parlando dell’opportunità di riprendere i negoziati, quindi si schierano con gli USA benché il quadro di riferimento per la “pace” differisca. Kushner è semplicemente stato più esplicito nel travisare la lotta anticolonialista dei palestinesi come “rimasti attaccati al passato”, mentre la comunità internazionale ha utilizzato il passato del popolo palestinese, aiutata e sostenuta dall’interesse dell’ONU nel progetto coloniale sionista, per rinchiuderli all’interno dell’inganno diplomatico.

Quindi da una parte gli USA hanno totalmente rimosso la storia palestinese, mentre l’ONU la riconosce per i propri fini. Entrambi hanno manifestato, in modi diversi, il rifiuto palestinese di negoziati con termini che sono già compromessi. Tuttavia l’ONU rifiuta di ammettere il fatto di avere un alleato nell’Autorità Nazionale Palestinese, che continua nel suo doppio gioco di rifiutare il negoziato rimanendo legata al compromesso dei due Stati.

Dopotutto c’è un tacito accordo tra l’ONU e l’ANP. Persino in tempi in cui è necessaria un’alternativa, il leader dell’ANP Mahmoud Abbas non si allontana dall’avvertimento del segretario generale dell’ONU António Guterres, secondo cui “non c’è un piano B.”

Con una simile coesione internazionale contro i palestinesi, indubbiamente Kushner si sente appoggiato nelle sue affermazioni secondo cui essi sono “rimasti attaccati al passato”, non da ultimo perché anche l’ONU ha relegato i palestinesi a una questione per la quale il tempo è passato, rendendo irrilevante, attraverso il suo appoggio a un contesto che porta all’ingiustizia, il loro legittimo diritto al ritorno. Tuttavia le affermazioni riguardanti i palestinesi sono sbagliate ed essi devono respingere ed ignorare le false dichiarazioni internazionali sulla loro situazione.

Sappiamo per certo che vogliono continuare a vivere sulla loro terra, con l’autonomia e l’indipendenza che può venire solo dalla decolonizzazione. Quello che gli USA e la comunità internazionale rifiutano di ammettere e di accettare è che per i palestinesi non ci può essere un progresso senza la loro terra.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Il Bahrein segue gli EAU e normalizza i rapporti con Israele

Al-Jazeera e agenzie

12 settembre 2020 – Al-Jazeera

La Palestina richiama l’inviato in Bahrein, denunciando l’ultimo accordo come “un’altra coltellata a tradimento contro la causa palestinese.”

Il Bahrein si è unito agli Emirati Arabi Uniti accettando di normalizzare i rapporti con Israele, con un accordo mediato dagli USA che i dirigenti palestinesi hanno denunciato come “un’altra coltellata a tradimento contro la causa palestinese”.

Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha annunciato l’accordo venerdì su Twitter, dopo aver parlato per telefono con il re del Bahrain Hamad bin Isa Al Khalifa e il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu.

È veramente un giorno storico,” ha detto Trump ai giornalisti nello Studio Ovale, affermando di credere che altri Paesi faranno altrettanto.

Era impensabile che ciò potesse avvenire e così in fretta.”

Con un comunicato congiunto gli Stati Uniti, il Bahrein e Israele hanno detto che “aprire un dialogo e rapporti diretti tra queste due società dinamiche e le loro economie avanzate continuerà la trasformazione positiva del Medio Oriente e aumenterà la stabilità, la sicurezza e la prosperità nella regione.”

Un mese fa gli EAU hanno accettato di normalizzare i rapporti con Israele in base ad un accordo mediato dagli USA che dovrebbe essere firmato martedì durante una cerimonia alla Casa Bianca ospitata da Trump, che sta cercando di essere rieletto il 3 novembre.

Alla cerimonia parteciperanno Netanyahu e il ministro degli Esteri degli Emirati, lo sceicco Abdullah bin Zayed Al Nahyan. Il comunicato congiunto afferma che il ministro degli Esteri del Bahrein Abdullatif al-Zayani si aggiungerà a questa cerimonia e firmerà una “storica dichiarazione di pace” con Netanyahu.

La storia della normalizzazione tra arabi e israeliani

Come l’accordo degli EAU, quello di venerdì tra il Bahrain e Israele normalizzerà le relazioni diplomatiche, commerciali, per la sicurezza ed altro tra i due Paesi. Il Bahrein, insieme all’Arabia Saudita, ha già annullato il divieto di passaggio sul suo spazio aereo ai voli israeliani.

Il comunicato congiunto di venerdì menziona solo marginalmente i palestinesi, che temono che le iniziative del Bahrein e degli EAU indeboliscano la tradizionale posizione di tutti i Paesi arabi di chiedere il ritiro di Israele dai territori già illegalmente occupati e l’accettazione di uno Stato palestinese in cambio della normalizzazione dei rapporti con i Paesi arabi.

Il comunicato afferma che il Bahrain, Israele e gli USA continueranno nel tentativo di “raggiungere una soluzione giusta, esauriente e duratura del conflitto israelo-palestinese per consentire al popolo palestinese di realizzare appieno il suo potenziale.”

Grave danno”

Netanyahu ha accolto positivamente l’accordo ed ha ringraziato Trump.

Ci sono voluti 26 anni tra il secondo accordo di pace con un Paese arabo e il terzo, ma solo 29 giorni tra il terzo e il quarto, e ce ne saranno altri,” ha detto in riferimento al trattato di pace del 1994 con la Giordania e all’accordo più recente.

Secondo l’agenzia di stampa statale [del Bahrein] BNA, per parte sua il Bahrein ha affermato di appoggiare una pace “giusta ed esauriente” in Medio Oriente. Questa pace dovrebbe essere basata su una soluzione a due Stati per risolvere il conflitto israelo-palestinese, dice l’articolo citando re Hamad.

Il genero di Trump e importante consigliere alla Casa Bianca Jared Kushner ha salutato gli accordi come “il culmine di quattro anni di grande lavoro” da parte dell’amministrazione Trump.

Parlando al telefono con i giornalisti dalla Casa Bianca subito dopo l’annuncio di venerdì, Kushner ha detto che gli accordi degli EAU e del Bahrein “contribuiranno a ridurre le tensioni nel mondo musulmano e consentiranno al popolo di separare la questione palestinese dai propri interessi nazionali e dalla politica estera, che dovrebbe essere concentrata sulle priorità interne.”

Tuttavia la dirigenza palestinese ha condannato l’accordo come un tradimento della causa palestinese e ha richiamato per consultazioni l’ambasciatore palestinese in Bahrein.

In un comunicato l’Autorità Nazionale Palestinese ha dichiarato di “respingere la decisione presa dal regno del Bahrein e gli chiede di ritrattarlo immediatamente per il grave danno che causa agli inalienabili diritti nazionali del popolo palestinese e all’azione congiunta degli arabi.”

L’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), con sede a Ramallah, in Cisgiordania, ha definito la normalizzazione “un’altra coltellata a tradimento alla causa palestinese.” E a Gaza il portavoce di Hamas Hazem Qassem ha affermato che la decisione del Bahrein di normalizzare i rapporti con Israele “rappresenta un grave danno per la causa palestinese e appoggia l’occupazione.”

Una decisione puramente saudita”

Khalil Jahshan, direttore esecutivo dell’Arab Center [Centro Arabo] di Washington, ha detto che il consenso saudita è stato fondamentale per la decisione del Bahrain.

È una decisione puramente saudita. Non potendo rispondere positivamente a Trump a causa di contrasti interni, la dirigenza dell’Arabia Saudita gli ha dato il Bahrein su un piatto d’argento.”

Il Bahrein, un piccolo Stato insulare, è sede del quartier generale regionale della flotta USA. Nel 2011 l’Arabia Saudita ha inviato truppe in Bahrein per contribuire a reprimere una rivolta, e nel 2018, insieme al Kuwait e agli EAU, ha offerto al Bahrein un salvataggio finanziario di 10 miliardi di dollari.

Nida Ibrahim, inviata di Al Jazeera a Ramallah, nella Cisgiordania occupata, concorda, affermando che fonti ufficiali palestinesi credono che gli accordi di Bahrein e EAU non ci sarebbero stati “senza un sostegno regionale.”

Il timore tra i palestinesi è che questi accordi rappresentino la luce verde perché altri Stati arabi normalizzino i rapporti con Israele,” dice. “E molti palestinesi che dicono di aver per anni visto gli USA come avvocati o partner di Israele, ora li vedono come i rappresentanti di Israele. Perché è Trump che annuncia gli accordi di normalizzazione.”

Da quando ha assunto il potere, l’amministrazione Trump ha perseguito politiche risolutamente filo-israeliane, compreso lo spostamento dell’ambasciata USA da Tel Aviv a Gerusalemme, ordinando la chiusura dell’ufficio di rappresentanza dell’OLP a Washington e riconoscendo l’occupazione israeliana delle Alture del Golan siriane. Il presidente USA e i suoi consiglieri hanno promosso la proposta del cosiddetto “accordo del secolo” per risolvere il conflitto israelo-palestinese ed hanno corteggiato gli Stati arabi del Golfo per cercare di ottenere appoggio all’iniziativa.

Per esempio nel giugno 2019 il Bahrein ha ospitato la conferenza organizzata dagli USA per rivelare gli aspetti economici della proposta, e all’epoca dirigenti emiratini e sauditi hanno espresso il loro appoggio a qualunque accordo economico che beneficiasse i palestinesi. Tuttavia i dirigenti palestinesi hanno boicottato quel summit, affermando che l’amministrazione Trump non era un mediatore imparziale per qualunque futuro negoziato con Israele.

Riferendo da Washington, Kimberly Halkett di Al Jazeera afferma che, mentre gli accordi tra Israele, il Bahrein e gli EAU non sono tra le principali priorità per molti elettori USA, gran parte dei sostenitori di Trump sono cristiani evangelici, favorevoli alle sue posizioni a favore di Israele.

Halkett dice che Trump sta cercando di dimostrare loro prima delle elezioni del 3 novembre che può ottenere l’“accordo del secolo” durante il suo secondo mandato.

Sta agendo come se questo fosse il quadro che porterà al cosiddetto “accordo del secolo”, afferma Halkett, nonostante il fatto che “finora il presidente e i rappresentanti della sua amministrazione non abbiano neppure parlato con i palestinesi.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Aggrapparsi ai corpi dei martiri è il modo in cui Gantz sfugge a questioni imbarazzanti

Ahmed El-Komi

10 settembre 2020 – Middle East Monitor

Due giorni dopo che la scorsa settimana i gruppi della resistenza palestinese e le autorità dell’occupazione israeliana hanno raggiunto un accordo per il cessate il fuoco, il ministro israeliano della Difesa Benny Gantz ha chiesto al gabinetto per la Sicurezza dello Stato di continuare a trattenere i corpi dei martiri palestinesi. Lo scorso mercoledì, in un momento accuratamente valutato da Israele, il gabinetto ha dato la sua approvazione.

Gli israeliani trattengono decine di corpi di palestinesi e rifiutano di restituirli alle loro famiglie, sostenendo che sono stati uccisi mentre compivano o cercavano di compiere attacchi contro lo Stato occupante. Sono tenuti in refrigeratori speciali e tombe circondate da pietre, ma senza lapidi. Su ogni tomba viene lasciata invece una placca metallica con un numero specifico, per cui sono chiamati “cimiteri di numeri”, in quanto alle tombe vengono assegnati numeri invece dei nomi dei martiri.

L’Autorità di Vigilanza israeliana ha informato dell’approvazione della richiesta di Gantz da parte del gabinetto anche nel caso in cui i martiri non fossero affiliati ad Hamas. È come se il ministro, e primo ministro in alternanza, volesse attirare l’attenzione sulla sua vendetta contro il movimento. Ciò gli consente anche di agire da leader e limitare la sua guerra a un solo avversario.

La mancata restituzione dei corpi di terroristi è parte del nostro impegno per la sicurezza dei cittadini israeliani,” ha spiegato Gantz, “e ovviamente per far tornare a casa i ragazzi.” Quest’ultimo è un riferimento ai quattro soldati israeliani catturati da Hamas nel 2014.

La decisione del gabinetto fa seguito a quella presa esattamente un anno fa, il 9 settembre, dalla Corte Suprema israeliana, che ha dato alle autorità dell’occupazione il permesso di continuare a trattenere i corpi dei palestinesi. Ciò fa di Israele l’unico Paese al mondo che continua ad adottare una politica di vilipendio dei cadaveri, con una chiara e provocatoria sfida alla comunità internazionale e in spregio ad ogni norma legale e sociale.

La tempistica dell’ultima decisione è servita a coprire il fallimento di Gantz contro la resistenza palestinese e come tentativo di placare i cittadini israeliani ed evitare le loro domande e critiche. Qualche settimana fa aveva affermato in modo arrogante: “Nel sud, Hamas continua a consentire che vengano lanciati attacchi con palloni esplosivi nello Stato di Israele. Non siamo disposti ad accettarlo e in seguito a ciò abbiamo chiuso il valico di Kerem Shalom.

Farebbero meglio a non violare l’incolumità e la sicurezza di Israele. Se ciò non avverrà, noi dovremo rispondere, e con la forza.” Tuttavia non ha osato toccare un solo ragazzo palestinese che lancia i palloni da Gaza.

Gantz ha fatto seguito alla sua decisione di trattenere i corpi con l’appoggio alla costruzione di 5.000 unità abitative nelle colonie illegali della Cisgiordania occupata, dimostrando che stava cercando un’immaginaria vittoria che gli fornisse una via d’uscita per evitare imbarazzanti domande dopo il suo fallimento. Vuole preservare la sua immagine di ministro forte di fronte al pericolo e di uomo politicamente “pulito” nel corrotto contesto politico di Israele.

Questo non è un comportamento tipico da parte di Gantz, diplomato alla scuola della leadership militare di Israele; è più adeguato a chi cerca una via d’uscita, come quelle utilizzate dagli ex-generali e ministri israeliani sempre in cerca di una vittoria di altro genere. Sfuggono al dovere di dare spiegazioni e risposte sulle sconfitte.

Nel caso di Gantz sembra che cinque mesi di lavoro con il primo ministro Benjamin Netanyahu gli abbiano insegnato come cavarsela da situazioni complicate bluffando. Tuttavia molte delle decisioni prese da Netanyahu e Gantz, entrambi abili nelle menzogne, sono condizionate dalle posizioni che impongono loro i gruppi della resistenza palestinese. L’unica risposta che un ministro del livello di Gantz può escogitare è mostrare i muscoli…e aggrapparsi ai corpi dei martiri palestinesi.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)