Con la grazia, la fede e una macchina fotografica

Noor Abdo

24 gennaio 2021- Wearenotnumbers

Nato durante la prima Intifada, Momen aveva solo una settimana di vita quando l’occupazione israeliana gli uccise il padre lasciandolo orfano nella Palestina occupata. Da quando è nato niente gli è stato facile. Lottando contro il dolore emotivo e fisico per tutta la vita, Momen ha tracciato un sentiero tutto suo.

Fotografo in divenire

Momen Faiz ha scoperto la sua passione per la fotografia da ragazzo quando viveva ad Al Shejayeh, un’area di confine nella zona est di Gaza. È un posto strategico per fotografare le rivolte e l’oppressione che avvenivano nell’area. Ha fatto i primi tentativi con una macchina fotografica che gli avevano prestato perché non ne aveva una sua. Questo gli ha offerto l’opportunità di stringere rapporti con un gruppo di fotografi e giornalisti. Ha ascoltato i loro consigli su dove mettersi per scattare le foto ed è così diventato un esperto a trovare l’angolazione giusta da cui catturare le immagini.

Momen ha cercato di comprarsi l’equipaggiamento, ma era troppo caro. Ha cominciato a lavorare come fotografo freelance per agenzie internazionali, la prima è stata Domtex.

Momen si è sempre trovato vicino alle zone dove di solito avvenivano gli attacchi perché casa sua è nei pressi del confine.

Da teenager, Momen aveva grandi sogni e visioni: diventare famoso e andarsene da Gaza, la più grande prigione a cielo aperto mai esistita, e riuscire a mostrare il suo talento al mondo. Tutto quello che sapeva del mondo esterno gli veniva dalla TV e dalla radio. Voleva girare il mondo. Ma il blocco aveva altri piani.

Adesso non posso andare” 

Una fredda mattina di settembre, Momen stava digiunando in occasione del Giorno di Arafah, il giorno prima di Eid- Al-Adha [importanti festività religiose islamiche, ndtr.], mentre andava in missione per riprendere la lotta dei commercianti palestinesi. A loro non restava altra scelta che scavare dei tunnel per poter svolgere una normale attività commerciale a causa delle restrizioni imposte dall’occupazione israeliana nelle zone di confine. Per Momen fare delle foto era solo un’altra sfida e stava gironzolando per trovare l’angolatura perfetta da cui scattare le immagini.

In un attimo Momen venne gettato a terra da un missile proveniente da un aereo da ricognizione israeliano che l’ha preso di mira direttamente e intenzionalmente. Il ventunenne perse conoscenza e sentì che l’anima stava abbandonando il suo corpo. Ma, mentre la vita gli stava passando davanti agli occhi, sentì una voce che lo implorava di andare avanti e di mettersi di nuovo in piedi. In quel momento, tutto quello che Momen disse a se stesso fu: “Non posso andarmene ora …. Non ho ancora fatto niente per la Palestina.”

L’inizio di una nuova vita

L’incidente capitato a Momen avvenne nel novembre 2008, durante un altro attacco israeliano contro Gaza durante l’operazione “Caldo Inverno” [dal 29 febbraio al 3 marzo 2008], durante la quale vennero usate contro civili inermi armi bandite a livello internazionale come le bombe al fosforo, e si lasciò dietro distruzioni massicce e un alto numero di morti. 

Fuori dalla sua finestra tutto stava crollando, ma Momen era sotto anestesia e non sentiva nulla. Non sapeva dove si trovasse o cosa gli fosse successo. Quando riprese conoscenza, gli dissero che era nell’ospedale Al-Shifa. Tutto cominciò a essere più chiaro, ma continuava a non sentire nulla. Allungando la mano per toccare le ferite sulle sue gambe, Momen non le trovò, non c’erano più!

I chirurghi avevano dovuto amputare entrambe le gambe sopra il ginocchio dato che la loro condizione continuava a peggiorare a causa della scarsità di attrezzature mediche dell’ospedale. La cancrena si era sviluppata e si era estesa a entrambe le gambe. Momen sarà confinato su una sedia a rotelle per il resto della sua vita. Per lui la possibilità di ottenere delle protesi è ridottissima a causa della continuazione del blocco e del peggioramento della situazione economica della Striscia. Ha passato 25 giorni nell’ospedale Al-Shifa prima di essere trasferito in Arabia Saudita per la riabilitazione.

La macchina fotografica, la mia migliore amica

Appena fuori dall’unità di terapia intensiva, la prima cosa che Momen ha cercato è stata la sua migliore amica, la macchina fotografica. Era l’ultimo raggio di speranza che aveva. La strinse al cuore sussurrandole: “e adesso non abbandonarmi.”

Momen parla della sua macchina fotografica: “Mi ha confessato che si sentiva frustrata perché scattava immagini di crimini di guerra contro civili disarmati, donne e bambini, sapendo di non poter cambiare la realtà di quello che stava succedendo …Poteva solo scattare immagini e aiutarmi silenziosamente a condividerle con il mondo e così non essere altro che una testimone.”

Un raggio di speranza

Dopo otto mesi di cure in Arabia Saudita, il destino aveva un piano per cambiare la vita di Momen, che aveva attirato una grande attenzione mediatica perché il suo percorso era eroico: sopravvissuto a un attacco brutale, entrambe le gambe amputate e ora determinato a ricostruirsi una vita, sempre sorridendo!

In mezzo a tutto quello che gli stava succedendo notò un reporter che spiccava fra gli altri. Una rifugiata palestinese che aveva passato tutta la sua vita in Arabia Saudita ed era molto interessata a raccontare la storia di Momen. La passione di Dima, la sua fiducia in sé e il suo coraggio hanno fatto innamorare follemente Momen. E lei non ha avuto alcun dubbio quando Momen le ha chiesto di sposarla, pur sapendo molto bene che sarebbe stato difficile lasciare la famiglia e iniziare una nuova vita a Gaza.

E adesso?

Consolato dall’amore, Momen adesso aveva una ragione per andare avanti. Dima l’ha motivato a non arrendersi, lei è stata la sua luce al fondo del tunnel che l’ha spinto, insistendo che sarebbe ritornato ancora più forte.

Con la sua sedia a rotelle e la macchina fotografica Momen ha dato un significato nuovo alla parola perseveranza. Si è rifiutato di stare a letto e ogni giorno si è alzato e ha affrontato la vita. Momen ha scelto di vivere. Ha attraversato paesaggi urbani diversi per scattare foto e non ha avuto paura di salire su auto, edifici, bulldozer, qualsiasi cosa che si frapponesse fra lui e la migliore inquadratura. La sua sedia a rotelle e la macchina fotografica sono diventate parti integranti del suo corpo.

La prima mostra internazionale di Momen è stata in Italia nel 2016. Ovviamente non ha potuto essere presente perché non gli è stato concesso un visto di viaggio. Ha partecipato via Skype e tenuto un discorso per suscitare interesse a favore della lotta palestinese.

La macchina fotografica di Momen era fiera di lui. Avevano ancora una lunga strada da percorrere insieme, ma questo era un primo passo importante nel mondo delle esposizioni internazionali. Dopo quella mostra, è stato conosciuto a livello internazionale ed è riuscito a pubblicare su varie piattaforme altri lavori che documentano la lotta quotidiana dei palestinesi.

In giro per il mondo in sedia a rotelle

Dopo che la sua richiesta di visto era stata respinta varie volte e a causa delle chiusure dei confini, Momen finalmente è riuscito a lasciare Gaza per partecipare alla sua prima mostra in Malesia. Il viaggio fino all’aeroporto internazionale del Cairo è stato movimentato e arrivato là non è stato facile muoversi nell’aeroporto con una sedia a rotelle. Ha dovuto aspettare otto giorni dentro l’aeroporto fino a quando il visto è stato accettato.

La famiglia di Momen è rimasta a Istanbul mentre lui era presente per la prima volta in Malesia alla sua mostra nel 2018.

Al suo ritorno a Istanbul, alla ricerca di una nuova opportunità, ha deciso di restare là.

Sfortunatamente nel 2019, ha perso il lavoro e non ha più percepito lo stipendio. Si trattava di un salario speciale conferito a chi era stato ferito durante la guerra e impossibilitato a lavorare. Questa perdita ha messo in pericolo lui, sua moglie e i loro quattro bambini.

Perché stava succedendo a loro? Tutte le difficoltà che Momen si era trovato davanti non erano colpa sua. Ogni peso che lo opprimeva dipendeva dal fatto che era un palestinese che voleva vivere libero.

A Momen e alla sua famiglia non è rimasta altra scelta che cercare un posto che li avrebbe accolti. All’inizio del 2020 hanno fatto domanda di visto per visitare l’Arabia Saudita e partecipare al pellegrinaggio della Umrah. Ovviamente non sapeva che il Covid-19 avrebbe colpito il mondo, bloccandolo là. Dato che il loro visto stava per scadere, hanno cercato un modo per ritornare in qualsiasi posto li accettasse. Data l’estrema difficoltà di ottenere un visto in un simile momento non trovavano altro che porte chiuse.

Catturare la verità a Gaza

Oggi, dopo sette difficili mesi, Momen e la sua famiglia sono finalmente nella Striscia di Gaza con i loro cari.

La fotografia per Momen, non è solo un hobby, è il suo modo di evadere, uno strumento che gli ha dato le ali per volar via dal blocco di Gaza. La macchina fotografica è dedita a fare il suo dovere, documentare in modo trasparente l’occupazione della Palestina. E, sebbene qualche volta sia stanca, non si arrende mai. Come Momen.

Insieme sono una coppia perfetta, nessuno lascia mai l’altro e insieme trasmettono un messaggio di determinazione, resilienza e patriottismo. Non smetteranno mai di lottare per far sentire la voce della Palestina.

Nonostante le difficoltà quotidiane, con i suoi obiettivi, sulla sua sedia a rotelle e con un sorriso sul volto capace di ispirare chiunque lo veda, Momen continua a catturare la verità.

(tradotto dall’inglese da Mirella Alessio)




Quando la polizia uccide un colono, i coloni seminano il terrore tra i palestinesi

Orly Noy

24 gennaio 2021 – +972 magazine

Da quando il mese scorso un adolescente israeliano è stato ucciso dalla polizia nel corso di un inseguimento, in Cisgiordania i coloni hanno continuato ad esercitare la loro furia attaccando e costringendo alla fuga i palestinesi.

Il mese scorso, il 21 dicembre, la polizia israeliana ha condotto un inseguimento ad alta velocità vicino all’insediamento di Kochav Hashachar nella Cisgiordania occupata. L’auto inseguita trasportava diversi giovani coloni israeliani radicali sospettati di aver scagliato poco prima pietre contro veicoli palestinesi in transito. Secondo quanto riferito, durante l’inseguimento l’auto della polizia si è schiantata contro quella dei coloni, facendola capovolgere e uccidendo il sedicenne Ahuvia Sandak.

I principali uomini di governo di Israele si sono affrettate a esprimere la loro solidarietà alla famiglia Sandak. Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha invitato i genitori di Sandak nel suo ufficio per esprimere le sue condoglianze; il ministro della giustizia Amir Ohana ha reso visita alla famiglia e ha promesso di “scoprire cosa sia realmente accaduto”; Il rabbino capo di Israele David Lau ha inviato una lettera accorata ai genitori.

La morte di Sandak ha scatenato una serie di proteste in Cisgiordania e Israele, seguite nei territori occupati da un’esplosione di violenza contro i palestinesi – che non avevano nulla a che fare con la morte di Sandak.

Secondo Yesh Din, una ONG israeliana che documenta le violazioni dei diritti umani in Cisgiordania, dopo la morte di Sandak i coloni israeliani hanno commesso 52 azioni violente contro i palestinesi. In 37 casi i coloni hanno bloccato gli incroci centrali lungo la Strada 60 – una delle autostrade nevralgiche della Cisgiordania – e hanno scagliato pietre contro le auto dei palestinesi. Yesh Din ha riferito che 14 palestinesi, di cui due minori, sono stati feriti nel corso degli attacchi con lancio di pietre. In 11 casi i coloni hanno invaso città palestinesi e hanno lanciato pietre contro i civili e [le loro] case. In occasione di tre episodi gruppi di coloni hanno attaccato dei contadini palestinesi che lavoravano la loro terra.

“I coloni le hanno lanciato una pietra in faccia”

Una dei minorenni palestinesi feriti nell’ultimo mese è una ragazzina di 11 anni di nome Hala Alqut, del villaggio di Madmeh, appena a sud di Nablus. Il 17 gennaio decine di coloni del vicino insediamento di Yitzhar, noto per per il suo violento fondamentalismo, hanno fatto irruzione nel villaggio e lanciato pietre contro le case. Il padre di Hala, Mashour, ha riferito che sua figlia era uscita per andare a casa di sua zia proprio un attimo prima dell’attacco. “L’hanno raggiunta fuori casa, e quando mia moglie è andata a salvarla dalle loro grinfie hanno aggredito anche lei”.

Hala è stata ferita al viso ed è stata portata all’ospedale Rafidia di Nablus per le cure.

Mashour, che lavora in Israele, ha ricevuto la notizia dell’attacco mentre era al lavoro. “Mia moglie mi ha telefonato piangendo e urlando: ‘Vieni a vedere cosa è successo alla ragazza – i coloni le hanno lanciato una pietra in faccia’. Mi sono spaventato moltissimo. Quando sono arrivato, ho visto i vetri rotti e le pietre dentro casa”.

La moglie di Mashour, insieme a Hala e ai loro altri tre figli – compreso un neonato – erano presenti quando ha avuto luogo l’attacco. “Hanno lanciato una pietra e hanno rotto la finestra che si trovava sopra la testa del bambino. Avrebbe potuto finire in una tragedia molto peggiore”, dice Mashour. Il trauma, aggiunge, ha fatto sì che Hala smettesse del tutto di parlare.

Il secondo minorenne ferito il mese scorso, un bambino di cinque anni, è stato colpito pochi giorni dopo da un sasso lanciato contro l’auto della sua famiglia mentre attraversava il bivio di Assaf, nei pressi di Ramallah.

Quando ho chiesto al portavoce della polizia israeliana se la polizia avesse programmato di effettuare degli arresti a seguito delle aggressioni, ho ricevuto la seguente risposta: “La polizia israeliana, insieme alle altre forze di sicurezza, è dispiegata nei vari assi viari principali e nelle zone di attrito in Giudea e Samaria (la Cisgiordania) per prevenire episodi di violenza, far rispettare la legge e mantenere l’ordine e la sicurezza pubblici”.

Il portavoce ha proseguito: “Per quanto riguarda l’incidente in cui il ragazzo è rimasto ferito, la polizia ha avviato un’indagine in cui sono state intraprese azioni investigative e raccolte prove, l’indagine è in corso”.

Stanno seduti nella mia casa al posto mio’

Nonostante il fatto che l’esercito israeliano abbia il controllo totale sui territori occupati, il compito delle indagini sugli atti criminali degli ebrei israeliani – anche quando sono commessi in Cisgiordania – spetta alla polizia. Anche questo fa parte del regime di apartheid di Israele, che mantiene due differenti sistemi giudiziari per due popolazioni, sulla base della loro nazionalità.

Tuttavia nella pratica né l’esercito né la polizia fanno molto per impedire i violenti pogrom compiuti dai coloni contro i palestinesi in Cisgiordania. A volte di fatto addirittura collaborano.

Ho assistito a questa cooperazione tra le forze armate israeliane e i coloni sabato 23 gennaio, quando mi sono unito a un gruppo di attivisti per una protesta di solidarietà nelle colline di Hebron sud. Gli attivisti si sono recati nella zona per solidarizzare con una famiglia palestinese della comunità di Khirbet Tawamin, dopo che lo scorso giovedì i coloni avevano invaso l’area e li avevano cacciati con la forza dalla grotta in cui vivono. I coloni hanno preso possesso della loro casa per ore cantando intorno a un falò che avevano acceso appena fuori dalla grotta.

In un post sconvolgente su Facebook il giornalista e attivista Yuval Abraham, che trascorre gran parte del suo tempo con le comunità palestinesi nelle colline di Hebron sud, ha riportato la sua telefonata con Abu Mahmoud, uno degli abitanti di Tawamin, che ha descritto in tempo reale le modalità in cui i coloni hanno preso possesso della sua casa:

[…] Abu Mahmoud dice: ‘Perché non hai risposto? Ho cercato di contattare l’esercito e la polizia, non arrivano. La sua voce giunge soffocata e la linea si interrompe. Restiamo entrambi in silenzio, Nasser e io. Un silenzio di paura. Nasser dice che forse dovremmo andare, ma è chiaro che è terrorizzato. Sono terrorizzato anch’io. Proviamo a chiamare di nuovo Abu Mahmoud. Non c’è campo.

Un minuto dopo Abu Mahmoud chiama (di nuovo). ‘Mi hanno cacciato di casa. Sono entrati tutti, i coloni, e si sono seduti lì al posto mio. “Ci manda un video. L’intera famiglia è fuori. I coloni sono a casa sua. Dice: ‘Perché la polizia non è qui? Perché l’Amministrazione (Civile) non è qui? Vieni presto. E noi non sappiamo cosa fare. Ci avviciniamo. Nasser dice: Entriamo nella stradina che porta a casa sua. Rispondo che forse [è meglio] di no. Poi dico no. Solo per un tratto, insiste Nasser, e la imbocchiamo, con il mio piede che trema sull’acceleratore. Vediamo 15 auto con targa israeliana parcheggiate e un falò. ‘Torniamo indietro, torniamo indietro. È pericoloso , dice Nasser.

I coloni se ne sono andati dopo alcune ore e la famiglia è potuta tornare a casa.

Il giorno seguente Abraham è tornato alla grotta di Tawamin. Mentre si trovava seduto insieme alla famiglia, ha assistito a una chiamata tra un rappresentante dell’Amministrazione Civile – il braccio del governo militare israeliano che ha il controllo sui palestinesi nella Cisgiordania occupata – e uno dei membri della famiglia. Nel corso della telefonata, che è stata registrata integralmente e pubblicata su Local Call [sito di notizie in lingua ebraica co-fondato e co-redatto da Just Vision e 972 Advancement of Citizen Journalism, che pubblica anche +972 Magazine, ndtr.], il rappresentante ammonisce in arabo la famiglia di assicurarsi che né giornalisti né attivisti entrino nella grotta.

“Non createci problemi oggi. Inteso?” ha detto il funzionario. “Assicuratevi di non accogliere giornalisti o persone che oggi potrebbero venire a casa vostra per esprimere [la loro] solidarietà.”

Quando il componente della famiglia palestinese dice all’interlocutore di non volere problemi, ma che i soldati non si sono mai fatti vivi dopo essere stati chiamati ripetutamente, il rappresentante ha urlato di rimando: “Alla fine se ne sono andati, giusto? Quindi [ciò è] khalas (“sufficiente” in arabo). I coloni non verranno più lì. Quella è la tua terra e la grotta ti appartiene, giusto? Quindi resta nella grotta. Non portare giornalisti e un mucchio di persone e non creare problemi o espellerò te e loro, capito?”

Una battaglia infinita

Khirbet Tawamin si trova a pochi passi dal villaggio di al-Rakiz, dove i soldati israeliani sono arrivati ​​all’inizio di questo mese per confiscare un vecchio generatore che serviva gli abitanti, dopo che l’amministrazione civile vi aveva eseguito delle demolizioni. Mentre i soldati cercavano di portar via il generatore, Haroun Abu Aram, uno degli abitanti di Al-Rakiz, ha cercato di riprenderlo. Un soldato gli ha sparato al collo, lasciandolo paralizzato.

Gli attivisti che si recavano a Tawamin per la manifestazione di solidarietà del sabato sono stati fermati ad un posto di blocco improvvisato della polizia a 10 chilometri dal villaggio. Ci è stato mostrato un ordine delle IDF [esercito israeliano, ndtr.] che dichiarava l’area “zona militare chiusa” – un noto trucco che l’esercito usa per tenere i palestinesi e gli attivisti di sinistra lontani da zone della Cisgiordania. La polizia ci ha invitato a fare dietrofront e ad andarcene.

Abbiamo trovato un percorso per Khirbet Tawamin attraverso le splendide colline polverose, solo per incontrare – a 10 minuti dall’arrivo – un gruppo di soldati armati che ha mostrato un’ulteriore ordinanza di zona militare chiusa. Dopodiché i soldati ci hanno dispersi con granate assordanti fino a quando abbiamo raggiunto il fondovalle, dove si trova l’insediamento coloniale israeliano di Susya (adiacente all’omonimo villaggio palestinese).

Mentre eravamo intrappolati tra una zona militare chiusa dietro di noi e l’insediamento coloniale israeliano estremista davanti a noi, un gruppo di coloni con cani di grossa taglia si è avvicinato a noi. I soldati, che evitano a tutti i costi il ​​confronto con i coloni, ancora una volta hanno dichiarato chiusa l’area e ci hanno allontanati.

Siamo risaliti verso Tawamin. I soldati che ci seguivano hanno ribadito ancora una volta l’ordine e uno di loro, che parlava correntemente l’arabo, è andato a parlare con i membri della famiglia che avevano temporaneamente perso la loro casa e avevano paura di ciò che poteva ancora accadere. Si può solo supporre che il soldato abbia ripetuto ciò che il rappresentante dell’Amministrazione Civile aveva detto loro al telefono pochi giorni prima: manda via gli attivisti, altrimenti

Qualche minuto dopo la famiglia ci è venuta incontro, ci ha ringraziato per la nostra presenza e ci ha chiesto di andarcene “per evitare problemi”. Siamo andati via, ovviamente. Conosciamo bene questa esperienza: che siano i coloni ad essere arrabbiati con l’esercito, o l’esercito ad essere arrabbiato con gli attivisti di sinistra, sono sempre i palestinesi a pagarne il prezzo.

I palestinesi e gli attivisti israeliani sanno fin troppo bene che la battaglia contro la violenza dei coloni è continua e senza fine. Oggi, 24 gennaio, e nonostante le promesse dell’Amministrazione Civile, circa 30 coloni israeliani hanno invaso lo stesso identico punto in cui gli attivisti avevano cercato di protestare solo un giorno prima. L’esercito è arrivato e ha disperso i coloni.

Orly Noy

Orly Noy è redattrice di Local Call, attivista politica e traduttrice di poesia e prosa dal farsi. È membro del consiglio esecutivo di B’Tselem e attivista del partito politico Balad. I suoi scritti affrontano i tratti che intersecano e definiscono la sua identità di mizrahi [ebrei provenienti dal Medio Oriente e dal Nord Africa, ndtr.], esponente femminile della sinistra, donna, migrante temporanea che vive dentro una perenne immigrata, e il dialogo costante tra loro.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Il Ministro della Sanità israeliano paragona il suo obbligo di vaccinare i palestinesi a quello che hanno i palestinesi di prendersi cura dei “delfini del Mediterraneo”

Philip Weiss

24 gennaio 2021 Mondoweiss

Quando Andrew Marr, giornalista e presentatore della BBC, ha incalzato il Ministro israeliano della Sanità Yuli Edelstein chiedendogli perché Israele non estenda il suo piano di vaccinazione ai palestinesi che vivono nei territori occupati, Edelstein ha affermato che l’obbligo che Israele ha nei loro confronti è equivalente a quello del suo omologo palestinese “di prendersi cura dei delfini del Mediterraneo.” Sì, avete sentito bene. 

Ecco quello che si sono detti. Sorprende che i servizi sui media USA parlino delle percentuali israeliane di vaccinazione come qualcosa da prendere a modello. (uno per tutti, Richard Engel di NBC)

Marr: L’ONU ha dichiarato che siete legalmente tenuti ad assicurare un accesso rapido e paritario ai vaccini anti Covid-19 ai palestinesi che vivono sotto occupazione. Perché non lo fate?

Edelstein: Per quanto riguarda i vaccini, penso che l’obbligo di Israele valga prima di tutto nei confronti dei propri cittadini. Non pagano forse le tasse per questo? Ma ciò detto, ricordo pure che è nostro interesse – non un obbligo legale – che è nostro interesse fare in modo che i palestinesi abbiano il vaccino e non trasmettano il Covid-19.

Marr: Capisco, ma i palestinesi vi hanno chiesto i vaccini e voi non glieli avete dati, e secondo la Convenzione di Ginevra, la 4^ Convenzione di Ginevra, Israele ha l’obbligo di farlo. Posso leggerglielo. L’articolo 56 dice che Israele “deve adottare e fornire le misure di profilassi e prevenzione necessarie a combattere la diffusione di malattie ed epidemie in collaborazione con le autorità locali.” Ecco, questo significa il vaccino. Perché non gli fornite il vaccino?

Edelstein: Direi che prima di tutto dovremmo analizzare anche i cosiddetti Accordi di Oslo laddove si dice chiaro e tondo che i palestinesi devono badare loro alla propria salute.

Marr: Scusi se la interrompo nuovamente, ma l’ONU afferma che su questo la legge internazionale prevale sugli Accordi di Oslo.

Edelstein: Se è responsabilità del Ministro della Sanità israeliano prendersi cura dei palestinesi, allora quale è esattamente la responsabilità del Ministro della Salute palestinese? Prendersi cura dei delfini del Mediterraneo?

Marr: Scusi, lasci che le dica che anche molti dei vostri stessi cittadini pensano che dovreste fare di più. Duecento rabbini hanno dichiarato in una petizione: “Un imperativo morale dell’ebraismo richiede di non mostrarci indifferenti nei confronti delle sofferenze del prossimo, ma di mobilitarci e offrire il nostro aiuto nel momento del bisogno.” Hanno ragione i rabbini o no?

Edelstein: Direi che i rabbini hanno sempre ragione, ma aggiungo anche che è esattamente per questo motivo che quando i palestinesi e le loro unità mediche si sono rivolti a noi per questioni sanitarie, ho autorizzato la fornitura di qualche vaccino alle equipe mediche della Autorità Nazionale Palestinese che hanno in cura pazienti Covid. Come è chiaro da questa intervista, non l’ho fatto perché credo che abbiamo degli obblighi legali in tal senso, ma perché mi rendo conto che in questa fase ci sono medici ed infermieri che non ricevono il vaccino. 

 

Alcuni anni dopo un massacro israeliano a Gaza Jimmy Carter ebbe a dire che Israele tratta i gazawi come se fossero animali e per questo venne accusato di antisemitismo; stavolta il messaggio arriva direttamente da un israeliano.

Aggiungo che è impossibile immaginare che un giornalista di un’emittente USA sia duro come Marr nei confronti del Ministro della Sanità israeliano. Anche se quel giorno si avvicina.

La contraddizione fra le posizioni che prenderanno gli USA sui temi della diversità/parità e la loro relazione con il regime suprematista ebraico diventerà schiacciante nell’era Biden. Negli USA qualunque funzionario della sanità usasse un linguaggio simile a quello di Edelstein perderebbe il posto.

 

 

(traduzione dall’inglese di Stefania Fusero)

 




La responsabile dell’UE sull’antisemitismo mente in modo sfacciato

Ali Abunimah

22 gennaio 2021- Electronic Intifada

Questa è una vicenda che rivela come funzionari dell’Unione Europea eludano le proprie responsabilità quando vengono colti ad aver mentito sfacciatamente a favore di Israele.

All’inizio di questa settimana ho scritto riguardo alla grande vittoria giudiziaria per i sostenitori dei diritti dei palestinesi in Spagna. Nel 2015 attivisti del gruppo BDS-País Valencià [Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni-Paese Valenziano] hanno chiesto a un festival musicale di cancellare l’esibizione di Matthew Paul Miller, cantante che usa il nome d’arte Matisyahu, per le sue dichiarazioni anti palestinesi e per aver contribuito a promuovere una raccolta fondi a favore dell’esercito di occupazione israeliano.

Questo mese un tribunale di Valencia ha smentito le accuse di delitto d’odio contro gli attivisti. I giudici hanno stabilito che essi avevano contestato la presenza di Miller al festival solo a causa delle sue presunte opinioni sulla politica israeliana, “non in quanto ebreo, per la sua religione o qualunque altra condizione.”

Il tribunale spagnolo ha anche confermato la storica sentenza di giugno della Corte Europea per i Diritti Umani, secondo la quale chiedere il boicottaggio di Israele a causa dei suoi crimini contro i palestinesi non è antisemita ed è una forma di manifestazione politica tutelata dalla legge.

Benché fin dall’inizio i fatti relativi all’incidente in Spagna fossero chiari, la recente sentenza è una totale discolpa degli attivisti da parte di giudici imparziali.

Eppure negli ultimi anni l’Unione Europea ha calunniato gli attivisti, sostenendo falsamente che essi avevano contestato Miller perché ebreo.

Questa falsa accusa di antisemitismo è stata fatta da Katharina von Schnurbein, coordinatrice dell’UE per l’antisemitismo, durante una conferenza del 2019 per la presentazione di un rapporto del governo israeliano che calunniava il movimento di solidarietà con i palestinesi.

Ciò viene ripetuto in un manuale dell’UE recentemente pubblicato che accoglie la cosiddetta definizione di antisemitismo dell’IHRA [International Holocaust Remembrance Alliance, organizzazione intergovernativa per il ricordo dell’Olocausto, ndtr.].

Questa definizione fuorviante, sostenuta da Israele e dalla sua lobby, confonde le critiche al razzismo e ai crimini di guerra israeliani contro i palestinesi da una parte con il fanatismo antiebraico dall’altra.

Evasività

Mentre stavo scrivendo il mio articolo, ho inviato una mail a von Schnurbein chiedendole se avrebbe ritrattato le false accuse che aveva fatto riguardo all’incidente del 2015 con Matisyahu.

La risposta è arrivata dopo che avevo già pubblicato il mio articolo, ma non dalla stessa Schnurbein.

Mi ha scritto invece Christian Wigand, un portavoce della Commissione Europea, il potere esecutivo dell’UE:

Non commentiamo le sentenze dei tribunali dei nostri Stati membri. Per quanto riguarda la posizione sul movimento BDS della Commissione, e di fatto dell’Unione Europea, che è stata ripetuta durante l’evento che lei cita dalla nostra coordinatrice, la signora von Schnurbein, la nostra posizione è molto chiara e non è cambiata.”

Devo riconoscere a Wigand il magistrale esempio di evasività burocratica, ma non molto più di questo. Non avevo chiesto un commento sulla sentenza del tribunale in sé, ma se von Schnurbein continuasse a sostenere le sue stesse affermazioni che stravolgevano in modo grossolano l’incidente di Matisyahu del 2015. Né avevo chiesto la posizione dell’UE sul movimento BDS, Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni [contro Israele, ndtr.].

La saccente von Schnurbein

Tuttavia, benché non volessi un commento sulla decisione del tribunale, l’ultima persona che possa sostenere di non parlare di tali argomenti è Katharina von Schnurbein.

Come dimostra la sua pagina twitter, von Schnurbein ha regolarmente commentato casi giudiziari, alcuni dei quali mentre erano ancora in corso.

In almeno un esempio ha pubblicamente chiesto che le procure locali perseguissero persone per discorsi d’odio.

Ha anche manifestato le proprie opinioni su decisioni della Corte Europea per i Diritti Umani, che fa parte del Consiglio d’Europa, un’istituzione separata dalla UE.

La saccentissima von Schnurbein commenta regolarmente anche decisioni di governi e parlamenti di Stati membri dell’UE e delle loro autorità locali.

È stata anche rimproverata per aver criticato pubblicamente un membro eletto del Parlamento Europeo, una palese violazione della neutralità che dovrebbe osservare in quanto funzionaria civile non eletta.

Perciò l’affermazione secondo cui von Schnurbein, a cui la mia richiesta era originariamente diretta, non commenta procedimenti giudiziari è una menzogna, detta nel tentativo di evitare di dover rendere conto di una precedente menzogna.

Ho risposto al portavoce dell’UE Wigand affrontando questi argomenti. Gli ho detto che ho fatto una domanda diretta e vorrei una risposta diretta che non ricorra a scuse o sviamenti.

Katharina von Schnurbein conferma la sua affermazione secondo cui le proteste contro Miller erano motivate da intenti antisemiti?

Dato che non ho ricevuto ulteriori risposte, prendo questo silenzio come se significasse che l’UE e la sua coordinatrice per l’antisemitismo in effetti confermano le sue affermazioni diffamatorie contro gli attivisti spagnoli.

I cittadini degli Stati dell’UE meriterebbero qualcosa di meglio che essere minacciati, calunniati e ingannati da burocrati di Bruxelles che sembrano rispondere solo a Israele e alla sua lobby.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Signor Blinken, noi condividiamo storie familiari simili

Mona AlMsaddar

20 gennaio 2021 – We Are Not Numbers

Gaza

Una lettera aperta ad Antony Blinken, che sta per essere designato Segretario di Stato del presidente degli Stati Uniti Joe Biden. Quando ha accettato la sua nomina, Blinken ha ricordato il suo patrigno Samuel Pisar, che era uno dei 900 bambini della sua scuola a Bialystok, in Polonia, ma l’unico [fra loro] sopravvissuto all’Olocausto dopo quattro anni [trascorsi] nei campi di concentramento. Ha continuato col ricordare la fuga di Pisar da una marcia della morte [si riferisce ai movimenti forzati di decine di migliaia dei prigionieri dai campi di concentramento polacchi che nell’inverno del 1944-45 stavano per essere raggiunti dalle forze sovietiche, verso altri lager all’interno della Germania, ndtr.] nella Germania controllata dai nazisti, dopo di che il ragazzo fu salvato da un soldato afro-americano. Poco prima di essere trasportato su un carro armato, Pisar “cadde in ginocchio e disse le uniche tre parole in inglese che conosceva, che sua madre gli aveva insegnato prima della guerra: “God bless America” [Dio benedica l’America, ndtr.]. (Questa storia rivela perché non sorprende che Blinken, nel corso della sua audizione di conferma, abbia detto ai senatori che non è sua intenzione riportare l’ambasciata degli Stati Uniti da Gerusalemme a Tel Aviv e abbia affermato che gli Stati Uniti riconoscono Gerusalemme come capitale di Israele.)

Caro signor Blinken,

credo che le persone rinascano mediante le loro sofferenze. Esse apprezzano meglio ciò che è utile per sopravvivere e imparano a trovare la felicità anche nei momenti più banali perché sanno quanto essa valga.

Seguo le notizie e quando lei è stato nominato ho voluto approfondire la mia conoscenza riguardo al suo passato e al perché lei la pensi in questo modo, in quanto, se sarà confermato dal Senato degli Stati Uniti, lei avrà molta influenza sulla mia vita. Lei, più di quasi ogni altro politico americano, guiderà le relazioni del suo Paese sia con Israele, che controlla la mia patria, sia con i palestinesi, che vivono sotto il suo tallone. Sono rimasta commossa e rattristata da quanto è successo al suo patrigno durante la seconda guerra mondiale. Sono profondamente dispiaciuta per il terrore e la perdita che ha vissuto come unico sopravvissuto tra i 900 bambini della sua scuola a Bialystok, in Polonia. E poi fuggire da una delle famigerate “marce della morte” di Hitler! Rabbrividisco al pensiero.

Ogni tragedia è unica. Ma leggere dell’esilio forzato del suo patrigno mi fa venire in mente i miei nonni materni e il loro trasferimento forzato in seguito alla fondazione di Israele nel 1948. Noi la chiamiamo Nakba (catastrofe). Come il suo patrigno i miei nonni sono stati costretti a lasciare la loro casa a causa della loro razza e religione.

Il padre di mia madre, Ahmad, all’epoca aveva solo 12 anni. Suo fratello, Ibrahim, ne aveva 15 e sua sorella solo 7. La loro famiglia viveva a Faja, un piccolo villaggio vicino a Giaffa, nell’attuale Israele. Oggi non c’è più. È stato inglobato nella città israeliana di Petah Tikva, che non mi è permesso visitare. L’assedio israeliano mi impedisce di lasciare Gaza, tanto più di entrare nella terra che la famiglia dei miei nonni ha chiamato patria per secoli.

Il mio bisnonno, Mohammad, era un uomo molto alto con gli occhi verdi come un limone non ancora maturo. Aveva una parte calva al centro della testa, quindi si pettinava i capelli in maniera tale da coprirla, ma in modo gradevole da vedere. Era l’unico a Faja ad avere una bicicletta. Vi pedalava con la sua amata moglie, Fatima, seduta in braccio. Sono cresciuti in una società tradizionalista, ma lui si è innamorato di lei da distante. Erano cugini e lui l’aspettava quando lei andava a prendere l’acqua, guardandola da lontano. Più tardi, quando si sono fidanzati e poi sposati, hanno lavorato la terra insieme negli aranceti.

Quella serena esistenza cessò nel 1947, quando le bande israeliane aprirono il fuoco contro il caffè del villaggio e le persone sedute all’interno. Erano tutti preoccupati per quello che avrebbe potuto accadere in seguito. Ma nessuno avrebbe mai immaginato che sarebbero stati costretti a fuggire dal loro amato villaggio e che non vi sarebbero più tornati!

La notte, nei miei sogni, posso ricostruire la loro fuga forzata, sulla base delle storie che mi raccontano i miei nonni. Loro erano solo dei bambini, come il suo patrigno, Signor Blinken. Correvano sotto la minaccia dei bombardamenti e camminavano a fatica per lunghe distanze da un villaggio all’altro, dormendo in tenda, incerti su cosa avrebbero mangiato o bevuto il giorno successivo. I miei bisnonni erano convinti che il loro esilio sarebbe stato solo temporaneo, ma mio nonno e i suoi fratelli ebbero nostalgia di casa sin dal primo giorno. Ancora oggi, quando li guardo negli occhi, riesco quasi a vedere Faja, lì che aspetta con i suoi aranci.

Il mio bisnonno amava giocare a seega (un gioco da tavolo egiziano simile agli scacchi) con i suoi amici sotto l’albero di eucalipto camaldulensis (noto anche come eucalipto rosso). Più tardi, come rifugiato nella città di Rafah, a Gaza, lui e uno dei suoi amici hanno continuato a giocare insieme fino alla morte del suo vecchio compagno di giochi. Quello era il loro modo di ricordare il loro villaggio.

Nel 1977 il mio bisnonno riuscì a visitare Faja, o meglio le sue rovine, con i suoi nipoti, compresa mia madre! La scuola frequentata da suo figlio Ahmad (mio nonno) non c’era più. E così il parco giochi del luogo. L’unica cosa che ritrovarono della Faja che conoscevano fu il solitario albero di eucalipto, che immaginavano sarebbe riuscito a sopravvivere, nell’attesa che i suoi giovani amici tornassero a giocare a seega sotto la sua chioma. Mia madre, Aysha, mi ha detto che quando suo padre vide l’albero si sedette sotto di esso e pianse! Avrebbe voluto restare lì per sempre, ma non poteva perché il suo permesso di permanenza rilasciato dagli israeliani stava per scadere. Il permesso di tornare nella terra di proprietà della sua famiglia era valido solo per una volta e per poche ore!

Posso chiederle di mettersi nei nostri panni? Chiuda gli occhi e immagini di voler tornare a casa dei suoi nonni. Ma l’ufficiale dell’aeroporto non glielo permetterà. Oppure, nella migliore delle ipotesi, può entrare in città solo per poche ore. Se rimanesse di più, verrebbe punito, probabilmente sbattuto in prigione. Come si sentirebbe, ci pensa? Definirlo crepacuore non è sufficiente a descrivere quello che provo ogni giorno.

Sono una ragazza palestinese di 25 anni per metà rifugiata (la famiglia di mio padre è nata qui), a cui non è mai stato permesso di lasciare il campo di concentramento di Gaza. Potrebbe pensare che sia eccessivo chiamarlo così, ma consideri: non siamo autorizzati a gestire un porto o un aeroporto e possiamo partire solo via terra se ci viene concesso un raro permesso. Tutto quello che so degli aeroplani riguarda i droni e i caccia a reazione. Conosco persino la differenza tra un F16 e un F35. Mentre scrivo questo il suono dei bombardamenti è tanto forte nel mio cuore. Non ci è permesso guadagnarci da vivere con le esportazioni. Abbiamo l’elettricità solo dalle quattro alle otto ore al giorno a causa della scarsità di carburante e la maggior parte della nostra acqua non è potabile perché non possiamo ricostruire i nostri impianti di trattamento delle acque reflue.

La nostra Nakba non è rimasta limitata al 1948. Continua ogni giorno che siamo costretti a vivere in queste condizioni. Quindi, per favore, signor Blinken, quando nei prossimi mesi prenderà decisioni sulla politica riguardante Israele e i palestinesi si ricordi della mia famiglia. Stiamo cercando in ogni modo di vivere e sopravvivere. Venga a trovarci per vedere di persona. Sarà mio ospite. Forse potremmo persino insegnarle il seega.

Fiduciosi saluti,

Mona AlMsaddar

Un’altra sopravvissuta alla guerra

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Il responsabile della politica estera di Biden: USA intendono mantenere l’ambasciata a Gerusalemme.

Al Jazeera e agenzie di notizie

20 gennaio 2021 – Al Jazeera

Antony Blinken afferma che l’amministrazione Biden non annullerà il controverso trasferimento dell’ambasciata USA a Gerusalemme, voluto da Donald Trump.

La nuova amministrazione del presidente eletto Joe Biden manterrà l’ambasciata USA in Israele a Gerusalemme, ha affermato il suo candidato a Segretario di Stato durante l’audizione di conferma al Senato.

Siete d’accordo che Gerusalemme sia la capitale di Israele e vi impegnate a che gli Stati Uniti mantengano la propria ambasciata a Gerusalemme?”, ha chiesto il senatore repubblicano del Texas Ted Cruz [esponente dell’estrema destra trumpiana, ndtr.].

Sì e ancora sì”, ha detto Antony Blinken nella sua audizione martedì.

Il presidente uscente Donald Trump annunciò il riconoscimento USA di Gerusalemme come capitale di Israele nel dicembre 2017. Gli USA trasferirono l’ambasciata in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme nel maggio dell’anno seguente.

Gerusalemme resta al centro del pluridecennale conflitto mediorientale, con l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) che sostiene che Gerusalemme est – occupata illegalmente da Israele dal 1967 – debba essere la capitale di uno Stato palestinese.

L’unico modo per garantire il futuro di Israele come Stato ebraico e democratico e per dare ai palestinesi uno Stato a cui hanno diritto sta nella cosiddetta soluzione a due Stati”, ha detto Blinken.

Penso che realisticamente sia difficile vedere prospettive a breve termine per avanzare a questo proposito. Ciò che sarebbe importante è garantire che nessuna delle parti prenda iniziative che rendano ancor più insidioso il già arduo processo”, ha aggiunto.

Finora non vi è stato alcun commento da parte della leadership palestinese.

Lama Khater, una giornalista che vive nella città di Hebron nella Cisgiordania occupata, ha scritto su twitter: “Tutto può cambiare nei programmi delle varie amministrazioni USA, tranne l’assoluta lealtà verso Israele”.

L’amministrazione Trump è stata sfrontata nel suo aperto sostegno ad Israele.

Gli scorsi quattro anni hanno consolidato il favore statunitense nei confronti di Israele attraverso politiche come la cancellazione degli aiuti USA all’ANP e l’annullamento dei finanziamenti all’agenzia ONU per i rifugiati, da cui milioni di palestinesi dipendono per l’istruzione, il cibo e il sostentamento.

In conflitto con la posizioni condivisa a livello internazionale, l’amministrazione Trump ha riconosciuto la sovranità di Israele su Gerusalemme e sulle Alture del Golan occupate e ha dichiarato che la costruzione di colonie non è illegale.

Circa 500.000 israeliani vivono in colonie situate nella Cisgiordania occupata. Negli ultimi anni l’espansione delle colonie si è intensificata, mettendo a serio rischio la possibilità di uno Stato palestinese indipendente come parte della soluzione a due Stati.

Benché Biden abbia affermato che la sua amministrazione ripristinerà la politica di Washington precedente a Trump di opposizione all’espansione delle colonie, dichiara tuttavia “un ferreo sostegno” ad Israele.

Gli analisti hanno sottolineato che la politica di Biden verso Israele sarà probabilmente in continuità, non in opposizione, alla precedente amministrazione. Funzionari della campagna di Biden hanno affermato che probabilmente lui non annullerà nemmeno il riconoscimento di Trump della sovranità di Israele sulle Alture del Golan occupate.

Biden ha detto che lascerà l’ambasciata USA a Gerusalemme.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




A Gaza viene ristrutturata una scuola di 800 anni fa

Entsar Abu Jahal

18 gennaio 2021 – Al-Monitor

Il ministero del Turismo e delle Antichità, il Comune e il Centro Iwan per il Patrimonio Culturale di Gaza hanno lanciato un’iniziativa con alcuni attivisti per ristrutturare un’antica scuola nel centro storico di Gaza City, con lo scopo di preservare il patrimonio culturale dell’enclave e rendere consapevoli i palestinesi dell’importanza della cultura.

Gaza City, Striscia di Gaza – All’inizio di dicembre un gruppo di giovani artisti ed attivisti della Striscia di Gaza, insieme al ministero del Turismo e delle Antichità, al Comune di Gaza e al Centro Iwan per il Patrimonio Culturale, ha avviato un’iniziativa per ristrutturare la scuola Kamalaia nel centro storico di Gaza City.

L’iniziativa, denominata “Baytkom Amer” (approssimativamente traducibile con “la nostra casa sarà sempre felice”) è parte del progetto per la Cultura, l’Arte e la Partecipazione della Comunità, che promuove la conservazione del patrimonio culturale della Città Vecchia, con particolare riguardo al potenziamento del dialogo comunitario e della sensibilizzazione sull’importanza della cultura che contribuisce a questo dialogo.

Il progetto è finanziato dalla Fondazione Abdul Mohsin al-Qattan [Ong palestinese con sede a Londra, ndtr.] e dall’Agenzia Svizzera per lo Sviluppo e la Cooperazione.

Il coordinatore dell’iniziativa, Abdullah al-Razi, ha detto ad Al-Monitor che la scuola Kamalaia, che si trova nel cuore della Città Vecchia ed è stata chiusa negli anni ’70, ha circa 800 anni, in quanto risalente all’epoca dei Mamelucchi. È stata costruita con antiche pietre calcaree su un’area di 800 m2. Ha spiegato che la scuola è stata abbandonata per molto tempo e trasformata in discarica per il quartiere, mentre, data la sua collocazione strategica, da molte parti si voleva sfruttare l’edificio e trasformarlo in complesso residenziale o commerciale.

Razi ha affermato che l’iniziativa si inserisce nel quadro della conservazione del patrimonio culturale della Città Vecchia, ricca di reperti antichi e di testimonianze storiche, allo scopo di attivare il dibattito nella comunità, adottare un edificio del patrimonio culturale e rafforzare i legami comunitari. Aggiunge che l’iniziativa coinvolge un gruppo di artisti e di attivisti competenti, così come vari volontari della zona.

“La scuola Kamalaia è considerata parte del lavoro sul patrimonio architettonico abbandonato, come una fondamentale questione nazionale, e parte della responsabilità individuale e collettiva, intesa a sensibilizzare riguardo all’importanza della conservazione del patrimonio del centro storico,” ha notato.

Razi ha aggiunto che la prima fase dell’iniziativa è stata ripulire il cortile della scuola, le sue stanze e corridoi, oltre a qualche lavoro di restauro di tre aule fatiscenti e dei muri perimetrali per garantire la sicurezza dell’edificio e dei suoi futuri inquilini. Questa prima fase è praticamente completata e sarà seguita dall’avvio di attività culturali e artistiche nell’edificio della scuola.

“Abbiamo ricevuto un finanziamento di 20.000 dollari, che non sono sufficienti per ristrutturare tutta la scuola. Questa cifra è destinata a lavori di restauro e alle attività,” dice Razi.

Ha spiegato che gli interventi previsti dall’iniziativa includono incontri, laboratori tecnici, riunioni serali, mostre e campagne sul campo, nel tentativo di sensibilizzare i palestinesi riguardo al patrimonio culturale e ad edifici antichi nella Striscia di Gaza e di coinvolgerli nei processi di salvaguardia di tali monumenti.

Commentando le difficoltà del progetto, Razi ha affermato che si è trattato di una duplice sfida – una relativa ai problemi con la proprietà dell’edificio e un’altra riguardante i problemi della comunità. “Abbiamo un lungo cammino da fare per arrivare a un cambiamento culturale, artistico e storico, che può essere fatto dalla comunità attraverso questa iniziativa.”

Razi spera che il progetto, in base all’arrivo dei fondi della durata prevista di 10 mesi, sarà sostenibile dopo questo periodo grazie al patrocinio da parte di organizzazioni non governative locali e internazionali.

Hussein Odeh, capo dell’ufficio del Comune di Gaza per le pubbliche relazioni, ha detto ad Al-Monitor che riguardo alla proprietà della scuola c’è stata una discussione tra il Comune, il ministero del Turismo e delle Antichità e il ministero del Patrimonio. “Senza citare il fatto che anche alcuni abitanti ne rivendicano la proprietà. Questi problemi hanno portato all’abbandono della scuola, che è diventata una discarica di quartiere. L’iniziativa giocherà un ruolo nel mettere insieme i vari punti di vista, in quanto tutte le parti promuovono l’interesse pubblico attraverso investimenti a favore dei servizi alla comunità,” ha affermato, alludendo ai problemi di proprietà che devono ancora essere risolti.

“Come parte dell’iniziativa è stato firmato un protocollo d’intesa con la municipalità, in cui provvediamo ad ogni servizio necessario come la pulizia, lo sgombero della spazzatura, l’allacciamento al servizio idrico e il coordinamento con la compagnia elettrica per fornire energia alla scuola,” ha affermato Odeh. “Il gruppo di lavoro ha un piano per il riciclaggio dei rifiuti ambientali, per cui abbiamo aperto loro i depositi comunali.”

Jamal Abu Raida, direttore del Dipartimento delle Antichità e del Patrimonio storico del ministero del Turismo e delle Antichità a Gaza, ha detto ad Al-Monitor che il gruppo di lavoro ha firmato un protocollo d’intesa con il ministero per tenere laboratori e seminari educativi e artistici nella scuola, nel tentativo di sensibilizzare i cittadini sull’importanza delle antichità come parte del patrimonio culturale dei palestinesi.

“Il ministero accoglie positivamente ogni iniziativa della comunità riguardante il restauro di monumenti e resti storici, sempre che ciò venga fatto con la supervisione del ministero e non pregiudichi le caratteristiche del monumento,” ha affermato.

Abu Raida ha sottolineato che il blocco israeliano contro la Striscia di Gaza, in atto dal 2006, ha influenzato negativamente i progetti di restauro e la conservazione di luoghi archeologici nell’enclave costiera, soprattutto perché questi lavori richiedono notevoli somme di denaro che il governo non può fornire. Ha spiegato che per simili progetti il ministero si basa su finanziamenti internazionali.

“Il governo non può destinare un bilancio stimato a milioni di dollari per il restauro di siti archeologici, in quanto per ora questa non è una priorità a causa della difficile situazione finanziaria,” ha aggiunto Abu Raida.

Ahmad al-Astal, direttore del Centro Iwan, ha detto ad Al-Monitor di aver realizzato lavori di restauro solo nelle parti pericolanti della scuola per poter ricevere in sicurezza visitatori e tenervi eventi. Ha affermato che l’iniziativa intende far rivivere questo antico monumento per ottenere finalmente il finanziamento necessario per restaurarlo interamente, notando che a questo scopo è stato preparato un progetto da presentare a donatori internazionali.

“Il finanziamento è la parte più complessa dell’iniziativa, in quanto è difficile convincere i donatori a causa della divisione tra i palestinesi. Per non parlare delle sfide per educare la comunità riguardo all’importanza di preservare il patrimonio culturale. Stiamo lavorando con le autorità coinvolte e competenti per distribuire istruzioni e regolamenti sulla protezione di reperti antichi a Gaza,” ha sottolineato.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Rapporto OCHA del periodo 5 gennaio – 18 gennaio 2021

Secondo quanto riferito, in due distinti episodi, due palestinesi che avevano aggredito israeliani, sono stati successivamente colpiti con armi da fuoco; uno è morto e l’altro è rimasto ferito [seguono dettagli].

Secondo fonti israeliane, il 5 gennaio, allo svincolo di Gush Etzion (Hebron), un palestinese 25enne si è avvicinato al coordinatore della sicurezza di un insediamento israeliano e gli ha lanciato un coltello, il coordinatore ha sparato, uccidendolo. Il 13 gennaio, ad un posto di blocco nella città vecchia di Hebron, un palestinese avrebbe tentato di accoltellare un ufficiale della polizia di frontiera ed è stato colpito e ferito dalle forze israeliane. Il giorno prima, al checkpoint di Qalandiya (Gerusalemme), un uomo palestinese avrebbe aggredito, con un cacciavite, una guardia di sicurezza israeliana, venendo successivamente arrestato.

In Cisgiordania, in scontri con le forze israeliane sono rimasti feriti 79 palestinesi, inclusi 14 minori [seguono dettagli]. La maggior parte dei ferimenti (59) sono avvenuti vicino ai villaggi di Al Mughayyir e Deir Jarir (Ramallah), durante le proteste contro la realizzazione di due insediamenti avamposti, o vicino a Kafr Qaddum (Qalqiliya), durante proteste contro le attività di insediamento colonico. Negli scontri di Al Mughayyir è rimasto ferito anche un soldato israeliano; per oltre una settimana, l’ingresso principale del villaggio è stato interdetto alla circolazione dei veicoli. Otto palestinesi sono stati colpiti e feriti vicino a Tulkarm, nel tentativo di entrare in Israele attraverso una breccia nella Barriera. Altri due palestinesi sono rimasti feriti nel corso di due proteste: ad Ar Rakeez, nel sud di Hebron, dopo che le forze israeliane avevano sparato ad un uomo durante una confisca avvenuta il 1° gennaio; a Deir Ballut (Salfit) contro lo sradicamento di alberi. I rimanenti feriti sono stati registrati durante operazioni di ricerca-arresto nei Campi profughi di Qabatiya (Jenin), Tammun (Tubas), Aqbet Jaber (Gerico) e Ad Duheisheh (Betlemme), o in scontri presso vari checkpoint. Cinquantacinque dei 79 feriti, sono stati curati per inalazione di gas lacrimogeni, 14 sono stati colpiti con proiettili di armi da fuoco, otto sono stati colpiti da proiettili di gomma e gli altri sono stati aggrediti fisicamente.

In Cisgiordania le forze israeliane hanno effettuato 161 operazioni di ricerca-arresto, arrestando 157 palestinesi. Il governatorato di Gerusalemme ha continuato a registrare il maggior numero di operazioni (33), effettuate prevalentemente a Gerusalemme Est.

Nel governatorato di Hebron, in due distinti episodi, due palestinesi hanno riportato ferite gravi nell’esplosione di residuati bellici che essi stavano maneggiando. Uno era al lavoro sul proprio terreno, vicino al villaggio di As Samu, nei pressi della Barriera; l’altro, un 17enne, stava pascolando il bestiame vicino a Mirkez, in un’area destinata dalle autorità israeliane all’addestramento militare. L’esercito israeliano ha trasportato il ragazzo in un ospedale israeliano per cure mediche.

Il 18 gennaio, da Gaza sono stati lanciati verso Israele due razzi, a seguito dei quali le forze israeliane hanno effettuato attacchi aerei su Gaza. A quanto riferito, i razzi palestinesi si erano attivati automaticamente a causa delle condizioni meteorologiche e sono caduti in mare vicino alla costa israeliana. Secondo quanto riferito, gli attacchi israeliani hanno colpito obiettivi militari, ed hanno danneggiato un terreno coltivato a Khan Younis.

[Sul lato interno della] Striscia di Gaza, vicino alla recinzione perimetrale e in mare, le forze israeliane hanno aperto il fuoco d’avvertimento in almeno 47 occasioni, presumibilmente per far rispettare [ai palestinesi] le restrizioni di accesso. Inoltre, in due occasioni, le forze israeliane [sono entrate nella Striscia e] hanno spianato terreni in prossimità della recinzione.

In Area C, citando la mancanza di permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno demolito o sequestrato 24 strutture di proprietà palestinese, sfollando 34 persone e creando ripercussioni su circa 70 [seguono dettagli]. Dieci delle strutture prese di mira (case, ricoveri per animali e latrine mobili) si trovavano nella Comunità beduina di Beit Iksa (Gerusalemme), dove sono state sfollate 27 persone, metà delle quali minori. Quattro di queste strutture erano state fornite come aiuto umanitario. A Khirbet Fraseen (Jenin), una famiglia di sette persone che viveva in un antico edificio (secondo le autorità israeliane, collocato su un sito archeologico) è stata sfollata dopo che erano state rimosse o demolite finestre, porte, condutture dell’acqua, cavi elettrici e un bagno che essi avevano aggiunto alla loro casa. A Umm Qussa (Hebron), una scuola di recente costruzione ha ricevuto un “avviso di rimozione” ai sensi del “Ordine Militare 1797”, che ne consente la demolizione entro 96 ore. Nessuna demolizione è stata registrata a Gerusalemme Est.

Le autorità israeliane hanno sradicato circa 1.370 alberi di proprietà palestinese, sulla base del fatto che la terra era stata dichiarata [da Israele] “terra di stato”, ed hanno confiscato 237 pecore sostenendo che stavano pascolando in un’area dichiarata “riserva naturale”. Lo sradicamento degli alberi è avvenuto a Deir Ballut (Salfit) e Beit Ummar (Hebron). Si stima che, nel 2020, le autorità israeliane abbiano sradicato 4.164 alberi palestinesi, quasi il 60% in più rispetto al 2019. La confisca delle pecore è avvenuta vicino a Wadi Fuqin (Betlemme), dove al pastore è stata inflitta una multa di 50.000 shekel israeliani (15.200 $).

Otto palestinesi sono rimasti feriti e decine di alberi e veicoli di proprietà palestinese sono stati vandalizzati da persone, note o ritenute, coloni israeliani [seguono dettagli]. A Madama (Nablus), una ragazza 11enne è stata ferita con pietre vicino alla propria abitazione; vicino ad Aqraba (Nablus) e Kafr Malik (Ramallah), in separati episodi, sei uomini sono stati aggrediti fisicamente mentre lavoravano la loro terra; nella zona di Ramallah, un uomo è stato ferito dal lancio di pietre contro veicoli palestinesi. Almeno sei veicoli palestinesi sono stati danneggiati in episodi di lancio di pietre; altre auto sono state vandalizzate a Gerusalemme Est, ad opera di coloni che protestavano per la morte di un ragazzo israeliano, avvenuta su un’auto inseguita dalla polizia israeliana. Oltre 230 ulivi e alberelli sono stati danneggiati vicino ai villaggi di Beit Ummar a Hebron e Jalud a Nablus.

In Cisgiordania, secondo fonti israeliane, in 26 episodi, una donna israeliana è rimasta ferita e 27 veicoli israeliani sono stati danneggiati da autori ritenuti palestinesi. In 23 casi sono state lanciate pietre, in 3 casi bottiglie incendiarie.

290

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano (vedi di seguito) l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




Perché Israele ha messo al bando Jenin, Jenin? Perché teme la narrazione palestinese.

Ramzy Baroud

19 gennaio 2021- Middle East Monitor

L’11 gennaio scorso il tribunale distrettuale israeliano di Lod ha deliberato a sfavore del regista palestinese Mahmoud Bakri, ordinandogli di pagare un cospicuo risarcimento ad un soldato israeliano accusato, insieme con l’esercito di Tel Aviv, di avere commesso crimini di guerra nel campo profughi di Jenin, Cisgiordania occupata, nell’aprile 2002.

Da come viene riportato dai media non solo israeliani, il caso sembrerebbe una questione relativamente semplice di diffamazione e quant’altro. Per chi ha invece familiarità con le narrazioni totalmente in conflitto fra di loro derivate dall’evento noto ai palestinesi come il “massacro di Jenin”, il verdetto del tribunale ha non soltanto sfumature politiche, ma anche implicazioni di tipo storico e intellettuale.

 

Bakri è un palestinese nato nel villaggio di Bi’ina, vicino alla città palestinese di Akka, che ora fa parte di Israele. È stato trascinato diverse volte in tribunali israeliani e pesantemente censurato dai principali media locali semplicemente perché ha osato mettere in discussione la versione ufficiale delle violenze avvenute nel campo profughi di Jenin quasi due decenni fa.

 

Il suo documentario Jenin, Jenin da adesso è ufficialmente vietato in Israele. Il film, che venne prodotto a pochi mesi di distanza da quell’evento frutto della violenza di Stato israeliana, di per sé non formula molte accuse. Ha messo però a disposizione dei palestinesi uno spazio prezioso dove potessero liberamente trasmettere con parole proprie ciò che era accaduto al loro campo profughi quando unità dell’esercito israeliano, con la copertura aerea fornita da caccia ed elicotteri d’attacco, rasero al suolo gran parte del campo, uccidendo decine di persone e ferendone centinaia.

Non dimentichiamoci che Israele pretende di essere una democrazia. Vietare un film, al di là di quanto il contenuto possa risultare inaccettabile per il governo, è assolutamente incompatibile con qualsiasi definizione di libertà di parola.

Mettere al bando Jenin, Jenin e incriminarne il regista, per ricompensare invece chi è accusato di avere compiuto crimini di guerra, è oltraggioso.

 

Per capire la decisione israeliana dobbiamo avere ben presenti due contesti: il primo è il sistema israeliano di censura che mira a zittire qualsiasi critica della sua occupazione e apartheid; il secondo è la paura israeliana di una narrazione palestinese veramente indipendente.

La censura israeliana iniziò fin dalla nascita nel 1948 dello Stato di Israele sulle rovine della madrepatria palestinese. I padri fondatori dello Stato di Israele costruirono nei minimi particolari e a loro vantaggio la storia della nascita dello Stato, cancellando quasi interamente la Palestina e i palestinesi dalla loro narrazione.

Il compianto intellettuale palestinese Edward Said dice questo nel suo articolo “Permission to Narrate” [Il Permesso di Raccontare, pubblicato nella London Review of Books nel febbraio 1984, ndtr.]: “La narrazione palestinese non ha mai trovato spazio nella storia ufficiale israeliana, se non nella forma dei “non-ebrei”, la cui presenza passiva in Palestina era una seccatura da ignorare o espungere.”   

Per garantire la cancellazione dei palestinesi dalla retorica ufficiale israeliana, la censura di stato si è evoluta fino a diventare uno dei progetti di questo tipo più attentamente custoditi e più raffinati al mondo. La complessità e la brutalità della censura sono arrivate al punto di processare e incarcerare poeti ed artisti per avere semplicemente messo in discussione l’ideologia fondante di Israele, il sionismo, o per avere composto poesie ritenute offensive della sensibilità israeliana. Se sono stati i palestinesi ad aver subito gli effetti della macchina sempre vigile della censura di Israele, persino qualche ebreo israeliano, incluse delle organizzazioni per i diritti umani, non ne è rimasto indenne.

 

Il caso di Jenin, Jenin, tuttavia, non rientra nella censura ordinaria. Esso costituisce piuttosto una dichiarazione, un messaggio per coloro che osino dar voce ai palestinesi oppressi dandogli così modo di rivolgersi direttamente al mondo. Agli occhi di Israele questi palestinesi rappresentano indubbiamente il pericolo maggiore, in quanto essi smontano la stratificata, elaborata quanto ingannevole retorica ufficiale, che prescinde dalla natura e dalla collocazione locale o temporale di qualunque evento contestato, a cominciare dalla Nakba (“Catastrofe”) del 1948.

Il mio primo libro, Searching Jenin: Eyewitness Accounts of the Israeli Invasion [Ricerca a Jenin: Testimonianze di Prima Mano dell’Invasione Israeliana, ndtr.] uscì quasi in contemporanea con Jenin, Jenin. Come il documentario, il libro cercava di bilanciare la propaganda ufficiale israeliana con i resoconti sinceri e strazianti di chi era sopravvissuto alla violenza scatenata contro il campo profughi. Mentre Israele non aveva l’autorità di proibire il libro, da parte loro i media e il mondo accademico ufficiale israeliani lo ignorarono totalmente oppure lo attaccarono con ferocia.

Certo, la contro-narrazione palestinese nei confronti della versione dominante israeliana, sia sul “massacro di Jenin” sia sulla seconda intifada, che era ancora in corso a quei tempi, fu modesta e in gran parte poggiò sull’impegno di pochi. Eppure, persino questi modesti tentativi di raccontare una versione palestinese furono considerati pericolosi e respinti con forza come irresponsabili, sacrileghi o antisemiti.

 

La vera forza di Israele – ma anche il suo tallone di Achille – sta nella capacità di progettare, costruire e difendere la sua personale versione della storia, anche se quella narrazione non è quasi mai coerente con qualsivoglia definizione ragionevole di verità. Nell’ottica di tale modus operandi persino contro-narrazioni scarne e senza pretese sono viste come minacce, in quanto creano falle in una costruzione intellettuale già di per sé priva di fondamenta.

L’attacco implacabile conclusosi con la messa al bando del film di Bakri su Jenin non è stato un semplice prodotto della censura israeliana, ma si spiega perché egli ha osato macchiare la sequenza storica così diligentemente fabbricata da Israele, che inizia con un “popolo senza terra” perseguitato che si sostiene sia arrivato in una “terra senza popolo”, dove esso “ha fatto fiorire il deserto”. Questi sono due dei più potenti miti fondanti di Israele.

Jenin, Jenin è un microcosmo di narrazione popolare che è riuscito a frantumare la ben foraggiata propaganda di Israele. In quanto tale ha mandato (e manda ancora) ai palestinesi, ovunque si trovino, il messaggio che persino la falsificazione israeliana della storia può venire sfidata e sconfitta.

Nel suo fondamentale Decolonising Methodologies: Research and Indigenous Peoples [La Decolonizzazione delle Metodologie: Ricerca e Popolazioni Indigene, ndtr], Linda Tuhiwai Smith [studiosa neozelandese, ndtr.] prende brillantemente in esame il rapporto fra storia e potere. Ella afferma che “la storia riguarda soprattutto il potere… È la storia dei potenti, di come lo siano diventati, e di come usino poi il proprio potere per mantenersi nelle posizioni che gli permettono di continuare a dominare gli altri.” È precisamente per questo che Jenin, Jenin e altri tentativi palestinesi di reclamare la propria storia devono essere censurati, vietati e puniti: perché Israele vuole mantenere l’attuale struttura di potere.

 

Se Israele prende di mira la narrazione palestinese, non lo fa semplicemente per contestare l’accuratezza dei fatti né per il timore che la “verità” possa richiamarlo all’obbligo di rispondere delle sue responsabilità giuridiche. Allo Stato coloniale non importano per niente i fatti e, grazie al sostegno dell’Occidente, esso rimane immune dai procedimenti penali internazionali. In realtà questo ha a che fare con la cancellazione della storia, di una patria, di un popolo: il popolo della Palestina.

Ciò nondimeno, un popolo palestinese con una narrazione collettiva coerente esisterà sempre, a dispetto della geografia, delle avversità fisiche e delle circostanze politiche. Ed è questo che Israele teme più di ogni altra cosa.

 

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale del Middle East Monitor.

 

 

(traduzione dall’inglese di Stefania Fusero)

 

 




Perché questo è Apartheid?

B’Tselem gennaio 2021

Una breve spiegazione illustrata

 

Oltre 14 milioni di persone, di cui circa la metà ebrei e metà palestinesi, vivono tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. È opinione comune che l’area sia divisa in due regimi separati: all’interno dei confini sovrani di Israele, un regime democratico permanente che governa circa 9 milioni di persone, tutti cittadini israeliani; all’interno dei territori occupati da Israele nel 1967, un regime militare temporaneo che governa circa 5 milioni di sudditi palestinesi. È davvero così?

 

 

Questa distinzione comunemente accettata ignora fatti cruciali: che questa realtà “temporanea” persiste da più di 50 anni; che centinaia di migliaia di coloni ebrei vivono in più di 280 colonie permanenti in Cisgiordania; che Israele ha annesso de jure Gerusalemme Est, e de facto il resto della Cisgiordania.

Ma soprattutto, oscura il fatto che l’intera area è organizzata secondo un unico principio: far avanzare e perpetuare la supremazia di un gruppo, gli ebrei, su un altro, i palestinesi.

Questa politica è attuata progettando lo spazio. Per gli ebrei, l’intera area è aperta e contigua (eccetto Gaza).

Per i palestinesi, essa è divisa in enclaves separate:

1 | All’interno del territorio sovrano di Israele, i palestinesi costituiscono circa il 17% [NON È IL 20%?] dei cittadini dello Stato. In quanto cittadini israeliani, essi godono di alcuni diritti, che tuttavia non sono uguali a quelli dei loro 

omologhi ebrei.

 

 

 

 

 

 

Per i palestinesi,[l’area] è divisa in enclaves separate:

2 | A Gerusalemme Est, che Israele ha annesso nel 1967, i circa 350.000 palestinesi che vi abitano sono de

finiti residenti permanenti di Israele – uno status revocabile che permette loro di vivere e lavorare in Israele, ricevere prestazioni sociali e assicurazione sanitaria, e votare alle elezioni amministrative, ma non a quelle politiche.

 

 

 

 

 

Per i palestinesi, [l’area] è divisa in enclaves separate:

3 | In Cisgiordania, vivono sotto un rigido regime militare in decine di enclave non collegate tra loro oltre 2,6 milioni di palestinesi a cui sono negati i diritti politici.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Per i palestinesi, [l’area] è divisa in enclaves separate:

4 | Anche nella Striscia di Gaza a circa 2 milioni di palestinesi

vengono negati i diritti politici. Nel 2005, Israele ha ritirato le sue forze e smantellato le sue colonie; nel 2007, Hamas ne ha preso il controllo. Da allora, Israele ha tenuto Gaza sotto assedio mentre controllava da fuori quasi ogni aspetto della vita.

 

 

In ognuna di queste unità territoriali, Israele decide quali diritti concedere ai palestinesi.

In nessuna di esse sono concessi gli stessi diritti degli ebrei.

Il regime impiega diversi metodi per promuovere la supremazia ebraica:

 

 

 

Terra

Israele lavora per “giudaizzare” l’intera area, trattando la terra

come una risorsa principalmente a beneficio della popolazione ebraica.

Le colonie ebraiche vengono fondate e sviluppate, mentre i palestinesi

vengono espropriati e rinchiusi in piccole e affollate enclave.

Dal 1948, Israele si è impadronito di oltre il 90% delle terre

all’interno del suo territorio sovrano e ha costruito centinaia di comuni per ebrei,

ma neppure una per i palestinesi (con l’eccezione di diverse comunità

costruite per concentrare la popolazione beduina,

dopo averla espropriata della maggior parte dei suoi diritti di proprietà).

 

 

Terra

Dal 1967, Israele ha messo in atto questa politica anche nei Territori Occupati,

espropriando con vari pretesti i palestinesi di oltre 2.000 km2.

In violazione del diritto internazionale, ha costruito oltre 280 colonie in Cisgiordania

(compresa Gerusalemme Est) per più di 600.000 cittadini ebrei.

Ha ideato un sistema di pianificazione separato per i palestinesi,

progettato principalmente per impedire la costruzione e lo sviluppo [di unità abitative],

e non ha creato una sola nuova comunità palestinese.

 

 

 

Cittadinanza e immigrazione

Gli ebrei, ovunque vivano, i loro figli e nipoti, e i

loro coniugi, hanno il diritto di immigrare in Israele

e di ottenere la cittadinanza, anche se scelgono di vivere nei Territori Occupati.

 

 

 

 

Cittadinanza e immigrazione

I palestinesi che vivono in altri Paesi non possono immigrare nelle zone controllate da Israele – anche se loro, i loro genitori o i loro nonni vi sono nati e vi hanno vissuto. La loro unica opzione è quella di sposare una persona che già sono residenti in queste zone.

 

 

I palestinesi che vivono in un’unità territoriale hanno difficoltà ad ottenere la residenza in un’altra. Secondo la legge israeliana, i palestinesi dei Territori Occupati non possono ricevere la residenza permanente in Israele o a Gerusalemme Est anche se sposano israeliani.

 

Libertà di movimento

Israele permette ai suoi cittadini e abitanti – ebrei e palestinesi –

il libero passaggio tra le varie zone, salvo andare a Gaza, definita

“territorio ostile”, e (formalmente) di entrare in aree della Cisgiordania

in apparenza sotto la responsabilità dell’ANP.

 

 

 

 

 

 

Libertà di movimento

I palestinesi in Cisgiordania o a Gaza hanno bisogno

di un permesso per viaggiare tra le enclave.

Israele tiene Gaza sotto assedio dal 2007, vietando la

circolazione in entrata e in uscita,

salvo rari casi che definisce come umanitari.

 

 

 

Libertà di movimento

Tutti i cittadini israeliani possono lasciare

e rientrare nel Paese in qualsiasi momento.

I palestinesi di solito non possono andare

all’estero dall’aeroporto internazionale di

Israele e hanno bisogno di un permesso

israeliano per raggiungere l’aeroporto in Giordania.

 

 

Partecipazione politica

I cittadini israeliani – ebrei o palestinesi – possono partecipare alla politica nazionale, compresi lelettorato attivo e passivo. Tuttavia, i dirigenti politici minano sostematicamente la legittimità dei rappresentanti politici palestinesi.

 

Partecipazione politica

I circa 5 milioni di palestinesi che vivono nei Territori Occupati

(compresa Gerusalemme Est) non possono partecipare al sistema

politico che governa la loro vita e determina il loro futuro.

Benché la maggior parte possa teoricamente votare per l’ANP,

i poteri di quest’ultima sono simbolici e subordinati a Israele.

 

 

 

 

 

Partecipazione politica

Ai palestinesi viene negato non solo il diritto di voto,

ma anche altri diritti politici, come la libertà di parola

o di associazione, e viene loro proibito criticare il regime

o organizzare e operare per un cambiamento sociale e politico.

 

 

 

Questo è l’apartheid

Il territorio tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo

è governato da un unico regime che opera per mantenere la supremazia ebraica.

A tal fine, Israele ha diviso l’area e i palestinesi in diverse

enclave distinte. In ognuna di esse ai palestinesi viene concesso

diritti differenti, che non è mai uguale ai diritti concessi agli ebrei.

 

 

 

Questo è l’apartheid

Questa politica, che nega ai palestinesi una serie di diritti, tra cui il diritto all’autodeterminazione, si ottiene manipolando geograficamente, demograficamente e politicamente lo spazio. Questo implica: concedere la cittadinanza a qualsiasi ebreo nel mondo e ai loro parenti, e in generale negarla ai palestinesi; impadronirsi della terra e assegnarla agli ebrei, confinando i palestinesi in piccole e affollate enclave; limitare i movimenti dei palestinesi; escludere milioni di palestinesi da un’effettiva partecipazione politica.

 

 

Un regime che usa leggi, pratiche e violenza organizzata per

stabilire e mantenere la supremazia di un gruppo su un altro

è un regime di apartheid. Questo non è emerso da un giorno

all’altro, ma ha preso forma gradualmente, nel tempo.

L’accumularsi di misure, appoggiate dallopinione pubblica

e dalla magistratura e sancite sia nella pratica che nella legge,

indica la conclusione che il limite per definire Israele

un regime di apartheid è stato superato.

 

 

 

 

 

Perché ora?

Negli ultimi anni, il regime israeliano è diventato sempre più

esplicito riguardo alla sua ideologia suprematista ebraica.

Questo processo è culminato con la promulgazione della

legge fondamentale Israele: lo Stato nazionale del popolo ebraico,

che dichiara fondamentale e legittima la distinzione tra ebrei e non ebrei,

e consente la discriminazione istituzionalizzata nella gestione

e nello sviluppo del territorio, nell’edilizia abitativa, nella cittadinanza, nella lingua e nella cultura.

 

 

E adesso?

Questa è una richiesta di cambiamento.

È impossibile combattere l’ingiustizia senza nominarla: apartheid.

È doloroso guardare la realtà negli occhi, ma più

doloroso vivere sotto uno stivale.

Ecco perché una lotta decisa per un futuro basato

sui diritti umani, sulla libertà e la giustizia è più

che mai essenziale. La realtà qui descritta è dura,

ma dobbiamo ricordare: la gente ha creato questo

regime, e la gente può sostituirlo.

Ci sono diverse strade politiche per un futuro giusto qui,

tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo,

ma tutti noi dobbiamo prima scegliere di dire:No all’apartheid.

 

Leggi il rapporto integrale nella versione italiana

 

( a cura di Carlo Tagliacozzo)