Israele-Palestina: come le reti sociali sono state utilizzate e manipolate

Rayhan Uddin

Domenica 23 maggio 2021 – Middle East Eye

I giganti della tecnologia sono accusati di aver censurato alcuni contenuti palestinesi, di non aver messo a tacere la disinformazione e di aver consentito incitamenti alla violenza.

Durante la recente recrudescenza di violenze in Israele e nei territori palestinesi occupati le reti sociali si sono dimostrate una spada a doppio taglio.

Questo venerdì [21 maggio] alle 2 del mattino è entrato in vigore un cessate il fuoco, ma non prima di una devastante escalation durante la quale i bombardamenti aerei israeliani su Gaza hanno ucciso 248 palestinesi, di cui 66 minori, e i razzi lanciati dall’enclave palestinese assediata hanno provocato 12 morti in Israele.

Nel corso delle ultime due settimane il mondo digitale si è trovato al centro dell’attenzione. Ha offerto uno spazio per documentare direttamente e senza filtro la situazione sul terreno, un mezzo per far circolare l’informazione sotto diversi formati e forme, oltre che una piattaforma che consentiva di amplificare i messaggi e i gesti di solidarietà.

Tuttavia, anche se c’è stato un uso positivo, si sono anche evidenziati degli abusi.

I giganti della tecnologia sono accusati di aver censurato alcuni contenuti palestinesi, di non aver stroncato la disinformazione e di aver permesso degli incitamenti alla violenza. Le piattaforme sono state anche manipolate e utilizzate come vettori di propaganda dello Stato.

Middle East Eye si sofferma su cinque modi in cui le piattaforme di comunicazione informatica sono state sfruttate mentre la tensione era in aumento in Israele, a Gaza, nella Cisgiordania e a Gerusalemme est occupate.

1. Censura a danno dei palestinesi

La violenza e la brutalità degli ultimi giorni sono state accompagnate da ripetuti esempi di limitazione e cancellazione di contenuti sulle reti sociali.

Tutto è iniziato con la campagna di resistenza contro l’imminente espulsione di sei famiglie nel quartiere di Sheikh Jarrah a Gerusalemme est occupata – che ha catalizzato la repressione dei manifestanti da parte delle forze israeliane – che si è ritrovata al centro delle accuse di censura.

Il 7 maggio Middle East Eye ha informato che erano state sollevate preoccupazioni riguardo a contenuti eliminati e alla sopressione di account sulle reti sociali legate al quartiere. Mona al-Kurd, giornalista e abitante di Sheikh Jarrah minacciata di essere cacciata dalla casa della sua famiglia, ha visto il suo account Instagram temporaneamente sospeso mentre stava documentando i soprusi quotidiani. Anche suo fratello Mohammed al-Kurd ha visto il suo contenuto eliminato a causa dei “discorsi d’odio”, sebbene secondo lui si fosse limitato a filmare le violenze della polizia senza alcun commento.

Gli abitanti di Sheikh Jarrah si sono lamentati del fatto che le loro storie su Instagram ottenevano meno approvazioni e meno visualizzazioni per ragioni inspiegabili. Durante quel periodo su Facebook – società madre di Instagram – il gruppo “Salvare Sheikh Jarrah”, che contava più di 130.000 membri, è stato temporaneamente disattivato perché “violava gli standard della comunità”.

Ci sono state anche domande riguardo a Twitter quando l’account della giornalista palestinese Mariam Barghouti è stato sospeso mentre stava informando su una manifestazione di solidarietà con Sheikh Jarrah nella Cisgiordania occupata. In seguito Twitter ha dichiarato a VICE [società di media digitali statunitense-canadese, ndtr.] che la decisione era stata presa per sbaglio, omettendo di precisare quali disposizioni delle sue condizioni Barghouti fosse sospettata di aver infranto.

“Le limitazioni e la censura hanno un grande impatto sulla possibilità delle persone di comunicare, di organizzarsi e di condividere informazioni,” ha dichiarato a MEE Marwa Fatafta, responsabile delle politiche per il Medio Oriente e il Nord Africa di Access Now, Ong per la difesa dei diritti digitali.

“Quando non potete accedere al vostro account o un vostro contenuto è eliminato ciò viola la possibilità di esercitare il vostro diritto alla libertà d’espressione su internet.”

Queste restrizioni non riguardano unicamente l’attivismo relativo a Sheikh Jarrah. Quando la polizia israeliana ha fatto irruzione nella moschea di al-Aqsa per reprimere brutalmente i fedeli in preghiera durante gli ultimi giorni del Ramadan, sono comparse denunce di censura.

Su Istagram l’hashtag “al-Aqsa” è stato temporáneamente nascosto a causa di indicazioni in base alle quali secondo una notifica ricevuta dagli utenti certi contenuti erano “suscettibili di non soddisfare le regole della comunità di Instagram”.

Facebook, che possiede Instagram, ha attribuito le soppressioni di contenuti a un “problema tecnico su scala mondiale che non era legato a un argomento specifico.”

Tuttavia, secondo alcuni documenti di comunicazione interna consultati da BuzzFeed [società statunitense di notizie specializzata in media digitali, ndtr.], pare che gli hashtag siano stati bloccati perché il sistema di controllo dei contenuti della piattaforma aveva associato per errore al-Aqsa (terzo sito più sacro per l’islam) con un’organizzazinoe terroristica.

Numerose organizzazioni ritengono che ogni censura da parte dei giganti delle reti sociali potrebbe essere paragonata alla distruzione di prove nella documentazione dei crimini di guerra, cosa su cui attualmente indaga la Corte Penale Internazionale in rapporto con le recenti violenze.

Oltre all’“errore”, un altro motivo possibile per il ritiro di certi contenuti sarebbe l’uso del termine “sionista”.

Secondo un articolo di “The Intercept” [sito fondato da Edward Snowden, ex tecnico della CIA che ha denunciato l’uso di dati riservati dei propri cittadini da parte di USA e GB, ndtr.], la politica di Facebook consistente nel sopprimere ogni contenuto che utilizzi il termine “sionista” come sinonimo di “ebreo” o di “ebraismo” si è rivelato difficile da mettere in pratica. Secondo uno dei moderatori della piattaforma le direttive lasciano “poco spazio alla critica del sionismo”.

Malgrado le preoccupazioni degli attivisti palestinesi, sono i responsabili del governo israeliano che la settimana scorsa hanno incontrato i funzionari di Facebook e TikTok. Il ministro della Giustizia Benny Gantz ha esortato le reti sociali a sopprimere i contenuti violenti e a rispondere rapidamente alle richieste dell’ufficio per l’informatica di Israele.

L’unità israeliana per l’informatica, che opera all’interno del ministero della Giustizia, sorveglia sistematicamente i contenuti palestinesi e li segnala ai giganti del digitale. Secondo un rapporto pubblicato dall’organizzazione di difesa dei diritti informatici palestinesi 7amleh Facebook accoglie l’81% delle richieste di soppressione dei contenuti da parte di questa unità informatica.

“Ciò conferma che la discriminazione digitale a cui sono esposti i palestinesi nello spazio informatico non è un errore tecnico,” ha dichiarato Mona Shtya di 7amleh a MEE. “Al contrario si tratta delle conseguenze dei tentativi sistematici delle autorità israeliane per far tacere gli attivisti per i diritti umani e per influenzare le politiche delle imprese tecnologiche in materia di controllo dei contenuti.”

Una coalizione di organizzazioni per i diritti informatici ha invitato Twitter e Facebook a fornire dati dettagliati relativi alle richieste presentate dall’unità informatica israeliana e ad essere trasparenti sul processo decisionale riguardante il ritiro di contenuti.

Inoltre un’organizzazione palestinese per la protezione dei dati, due agenzie di stampa e un traduttore hanno denunciato Facebook, accusandolo di censurare le loro pubblicazioni e in qualche caso di aver chiuso il loro account in violazione delle stesse politiche dell’impresa.

Il documento di 14 pagine inviato al relatore speciale dell’ONU incaricato della promozione e della protezione del diritto alla libertà d’opinione e d’espressione, consultato da Middle East Eye, concede alla società 21 giorni per dare spiegazioni. In caso contrario seguiranno delle azioni legali.

2. Disinformazione e notizie false

Milioni di persone in tutto il mondo si basano sulle reti sociali per informarsi sulle violenze in Israele e Palestina. Tuttavia non tutti i contenuti, compresi quelli ufficiali, sono corretti.

La disinformazione relativa a quanto avviene a Gaza si trova ai livelli più alti dello Stato: il portavoce arabofono ufficiale del primo ministro israeliano, Ofir Gendelman, ha condiviso un video che secondo lui mostra che Hamas lanciava dei razzi contro Israele. Queste immagini risalivano in realtà al 2018 e mostravano missili lanciati nel governatorato di Deraa, in Siria.

Questo tweet era stato originariamente etichettato da Twitter come un “media manipolato”, prima di essere cancellato da Gendelman.

Anche l’account Twitter ufficiale dell’esercito israeliano ha fatto circolare false informazioni. L’account @IDF (Forze di Difesa Israeliane) ha condiviso un video che sosteneva mostrasse Hamas mentre nascondeva dei lanciatori di missili in quartieri civili. Tuttavia nelle immagini si vede di fatto un finto mezzo militare utilizzato da Israele durante le esercitazioni di addestramento nel nord ovest del Paese.

Questo video è stato retwittato dall’account Twitter verificato “Stop Antisemitismo”, che in seguito si è scusato per l’errore. Nelle sue scuse ha insistito in modo provocatorio a etichettare le immagini come provenienti da un “quartiere in maggioranza musulmano”, cosa che sembra un chiaro tentativo di mettere in rapporto un’arma israeliana con i palestinesi.

“La disinformazione e le notizie false fanno parte integrante della propaganda delle autorità israeliane,” dichiara Mona Shtya. “Questo tipo di informazioni colpisce la coscienza della gente e i movimenti politici palestinesi.”

Secondo 7amleh, il 54% dei partecipanti a un sondaggio pubblicato nel suo rapporto “Notizie false in Palestina” ha indicato le autorità israeliane come la principale fonte di informazioni false. Il rapporto conclude anche che le notizie false aumentano del 58% durante gli attacchi israeliani contro i palestinesi.

Tra gli altri esempi di disinformazione che circolano su internet figurano le false informazioni in base alle quali a Gaza alcuni palestinesi hanno organizzato falsi funerali per suscitare la compassione della comunità internazionale.

Questo video falso, pubblicato dal consigliere del ministero degli Affari Esteri israeliano Dan Poraz, mostra un gruppo di adolescenti che apparentemente stanno portando una “salma”. Improvvisamente risuonano delle sirene e gli adolescenti, compresa la “salma”, si disperdono e fuggono. In realtà queste immagini sono state girate l’anno scorso in Giordania da un gruppo di giovani che cercavano di sfuggire alle restrizioni relative al COVID-19 fingendo di organizzare dei funerali.

Poraz ha condiviso questo video con l’hashtag “Pallywood” (combinazione delle parole Hollywood e Palestina), un concetto molto dannoso sostenuto dalla destra filo-israeliana che intende cínicamente accusare i palestinesi di drammatizzare la loro sofferenza per attirare i favori della comunità internazionale.

Un altro esempio di internauti che spacciano notizie false per associare i gazawi a “Pallywood”: la condivisione di un video che dovrebbe mostrare dei palestinesi mentre disegnano false ferite provocate dagli attacchi israeliani con l’aiuto di cosmetici. Queste immagini condivise la settimana scorsa sono state in effetti rintracciate nel 2018 e sono state girate nel quadro di un reportage su artisti palestinesi del trucco.

Nelle ultime settimane sono emerse anche due notizie filopalestinesi false. Il New York Times ha informato che alcuni media arabi hanno erroneamente associato immagini che mostravano ebrei che a Gerusalemme si stracciavano le vesti in segno di devozione con affermazioni secondo le quali simulavano delle ferite. Il Times ha scoperto che quel video era circolato varie volte in precedenza quest’anno.

Nel contempo una pubblicazione Facebook molto condivisa e che dovrebbe mostrare un giornalista che piange filmando degli avvenimenti all’interno di al-Aqsa [moschea di Gerusalemme, ndtr.], di fatto mostrava un fotografo irakeno durante una partita di calcio nel 2019.

3. Propaganda israeliana

Nel corso delle ultime due settimane gli account israeliani ufficiali sulle reti sociali, soprattutto quelli relativi all’esercito, sono stati utilizzati per condividere messaggi di propaganda altamente provocatori, spesso incendiari.

Mercoledì 12 maggio l’account Instagram in ebraico dell’esercito ha festeggiato la distruzione di un edificio civile a Gaza con uno meme prima e dopo.

Anche l’account Twitter @IDF ha condiviso in varie occasioni immagini di edifici bombardati dall’esercito israeliano a Gaza, in particolare un immobile che ospitava giornalisti di Al Jazeera, dell’Associated Press [agenzia di stampa USA, ndtr.] e di Middle East Eye. Queste immagini sono quasi sempre accompagnate da affermazioni secondo le quali gli edifici ospitavano attività di intelligence militare di Hamas, senza alcuna prova a suffragarle.

Il 13 maggio l’esercito israeliano ha annunciato su Twitter che, nel quadro di una più vasta campagna nel corso della quale ha informato i media internazionali che era in corso una invasione di terra, le sue forze terrestri avevano iniziato “attacchi nella Striscia di Gaza”. Tuttavia in seguito i media israeliani hanno informato che il tweet e la condivisione di informazioni avevano l’obiettivo deliberato di far credere ai combattenti di Hamas che fosse in corso un’invasione e di esporne al pericolo il maggior numero.

A causa di questo ricorso all’inganno sulle reti sociali molti hanno accusato l’esercito israeliano di fare cattivo uso delle sue piattaforme ufficiali e di “twittare dal vivo crimini di guerra.”

“Trovo inaccettabile che l’esercito israeliano utilizzi reti sociali per minacciare la gente e diffondere disinformazione quando è attivamente impegnato in azioni che si configurano come crimini di guerra,” lamenta Marwa Fatafta.

Gli attivisti dei diritti digitali hanno fatto un confronto tra il modo in cui vengono trattati dalle imprese delle reti sociali gli account ufficiali israeliani e la loro gestione degli account palestinesi.

“Ciò testimonia l’applicazione discriminatoria delle condizioni di utilizzo delle piattaforme ai loro utenti: censurano gli attivisti permettendo nel contempo alle pagine gestite dagli Stati di utilizzarle ed abusarne in funzione dei propri obiettivi politici e militari.”

Allo stesso modo numerosi osservatori hanno sottolineato le differenze tra gli account in ebraico e in inglese dell’esercito israeliano. Sull’account Instagram in ebraico dell’esercito le storie hanno la tendenza a essere aggressive e militariste e spesso includono immagini di edifici bombardati a Gaza, con l’ora e il luogo. Nel contempo sull’account in inglese il contenuto è spesso più difensivo e presenta Israele come vittima delle recenti violenze con l’aiuto di infografiche e presentazioni colorate.

In un post pubblicato sul suo account Instagram in inglese l’esercito israeliano ha ripreso un metodo di condivisione d’informazione popolare presso la generazione Y [i nati tra gli anni ’80 e ’90, noti anche come “millenians”, ndtr.] creando una serie di vignette e di fumetti per semplificare una serie di avvenimenti. A dispetto di fatti accertati, le immagini indicavano che Hamas era il solo responsabile di tutte le morti civili avvenute recentemente in Israele e a Gaza.

Nel contempo funzionari dell’esercito israeliano hanno sfruttato l’applicazione cinese per la condivisione di video TikTok riprendendo coreografie in voga per attirare il pubblico più giovane.

In particolare vari militari hanno partecipato al “Jalebi Baby Challenge “, nel corso del quale gli utenti indicano le proprie preferenze tra due emoticon. Praticamente sempre i soldati finiscono il video scegliendo una bandiera israeliana invece di una palestinese. Su un video militari israeliani scelgono l’emoticon escremento invece della bandiera palestinese e il dito medio alzato rivolto alla Palestina. In un altro esempio, che è stato oggetto di scherno, una soldatessa oppone per errore Israele alla bandiera del Sudan.

Oltre all’esercito, i messaggi di propaganda sono molto presenti anche su altri account ufficiali israeliani.

Martedì l’account Twittter ufficiale di Israele in arabo ha provocato indignazione pubblicando dei versetti del Corano accompagnati da una foto di Gaza sotto le bombe. Questo post è stato definito da alcuni critici “sadico e ignobile”.

Nel contempo l’account in inglese ha falsamente accusato la modella di origine palestinese Bella Hadid di voler “buttare in mare gli ebrei” quando si è unita allo slogan popolare filo-palestinese “dal fiume al mare, la Palestina sarà libera.”

“Non è un fatto inedito che i governi cerchino di infangare quanti prendono posizione o li accusino di fare l’apologia del terrorismo o, in questo caso, dell’antisemitismo. Ciò esisteva già prima dell’era delle reti sociali,” rileva Marwa Fatafta.

Secondo la sostenitrice dei diritti digitali Israele, come altri Stati, cerca di “trollare” e perseguitare le persone per ridurle al silenzio. Tuttavia, spiega, le ultime due settimane hanno dimostrato il potere dei media digitali di “trasmettere la verità”, quando non vengono censurati.

4. “Linciaggio” programmato sulle applicazioni di messaggistica

Oltre alle applicazioni per la condivisione di contenuti, le piattaforme di messaggistica istantanea sono state criticate per aver   presumibilmente contribuito a facilitare la violenza dei civili israeliani.

La scorsa settimana messaggi postati su Signal e WhatsApp che MEE ha potuto consultare mostravano che gruppi israeliani di estrema destra avevano discusso nel dettaglio la pianificazione di attacchi violenti contro cittadini palestinesi di Israele.

“Portate di tutto, coltelli, benzina,” indicava un messaggio in un gruppo di discussione battezzato “The Underground Unit” [L’unità clandestina], formata da parecchie centinaia di membri. “Non abbiate paura, noi siamo gli eletti.”

“Quando vedete un arabo accoltellatelo,” ordinava un messaggio pubblicato su WhatsApp in un gruppo denominato “Israel People Alive Haifa” [Israele popolo vivo Haifa]. “Venite con bandiere, mazze, coltelli, armi, tirapugni, assi di legno, spray urticanti, tutto quello che li può ferire. Ristabiliremo l’onore del popolo ebraico.”

In un altro gruppo di discussione, sempre su WhatsApp, un membro ha scritto: “Abbiamo bisogno di bottiglie molotov. Alla moschea. Per farli tremare. Bruceremo le loro case, le loro auto, tutto.”

Messaggi che incitavano alla violenza contro i palestinesi sono stati lanciati anche su Telegram, e di conseguenza vari utenti di Twitter hanno chiesto alle applicazioni di messaggistica di intervenire per proteggere delle vite.

“Se Telegram non reagisce rapidamente i messaggi pubblicati nello spazio digitale per incitare alla violenza contro i palestinesi continueranno a propagarsi per le strade,” sostiene Mona Shtaya.

L’azione della folla è stata esacerbata dalla diffusione di false informazioni: secondo il New York Times messaggi pubblicati su Telegram e WhatsApp indicavano che folle di palestinesi stessero preparando aggressioni contro cittadini israeliani. Nonostante questi avvertimenti nessuna violenza è stata segnalata nella zona citata nei messaggi.

Un giornalista ha paragonato questi sviluppi agli avvenimenti osservati in India nel 2018, quando la diffusione di false voci riguardanti il rapimento di bambini e l’espianto di organi avevano scatentato un’ondata di linciaggi collettivi durante i quali alcuni stranieri erano stati aggrediti ed uccisi.

Fino a domenica [23 maggio] i 116 incriminati imputati in seguito alle violenze della settimana precedente erano tutti palestinesi.

La settimana scorsa Fake Reporter, un organismo israeliano di sorveglianza della disinformazione, ha dichiarato di aver trasmesso alla polizia e ai media israeliani un rapporto dettagliato contenente informazioni su gruppi di estrema destra che utilizzano WhatsApp e Telegram per pianificare attacchi contro negozi e civili palestinesi.

La consegna di questo dossier non ha dato luogo ad alcuna misura, mentre alcuni media hanno persino risposto che non valeva la pena di parlarne in quanto non erano stati commessi delitti.

“L’incitamento alla violenza contro gli arabi e i palestinesi sulle reti social è aumentata in modo clamoroso,” afferma Mona Shtaya.

“Nel 2020 abbiamo constatato un incremento del 16% delle affermazioni violente contro gli arabi rispetto all’anno precedente (2019); inoltre un messaggio su dieci riguardante i palestinesi e gli arabi conteneva affermazioni violente,” aggiunge in riferimento all’indice annuale del razzismo e dell’incitamento all’odio creato da 7amleh.

“Telegram e le altre applicazioni non devono appoggiare la violenza contro i palestinesi o devono prendere misure per impedire la trasmissione di messaggi che incitano alla violenza, di discorsi d’odio e di razzismo dalla loro piattaforma al mondo reale.”

5. Esercito di troll appoggiato dallo Stato

Le reti sociali sono spesso utilizzate per rilevare l’opinione pubblica sulle questioni mondiali attraverso gli hashtag più condivisi e i livelli di impegno che servono da indicatori informali delle opinioni popolari.

Tuttavia queste piattaforme sono spesso utilizzate in modo più cinico per manipolare sistematicamente le conversazioni in rete.

La piattaforma israeliana in rete Act.IL è stata sviluppata nel giugno 2017 per reclutare e organizzare un’esercito di migliaia di troll incaricati di intrufolarsi nelle conversazioni in rete relative alla questione israelo-palestinese e in particolare al movimento BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni).

I troll ricevono dalla piattaforma istruzioni sui contenuti filo-israeliani e anti-palestinesi da ritwittare e da “approvare”, come sulle petizioni da firmare. Ricevono anche dei modelli di commenti che sono incoraggiati a copiare e incollare nelle discussioni al riguardo.

Act.IL è stato lanciato in collaborazione col ministero israeliano degli Affari Strategici, il cui ministro ha definito il dispositivo “Iron Dome [cupola di ferro] della verità”, in riferimento al sistema antimissilistico israeliano. La piattaforma riceve finanziamenti e direttive dallo Stato israeliano. L’applicazione è descritta come un dispositivo di “astroturfing”, una strategia di relazioni pubbliche sostenuta da un governo con l’intento di indurre in errore e dare la falsa impressione di una campagna popolare spontanea.

Michael Bueckert, ricercatore e vicepresidente di “Canadesi per la giustizia e la pace in Medio Oriente”, gestisce un account Twitter che tiene sotto controllo l’applicazione Act.IL. e riferisce delle sue attività. “Uno dei principali obiettivi dell’applicazione è tenere distinte le attività dei suoi utenti dallo Stato israeliano o dalle lobby e fare in modo che l’attività filo-israeliana sulle reti sociali che mette in scena sembri spontanea e organica,” spiega a MEE.

Secondo Michael Beuckert il ministero degli Affari Strategici ha come politica lavorare con organizzazioni di facciata “per dissimulare il ruolo dello Stato israeliano”. Ritiene d’altronde che sia ragionevole credere che il governo giochi “un ruolo più importante di quanto viene presentato in pubblico nel finanziamento continuo e nelle operazioni dell’applicazione.”

Domenica scorsa l’applicazione ha organizzato una tempesta su Twitter con gli hashtag #RightToSelfDefence (Diritto all’autodifesa) e #IsraelUnderFire (Israele sotto attacco).

Nel corso delle ultime due settimane Act.IL ha anche utilizzato il suo canale Telegram per inviare delle “missioni” ai propri utenti per diffondere un discorso anti-palestinese.

All’inizio del mese, durante la violenta repressione delle forze israeliane contro i fedeli ad al-Aqsa, l’applicazione ha spinto gli utenti a commentare degli aggiornamenti in tempo reale della Reuter, dell’AFP [agenzie di stampa, rispettivamente inglese e francese, ndtr.] e del Washington Examiner [sito di notizie conservatore statunitense, ndtr.] dando la colpa ai gruppi palestinesi.

“È inaccettabile che dei fedeli innocenti, dei civili e dei poliziotti siano vittime di violenti disordini fomentati da Hamas e da Fatah. Il terrorismo non ha posto nei luoghi santi e nelle loro vicinanze,” si può leggere sotto un aggiornamento dell’AFP, dove i troll sono stati incoraggiati a diffondere opinioni simili.

Nonostante i tentativi coordinati intesi a interferire nelle conversazioni in rete, Michael Bueckert ha dei dubbi riguardo all’impatto delle ultime attività dell’esercito israeliano di troll.

“Certo, possono contribuire a diffondere argomenti di discussione importanti dell’hasbara (diplomazia pubblica israeliana) sulle reti sociali e a diffondere ampiamente la disinformazione. Tuttavia ho l’impressione che molta gente non creda più a questi vecchi argomenti,” afferma. “Le persone non tollerano più tanto un atteggiamento che in genere continua a incolpare le vittime.

Le persone iniziano ad aprire gli occhi di fronte agli orrori dell’apartheid israeliano e non vogliono avere niente a che fare con esso; nessuna applicazione potrà cambiare ciò.”

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)