Pegasus: la lunga storia di processi e smentite del Gruppo NSO

Frank Andrews

20 luglio 2021 – Middle east eye

L’azienda israeliana afferma di non poter essere considerata responsabile per il modo in cui gli Stati, “clienti sovrani”, utilizzano la sua tecnologia.

Il gruppo NSO non è nuovo agli scandali.

Le affermazioni fatte questa settimana secondo cui la tecnologia spyware del programma Pegasus dell’azienda israeliana è stata utilizzata per sorvegliare 50.000 telefoni – appartenenti a capi di stato, giornalisti, attivisti per i diritti umani, oppositori politici e altro – potrebbero rappresentare l’accusa più grave mossa contro l’azienda, ma non sarebbe la prima.

Pegasus, che in vari modi infetta i telefoni con spyware, ha rappresentato una manna per i regimi autoritari che usano le tecnologie per tracciare chiunque sia percepito come critico nei confronti del loro potere.

Il Gruppo è stato oggetto di numerose azioni legali e denunce.

Martedì i pubblici ministeri francesi hanno annunciato di aver aperto un’indagine con l’accusa secondo cui Pegasus è stato utilizzato dall’intelligence marocchina per spiare i giornalisti francesi, dopo che Forbidden Stories, organizzazione senza scopo di lucro [con la missione di “continuare e pubblicare il lavoro di giornalisti minacciati, incarcerati o assassinati”, ndtr.] ha condotto un’inchiesta che ha rivelato come alcuni Stati, tra cui l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrain e il Marocco, starebbero usando la tecnologia Pegasus per spiare cittadini e dissidenti, inclusi i collaboratori di Middle East Eye Madawi al-Rasheed e Azzam Tamimi.

I familiari, gli amici e i contatti più stretti del giornalista saudita assassinato Jamal Khashoggi erano tra le molte migliaia di persone sorvegliate.

Nel corso degli anni, NSO, fondata nel 2010, ha ripetutamente cercato di sottrarsi alle responsabilità riguardo a come gli Stati utilizzino la sua tecnologia per spiare giornalisti e difensori dei diritti umani.

NSO afferma di seguire tutte le normative israeliane che disciplinano l’esportazione dei suoi prodotti e di vendere solo agli alleati di Israele, mai ai suoi nemici. Afferma inoltre di vendere solo a governi e mai a individui o utenti non autorizzati e che Pegasus è destinato esclusivamente a combattere la criminalità e il terrorismo.

Sottolinea tuttavia che una volta venduto il prodotto, non c’è alcun controllo (o almeno così sostiene) su come venga utilizzata la tecnologia.

Middle East Eye ha indagato sulla lunga lista di accuse a cui NSO ha dovuto rispondere nel corso degli anni e su come l’azienda abbia reagito.

2016

Secondo un rapporto di Citizen Lab [laboratorio interdisciplinare dell’Università di Toronto per ricerca, sviluppo e politica strategica di alto livello, ndtr.] e Lookout Security [società californiana che produce software di sicurezza su cloud per dispositivi mobili, ndtr.], si è scoperto che nell’agosto 2016 gli Emirati Arabi Uniti stavano monitorando l’iPhone dell’attivista per i diritti umani negli Emirati Ahmed Mansoor utilizzando lo spyware Pegasus.

Mansoor ricevette un sms che gli chiedeva di aprire un link per avere informazioni sui prigionieri torturati negli Emirati Arabi Uniti.

NSO non ha confermato di aver creato lo spyware utilizzato per raggiungere Mansoor. Tuttavia ha affermato in una dichiarazione di “vendere solo ad agenzie governative autorizzate e rispettare pienamente le rigorose leggi e regolamenti sul controllo delle esportazioni. Inoltre l’azienda non gestisce nessuno dei suoi sistemi: è un’azienda esclusivamente tecnologica”.

Altri Paesi che il rapporto di Citizen Lab ha scoperto potrebbero aver utilizzato questa tecnologia includono Messico, Turchia, Israele, Thailandia, Qatar, Kenia, Uzbekistan, Mozambico, Marocco, Yemen, Ungheria, Arabia Saudita, Nigeria e Bahrein.

In un caso collegato a quello del 2016, anche le autorità degli Emirati Arabi Uniti avrebbero impiegato Pegasus in un tentativo di phishing [azione per ottenere con l’inganno dati riservati, ndtr.] contro il giornalista MEE Rori Donaghy, che parlava in modo critico degli abusi del regime autocratico del Paese.

Nel corso dell’indagine su questo attacco, Citizen Lab ha scoperto che 1.100 attivisti e giornalisti dell’Emirato erano stati presi di mira allo stesso modo e che per questi attacchi il governo aveva pagato al gruppo NSO 600.000 dollari.

2017

Nel febbraio 2017, Citizen Lab ha rivelato che Pegasus era stato utilizzato per colpire degli attivisti messicani che cercavano di contrastare l’obesità infantile. Il malware aveva accesso ai loro telefoni quando aprivano i link con testi che dicevano, ad esempio, “Mentre stai lavorando, sto fottendo la tua vecchia, ecco una foto” e “[tua figlia] ha appena avuto un grave incidente… ecco dove è ricoverata”.

Nello stesso anno, il New York Times ha riferito che i telefoni di attivisti politici messicani per i diritti umani e anticorruzione, che stavano indagando su possibili crimini commessi dal governo e dai suoi agenti, erano stati infettati da Pegasus. Il NYT ha affermato che le vittime hanno notato le intrusioni per la prima volta nell’estate del 2016.

Il governo messicano ha negato ogni responsabilità in merito allo spionaggio.

2018

Nell’agosto 2018 Amnesty International ha affermato che uno dei membri del suo personale, così come molti sauditi difensori dei diritti umani, erano stati presi di mira con il software Pegasus, utilizzando messaggi di testo con link che dicevano, ad esempio:

Puoi per favore coprire [la protesta] davanti all’ambasciata saudita a Washington per i fratelli detenuti in Arabia Saudita? Mio fratello sta facendo il Ramadan e io sono qui con una borsa di studio, quindi per favore non taggarmi”.

Quando Amnesty ha collegato lo spionaggio alla NSO, l’azienda ha risposto: “Il nostro prodotto è destinato esclusivamente alle indagini e alla prevenzione di crimini e terrorismo. Qualsiasi utilizzo della nostra tecnologia contrario a tale scopo costituisce una violazione delle nostre politiche, dei contratti legali e dei nostri valori come azienda”.

In seguito Amnesty ha affermato che alla luce dell’attacco informatico stava considerando un’azione legale per costringere il ministero della Difesa israeliano a revocare la licenza di esportazione a NSO.

Nello stesso mese di agosto, il New York Times ha riferito che NSO stava affrontando due cause legali con l’accusa di aver partecipato attivamente allo spionaggio illegale.

Il giornale affermava che le cause, intentate da un cittadino del Qatar e da giornalisti e attivisti messicani, erano state depositate in Israele e a Cipro, e che i documenti presentati a sostegno delle accuse dimostravano che gli Emirati Arabi Uniti avevano utilizzato lo spyware Pegasus per almeno un anno.

Secondo il NYT, gli Emirati avevano intercettato i telefoni dell’emiro del Qatar, di un caporedattore di un giornale con sede a Londra e di un potente principe saudita. Gli Emirati Arabi Uniti, insieme al Bahrain e all’Arabia Saudita, erano a quel tempo coinvolti in una disputa con il Qatar che portò il trio a imporre un blocco terrestre e marittimo contro il loro vicino.

Nell’ottobre 2018 Citizen Lab ha dichiarato che il software Pegasus aveva attaccato il telefono di un caro amico di Jamal Khashoggi, Omar Abdulaziz, prima dell’omicidio del dissidente e che il software aveva preso di mira difensori dei diritti umani in Bahrain, negli Emirati Arabi Uniti e altrove.

Lo stesso mese l’informatore statunitense Edward Snowden aveva affermato che Pegasus era stato utilizzato dalle autorità saudite per sorvegliare Khashoggi prima della sua morte.

“Sono il peggio del peggio”, ha detto Snowden dell’azienda. NSO nega che la sua tecnologia sia stata “in alcun modo” utilizzata per l’omicidio.

Sempre a ottobre, Citizen Lab ha affermato che i suoi stessi ricercatori erano stati presi di mira da agenti collegati alla NSO. La NSO ha negato le accuse.

A novembre Haaretz ha riferito che nell’estate del 2017 NSO aveva firmato un accordo con l’intelligence saudita.

Rispondendo ad Haaretz, NSO ha affermato che “ha operato e opera esclusivamente in conformità con le leggi sull’esportazione della difesa e secondo le linee guida e la stretta supervisione di tutti i componenti dell’establishment della Difesa [israeliana, ndtr.], comprese tutte le questioni relative alle politiche e alle licenze di esportazione. Le informazioni fornite da Haaretz sull’azienda, sui suoi prodotti e sul loro utilizzo sono errate, basate su voci e pettegolezzi di parte. Il quadro distorce la realtà”.

Poi, secondo quanto riportato dal New York Times, a dicembre Abdulaziz ha intentato una causa contro NSO, sostenendo che la società aveva aiutato i sauditi a spiare le sue comunicazioni con Khashoggi.

Il Gruppo NSO ha affermato ancora una volta che la sua tecnologia è stata “concessa su licenza al solo scopo di fornire ai governi e alle forze dell’ordine la capacità di combattere legalmente il terrorismo e la criminalità”.

I contratti per l’utilizzo del software, ha aggiunto, “vengono forniti solo dopo un completo controllo e previa autorizzazione da parte del governo israeliano”, ha affermato NSO.

Non tolleriamo un uso improprio dei nostri prodotti. Se c’è il sospetto di un uso improprio, indaghiamo e intraprendiamo le azioni necessarie, inclusa la sospensione o la risoluzione del contratto”, ha aggiunto.

L’amministratore delegato della società, Shalev Hulio ha affermato in seguito che NSO non era stata coinvolta nel “terribile omicidio”, ma non ha risposto in merito alla segnalazione secondo cui Hulio era andato personalmente a Riyadh per vendere il software Pegasus ai sauditi.

2019

Nel febbraio 2019, una società di private equity [che apporta nuovi capitali a una società come investimento finanziario, ndtr.] ha acquistato lo spyware NSO e ha dichiarato a Citizen Lab di essere “impegnata ad aiutarla a diventare più trasparente in merito alla sua attività”.

E ad aprile, secondo quanto riferito, l’azienda ha congelato dei nuovi accordi con l’Arabia Saudita.

A maggio, Amnesty ha affermato che avrebbe presentato una petizione legale al tribunale distrettuale di Tel Aviv per bloccare le licenze di esportazione di NSO, e uno scrittore satirico saudita che vive in esilio a Londra ha intentato un’azione legale contro l’Arabia Saudita, accusando il Paese di aver utilizzato lo spyware Pegasus per ottenere informazioni personali dal suo telefono.

Lo stesso mese un’indagine del Financial Times ha rivelato che dei malintenzionati stavano sfruttando la funzione di chiamata di WhatsApp telefonando alle vittime per diffondere Pegasus.

“In nessun caso NSO è stata coinvolta nell’operazione o nell’identificazione degli obiettivi della sua tecnologia, che è gestita esclusivamente da agenzie di intelligence e forze dell’ordine”, ha risposto la società al FT. “NSO non avrebbe, o non potrebbe, utilizzare il software in proprio per prendere di mira qualsiasi persona o organizzazione”.

Nell’ottobre dello stesso anno WhatsApp, di proprietà di Facebook, ha intentato una causa contro il gruppo NSO accusandolo di aver cercato illegalmente di sorvegliare giornalisti, attivisti per i diritti umani e altri in 20 Paesi tra cui Messico, Emirati Arabi Uniti e Bahrain.

L’azione legale, intentata in California presso un tribunale federale degli Stati Uniti, accusava il gruppo NSO di aver cercato di infettare circa 1.400 “dispositivi bersaglio” con spyware ostile che potrebbe essere utilizzato per rubare informazioni agli utenti di WhatsApp.

“Contestiamo recisamente le accuse odierne e le combatteremo con forza”, ha affermato il gruppo NSO in una nota.

“L’unico scopo di NSO è fornire tecnologia all’intelligence governativa autorizzata e alle forze dell’ordine per aiutarli a combattere il terrorismo e gravi forme di criminalità”.

Un mese prima, a settembre, NSO aveva messo a punto una politica dei diritti umani, affermando che avrebbe rispettato i principi guida delle Nazioni Unite.

A novembre, un gruppo di dipendenti di NSO ha intentato una causa contro Facebook, affermando che il gigante dei social media aveva bloccato ingiustamente i loro account privati quando aveva fatto causa a NSO il mese prima, accusando Facebook di “punizione collettiva”.

Il giorno prima, intervenendo a una conferenza sulla tecnologia a Tel Aviv, il presidente della NSO Shiri Dolev aveva difeso la sua azienda, affermando che le tecnologie NSO hanno reso il mondo più sicuro.

Dolev ha anche affermato di auspicare che NSO possa parlare apertamente del ruolo che svolge nell’aiutare le forze dell’ordine a catturare i terroristi.

“Terroristi e criminali usano le piattaforme e le app dei social che usiamo tutti noi ogni giorno”, ha detto.

2020

Nel gennaio 2020 un giudice israeliano ha ordinato a NSO di affrontare la denuncia di pirateria informatica intentata contro il Gruppo dall’attivista saudita Omar Abdulaziz e di pagare le sue spese legali, e un tribunale ha stabilito che la causa legale di Amnesty per impedire a NSO di esportare il suo software si sarebbe dibattuta a porte chiuse.

Lo stesso mese Reuters ha riferito che almeno dal 2017 l’FBI stava indagando su NSO riguardo al suo possibile coinvolgimento in un attacco informatico contro cittadini e società statunitensi, nonché per una sospetta raccolta di informazioni nei confronti di governi.

La società ha affermato di non essere a conoscenza di alcuna inchiesta.

Secondo The Guardian ad aprile i documenti del tribunale relativi al caso WhatsApp dimostravano come NSO avesse negato ogni responsabilità per come era stata utilizzata la sua tecnologia, affermando che WhatsApp aveva “confuso” le azioni di NSO con quelle dei suoi “clienti sovrani”.

I governi clienti agiscono prendendo tutte le decisioni su come utilizzare la tecnologia”, ha affermato la società. “Se qualcuno ha installato Pegasus su un qualche presunto ‘dispositivo bersaglio’ non sono stati gli imputati [Gruppo NSO] a farlo. Sarebbe stato un ente di un governo sovrano”.

“Il Gruppo NSO non gestisce il software Pegasus per i suoi clienti”, ha detto a The Guardian.

A giugno, un’indagine di Amnesty International ha rivelato che lo spyware della NSO era stato utilizzato contro il noto giornalista marocchino e difensore dei diritti umani Omar Radi.

Il rapporto di Amnesty afferma che l’attacco a Radi era avvenuto tre giorni dopo l’annuncio della nuova politica dei diritti umani della NSO.

In risposta, NSO ha dichiarato di essere “profondamente turbata” dalle accuse e che avrebbe immediatamente avviato un’indagine.

“Coerentemente con la propria politica dei diritti umani, il Gruppo NSO considera seriamente la responsabilità di rispettare i diritti umani ed è fortemente impegnata a evitare di causare, contribuire o essere direttamente collegata a effetti negativi sui diritti umani”, ha affermato NSO in una nota.

Comunque la società ha preso le distanze dall’accusa di avere legami con le autorità marocchine e ha affermato che, per la natura della sua attività, deve salvaguardare la riservatezza dei suoi clienti.

“Siamo obbligati a rispettare gli interessi di riservatezza degli Stati e non possiamo rivelare l’identità dei clienti”, ha affermato NSO.

Martedì Radi è stato condannato a sei anni di carcere per aggressione sessuale e spionaggio, accuse che lui nega.

Nel luglio 2020, un tribunale di Tel Aviv ha respinto la petizione di Amnesty e 30 attivisti per i diritti umani che chiedevano di revocare la licenza di esportazione al gruppo NSO, affermando che non avevano fornito prove del fatto che il software Pegasus fosse stato utilizzato per spiare gli attivisti della ONG britannica.

Le indagini di luglio e agosto hanno rivelato che il software Pegasus era stato utilizzato per spiare politici catalani in Spagna e sacerdoti in Togo.

A dicembre Citizen Lab ha riferito che dozzine di giornalisti dell’agenzia di stampa Al Jazeera, finanziata dal Qatar, sono stati presi di mira con un attacco di Pegasus tramite iMessage, attacchi probabilmente collegati ai governi dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi Uniti.

Un giornalista di Al Jazeera ha detto di aver ricevuto minacce di morte sul suo telefono: “Hanno minacciato di farmi diventare il nuovo Jamal Khashoggi”.

In una dichiarazione il gruppo NSO ha messo in dubbio le accuse di Citizen Lab, ma ha affermato di “non essere in grado di commentare un rapporto che non abbiamo ancora visto”.

L’azienda ha affermato di fornire software al solo scopo di consentire “alle forze dell’ordine governative di affrontare la criminalità organizzata e l’antiterrorismo”.

All’inizio di quel mese, una conduttrice televisiva di Al Jazeera ha intentato un’altra causa negli Stati Uniti, sostenendo che il gruppo NSO ha hackerato il suo telefono tramite WhatsApp a causa delle sue critiche al potente principe ereditario dell’Arabia Saudita Mohammed bin Salman.

A dicembre, una coalizione di associazioni per i diritti umani, tra cui il gruppo per i diritti sulla rete Access Now, Amnesty International, il Comitato per la Protezione dei Giornalisti e Reporter senza Frontiere, si è unita alla lotta legale di Facebook contro NSO, sostenendo che la società dà la priorità ai profitti rispetto ai diritti umani, facendo seguito a un’azione simile promossa da una serie di grandi aziende tecnologiche tra cui Google e Microsoft.

2021

A marzo The Guardian ha riferito che il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti ha ripreso le indagini sul gruppo NSO, dopo mesi in cui le principali società tecnologiche statunitensi andavano affermando che l’azienda israeliana è “potente e pericolosa” e non dovrebbe avere l’immunità per il suo ruolo nelle operazioni di pirateria informatica.

Il Guardian ha riferito che all’inizio del 2020 il gruppo NSO era stato oggetto di un’indagine dell’FBI, che però sembrava essersi arenata e il Dipartimento di Giustizia stava ora mostrando un nuovo interesse per il caso.

A luglio, un’indagine condotta da Forbidden Stories e Amnesty International ha rivelato che i telefoni di migliaia di giornalisti, attivisti e funzionari sono stati presi di mira o violati utilizzando Pegasus.

In risposta, NSO ha respinto le “false affermazioni”, ha definito le accuse “teorie non provate” e parte di una “narrazione oscena… strategicamente inventata da diversi gruppi di interessi specifici strettamente allineati”.

“Le tecnologie vengono utilizzate ogni giorno anche per spezzare i circuiti di pedofilia, sesso e traffico di droga, individuare i bambini scomparsi e rapiti e i sopravvissuti intrappolati sotto edifici crollati e proteggere lo spazio aereo dalla dannosa penetrazione di pericolosi droni”, ha aggiunto.

“In parole povere, NSO ha una missione salvavita e la società proseguirà imperterrita ad adempiere a questa missione, nonostante i continui tentativi di screditarla su false basi “.

“Nonostante quanto sopra”, ha aggiunto, “NSO continuerà a indagare su tutte le affermazioni credibili di un uso scorretto e a intraprendere azioni appropriate in base ai risultati di quelle indagini”.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Secondo un sondaggio, un terzo dei giovani ebrei statunitensi vede Israele come genocida

Ali Abunimah

15 luglio 2021 –Electronic Intifada

Sono in crescita i tentativi da parte di Israele e della sua lobby di assimilare la contestazione dei crimini israeliani contro il popolo palestinese al pregiudizio anti-ebraico.

Eppure un recente sondaggio indica che questa campagna è fallita persino tra la stragrande maggioranza degli elettori ebrei americani.

Il sondaggio commissionato dal Jewish Electorate Institute [Istituto per l’elettorato ebraico, ndtr.], un’organizzazione guidata da sostenitori del Partito Democratico, riporta diversi dati interessanti.

Un quarto degli elettori ebrei americani concorda sul fatto che Israele sia uno Stato di apartheid, un numero che sale fino al 38% tra coloro che hanno meno di 40 anni.

Nel complesso il 22% degli elettori ebrei concorda sul fatto che Israele stia commettendo un genocidio nei confronti dei palestinesi, cifra che sale fino ad un sorprendente 33% nella categoria dei più giovani.

Inoltre secondo il 34% degli elettori ebrei intervistati la condotta di Israele nei confronti dei palestinesi è simile al razzismo negli Stati Uniti. Cifra che va oltre i due su cinque tra chi ha meno di 40 anni.

E’probabile che tali risultati provochino sgomento tra i leader dei gruppi di pressione che sono da tempo preoccupati per l’erosione del sostegno a Israele tra gli ebrei americani, in particolare tra i più giovani.

Ciò che inoltre colpisce è che anche gli ebrei che non sono d’accordo sul fatto che Israele commetta apartheid e genocidio spesso non considerano tali dichiarazioni come antisemite.

Ad esempio, il 62% degli intervistati non è d’accordo sul fatto che Israele stia commettendo un genocidio, ma di questi solo la metà considera tale affermazione come “antisemita”.

Aperti alla soluzione a uno Stato

Gli ebrei americani sono anche più aperti di quanto generalmente si creda riguardo alla questione di una soluzione politica per palestinesi e israeliani.

Mentre il 61% degli intervistati sostiene ancora la soluzione ormai moribonda dei due Stati, una minoranza considerevole – il 20 % – è favorevole a una soluzione democratica di uno Stato con uguali diritti per tutti coloro che vivono tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo.

Solo il 19% è a favore dell’annessione formale da parte di Israele della Cisgiordania occupata senza la concessione di uguali diritti ai palestinesi – in effetti quella che è, se non di nome, di fatto, la situazione attuale.

E riguardo la questione degli aiuti statunitensi a Israele, il 71% complessivamente li considera “importanti”.

Ma il 58% concorda sul fatto che gli Stati Uniti dovrebbero impedire l’utilizzo da parte di Israele di tali aiuti per la costruzione di insediamenti coloniali nella Cisgiordania occupata. Contemporaneamente, il 62% è favorevole al fatto che gli Stati Uniti ristabiliscano gli aiuti ai palestinesi tagliati dall’amministrazione Trump.

Questa indagine non ha chiesto agli intervistati opinioni sul movimento di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni guidato dai palestinesi, ma lo ha fatto un sondaggio tra ebrei americani del Pew Research Center [agenzia statunitense di ricerca su problemi sociali, opinione pubblica, andamenti demografici sugli Stati Uniti ed il mondo in generale, ndtr.] pubblicato a maggio.

Quest‘ultimo rivela che il 34% degli ebrei americani “si oppone fortemente” al movimento BDS. In linea con i risultati di altre indagini, si sono mostrati maggiormente ostili al BDS le persone più anziane, i repubblicani e i religiosi.

Affermazioni false sull’antisemitismo

Ogni volta che l’attenzione mondiale è focalizzata sulle atrocità di Israele, i gruppi di pressione israeliani spesso cercano di deviare l’attenzione verso una presunta ondata di antisemitismo.

Neppure lo scorso maggio, quando Israele ha massacrato decine di bambini a Gaza, è stata un’eccezione.

I principali lobbisti israeliani e i mass-media hanno parlato di un’ondata di presunti attacchi antiebraici negli Stati Uniti.

Eppure una meticolosa indagine del giornalista Max Blumenthal ha rivelato che queste affermazioni erano infondate.

Quello che stanno facendo negli Stati Uniti è fondamentalmente cercare di trovare una via di fuga dalle scene che anche la CNN stava mostrando, come le torri sede degli organi di informazione a Gaza venivano distrutte senza motivo … o di intere famiglie sterminate, per sostituire l’immagine delle vittime palestinesi con quella di … ebrei americani”, ha detto Blumenthal a The Electronic Intifada Podcast il mese scorso.

Questo non vuol dire che non ci sia fanatismo antiebraico e che non debba costituire un problema. In effetti, il 90% degli intervistati – una cifra che varia a malapena in base all’età o all’osservanza religiosa – è preoccupato per l’antisemitismo negli Stati Uniti.

Ma tra uomini e donne e in tutte le fasce d’età il 61% degli elettori ebrei intervistati è più preoccupato per l’antisemitismo della destra politica. Nel complesso, solo il 22% ha dichiarato di essere preoccupato per “l’antisemitismo di sinistra”.

Ciò indica che in generale gli ebrei americani non sono vittime della propaganda secondo cui la sinistra è piena di animosità antiebraica, anche se i gruppi di pressione hanno ignorato o minimizzato il fanatismo e persino la violenza letale della destra contro gli ebrei per concentrarsi invece nell’attaccare e colpevolizzare il movimento di solidarietà con i Palestinesi.

Dato che le persone di sinistra tendono ad appoggiare maggiormente i diritti dei palestinesi e ad essere più critiche nei confronti di Israele i gruppi di pressione si sono concentrati nel diffamare con falsi i partiti e i leader della sinistra, ad esempio la deputata democratica Ilhan Omar e l’ex leader del partito laburista britannico Jeremy Corbyn – come antisemiti.

È una strategia fondata sulla malafede che mira a punire e spaventare le persone fino a portarle a tacere sulla Palestina e ad utilizzare tutta l’energia che potrebbe essere investita nel sostegno ai diritti dei palestinesi in un dibattito difensivo su cosa sia o non sia antisemita.

Mira anche a dividere i movimenti di sinistra e a cooptare nell’azione di sostegno a Israele figure influenti che si atteggiano ancora come “progressisti”.

Tuttavia il sondaggio del Jewish Electorate Institute suggerisce che la maggior parte degli ebrei americani capisce che la più grande minaccia alla loro sicurezza non viene dai sostenitori dei diritti dei palestinesi, ma dalla destra politica bianca anti-palestinese, anti-musulmana, suprematista e razzista.

Difficile da far accettare

Può sembrare sorprendente che un numero significativo di ebrei americani ora accetti che Israele sia uno Stato genocida e di apartheid.

Ma ciò riflette tendenze più ampie nella società americana, specialmente tra i giovani, di crescente sostegno per i diritti dei palestinesi e di scetticismo nei confronti di Israele.

A parte gli ebrei ortodossi, gli ebrei americani costituiscono un collegio elettorale particolarmente aperto e progressista: nel complesso il 68% afferma che se si tenesse un’elezione oggi voterebbe per il Partito Democratico.

L’82% degli elettori ebrei intervistati si descrive come moderato, di ampie vedute o progressista. Solo il 16% si identifica come conservatore.

È davvero difficile far accettare Israele – uno Stato segregazionista e di apartheid – a un gruppo che in enorme maggioranza professa di sostenere la giustizia razziale e i valori progressisti negli Stati Uniti.

Un indicatore di questa realtà è la clamorosa svolta su Israele annunciata l’anno scorso da Peter Beinart. Influente commentatore sionista progressista, Beinart ha difeso a lungo la soluzione dei due Stati e si è opposto al BDS.

Beinart ha riconosciuto che il suo approccio era arrivato a un vicolo cieco e ha abbracciato la soluzione di un unico Stato basato sull’uguaglianza dei diritti, provocando costernazione e rabbia tra i leader della lobby pro Israele.

La questione è stata affrontata anche da Marisa Kabas in un articolo su Rolling Stone scritto a maggio nel corso dell’attacco israeliano a Gaza.

Kabas scrive come lei e molti dei suoi giovani coetanei ebrei americani siano “alle prese con la versione di Israele presentata in viaggi organizzati da enti come Birthright [ONLUS israeliana che sponsorizza viaggi gratuiti in Israele, Gerusalemme e le alture del Golan per giovani adulti di origine ebraica di età compresa tra 18 e 32, ndtr.] rispetto a ciò che hanno visto accadere nella realtà“.

Sostiene che fanno fatica a “conciliare l’amore per la loro gente e la loro storia con l’impegno per la giustizia razziale e sociale, e che le azioni di Israele in Palestina sembrano andare contro il ‘tikkun olam’ – il principio ebraico di migliorare il mondo attraverso l’azione”.

Questione con bassa priorità

E contrariamente all’impressione che si potrebbe avere seguendo le principali lobby israeliane o ascoltando i politici compiacenti, il sondaggio indica che per la maggior parte degli ebrei americani Israele ha una priorità molto scarsa.

È vero che il 62% degli intervistati afferma di essere “legato affettivamente” a Israele, mentre il 38% afferma di non esserlo. Tuttavia quest’attaccamento si indebolisce un po’ tra i più giovani o i meno religiosi.

Ma quanto sarebbero diversi questi numeri se un sondaggista interrogasse un campione che rappresentasse tutti gli americani sul loro “legame affettivocon Israele?

Per decenni, dopotutto, i leader politici statunitensi hanno dichiarato agli americani di avere un legame speciale e indissolubile con Israele, diverso che con qualsiasi altro Paese.

Influenti personalità americane di religione cristiana come il pastore John Hagee, il fondatore di Christians United for Israel [organizzazione cristiana americana che sostiene Israele, ndtr.], addirittura dicono ai loro fedeli che sostenere Israele è un dovere religioso.

In ogni caso, il legame affettivo – qualunque cosa significhi – non si traduce apparentemente in priorità politiche.

Solo il 4% degli elettori ebrei indica Israele come una delle due questioni principali su cui vorrebbe che il governo degli Stati Uniti si concentrasse, mentre il 3% elenca l’Iran, un’altra ossessione delle lobby pro Israele.

Invece, con un ampio margine di vantaggio, le principali preoccupazioni sono il cambiamento climatico, i diritti di voto e le questioni economiche. Solo tra gli ebrei ortodossi una minoranza significativa – il 18% – vede Israele come una priorità.

Per la maggior parte degli elettori ebrei, secondo il Jewish Electorate Institute, Israele è una “questione con bassa priorità“.

Non è mai successo che gli ebrei americani sostenessero in modo omogeneo Israele o la sua ideologia sionista di Stato colonialista, sebbene sia gli antisemiti che i sionisti siano stati felici di permettere che questa idea prosperasse per i propri fini.

Questo sondaggio, che si aggiunge ad altre testimonianze, aiuta a sfatare questo mito.

Ali Abunimah

Co-fondatore di The Electronic Intifada e autore di The Battle for Justice in Palestine [ La battaglia per la giustizia in Palestina, ndtr.] ora pubblicato da Haymarket Books.

Ha scritto anche One Country : A Bold-Proposal to End the Israeli-Palestinian Impasse [Un Paese: una proposta coraggiosa per porre fine all’impasse israelo-palestinese, ndtr.]. Le opinioni sono solo mie.

(traduzione dall’inglese di Aldo lotta)




Rapporto OCHA del periodo 29 giugno – 12 luglio 2021

Il 3 luglio, coloni israeliani, accompagnati da soldati, sono entrati nel villaggio di Qusra (Nablus), scontrandosi con i residenti palestinesi. Nel corso di tali scontri è stato ucciso un 21enne palestinese:

secondo i militari, l’uomo ha lanciato un ordigno esplosivo e le forze israeliane gli hanno sparato. Coloni israeliani e residenti palestinesi si sono lanciati pietre reciprocamente e, secondo fonti locali, dopo che il 21enne palestinese era stato colpito, alcuni coloni lo hanno percosso. Nel corso di manifestazioni in cui i palestinesi hanno chiesto alle autorità israeliane la restituzione del corpo dell’ucciso, le forze israeliane hanno disperso la folla sparando proiettili veri, proiettili di gomma e gas lacrimogeni: diversi palestinesi hanno subito lesioni.

In Cisgiordania, in scontri, le forze israeliane hanno ferito complessivamente almeno 981 palestinesi, tra cui 133 minori [seguono dettagli]. Del totale dei feriti, 892 sono stati registrati nel governatorato di Nablus, includendo i feriti nei suddetti eventi di Qusra, e quelli collegati alle proteste contro l’espansione degli insediamenti nei villaggi di Beita e Osarin; 19 sono rimasti feriti nei quartieri di Ras al ‘Amud e Silwan a Gerusalemme Est; 13 nel villaggio di Halhul (Hebron) e i rimanenti in altre località. Complessivamente, 36 palestinesi sono stati colpiti da proiettili veri, 214 da proiettili di gomma; i rimanenti sono stati curati principalmente per l’inalazione di gas lacrimogeni o sono stati aggrediti fisicamente. Oltre ai 981 feriti direttamente dalle forze israeliane, 58 sono rimasti feriti a Beita e Osarin cercando di sfuggire alle forze israeliane o in circostanze non verificabili.

In Cisgiordania le forze israeliane hanno effettuato 163 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 134 palestinesi, tra cui sei minori. La maggior parte delle operazioni è avvenuta a Nablus, seguita da Hebron e Gerusalemme Est; le restanti operazioni sono state effettuato in altri governatorati.

Il 4 luglio, nella Città Vecchia di Gerusalemme, le autorità israeliane hanno convocato un bambino palestinese di nove anni per un interrogatorio le cui ragioni restano sconosciute. Da metà aprile, a Gerusalemme Est, sono stati arrestati dalle autorità israeliane almeno 65 minori palestinesi, più della metà dei quali sono stati arrestati nel solo mese di giugno.

A Gaza, palestinesi hanno lanciato palloni incendiari verso Israele e le forze israeliane hanno effettuato quattro attacchi aerei, prendendo di mira siti militari, ferendo due persone e danneggiando case ed una manifattura. Vicino alla recinzione perimetrale e al largo della costa, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento, in almeno nove occasioni; secondo quanto riferito per far rispettare [ai palestinesi] le restrizioni di accesso [loro imposte]. Hanno anche svolto almeno quattro operazioni di spianatura del terreno vicino alla recinzione perimetrale, all’interno di Gaza.

Il 12 luglio, le autorità israeliane hanno esteso da 9 a 12 miglia nautiche la zona di pesca consentita [ai palestinesi] al largo della costa meridionale di Gaza, mentre l’hanno mantenuta a sei miglia nella parte settentrionale. Lo stesso giorno, le autorità israeliane hanno annunciato l’ampliamento della gamma di merci consentite in entrata e in uscita dalla Striscia di Gaza; le limitazioni erano state imposte dall’inizio del conflitto del 10-21 maggio.

In Cisgiordania, per mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, sono state demolite o sequestrate 59 strutture di proprietà palestinese, sfollando 81 persone e determinando ripercussioni su circa altre 1.300 [seguono dettagli]. 30 strutture sono state demolite a Humsa – Al Bqai’a (Valle del Giordano), una clinica mobile è stata confiscata nella Comunità di Umm Qussa (Hebron) e una scuola in costruzione è stata demolita a Shu’fat (Gerusalemme Est). L’8 luglio, nel villaggio di Turmus’ayya (Ramallah), le forze israeliane hanno demolito, con motivazioni punitive, una casa appartenente alla famiglia di un palestinese (con cittadinanza statunitense), che era stato arrestato dopo che, il 2 maggio, aveva ucciso un colono e ferito altri due.

Il 2 luglio 2021, coloni israeliani, sotto scorta della polizia israeliana, si sono trasferiti in un edificio vuoto nella zona di Wadi Hilweh, nel quartiere di Silwan, a Gerusalemme Est. Dall’inizio dell’anno, questo è il secondo insediamento di coloni all’interno di Comunità palestinesi a Gerusalemme Est, ed entrambi in Silwan.

Coloni israeliani hanno ferito nove palestinesi, tra cui quattro minori e due donne, aggredendoli fisicamente, lanciando loro pietre o spruzzando liquido al peperoncino su di loro. Sei dei ferimenti sono avvenuti nella zona H2 di Hebron, due a Maghayir al Abeed, uno a Tuba (tutti in Hebron) e uno a Kisan (Betlemme). In Cisgiordania, autori conosciuti o ritenuti coloni israeliani hanno danneggiato almeno 1.120 alberi o alberelli, almeno cinque veicoli, oltre a pali elettrici, recinzioni ed altre proprietà palestinesi.

Palestinesi hanno ferito, lanciando pietre, almeno tre coloni israeliani che viaggiavano su strade della Cisgiordania. Secondo fonti israeliane, sono state danneggiate almeno 21 auto israeliane.

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Ultimi sviluppi (successivi al periodo di riferimento)

Il 14 luglio, le forze israeliane hanno confiscato almeno 49 strutture nella Comunità palestinese di Ras al Tin, sfollando 84 persone, tra cui 53 minori.

Il 15 luglio, a Humsa – Al Bqai’a, le forze israeliane hanno confiscato una struttura recentemente installata per ospitare una famiglia di otto persone, tra cui sei minori, che aveva già perso la casa in un precedente episodio avvenuto una settimana prima (vedi paragrafo 7 di questo Rapporto).

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Incontro truccato sul ring mediatico

Jean Stern

18 maggio 2021 – Orient XXI

Inchiesta. Gli attuali avvenimenti lo dimostrano ancora una volta: tra le intimidazioni da parte di un gruppetto di filo-israeliani sovreccitati e la riluttanza delle redazioni, ci vuole una volontà d’acciaio per occuparsi dell’informazione sull’attualità in Israele/Palestina. La violenza subita da Charles Enderlin dopo l’“affaire” Mohamed Al-Dura ha riguardato questo.

Dopo che le provocazioni dell’estrema destra israeliana a Gerusalemme est hanno rilanciato gli scontri tra l’esercito e Hamas, si constata ancora una volta l’importanza di sguardi indipendenti sul posto, cioè spesso di corrispondenti di agenzie di stampa e di media della stampa scritta. Le loro corrispondenze e i loro documenti dimostrano le menzogne del governo di Benjamin Netanyahu, ampiamente ritrasmesse tali e quali – in particolare in Francia da una parte dei media audiovisivi – dai sostenitori di Israele che formano una vasta lobby politica e mediatica che stiamo descrivendo da parecchie settimane [si riferisce a una serie di articoli su Orient XXI sulla lobby filo-israeliana in Francia, ndtr.]. L’incontro sembra impari, tanto è massiccio il rullo compressore della propaganda. Peraltro non è persa.

Tre giornalisti che hanno informato su Israele/Palestina, di tre redazioni in tre periodi diversi, raccontano, chiedendo l’assoluto rispetto dell’anonimato, le telefonate improvvise, le minacce a malapena velate, il doppio gioco dei loro capiredattori. Il primo, chiamiamolo Étienne, è stato corrispondente a Gerusalemme per un quotidiano nazionale, il secondo, Marc, di un media audiovisivo e il terzo, Philippe, inviato speciale fisso di un settimanale.

Come la maggior parte degli inviati speciali e dei corrispondenti da Israele, essi lodano la fluidità del lavoro in quel Paese: lì la stampa è diversificata, le fonti numerose e disponibili, gli argomenti vari. Solo le informazioni relative alla “sicurezza nazionale” sono sottoposte a una commissione di censura militare e a volte ne viene vietata la pubblicazione, principalmente per evitare l’identificazione di soldati nei media audiovisivi.

Ma ciò riguarda essenzialmente una stampa israeliana spesso tenace e che tale rimane, nonostante le grandi manovre di Benjamin Netanyahu e dei suoi amici miliardari dei mezzi d’informazione per normalizzarla. La manipolazione dell’esercito israeliano con l’intenzione di lasciar credere, giovedì 13 maggio, a un attacco terrestre contro Gaza è da questo punto di vista una novità, condannata con forza dalla stampa internazionale.

Al loro ritorno da Israele numerosi inviati di Le Monde, di Libération o di altre redazioni hanno pubblicato opere spesso tanto appassionate quanto critiche sulla società israeliana. Il problema è dunque meno in Israele, “dove si lavora bene, le persone sono abituate ai giornalisti, si può andare ovunque, tutto è aperto,” dice ad esempio René Backmann, a lungo al Nouvel Observateur [giornale francese di centro-sinistra, ndtr.] e oggi a Médiapart [rivista in rete francese di politica, ndtr.]. “È in Francia che ci rompono le scatole.” Per essere più precisi: si rompono le scatole ai giornalisti e si ignorano gli intellettuali critici con la politica israeliana.

Citiamo diffusamente questi tre giornalisti. Étienne, ex- corrispondente di un quotidiano:

Prima sorpresa quando mi sono sistemato a Gerusalemme: uno dei capiredattori del giornale mi viene a trovare e mi presenta a uno dei vecchi “amici” del Mossad. Quest’ultimo mi mette in contatto con un agente più giovane del contro-spionaggio israeliano che si fa chiamare Paul e che è uno degli ufficiali responsabili della stampa estera. Paul mi passa regolarmente dei documenti plastificati che io non utilizzo, sia perché non posso verificarli con una seconda fonte, sia perché le informazioni che contengono sono insignificanti. Ma varie volte trovo queste “rivelazioni” nel giornale, con la firma del suddetto caporedattore, che viene in Israele senza avvertirmi. Va persino ad intervistare il primo ministro senza di me, contrariamente alla consuetudine che vuole che l’inviato sia sempre presente per un’intervista nel Paese di sua competenza. Vengo avvertito da una telefonata del caporedattore: “Vuole vedere solo me,” e poi mi passa… l’ufficiale del Mossad che si occupa dei giornalisti stranieri, che mi dice: “Mi spiace, è vero, ecc.” E a ragione: i suoi editoriali riflettevano la posizione israeliana dell’epoca.

Qualche mese dopo ricevo un incarico inconsueto dal servizio “Società”: un articolo sugli ebrei francesi che emigrano in Israele a causa dell’incremento dell’antisemitismo in Francia. Una rapida inchiesta mi dimostra che le cose sono molto diverse. All’epoca il numero di immigrati provenienti dalla Francia non era aumentato, e tutti quelli che incontavo mi dicevano che non avevano fatto la loro aliyah [emigrazione verso Israele, ndtr.] per paura, ma per sionismo, e che d’altronde “il Paese in cui gli ebrei sono veramente in pericolo è qui.” Un contatto con l’Agenzia Ebraica mi fornisce delle statistiche recenti che mostrano il profilo molto militante degli immigrati: più del 90% ha frequentato in Francia scuole o organizzazioni ebraiche. Una grande maggioranza conferma di essere arrivata per ragioni ideologiche. Ciò non piace alla giornalista del servizio “società” incaricata di occuparsi del mio articolo, di cui non sapevo che era simpatizzante della destra israeliana. Il giorno dopo trovo nel giornale il mio pezzo censurato, senza le cifre scomode. La stessa giornalista pubblica inoltre un articolo condiscendente sulla “comunità ebraica francese in collera con la stampa.”

Siccome andavo regolarmente in Cisgiordania e a Gaza e davo la parola ai palestinesi, il CRIF (Consiglio Rappresentativo delle Istituzioni Ebraiche Francesi) ha protestato presso la mia direzione. Ma l’unico riscontro che ne ho avuto è stato direttamente dal presidente del CRIF. Alla fine di una conferenza alla quale partecipava a Gerusalemme, mi ha preso in disparte: “Il suo direttore l’ha chiamata?” Gli ho chiesto a quale titolo le comunicazioni interne del giornale lo potessero interessare e prima di piantarlo in asso gli ho risposto: “Il mio direttore non mi chiama mai, si fida totalmente di me”. Ho avuto una spiegazione della vicenda qualche tempo dopo, quando sono passato da Parigi. Ho incontrato il direttore della redazione che mi ha spiegato: “Sono stato invitato dal CRIF a fare un viaggio in Israele, ci sono andato per stare in pace, ma non ho voluto parlartene per non disturbarti né influenzarti, e ovviamente non ho scritto niente [in merito].” Quando questo direttore è stato sostituito in seguito a un cambiamento della proprietà, ero già tornato a Parigi. Il suo successore si è vantato ovunque di aver nuovamente fatto del quotidiano “un giornale filo-israeliano.”

Marc, corrispondente di un media audiovisivo:

Da molto tempo Israele cerca di normalizzare la sua immagine internazionale, ma in fin dei conti il problema non è tanto Netanyahu, quanto i suoi referenti in Francia. Quando si scrive un reportage dalla Cisgiordania si scatenano sulle reti sociali e sui loro siti, ci accusano di antisemitismo, di notizie false, sono assolutamente deliranti. Il problema per noi dell’audiovisivo è che, a differenza della stampa scritta, che non ha un controllo esterno, siamo seguiti dal Consiglio Superiore dell’Audiovisivo (CSA). I suoi membri non ne sanno niente, non sanno neppure come si lavora, ma ritengono che si debba “controllare che ci sia un trattamento equilibrato del conflitto” e possono inviarci degli “ammonimenti”. È una spada di Damocle.

Così nel luglio 2020 Radio-France è stata segnalata dal CSA riguardo a un servizio di France Inter [una delle maggiori radio pubbliche francesi, ndtr.] sulla distruzione di una clinica mobile anti-Covid da parte dell’esercito israeliano nei territori occupati. Il Coordinamento delle Attività Governative nei Territori (COGAT), il settore dell’esercito incaricato del governo nei territori, aveva smentito l’inchiesta documentata di France Inter, ma spesso racconta delle assurdità, un esercito d’occupazione non si preoccupa certo della trasparenza. Il CSA era stato scelto da Meyer Habib [deputato di centro-destra dei francesi all’estero e amico di Netanyahu, ndtr.], che ritiene che France Inter sia un covo di “stupidi” islamo-gauchistes [termine spregiativo che indica militanti di sinistra contrari all’islamofobia, ndtr.]. Ovviamente ciò crea un clima che però non bisogna drammatizzare. Ma faccio attenzione, devo pensarci due volte prima di proporre un argomento, non ho voglia di farmi tormentare in continuazione, e la mia caporedattrice non intende farsi censurare dal CSA.

Philippe, inviato speciale di un settimanale:

Sono andato spesso in Israele e in Palestina, anche se non erano al centro del mio lavoro. Ci sono andato per la prima volta più di venti anni fa con un viaggio di conoscenza organizzato dall’ l’American Jewish Committee [Comitato Ebreo Americano] (AJC) di Parigi. Nel mio giornale non ero il primo né l’ultimo a fare questo tipo di viaggio, era totalmente organizzato, tutto pagato. D’altronde l’AJC invitava ogni sorta di colleghi, non solo inviati dei servizi all’estero, ma anche editorialisti, capi redattori, “rubricisti” qualunque. Nel mio gruppo c’era un giornalista specializzato nei trasporti e una collega che si occupava di consumi e della vita quotidiana in una redazione televisiva. Era ben organizzato, veloce, abbiamo fatto un giro in elicottero nel Negev, incontrato qualche deputato e ministro, e persino, all’epoca, un rappresentante del campo pacifista. Che io mi ricordi nessuno ne ha scritto niente, e d’altronde niente ci veniva richiesto. Ma evidentemente essere invitato non fa necessariamente venir voglia di sputare nel piatto in cui mangi.

In primo luogo non ho mai avuto alcuna difficoltà a far pubblicare i miei articoli, anche se uno dei capi redattori pubblicava editoriali sempre più filo-israeliani, piuttosto in contraddizione con quello che scrivevo io…Su uno dei miei articoli ho avuto parecchi messaggi ostili, e so che li ha ricevuti anche il capo redattore, e senza dubbio delle telefonate di “amici” influenti del giornale. Allora, poco alla volta, senza che nessuno mi dicesse niente, è stato sempre più difficile andarci. “Sei sicuro?”, “Ciò non interessa più molto ai lettori”, “Non è un po’ caro?” Beh, ciò non valeva per gli editoriali. Sul giornale l’opinione filo-israeliana era diventata incontrollata, senza essere controbilanciata da servizi più sfumati.

Guillaume Gendron è stato corrispondente di Libération in Israele/Palestina tra il 2017 e il 2020 e in questi ultimi giorni ha scritto numerosi articoli sul suo giornale, sulla falsariga di questa osservazione iniziale pubblicata dal quotidiano il 16 dicembre 2020, che descriveva l’ascesa dell’estrema destra nella società israeliana:

Oggi Israele e Palestina sono più che mai interconnessi, delle realtà non parellele, bensì sovrapposte, dei destini legati uno all’altro. Mentre i coloni si radicano, dando alla Cisgiordania l’aspetto di un Texas kosher [cioè un Far West rispondente ai dettami delle norme religiose ebraiche, ndtr.], una Trumpland bis dove dei cowboy con la kippà di lana [zuccotto ebraico tipico dei coloni religiosi, ndtr.] perpetuano il mito della frontiera con pick-up e M16 [fucile d’assolto USA, ndtr.] contro degli indiani d’Arabia, il muratore di Jenin si guadagna da vivere nei cantieri di Tel-Aviv, dall’altra parte del muro, superato con o senza permesso. Nel frattempo la gioventù palestinese, la generazione Khalas (basta) senza prospettive, non sogna che il mare.

Accolto qualche settimana dopo da Dominique Vidal all’“Istituto di ricerca e di studio Mediterraneo Medio Oriente” (Iremmo) per raccontare un’esperienza professionale durata tre anni, Gendron ha lamentato, come tutti i giornalisti francesi che si occupano dell’attualità a Tel Aviv, Gerusalemme e Ramallah, le angherie di qualche zelota votato alla difesa di Israele… in Francia. “C’è un modo molto organizzato di gestire la calunnia, ci sono persone che lo fanno tutto il giorno sulle reti sociali,” vivisezionare i reportage degli inviati per la cosiddetta disinformazione. “All’inizio controbattevo,” ha proseguito Guillaume Gendron, “ma, di fronte a persone di una tale malafede pronte a deformare le tue affermazioni, ci sono momenti in cui non bisogna mettersi a discutere perché di fatto non si tratta di una discussione.”

Tra interruzioni audio e ricordi sfuggenti, il trattamento mediatico del rapporto Francia-Israele ha un bell’essere un “non-argomento”, come mi è stato ripetuto parecchie volte in vari modi in questi ultimi mesi; ciò non impedisce che qualche vedetta ben sistemata si incarichi di fare i conti con i giornalisti che non fanno altro che il proprio dovere, cioè informare: il giornalista Clément Weill-Raynal e il suo sito InfoEquitable, l’avvocato Gilles William Goldnagel, che setacciano le numerose piattaforme della destra audiovisuale, e l’immancabile deputato Meyer Habib, molto spesso impegnato a perseguitare i giornalisti e che a sua volta è una presenza fissa di I24News [canale televisivo satellitare israeliano, ndtr.]. Sono quasi sistematicamente ritrasmessi dal CRIF e da diverse personalità, come Alain Finkielkraut [filosofo e opinionista, ndtr.], Jacques Tarnero [ricercatore e saggista, ndtr.], Shmuel Trigano [sociologo e filosofo, ndtr.] e da numerosi internauti e siti franco-israeliani con un pubblico riservato, come JJS News, così come ovviamente sulle reti sociali.

Per loro, contro ogni ragionevolezza e semplice senso dell’osservazione, la demonizzazione di Israele sui giornali francesi è terrificante. Esigono un’informazione “equilibrata”, come se questo termine avesse un senso. “Hanno un’idea falsa dell’informazione ‘equilibrata’, che per loro deve essere sistematicamente favorevole a Israele,” spiega un collega inviato a Gerusalemme. Vari giornalisti ricordano la celebre formula attribuita a Jean-Luc Godard che definisce l’obiettività alla televisione: “Cinque minuti per gli ebrei, cinque minuti per Hitler”. Uno di loro mi assicura che Meyer Habib, per criticare il modo in cui informa sulla Palestina, lo ha pesantemente trasformato in “cinque minuti per gli ebrei, cinque minuti per Israele.” Eppure quelli che Piotr Smolar, ex-corrispondente di Le Monde da Gerusalemme, definisce “formiche astiose” “finiscono per provocare l’omertà. L’ho sentito molte volte dire da colleghi, hanno sempre più difficoltà a lavorare, gli si dice: ‘Pensi che la Palestina ne valga la pena? È finita, fottuta’”, commenta René Backmann.

L’“affaire” Mohamed Al-Dura ha vissuto questo. Dopo il suo reportage sulla morte di questo ragazzino palestinese di 12 anni ucciso da cecchini israeliani a Gaza nel 2000, Charles Enderlin, inviato di France 2, ha subito una lunga guerriglia pubblica e giudiziaria. Il giornalista racconta nel dettaglio le accuse di mentire in Un enfant est mort [Un bambino è morto] (Don Quichotte, 2010) e nelle sue recenti memorie professionali, De notre correspondant à Jérusalem [Dal nostro corrispondente a Gerusalemme] (Seuil, 2021). Ci sono voluti 13 anni di processi prima che Enderlin sia stato totalmente assolto dalla giustizia francese e il suo principale accusatore, Philippe Karsenty, smentito e condannato alle spese processuali.

Ma la ferita fu profonda e le dicerie persistenti. Essere trattato da manipolatore, da menzognero, da bugiardo, ascoltare “A morte Enderlin” durante gli incontri pubblici per questo giornalista è stato terribile. E, anche se il suo datore di lavoro lo ha sostenuto durante tutto il processo, così come la sua redazione che quasi all’unanimità ha firmato un appello promosso dall’SNJ [Sindacato Nazionale dei Giornalisti francesi, ndtr.], “tuttavia Charles è stato rapidamente messo da parte e non ha avuto la vita facile,” racconta Dominique Pradalié, segretaria generale dell’NSJ e una delle sue colleghe a France 2. “Non gli accettavano più reportage e Pujadas, allora presentatore del notiziario delle 20, l’aveva messo sulla lista nera,” aggiunge.

Un’altra petizione per sostenere Enderlin, lanciata da René Backmann, aveva raccolto centinaia di firme, tra cui molti giornalisti del Canard enchainé [noto settimanale satirico francese, ndtr.] , del Nouvel Observateur [giornale di centro-sinistra, ndtr.], dell’AFP [principale agenzia di stampa francese, ndtr.] e di media audiovisivi. Ma nessun editore, tranne Didier Pillet de La Provence [giornale del sud della Francia, ndtr.] e di Claude Perdriel (e del suo braccio destro di allora all’ Observateur, Denis Olivennes), aveva firmato quel testo. I “caporioni” dei giornali, per riprendere le parole di Dominique Pradalié, non manifestarono la minima solidarietà riguardo a Charles Enderlin, benché all’epoca fosse in gioco il dovere di informare, sulla Palestina e non solo. Al contrario Denis Jeambar, direttore de L’Express [settimanale di centro-sinistra, ndtr.], fu uno dei suoi principali accusatori e giornali come Le Figaro [giornale di centro–destra, ndtr.] hanno ripreso varie volte le argomentazioni di Karsenty e dei suoi compari, come Élisabeth Lévy del Causeur [settimanale di destra, ndtr.] o Luc Rosenzweig [giornalista di Libération e di Le Monde, ndtr.], poi deceduto. Senza parlare dei siti più di nicchia, la cui mole di disinformazione è quasi impossibile tracciare e che continuano ad accusare Enderlin. Segno dei tempi? Nel maggio 2021 France 2 ci ha messo più di 15 giorni a mandare lì [in Israele/Palestina] un inviato speciale…

Inoltre altri processi avviati da filo-israeliani, in particolare contro Edgar Morin [prestigioso sociologo francese, ndtr.], Danielle Sallenave [scrittrice e giornalista francese, ndtr.] e Samïr Naïr (assolti dalla Corte di Cassazione in nome della libertà di espressione per un editoriale su Le Monde nel 2002) o Daniel Mermet (anche lui assolto), allora su France Inter, certo non hanno portato a niente, ma hanno finito per convincere i capiredattori che fosse meglio tenersi alla larga. Tutti hanno vinto in tribunale contro i filo-israeliani, e tuttavia, amara ironia, essi [i filo-israeliani, ndtr.] sono usciti vincitori dalle disgustose polemiche che hanno iniziato. Purtroppo non è stato molto rumore per niente.

Quindi ormai silenzio nei ranghi. Lo si è già scritto qui: si è imposta l’omertà, molte informazioni semplicemente non vengono più date. Per esempio, dove si è letto in Francia alla fine di aprile del 2021, che uffici della “sicurezza” israeliana avevano utilizzato indebitamente l’identità di giornalisti per mettere in piedi operazioni segrete a favore di “clienti” di Abu Dhabi? L’informazione del sito americano The Daily Beast è stata ampiamente ripresa negli Stati Uniti, nel Regno Unito … e in Israele. Non in Francia, dove i media audiovisivi sembrano ancor più timorosi su Israele della stampa scritta, perché i loro capi sono più timorosi o troppo filo-israeliani. Di fatto la maggior parte delle voci critiche sono raramente presenti sulle piattaforme. Rony Brauman, franco-israeliano come Charles Enderlin, testimonia insieme a molti altri che “non mi si invita più sui media, sono persona non grata, salvo che su France 24. Una volta mi hanno invitato dopo un dossier di Complement d’enquete [settimanale informativo della televisione pubblica France 2, ndtr.] sugli ebrei e Israele. Hanno annullato l’invito il giorno prima e sono stato sostituito da Bernard Henri Lévy [noto filosofo filo-israeliano, ndtr.]. Pare che la società di produzione avesse ritenuto che io fossi un ‘tizio polemico’”…

È concesso criticare Israele in Francia, non si va in prigione per questo. Ma se si critica Israele si hanno alle costole gli amici di Israele, e sono numerosi i sostenitori di Israele,” spiega un ambasciatore francese in pensione. “Non drammatizzo, ognuno è libero di pensare quello che vuole, ma nel nostro Paese ci sono delle protezioni legali contro l’antisemitismo, dunque si potrebbe pensare che la discussione possa essere aperta, cosa che in realtà non è più così.” “L’offensiva politica per far passare l’antisionismo come nuovo antisemitismo ha permesso di guadagnare punti nell’opinione pubblica,” precisa la docente universitaria, anche lei franco-israeliana, Frédérique Schillo. “È un po’ tendenzioso, il colpo è riuscito ed è un doppio vantaggio per Israele: poter dire che oggi l’antisemitismo si maschera in vari modi e alzare il livello del divieto sulla critica politica.”

Il timore di essere accusati di antisemitismo paralizza numerosi colleghi, e l’adozione di vari enti locali – dall’inizio del 2021 le città di Parigi, Mulhouse, il consiglio generale delle Alpi Marittime – della definizione dell’International Holocaust Remembrance Alliance [Alleanza Internazionale per il Ricordo dell’Olocausto, organismo intergovernativo cui aderiscono 36 Paesi, ndtr.] (IHRA), che equipara la critica contro Israele all’antisemitismo, non facilita le cose, neppure nelle redazioni. Lo spettro politico schierato con la difesa cieca di Israele, da Manuel Valls [político socialista francese, ndtr.] a Gérard Darmanin [ministro del partito di Macron, ndtr.], da Anne Hidalgo [sindaca socialista di Parigi, ndtr.] a Emmanuel Macron [presidente della repubblica, ndtr.], non è ininfluente nella sfera dei media.

Quanto alla difesa della Palestina e del diritto dei palestinesi, “non è un argomento molto popolare,” aggiunge Bruno Joncour, deputato del Mouvement démocrate [Movimento Democratico, partito di centro, ndtr.] (Modem) di Saint-Brieuc [dipartimento bretone ndtr.]. “Quindi molti non vogliono immischiarsi troppo, non è molto coraggioso né molto glorioso.” “In Francia c’è ancora un profondo attaccamento alla causa palestinese, c’è un movimento di solidarietà spinto dalle associazioni, ma non c’è alcuna copertura mediatica, nessuno ne parla. La cappa è pesante. Una vera cappa di piombo,” afferma Jacques Fath, ex-responsabile internazionale del Partito Comunista Francese (PCF). I danni del terrorismo islamico hanno giocato un ruolo molto importante in questo silenzio. Sostenere i palestinesi ormai equivale, insistono continuamente i filo-israeliani, a sostenere Hamas e dunque il terrorismo. Questo argomento furoviante ha dato e continua a dare risultati.

I media non vi si impegnano più. Dopo il fallimento del processo di Oslo, l’argomento è diventato secondario e le minacce di intimidazioni da parte dei filo-israeliani più accaniti attraverso il CRIF portano i capiredattori a tenere un profilo basso e a imporlo alle loro redazioni. Autocensura? Viltà? Pigrizia? Accettazione? “Un po’ di tutto questo,” sospira Alain Gresh, direttore di Orient XXI, che segue la regione [mediorientale] da decenni e che, come Brauman, a volte ha avuto l’invito annullato da mezzi di comunicazione audiovisivi, fino a non essere più invitato del tutto.

Per proseguire con la metafora zoologica delle “formiche astiose”, si potrebbe parlare dei loro compari: le lucertole pigre e le talpe miopi. Sono soprattutto i numerosi capi e vice-capi di una professione molto gerarchizzata che fanno sapere che l’opinione pubblica non si interessa più all’argomento, il che è un modo per evitare di affrontarlo, aprendo nel contempo i loro giornali e le loro antenne ai numerosi filo-israeliani. Si può dar ragione a Frédéric Encel, noto filo-israeliano. Durante una conferenza a Strasburgo nel 2013 resa pubblica da Pascal Boniface [studioso di geopolitica e politico francese critico con Israele, ndtr.] si è vantato parlando dei media e di Israele:

Globalmente la situazione è… (stavo per dire sotto controllo) piuttosto favorevole. Si trovano ovunque, veramente ovunque, media favorevoli a Israele, equilibrati, onesti: è vero sulla carta stampata, è vero alla radio, è vero alla televisione.” Per Rony Bauman, “Encel parlava in modo obiettivo di una lobby che obiettivamente esiste. È ammesso, rivendicato.” D’altronde Frédéric Encel in quel periodo era ben conscio della sua gloria mediatica grazie alla direzione ad interim della cronaca geopolitica d’estate su France Inter, che lui doveva a Philippe Val, un altro filo-israeliano, all’epoca direttore della stazione.

Quegli stessi che pretendono dai giornalisti un’impossibile ‘oggettività’ riguardo ad Israele sono in genere i più intolleranti,” ha scritto Piotr Smolar, l’ex corrispondente di Le Monde, che non contava più gli insulti e le calunnie dopo alcuni dei suoi articoli. È una situazione molto francese, perché i media israeliani come quelli americani e britannici sono molto più liberi come tono e come scelta degli argomenti.

Anche se meno numerosi – TF1 ha chiuso il suo ufficio a Gerusalemme, il corrispondente permanente di Libération per il momento è stato sostituito da freelance di qualità – numerosi colleghi, soprattutto liberi professionisti, sono presenti a Tel Aviv, Gerusalemme e Ramallah e propongono una copertura esaustiva e diversificata della situazione sul posto. Devono destreggiarsi tra le viltà dei capi parigini e le invettive digitali dei lobbysti schierati con la destra israeliana, per non parlare della loro precarietà economica. I loro sguardi sono ancora più preziosi, anche se i mezzi di comunicazione che li ospitano sono sempre meno. Il loro silenzio sarebbe la più amara delle sconfitte. Non è ancora così.

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




Cannes: gli attori palestinesi protestano contro “la cancellazione culturale” della Palestina

Ci opponiamo ad ogni forma di repressione da parte del regime israeliano, che impedisce al popolo palestinese di vivere, esistere e creare”, hanno dichiarato i dodici attori principali del film ‘Let there be morning’.

MEE

12 luglio 2021- Middle East Eye

Gli attori palestinesi del lungometraggio Let there be morning [Che sia mattina] hanno boicottato il Festival di Cannes che si sta attualmente svolgendo per protestare contro “la cancellazione culturale” della Palestina.

Non possiamo ignorare la contraddizione della presentazione del film a Cannes con la dicitura ‘film israeliano’, mentre Israele continua a condurre da molti decenni la sua campagna coloniale di pulizia etnica, espulsioni e apartheid contro di noi, il popolo palestinese”, hanno dichiarato i dodici attori in una lettera indirizzata alla direzione del festival.

Noi resistiamo ad ogni forma di oppressione coloniale israeliana contro il diritto del popolo palestinese a vivere, esistere e creare”, proseguono gli attori Alex Bakri, Juna Suleiman, Ehab Elias Salameh, Salim Daw, Izabel Ramadan, Samer Bisharat, Yara Jarrar, Marwan Hamdan, Duraid Liddawi, Areen Saba, Adib Safadi e Sobhi Hosary, che denunciano “la cancellazione pregiudizievole che viene inflitta ai palestinesi” nel momento in cui il loro lavoro viene presentato sui media come “israeliano”.

Ogni volta che l’industria cinematografica ritiene che noi e il nostro lavoro ricadiamo sotto la dicitura etnico-nazionale di “israeliano”, viene per prima cosa perpetuata una realtà inaccettabile che assegna a noi, artisti palestinesi con cittadinanza israeliana, un’identità imposta dalla colonizzazione sionista per mantenere la continua oppressione dei palestinesi all’interno della Palestina storica, la negazione della nostra lingua, della nostra storia e della nostra identità,” hanno scritto in particolare gli attori.

Pretendere che noi restiamo inerti ed accettiamo questa etichetta (…) non soltanto normalizza l’apartheid, ma continua anche a consentire la negazione e il mascheramento della violenza e dei crimini inflitti ai palestinesi,” aggiungono.

Siamo uniti e facciamo appello alla comunità artistica ed internazionale perché amplifichino la voce dei palestinesi. Ci opponiamo ad ogni forma di repressione da parte del regime israeliano (che impedisce) al popolo palestinese di vivere, esistere e creare”, concludono gli attori.

Il regista del film, l’israeliano Eran Kolirin, ha condiviso sulla sua pagina Facebook la lettera dei suoi attori con questo messaggio: “Amo queste persone. Rispetto la loro decisione (anche se mi sarebbe piaciuto che fossero presenti per celebrare insieme a me il loro valore artistico) e sostengo la loro lotta. Grazie per le belle parole, bravissimi attori”.

Reazione indignata di un ministro israeliano

Let there be morning, tratto da un romanzo dello scrittore arabo israeliano Sayed Kashua, narra la storia di un cittadino palestinese di Israele costretto a riconciliarsi con la sua identità quando ritorna nel suo villaggio natale, che trova circondato da un muro.

Secondo il sito [israeliano] JForum, “fonti del Ministero della Cultura hanno confermato che il film è stato supportato dallo Stato di Israele”.

Chi ha chiesto un finanziamento allo Stato israeliano per fare film e utilizzare il suo denaro non dovrebbe vergognarsi di Israele. La libertà di espressione è importante, soprattutto per coloro che ne traggono profitto, l’opportunità di produrre in Israele, l’opportunità di ricevere un finanziamento dal nostro Paese”, ha reagito il ministro israeliano della Cultura e dello Sport, Hili Trooper [del partito centrista “Blue e Bianco”, ndtr.].

Il film è sostenuto dal Fondo cinematografico israeliano per la somma di due milioni di shekel (circa 500.000 euro) e da circa due milioni di shekel aggiuntivi da parte della Francia e della Germania (…). Di conseguenza al Festival di Cannes il film è registrato in catalogo come un film i cui Paesi di produzione sono Israele, la Germania e la Francia”, ha risposto il regista Eran Kolirin.

Il finanziamento israeliano, spiega ancora il regista, proviene anche dalle imposte che pagano quegli stessi attori, che in cambio “si vedono rifiutare il diritto di mostrare la loro identità palestinese, dato che lo Stato li costringe a salire sul palco e presentare la loro storia come ‘israeliana’”.

Eran Kilirin ha altresì denunciato “la paranoia del precedente governo (guidato da Benjamin Netanyahu), in cui il termine palestinese era bandito, espunto e taciuto”.

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




Le colonie sono crimini di guerra: è ora di mettere l’Organizzazione Sionista Mondiale del Sudafrica davanti alle sue responsabilità.

Iqbal Jassat

12 luglio 2021 The Palestine Chronicle

Michael Lynk, relatore speciale dell’ONU per i diritti umani nei TPO (Territori Palestinesi Occupati) è giunto a conclusioni incriminanti sulle colonie illegali di Israele.

Nella sua relazione di venerdì al Consiglio per i Diritti Umani dell’ONU, ha presentato ragioni valide per classificare le colonie quali crimini di guerra.

Nella sua dichiarazione Lynk ha affermato che le colonie rappresentano una violazione dell’assoluto divieto di “insediamento di coloni”, e ha chiesto agli stati membri dell’ONU di non ignorare le violazioni israeliane.

Che Israele in qualità di potenza occupante trasferisca la propria popolazione nei TPO, non solo è contro le leggi internazionali, ma danneggia direttamente i palestinesi, che subiscono brutalità da parte dei coloni, compresa la pulizia etnica.

Le ingiustizie derivanti dalla costruzione delle colonie sono biasimevoli, immorali e dissennate. Tuttavia, nonostante questo rappresenti ovviamente una deviazione dai valori civili, Israele persiste a prescindere.

Anche se Lynk usa un’argomentazione convincente quando sostiene che tali constatazioni obbligano la comunità internazionale a valutare quali adottare fra le numerose misure di responsabilità previste dalle vigenti disposizioni in materia diplomatica e legale, resta da vedere se il Consiglio di Sicurezza dell’ONU agirà in conseguenza.

Secondo lo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale [CPI], la pratica da parte di una potenza occupante di trasferire parte della sua popolazione civile in un territorio occupato è un crimine di guerra.

E dato che il regime coloniale continua a perpetrare crimini di guerra, per Lynk è importante e urgente dichiarare che è ora di far capire ad Israele che la sua occupazione illegale e il suo disprezzo per la legge e l’opinione internazionale “non possono rimanere senza conseguenze.”

Se Israele è colpevole e oltraggia varie risoluzioni dell’ONU che definiscono illegale la sua attività coloniale, è inaccettabile che tale status quo rimanga senza risposta. Secondo Lynk, “è un tragico paradosso che anche se le colonie israeliane sono chiaramente vietate dalla legge internazionale, la comunità internazionale abbia dimostrato una notevole riluttanza a far rispettare le sue stesse leggi.”

Nel suo studio “The One State Solution” [“La Soluzione di un Unico Stato”, ndtr], l’autrice Virginia Tilley spiega che le colonie israeliane hanno invaso i TPO in tale misura da rendere impraticabile qualsivoglia Stato palestinese. Spiega in modo estremamente dettagliato che l’impatto della struttura coloniale è stato enorme dal punto di vista geografico, demografico, economico e politico.

Quando il libro venne pubblicato nel 2005, la Tilley pronosticò che, visto che la struttura coloniale diventava parte permanente del contesto, la maggior parte della Cisgiordania sarebbe stata formalmente “incorporata in Israele più o meno nell’arco di un decennio”.

Fece inoltre notare che è fondamentalmente sbagliato credere che le colonie ebraiche equivalgano a qualche conglomerato di roulotte. Al contrario, le colonie sono città vere e proprie, che comprendono centri commerciali e cinema, scuole di ogni grado, centri ricreativi e parchi, sinagoghe e centri culturali, nonché aree industriali con fabbriche da centinaia di milioni di dollari in investimenti.

Fenomeno noto come creazione di “fatti compiuti”, che è parte integrante del progetto di espansione sionista, le colonie nella Cisgiordania e Gerusalemme Est occupate sono salite dalle 230 del 2005 a quasi 300. E si è passati da 400.000 a oltre 680.000 coloni ebrei.

Lynk sostiene correttamente che le colonie sono diventate “il motore della occupazione israeliana che dura da 54 anni, la più lunga dunque in epoca moderna.”

E a proposito delle solite condanne retoriche da parte di Stati membri dell’Assemblea Generale dell’ONU, compreso il Sudafrica, è opportuno tenere presente che, come ci ricorda Lynk, le parole sono vane se non si traducono in azioni.

“Fintanto che la comunità internazionale criticherà Israele senza chiamarlo a rispondere delle proprie azioni e subirne le conseguenze, dovremo scomodare fate e folletti per convincerci che 54 anni di occupazione finiranno e che i palestinesi realizzeranno il proprio diritto all’auto-determinazione.”

La serietà del rapporto che chiede di classificare le colonie come crimini di guerra non può essere presa alla leggera nè ignorata.

In Sudafrica è ragionevole aspettarsi che il governo dell’ANC [ANC, Congresso Nazionale Africano, è il più importante partito politico sudafricano. Fondato all’epoca della lotta all’apartheid, è al governo del Paese dal 1994, ndtr] non soltanto dia pieno sostegno al rapporto Lynk, ma si adoperi affinché la missione dell’ONU abbia i mezzi per tradurre in azioni significative le conclusioni a cui è pervenuta.

E soprattutto, il Sudafrica ha la fantastica opportunità di indagare le attività dei gruppi di pressione pro-Israele locali, alcuni dei quali risulterebbero sicuramente coinvolti nel finanziamento dei crimini di guerra delle colonie.

Uno dei promotori chiave della struttura delle colonie illegali è la World Zionist Organization (WZO) [Organizzazione Sionista Mondiale, fondata nel 1897 da Theodor Herzl per promuovere la causa sionista, ndtr]. Lo studio della Tilley rivela che nel piano generale pubblicato nel 1978, la WZO definiva la strategia di base di incorporare “Giudea e Samaria” [la Cisgiordania, ndtr] quale “missione nazionale fondamentale.”

Se è vero che tutte le organizzazioni sioniste in Sudafrica sono affiliate alla WZO, il governo Ramaphosa [Matamela Cyril Ramaphosa è capo di Stato del Sudafrica dal 2018, ndtr] deve assolutamente autorizzare le autorità competenti ad indagare tali organizzazioni e se scopriranno che esse hanno qualche responsabilità nel favoreggiamento delle colonie illegali, a incriminarle per fomentare crimini di guerra.

Iqbal Jassat è membro esecutivo del Media Review Network [la cui missione è sfatare i pregiudizi nei confronti dei musulmani e favorire il dialogo fra i gruppi diversi che vivono in Sudafrica, ndtr], che ha sede in Sudafrica. Ha scritto questo articolo per The Palestine Chronicle. Vedi: www.mediareviewnet.com

traduzione dall’inglese di Stefania Fusero




I palestinesi chiedono il rilascio di una deputata in carcere per il funerale della figlia

12 luglio 2021 – Al Jazeera

Le organizzazioni per i diritti umani dichiarano che Israele dovrebbe consentire a Khalida Jarrar di partecipare ai funerali di sua figlia Suha, 31 anni, che è stata trovata morta nella sua casa di Ramallah.

Attivisti palestinesi e gruppi per i diritti umani hanno chiesto alle autorità israeliane di rilasciare Khalida Jarrar, una deputata palestinese che sta scontando una pena detentiva, in modo che possa partecipare al funerale di sua figlia.

Secondo quanto riferito da attivisti palestinesi e media israeliani, l’amministrazione carceraria israeliana ha negato lunedì la richiesta di Jarrar, una prigioniera politica, di partecipare al funerale.

Suha Jarrar, 31 anni, è stata trovata morta domenica sera nella sua casa nella città occupata di Ramallah, in Cisgiordania, come riportato dai media palestinesi. Secondo queste notizie, Jarrar è morta per un attacco di cuore.

La giovane Jarrar lavorava come ricercatrice ed esperta legale presso Al-Haq, un’organizzazione palestinese per i diritti umani con sede a Ramallah. Alcuni dei suoi lavori più importanti si sono concentrati sugli effetti ambientali dell’occupazione israeliana.

In un rapporto del 2019 ha sostenuto che le politiche discriminatorie israeliane impediscono ai palestinesi nella Cisgiordania occupata di adattarsi ai cambiamenti climatici.

In un necrologio, Al-Haq ha affermato che Suha era “una coraggiosa sostenitrice dei diritti del popolo palestinese all’autodeterminazione, alla libertà e alla dignità”.

Al-Haq ha detto di aver inviato un appello urgente alle Nazioni Unite chiedendo il rilascio “immediato e incondizionato” di Jarrar dalle carceri israeliane in modo che possa dire addio a sua figlia.

Gli attivisti palestinesi hanno anche diffuso una petizione online chiedendo il suo rilascio. Altri hanno organizzato manifestazioni a sostegno degli appelli nella Cisgiordania occupata e nella Striscia di Gaza.

In un necrologio per Suha, Omar Shakir, direttore per Israele e la Palestina di Human Rights Watch, ha scritto: “Avendo ripetutamente detenuto Khalida [Jarrar] in violazione dei suoi diritti, le autorità israeliane dovrebbero almeno permetterle di dire addio a sua figlia”.

La prigionia di Jarrar

A marzo un tribunale militare israeliano ha condannato Jarrar a due anni di carcere per “incitamento alla violenza” e appartenenza a un'”organizzazione vietata”. La sua scarcerazione è prevista per settembre.

L’importante politica palestinese è detenuta da quando le forze israeliane la hanno arrestata a casa sua, nell’ottobre 2019, nella città di Ramallah nella Cisgiordania occupata.

Jarrar, che è stata anche membro dell’ex Consiglio Legislativo Palestinese (PLC), il parlamento ora sospeso della Palestina, è stata arrestata numerose volte e ha subito diversi periodi di detenzione amministrativa nelle carceri israeliane, in base alla norma secondo la quale i palestinesi della Cisgiordania e della Striscia di Gaza possono essere detenuti senza la formulazione di un’accusa e senza prove per un periodo fino a sei mesi.

La 58enne appartiene al Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP), di sinistra, considerato un gruppo “terrorista” da Israele.

Jarrar è stata arrestata per la prima volta nel 1989 e trattenuta per un mese senza processo. Il suo secondo periodo di detenzione, nel 2014, si è prolungato con una condanna a 15 mesi di carcere. Alla fine è stata rilasciata nel febbraio 2019, prima di essere arrestata di nuovo nove mesi dopo.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Per la legge israeliana ‘ebraicità equivale a proprietà’

Rabea Eghbariah

9 luglio 2021- Mondoweiss

Nell’ambito del progetto coloniale israeliano, quadri giuridici distinti sono estesi a uno spazio giuridico frammentato, ma condividono una chiara logica comune. Questa logica unificante è che all’ebraicità corrisponde il diritto di proprietà e ciò è al centro di questo sistema di dominio del colonialismo di insediamento.

Nel dibattito pubblico su Sheikh Jarrah è la legge ad essere diventata il punto focale della controversia. Contro la tesi palestinese della pulizia etnica, la propaganda israeliana continua a tentare di descrivere l’imminente espulsione dei palestinesi di Sheikh Jarrah come una “disputa immobiliare”, sottolineando che il ricorso è ancora in sospeso presso la Corte Suprema israeliana. Ma le rivendicazioni di terreni e abitazioni, cioè le “dispute immobiliari”, sono il fulcro sia del progetto israeliano di colonizzazione che della resistenza palestinese. I tribunali israeliani, Corte Suprema inclusa, non sono arbitri neutrali, ma al contrario sono protagonisti in un progetto nazionale-coloniale che dispensa valore, sofferenza e risorse in base a criteri etnico-nazionali.

Il ruolo del diritto nel progetto di colonizzazione si capisce esaminando il modo in cui quadri legali distinti, estesi a uno spazio legale frammentato, condividano tuttavia una logica comune. Questa logica condivisa diventa evidente quando si analizzano i ricorsi circa le terre e le sentenze dei tribunali israeliani: le agenzie statali israeliane e i gruppi di coloni ebrei sono trattati a priori come proprietari legittimi, mentre, nel migliore dei casi, i palestinesi non ebrei sono considerati degli inquilini che non hanno diritto alla proprietà, ma occupano la terra solo per concessione delle autorità israeliane. Stando a questa logica, le terre di proprietà statale sono convertite in terre ebraiche, come sancito ulteriormente nel 2018 dall’emendamento costituzionale della legge sullo Stato-Nazione ebraico che afferma che “lo sviluppo della colonizzazione ebraica è un valore nazionale”, ed esige che lo Stato debba agire attivamente in suo favore. Parafrasando la famosa frase di Cheryl Harris [autrice di ‘Whiteness as property’ – Bianchezza come proprietà, 2005, in K. Thomas e G. Zanetti (a c. di); ed. it. Legge, razza e diritti. La Critical Race Theory negli Stati Uniti, Diabasis, Reggio Emilia] io definisco questo modo di pensare “l’ebraicità come proprietà” secondo la legge israeliana. 

L’elaborazione di ebraicità come proprietà secondo il diritto israeliano è centrale per una struttura che può essere definita coloniale: la terra è un prerequisito e una risorsa materiale su cui si regge una società di coloni che prospera a spese degli abitanti autoctoni. Entro questa struttura, il diritto agisce come una tecnologia d’avanguardia: è la legge che consente, facilita e impone l’esproprio continuo ai danni dei palestinesi e la ridistribuzione delle loro risorse a favore degli ebrei israeliani. La combinazione di una distribuzione di terre e proprietà fortemente politicizzata e razzializzata, in presenza di un sistema giuridico che perpetua e facilita questa distribuzione, produce quello che da tempo molti palestinesi chiamano pulizia etnica. Dispute circa le proprietà e la guerra giuridica contro i palestinesi non sono il contrario della pulizia etnica: sono proprio uno dei suoi metodi.

Una cronologia degli sfratti secondo la legge: Umm al-Hiran, Khan al-Ahmar e Sheikh Jarrah

Possiamo rintracciare la logica dell’ebraicità come proprietà per la legge israeliana ripercorrendo tre cause su “dispute immobiliari” che sono microcosmi di tre contesti legali diversi: Umm al-Hiran, Khan al-Ahmar e Sheikh Jarrah (cittadine situate rispettivamente in Israele, Cisgiordania e Gerusalemme Est). A sopraintendere a tutte queste diverse realtà c’è la Corte Suprema israeliana, che è l’unica istituzione che delibera sui ricorsi dei palestinesi provenienti da frammenti territoriali e concettuali diversi. Ognuna di queste cause è soggetta a leggi diverse e gli abitanti sono soggetti a situazioni legali differenti: a Umm al-Hiran ci sono dei cittadini di Israele che teoricamente godrebbero della protezione costituzionale secondo il diritto civile israeliano; gli abitanti di Khan al-Ahmar risiedono in Cisgiordania (Area C), soggetti al controllo diretto dell’esercito israeliano, e quelli di Sheikh Jarrah sono residenti (ma non cittadini) di Israele sottoposti a un status legale distinto che permette, fra altre cose e in certe condizioni, la revoca del loro permesso di residenza. 

Il caso di Umm al-Hiran dimostra come le tutele costituzionali si azzerino e le “terre statali” siano usate per spossessare e rimuovere i palestinesi. Fra gli anni ’50 e gli inizi degli anni ’60 Israele ha sfrattato non solo i palestinesi dalla gran parte delle loro terre, ma ha anche trasformato il 93% dei terreni sotto il suo controllo in proprietà statale. Ha ottenuto ciò rendendo più difficile fornire prove per dimostrarne la proprietà, ricorrendo a espropri di massa e usando altre leggi, inclusa quella sulla Legge Proprietà degli Assenti. In Cisgiordania e a Gaza ha usato in modo simile leggi giordane e ottomane in vigore sino al 1967 e permesso al governatore militare di acquisire il controllo di terre in quanto “terre statali” (principalmente, ma non solo, in quella che è diventata l’Area C dopo gli accordi di Oslo). In flagrante violazione del diritto internazionale, la Corte Suprema di Israele ha più volte consentito l’insediamento di colonie israeliane in questi territori. 

Le terre statali sono in pratica trasformate in terra ebraica, per rendere concreta l’ebraicità in quanto proprietà. Dal 1948 Israele non ha fondato una sola località palestinese per i palestinesi, mentre dagli inizi degli anni ‘90 ha creato più di 900 “località ebraiche” in Israele e quadruplicato il numero di coloni in Cisgiordania. Allo stesso tempo, la continua presenza palestinese sulle terre è stata spesso interpretata come un mero favore concesso dallo Stato di Israele, ma che non può costituire un diritto di proprietà. Umm al-Hiran ne è un classico esempio: nel 1948 gli abitanti sono stati sfrattati e spossessati delle loro terre di Khirbet Zubaleh e insediati dalle autorità israeliane a Umm al-Hiran nel 1956. Nel 2002, il governo israeliano ha deciso di fondare la città di Hiran, provocando un altro spostamento dei palestinesi di Umm al-Hiran. All’inizio lo Stato ha affermato che gli abitanti di Umm al-Hiran erano degli squatter su terre statali, ma in tribunale poi ha ammesso che avevano abitato lì per generazioni con il permesso dello stesso Stato israeliano. 

Eiakim Rubinstein, giudice della Corte Suprema, ha deliberato che “i membri della tribù non hanno acquisito il diritto di proprietà delle terre ai sensi delle nostre leggi sulle proprietà, sebbene (da generazioni) ci risiedano con un permesso”. Apprendiamo che questo permesso potrebbe essere revocato facilmente, ignorando quelle garanzie costituzionali che dovrebbero essere applicate ai cittadini palestinesi in Israele. Dato che le rivendicazioni territoriali dello Stato hanno la prevalenza su quelle dei palestinesi, lo Stato può proseguire con la sua ridistribuzione razzializzata di terra secondo la logica dell’ ‘ebraicità come diritto di proprietà’. Il risultato è che ora Hiran, una cittadina abitata solo da ebrei, sta per essere edificata sui terreni espropriati agli abitanti di Umm al-Hiran. Una legge che permette l’insediamento di tali comunità segregate, basata su un comitato delle ammissioni che decide sull’ “idoneità sociale e culturale”, è stata confermata dalla Corte Suprema israeliana nel 2014.

La causa relativa a Khan al-Ahmar, i cui abitanti palestinesi hanno presentato una petizione alla Corte Suprema chiedendo di impedire la demolizione del loro villaggio, dimostra che in Cisgiordania la Corte fa affidamento su un altro strumento: l’“abuso edilizio”, un’accusa mossa quando i palestinesi non riescono a ottenere dalle autorità israeliane di occupazione le licenze edilizie previste dalla legge. Ma ottenerli è praticamente impossibile. Non si può negare la natura sistemica di questa illegalità: fra il 2016 e il 2018, per esempio, Israele ha respinto oltre il 98% delle richieste di permesso edilizio presentate dai palestinesi nell’Area C. Lo stesso “regime di permessi” è diventato uno strumento per creare illegalità e imporla ai villaggi palestinesi.

Per la Corte, il fatto che le autorità israeliane in Cisgiordania per decenni non abbiano rilasciato nessuna licenza edilizia o stilato dei piani regolatori a Khan al-Ahmar non è stato neppure un fattore deterrente per decidere che l’intero villaggio è illegale, anche se esisteva persino prima dell’occupazione israeliana della Cisgiordania. Secondo loro il problema è sorprendentemente chiaro: “Il punto di partenza di questa decisione sta nel fatto che le costruzioni sul sito di Khan Al-Ahmar, la scuola e le abitazioni, sono illegali”, ecco come inizia la decisione del 2018 della Corte sul caso di Khan al-Ahmar (scritta dal giudice Noam Solberg, lui stesso colono di un insediamento illegale in Cisgiordania). 

Costruita l’illegalità contro le comunità palestinesi, la strada è spianata per la demolizione di edifici, la rimozione degli abitanti palestinesi e la ridistribuzione di terre a favore di coloni israeliani. (Comunque il governo israeliano non ha ancora proceduto all’evacuazione di Khan al-Ahmar a causa della pressione internazionale. Ora le petizioni delle organizzazioni di coloni israeliane chiedono di “applicare la legge” e demolire il villaggio e restano in sospeso presso quella stessa Corte Suprema che ha dichiarato legittimi i piani per rimuoverlo).

A Sheikh Jarrah diventa più importante una concomitanza di dispositivi giuridici: la legge sulla Proprietà degli Assenti e quella su questioni legali e amministrative. Insieme queste leggi permettono a gruppi di coloni ebrei di rivendicare proprietà a Gerusalemme Est presumibilmente appartenute a ebrei prima del 1948, ma negando lo stesso diritto ai palestinesi che possedevano proprietà prima di quella data a Gerusalemme Ovest o altrove. Di nuovo, la presenza continua dei palestinesi su questi terreni con il permesso delle autorità governative (in questo caso, giordane) diventa irrilevante nelle “dispute sulla proprietà” esaminate dai tribunali israeliani. 

Altri tribunali di prima istanza hanno consistentemente respinto i ricorsi dei palestinesi di Sheikh Jarrah e la Corte Suprema dovrebbe deliberare alla fine di quest’anno. Nel frattempo il Procuratore generale ha dichiarato alla Corte che non intende intervenire nel presente procedimento giudiziario e sulle decisioni degli altri tribunali che hanno ordinato lo sfratto forzoso dei palestinesi dalle loro case in favore di gruppi di coloni ebrei. In altre parole il Procuratore Generale ha deciso che lo Stato non ha un ruolo nella disputa e che le “parti civili,” dato che le organizzazioni di coloni israeliani e gli abitanti palestinesi di Sheikh Jarrah stanno semplicemente disputandosi delle proprietà. Questo atteggiamento non solo ignora l’infrastruttura legale discriminatoria che permette tali dispute, ma in effetti chiede anche alla Corte Suprema di deliberare in modo tale da mantenere e validare il sistema legale israeliano che distribuisce la proprietà a ebrei israeliani a discapito dei palestinesi.

Frammentazione legale

Le leggi adottate in ognuno di questi casi sono diverse, così come l’identità dei ricorrenti israeliani (Stato di Israele o organizzazioni di coloni), la procedura (civile o amministrativa), il criterio del riesame, le dottrine legali, l’applicabilità delle protezioni costituzionali israeliane e altro ancora. Ma lo schema è chiaro: la costruzione coerente di leggi formalmente neutrali per spogliare i palestinesi della terra e ridistribuirla a ebrei israeliani. Indipendentemente dal quadro giuridico in gioco, in pratica i palestinesi non riescono a presentare azioni legali per dimostrare la proprietà: sono meramente soggetti ai ricorsi dello Stato e dei coloni.

Mentre i palestinesi sono sottoposti alla frammentazione, agli ebrei israeliani si applica un sistema legale unificato con in gioco protezioni costituzionali indipendentemente dalle suddivisioni concettuali e territoriali.

Ciò diventa ancora più chiaro quando i casi di spossessamento delle terre subiti da palestinesi, come dimostrato brevemente qui sopra, sono confrontati con la decisione del 2005 della Corte Suprema Israeliana sulla legalità dello sgombero degli insediamenti israeliani a Gaza. In quel caso la Corte Suprema deliberò che le disposizioni giuridiche che limitano la possibilità dei coloni israeliani di richiedere un indennizzo erano incostituzionali, dato che costituivano una violazione del diritto costituzionale alla proprietà. La Corte Suprema crea ed estende norme costituzionali ai coloni ebrei in territori internazionalmente riconosciuti come occupati per proteggere l’ebraicità in quanto diritto di proprietà, mentre nega ai palestinesi il diritto alla proprietà e ignora del tutto la costituzione quando si tratta di Umm al-Hiran, Khan al-Ahmar o Sheikh Jarrah. 

Il presupposto unificante dell’ebraicità come proprietà, centrale in un sistema di dominio coloniale, rende coerente al suo interno questo sistema giuridico frammentario. La possibilità di rivendicare l’ebraicità come proprietà è ulteriormente rafforzata dalle leggi sull’immigrazione che permettono a qualsiasi ebreo/a, ovunque nel mondo, di diventare immediatamente un/una cittadino/a israeliano/a e rivendicare diritti di proprietà sotto controllo israeliano. Lo stesso intreccio di leggi su immigrazione e cittadinanza è usato simultaneamente per frammentare ulteriormente i palestinesi, revocando lo status di residente, negando il diritto al ritorno ai rifugiati palestinesi, vietando il ricongiungimento delle famiglie palestinesi e l’ingresso ad altri palestinesi della diaspora. 

Jacob, il colono israeliano-americano in video diventato virale in cui dice alla famiglia El-Kurd di Sheikh Jarrah che “se non ve la rubo io (la casa della famiglia El-Kurd), lo farà qualcun altro,” dimostra chiaramente la logica della legge israeliana. Jacob riconosce che si tratta di un furto, ma in conclusione la legge israeliana lo premia quando rivendica l’ebraicità per ottenere la proprietà. È grazie alle macchinazioni della legge israeliana che il ladro diventa il proprietario.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Cresce la violenza sulle donne a Gaza

Mai Abu Hasaneen

25 giugno 2021 Al Monitor

Le donne vengono uccise a un ritmo allarmante nella Striscia di Gaza, dove un sistema politico tradizionalista dà ancora priorità alle questioni politiche rispetto alla giustizia e alla protezione della vita delle donne.

Ho pianto per così tanto tempo, sentendomi sola e senza speranza, chiedendomi perché non ho un fratello che mi tenga tra le sue braccia e mi faccia sentire al sicuro; un fratello al quale raccontare l’ingiustizia, l’oppressione e le percosse prolungate con manganelli e bastoni che ho sopportato, come se non fossi un essere umano. Gli direi come sono diventata un’anima vecchia in un corpo giovane”, ha scritto Istabrak Baraka, 17 anni, le sue ultime parole prima di essere picchiata a morte dal marito il 16 giugno nella Striscia di Gaza.

Baraka, incinta di tre mesi, si stava preparando a sostenere gli esami finali delle superiori quando suo marito l’ha uccisa.

Il giorno della sua morte, la polizia ha anche annunciato che una donna sulla quarantina era stata uccisa dai suoi fratelli in una disputa sull’eredità. Il 23 maggio, gli agenti di polizia hanno trovato il corpo di una ragazza di 16 anni sepolta vicino a una strada laterale a Jabalia, 15 giorni dopo la sua scomparsa. Un’indagine ha rivelato che era stata uccisa dal padre.

Secondo il Palestinian Center for Policy Research and Strategic Studies,sono morte in media 22 donne l’anno dal 2012 al 2019 in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza vittime della violenza domestica. A detta del Women’s Center for Legal Aid and Counseling il numero è salito a 38 nel 2020, quando la pandemia di COVID-19 ha costretto le persone a rimanere a casa. Per il Palestinian Center for Human Rights sei donne sono morte finora per violenza domestica quest’anno, di cui una in Cisgiordania e cinque nella Striscia di Gaza.

I dati mostrano che le vittime provenivano da diverse classi sociali e sono state uccise in molti differenti modi. Il denominatore comune è che sono state tutte soggette ad abusi fisici e psicologici.

Le donne palestinesi vivono sotto leggi obsolete risalenti all’epoca ottomana, britannica, giordana ed egiziana che molti sostengono non siano più adeguate nel 2021. La Palestina ha aderito a diversi accordi internazionali sui diritti delle donne nell’ultimo decennio, inclusa la Convenzione delle Nazioni Unite sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne nel 2014.

La legge giordana sui diritti della persona è in vigore in Cisgiordania e la legge sulla protezione della famiglia è valida nella Striscia di Gaza. I critici affermano che alcune clausole sono discriminatorie nei confronti delle donne nonostante degli emendamenti che promuovono l’uguaglianza. Nel frattempo la magistratura di Gaza continua a comminare pene lievi o ridotte contro gli aggressori.

Nadia Abu Nahla, direttrice della sezione di Gaza del Comitato Women’s Affairs Technical Committee, ha parlato con Al-Monitor delle ragioni principali che stanno dietro all’aumento delle uccisioni di donne nei territori palestinesi. Ha detto che la mentalità sessista in casa, nella comunità e nel sistema politico è una delle ragioni principali dietro le molteplici forme di violenza contro le donne. Ha aggiunto che le uccisioni di donne negli ultimi anni non costituiscono “crimini d’onore”; piuttosto, ha affermato, sono legate a conflitti in materia di eredità, libertà individuali delle donne o litigi familiari dovuti alle dure condizioni di vita.

Abu Nahla ha aggiunto che il sistema politico palestinese, dominato da forze arretrate come tribù, gruppi religiosi e fazioni radicali, non ha saputo approvare leggi e adottare politiche per combattere la violenza contro le donne.

Ha spiegato: “Noi, come movimento femminista, stiamo premendo da anni per una legge che protegga le famiglie dalla violenza. Abbiamo preparato un disegno di legge al riguardo che è stato presentato al Consiglio dei Ministri [nel 2012]. Quest’ultimo ha aggiunto emendamenti che non garantivano la protezione delle donne dalla violenza di genere e, nonostante le nostre riserve, ha approvato la bozza nel 2018. Ma il Presidente palestinese non ha approvato la legge a causa dell’opposizione dei leader tribali”.

Stiamo conducendo campagne di sensibilizzazione sulla violenza contro le donne attraverso uffici legali a Gaza che forniscono sostegno psicologico e sociale e rappresentanza e supporto legale”. Ha aggiunto che la sua organizzazione ha ricevuto 750 segnalazioni durante il lockdown nel 2020 e circa 400 segnalazioni al mese sono pervenute ai numeri telefonici di emergenza dall’inizio di quest’anno.

Tahani Qasem, coordinatrice del progetto Hayat per la protezione e l’emancipazione delle donne e delle famiglie legato al Center for Women’s Legal Research, Counseling and Protection di Gaza, ha dichiarato ad Al-Monitor che il centro ha ricevuto 500 denunce di violenza contro le donne l’anno scorso e ha risposto con sostegno psicologico, sociale ed economico. Ha poi aggiunto che sono stati dati rifugio e assistenza in 52 casi a donne costrette a sopportare le violenze a causa delle loro pessime condizioni economiche.

Qasem ha spiegato che tra i servizi forniti dal gruppo ci sono il sostegno psicologico, sociale ed economico alle donne maltrattate affinché escano da situazioni di violenza.

L’autrice femminista di Gaza Hedaya Chamoun ha detto ad Al-Monitor che le vittime non dovrebbero essere ridotte a numeri. Ogni donna che è stata uccisa ha una storia e la sua vita contava.

Ha affermato che l’assassinio delle donne dovrebbe diventare una causa sociale e morale non limitata alle istituzioni che si occupano dei diritti delle donne, poiché minaccia il tessuto sociale palestinese che già soffre di devastanti crisi economiche, politiche e sociali dovute all’occupazione israeliana.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Non possiamo utilizzare l’essere stati vittime per giustificare il fatto di trasformare gli altri in vittime: un’intervista con Alice Rothchild su come affrontare il razzismo israeliano in Palestina

Nihan Duran

5 luglio 2021 – Politics Today

L’idea secondo cui in quanto vittima posso fare qualunque cosa per sopravvivere, anche se ciò significa rendere vittime gli altri, è eticamente e politicamente problematico. Finché la comunità ebraica non supererà questo particolare modo di affrontare i traumi dell’Olocausto, non supereremo mai questa psicopatologia culturale.

Mentre in tutto il mondo continuano gli echi della reazione globale alle recenti violazioni dei diritti umani a Sheikh Jarrah [quartiere arabo di Gerusalemme in cui famiglie palestinese sono a rischio di espulsione, ndtr.] e a Gaza [operazione militare israeliana “Guardiano delle mura” nel maggio 2021, ndtr.], la giornalista di Politics Today Nihan Duran ha intervistato la prestigiosa scrittrice, medico e attivista per i diritti umani Alice Rothchild su come comprendere il passaggio da oppresso a oppressore e le sfide per definire, discutere e raccontare il colonialismo di insediamento in Palestina e i modi per procedere alla promozione di una vera pace e della solidarietà.

Q. In quanto scrittrice ebrea americana, attivista per i diritti umani e medico lei svolge numerose attività in cui riflette sulla realtà concreta in Israele e Palestina. Possiamo sapere con le sue parole chi è lei e come è iniziato il suo impegno sulla situazione israelo-palestinese?

I miei nonni erano ebrei ortodossi immigrati negli USA. Sono cresciuta in una famiglia ebraica molto tradizionale, ma piuttosto laica. Sono andata in una scuola ebraica, ho celebrato il mio bat mitzvah [festa rituale ebraica, che per le femmine si festeggia a 12 anni e 1 giorno, ndtr.] e a 14 anni sono andata in Israele. Ho ancora il diario di allora, quindi so come mi sono sentita riguardo al viaggio in quel luogo magico.

Sono anche figlia degli anni Sessanta, per cui ero al college durante la guerra del Vietnam, quando ho iniziato a sentir parlare di colonialismo, razzismo e islamofobia. Quindi diventai una persona molto più consapevole dal punto di vista politico ed iniziai a vedere il mondo in un modo più politico e meno tribale, ebraico.

Fu allora che iniziai anche a inquadrare le cose che avvenivano in Israele e Palestina in termini di colonialismo e imperialismo. Nel corso degli anni ci sono state varie organizzazioni di base che i miei amici ed io abbiamo formato e a cui abbiamo partecipato. Ora sono impegnata in Jewish Voice for Peace [Voce Ebraica per la Pace, principale gruppo ebraico USA antisionista, ndtr.] come mia associazione di riferimento, e sono molto contenta di farne parte.

Ho interpretato il mio ruolo come chi incoraggia le voci che sono sono presenti, ma che spesso non vengono ascoltate, per cui ho sentito la narrazione palestinese e cercato di approfondire la loro esperienza di perdita e occupazione. Poi ho usato la mia posizione privilegiata in quanto donna ebrea bianca per rendere più visibili tutte le storie che la gente mi ha raccontato. Sì, capisco e ho chiari in mente l’antisemitismo, l’oppressione degli ebrei in Europa e l’Olocausto. Ma penso anche che in ultima analisi i principi su cui è stato fondato Israele siano indifendibili.

Q. Quindi come ebrea americana, non solo ben consapevole del trauma dell’Olocausto, ma anche come scrittrice e medico che ha direttamente fatto esperienza della situazione materiale in Palestina, come valuta il passaggio da perseguitato a persecutore, o da oppresso a oppressore in questa vicenda?

Beh, non si tratta di una trasformazione inusuale se ci si guarda attorno nel mondo, ma è un esempio di quella trasformazione. La preoccupazione specifica è che persone che hanno vissuto qualcosa di orribile o hanno subito terribili perdite sono vittime. Ma una volta che le persone adottano l’essere vittime come una costituente fondamentale della propria identità, questo senso di vittimizzazione consente loro di fare qualunque cosa necessaria per sopravvivere. E ciò è quanto è avvenuto nella comunità ebraica.

L’idea che, in quanto vittima, io possa fare qualunque cosa per sopravvivere, anche se questo significa rendere vittima un altro popolo, è moralmente e politicamente problematico. Non possiamo utilizzare il fatto di essere stati vittime per giustificare simili comportamenti. Vedere l’Olocausto e dire “mai più a me” ma non dire “mai più a nessuno” è ingiustificabile. Inoltre questo atteggiamento non ci rende più sicuri.

Quindi, finché la comunità ebraica non supererà questo particolare modo di fare i conti con i traumi dell’Olocausto, non usciremo mai da questa psicopatologia. Dobbiamo riconoscere che non siamo più vittime.

Q. A questo punto le devo chiedere riguardo al fatto che nei discorsi dei politici in Israele oggi c’è quella che si potrebbe persino definire una terminologia “genocidaria”, che sembra anche in sintonia con una parte rilevante della popolazione israeliana. Cosa ne pensa? Da dove viene il problema?

La questione di quello che Ilan Pappé [noto storico isrealiano, ndtr.] ha chiamato il lento genocidio di Gaza non è nulla di nuovo. Se guardiamo dal punto di vista storico vediamo che il principale problema è che quando gli ebrei giunsero in Palestina non dissero “abbiamo bisogno di un posto sicuro, condividiamolo”, ma dissero “questa terra è mia; dio mi ha dato questa terra e me la prenderò comprandola, occupandola, in ogni modo possibile.”

Per come le cose si sono sviluppate, la politica regionale portò allo sviluppo dello Stato di Israele e all’opinione che gli ebrei avessero diritti su quella terra, in modo che potessero cacciare o spogliare un altro popolo. Sfortunatamente questo divenne il principio sottinteso dello Stato di Israele.

Q. Quindi lei intende dire che il colonialismo di insediamento è il principio implicito dello Stato di Israele e lo guida fino ad oggi.

Sì, se guardi al progetto di colonizzazione in Cisgiordania, esso è solo la continuazione della Nakba [la Catastrofe, cioè l’espulsione dei palestinesi, ndtr.] nel 1948. E questo è ciò che è il colonialismo di insediamento. È quello che abbiamo fatto negli Stati Uniti, in Australia, in Nuova Zelanda, in Sudafrica, ed è straziante per gli ebrei scoprirlo, perché si supponeva che Israele sarebbe stato diverso. Si pensava che sarebbe stato la “luce tra le Nazioni”.

Lo Stato incarna i principi colonialisti su cui è stato costruito, e purtroppo c’è una percentuale molto ridotta della popolazione ebraica che si oppone a questa idea. In Israele persino la maggior parte della gente di sinistra non è antisionista, credono ancora che ci dovesse essere uno Stato in cui gli ebrei si trovassero in una situazione privilegiata rispetto ai palestinesi. Non puoi essere una democrazia e privilegiare un gruppo su un altro.

Q. Lei ha anche posto l’accento sulla mancata messa in discussione delle politiche israeliane da parte della maggioranza della comunità ebraica negli USA. Alla luce della reazione globale a quanto è successo recentemente a Sheikh Jarrah e a Gaza, può parlare di un cambiamento nei confronti delle politiche di Israele in Palestina?

Penso che dobbiamo essere realistici in termini di rapporti di potere. Sia a livello federale che locale c’è parecchio di quello che definirei pensiero reazionario. La potente parte maggioritaria della comunità ebraica (e di quella cristiana evangelica) è ancora ferma allo stesso punto. Molte norme e leggi a livello locale e federale affermano che criticare Israele è antisemita e fino ad ora se dici qualcosa di sinistra o solidale con i palestinesi subisci gravi conseguenze.

Ma ci sono anche molte e influenti organizzazioni progressiste che vi si oppongono, come Jewish Voice for Peace. Nel Congresso USA ora ci sono anche parlamentari progressisti, palestinesi o musulmani. Che ci siano alcune voci nel Congresso è un fatto rivoluzionario, perché 20 anni fa avremmo potuto solo sognare una cosa del genere. Il movimento Black Lives Matter [contro la violenza della polizia nei confronti della violenza della polizia contro le minoranze, ndtr.] ha adottato una posizione solidale con i palestinesi. C’è un dibattito molto più aperto sulle reti sociali. Anche a livello locale vediamo dei cambiamenti. Per esempio, recentemente in California il sindacato dei docenti ha votato l’appoggio al boicottaggio di Israele, e anche questo è rivoluzionario.

Piccole vittorie come questa sono veramente importanti, perché nessuno cede il potere volontariamente, né lo farà la macchina politica israeliana. Dal loro punto di vista hanno avuto un grande successo, come piccolo Paese prospero con un enorme bilancio militare, e l’appoggio degli Stati Uniti. Perché rinunciarvi? Quindi dobbiamo comprendere che la politica estera USA è parte di quanto aiuta Israele a fare quello che fa e comprendere che anche noi siamo responsabili. Ci sono modi per far pressione sul Congresso e dobbiamo conquistarlo.

Q. Grazie ai nuovi mezzi di comunicazione, e principalmente alle reti sociali, l’oppressione delle minoranze è diventata sempre più visibile, ma, d’altra parte, ci sono troppi doppi standard, come quelli applicati per esempio durante la recente aggressione israeliana contro Gaza ad alcuni palestinesi sia da parte delle reti sociali che dei mezzi di comunicazione più importanti. Qual è la sua opinione a questo proposito?

Penso che il doppio standard sia in parte relativo al fatto che c’è un’industria multimilionaria che si dedica a seguire le reti sociali e ad attaccare le persone con opinioni di sinistra. Il messaggio è molto chiaro e la punizione per aver trasgredito è molto pesante; ci sono state carriere professionali distrutte, docenti che hanno perso la loro posizione accademica, insegnanti che hanno perso il lavoro. C’è un costo, e l’avversario cerca di renderlo il più pesante possibile.

Sì, il controllo dei messaggi è ferreo ed è ben finanziato, ma la buona notizia è che la gente che prima era invisibile ora può esprimersi, e quindi questa guerra nei media viene combattuta. Ma, come ho detto in precedenza, benché noi vediamo l’inizio delle crepe nel muro, le redini del potere non sono ancora state abbandonate. Quindi dobbiamo ascoltare quello che il popolo palestinese sta dicendo, dobbiamo onorarlo, dobbiamo evidenziarlo ed essere solidali. Penso che questo sia un ruolo molto importante per noi, che ho cercato di intraprendere attraverso l’Health Advisory Council of Jewish Voice for Peace [Consiglio Consultivo sulla Salute di Jewish Voice for Peace, rete di militanti di JVP che si occupano di salute fisica e mentale, ndtr.].

Q. Ora che tutto il mondo sta guardando quello che avviene nella regione, lei crede che la narrazione più comune abbia perso la sua legittimità?

Penso che sicuramente sia stata messa in discussione e che lei abbia ragione: ha perso parte della sua legittimazione. Ma, di nuovo, non penso che dobbiamo sottostimare il potere delle persone che stanno difendendo questa legittimazione. Sono molto ben finanziate a livello internazionale. Ma penso che sia stata danneggiata. Però dobbiamo ancora lavorare duramente perché niente è ancora finito.

Dobbiamo appoggiare i movimenti per il boicottaggio. Dobbiamo partecipare alle manifestazioni politiche. Dobbiamo esigere informazioni sui giornali, nelle radio e sulle reti sociali. Dobbiamo continuare a documentare la situazione e porre domande serie, in modo che la gente possa conoscere le conseguenze dell’aggressione a Gaza per 11 giorni, della chiusura totale del programma di vaccinazione e del danneggiamento dell’unica clinica che fa i test [per il COVID, ndtr.]. Dobbiamo chiedere in che modo privare i gazawi dei vaccini COVID 19 renda Israele più sicuro.

Q. Ci sono notevoli tentativi all’interno della comunità ebraica: c’è chi interpreta la vicenda stessa dell’Olocausto per comprendere la difficile situazione dei palestinesi oggi e chiede la pace e l’uguaglianza. Come pensa che queste voci, come forte alternativa politica, saranno ascoltatate in modo più attento in modo da renderne l’impatto più sentito.

Penso che finalmente ci siamo resi conto che dobbiamo lavorare in solidarietà con le persone oppresse e che non dobbiamo essere gli oppressori. Abbiamo anche bisogno di essere consapevoli del nostro stesso razzismo. Questo è razzismo. Dobbiamo dirlo e poi dobbiamo affrontarlo. Una volta che inizi a pensare in questo modo, poi ci sono nuove possibilità. Penso che organizzazioni come Jewish Voice for Peace siano estremamente importanti in questo senso, ma abbiamo ancora molto lavoro da fare. Dobbiamo anche lavorare in modo intesezionale con i nostri fratelli e sorelle e amici musulmani e cristiani per creare un cambiamento politico in modo positivo.

Penso anche che i tempi stiano cambiando. C’è una crescente consapevolezza riguardo al colonialismo di insediamento e la gente ha iniziato ad applicarlo a Israele. Penso anche che le opinioni del popolo ebraico riguardo a Israele e al colonialismo d’insediamento  varino a seconda delle generazioni. Tra i più giovani troviamo sempre più persone che mettono in discussione l’intero progetto e dicono “aspetta in momento, se il razzismo è cattivo negli USA, allora come possiamo appoggiare il razzismo in Israele?” Sta avvenendo una grande frattura generazionale. Quindi penso che ci siano speranze, ma che abbiamo ancora molto lavoro da fare.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)