Beita, un’icona della resistenza popolare palestinese

Majed Azzam

7 luglio 2021 – Monitor de Oriente

La cittadina di Beita è diventata un’icona della resistenza popolare nella Palestina occupata. Sembra avere canalizzato lo spirito di rivolta di Gerusalemme durante il giorno e le dure attività di Gaza durante la notte, in armonia con gli avvenimenti avvenuti recentemente in Palestina. Di fatto si tratta di rafforzare l’unità del popolo palestinese, ovunque sia, dietro all’opzione di ogni forma di resistenza, soprattutto a livello popolare.

Situata a sud di Nablus, Beita difende le sue proprietà e terre nella zona vicina al monte Sabih, parte delle quali sono state occupate da coloni per fondarvi un avamposto illegale che hanno chiamato Evyatar, in onore di un colono assassinato durante un’operazione della resistenza in quel luogo qualche tempo fa. Include decine di ettari nella montagna, ma c’è un piano malvagio per controllarne altre centinaia e fondare una grande colonia che isoli Beita e i villaggi vicini dal loro contesto palestinese, che diventi una grande rete di colonie in profondità all’interno di città, villaggi e borgate palestinesi in Cisgiordania.

I coloni hanno approfittato dell’attenzione dei palestinesi e del resto del mondo concentrata sulle rivolte di Gerusalemme alla Bab Al-Amoud [Porta di Damasco], a Sheikh Jarrah [quartiere arabo della città] e nella moschea di Al Aqsa, seguite dalla “battaglia della Spada di Gerusalemme” [nome dato da Hamas all’ultimo scontro militare tra Israele e Gaza, ndtr.], per edificare la colonia sul monte Sabih. L’esercito di occupazione israeliano ha asfaltato strade e collegato infrastrutture per l’avamposto, che è illegale persino per la legge coloniale israeliana, e il governo ha ordinato di fatto di ritirarsi. Tuttavia l’ex-primo ministro Benjamin Netanyahu ha lasciato questa questione spinosa e la sua realizzazione a Naftali Bennett, ex capo del consiglio delle colonie, per mettere in difficoltà il suo successore di estrema destra.

La gente di Beita si è sollevata per difendere la propria terra, il proprio futuro e il proprio destino, adottando la scelta della resistenza popolare pacifica a ogni ora, ispirata all’atmosfera e alle rivolte dei territori occupati degli ultimi mesi. La popolazione e le sue attività rappresentavano Gerusalemme durante il giorno e Gaza durante la notte. Durante il giorno le persone hanno messo in atto diverse attività e azioni, come assembramenti, manifestazioni, sit in, seminari, discorsi e festival, e hanno celebrato le preghiere del venerdì sul monte Sabih. Tutto questo è stato accompagnato da canti popolari e canzoni nazionaliste tradizionali, tra cui una specifica della città. Di notte Beita e i suoi dintorni si sono trasformati in Gaza, con metodi di resistenza popolare più energici, per creare confusione. Ciò ha incluso l’utilizzo di altoparlanti, luci intermittenti, laser e fuochi artificiali perché i coloni e le unità dell’esercito di occupazione inviate per difenderli non potessero dormire.

In questo modo Beita è sembrata rappresentare un’attualizzazione creativa del modello Bil’in-Nil’in [due villaggi palestinesi noti per la loro resistenza all’occupazione, ndtr.] visto in Cisgiordania da anni, in cui le manifestazioni e le attività settimanali per proteggere le loro terre e proprietà dai coloni hanno ottenuto notevoli risultati. Anche Beita è diventata una questione internazionale, come Sheikh Jarrah e Silwan [altro quartiere palestinese di Gerusalemme, ndtr.], mentre aumentano le pressioni politiche e diplomatiche affinché il governo israeliano smantelli la colonia ed eviti che si trasformi in una rivolta generalizzata in tutta la Palestina.

Da Beita ci sono molte lezioni da apprendere, soprattutto la ormai leggendaria fermezza del popolo palestinese e la sua insistenza nel difendere le sue terre e proprietà contro l’occupazione militare e i suoi coloni, utilizzando qualunque mezzo a disposizione. Ce ne sono molti, e il più importante è il popolo palestinese stesso, che rifiuta di arrendersi o di accettare i “fatti sul terreno”, che i coloni israeliani pretendono di imporre con la forza. Vediamo così che la resistenza popolare sta diventando una forma di vita per i palestinesi. Il modello di Beita e la sua creatività hanno fatto sì che si esiga prudenza nei punti di frizione con le autorità dell’occupazione e i coloni israeliani, soprattutto nei villaggi e città in cui si sono determinati grandi furti di terre e proprietà.

In stridente contrasto con questo, i dirigenti dell’Autorità Nazionale Palestinese sono assenti, impotenti e incapaci di appoggiare il popolo. L’ANP ha abbandonato in pratica Beita, lasciandola al suo destino, come ha fatto con le rivolte a Gerusalemme e con la “battaglia della Spada di Gerusalemme” a Gaza.

La risposta del popolo di Beita ha alzato il costo politico, securitario ed economico dell’avamposto per Israele. Ora spetta a organizzazioni e istituzioni politiche palestinesi adottare un approccio serio alla resistenza popolare come parte essenziale di un programma politico. Esso deve essere sviluppato da un gruppo dirigente nazionale eletto e unificato, come risultato della ridefinizione delle questioni palestinesi, della ricostruzione delle istituzioni nazionali in modo democratico, di una dirigenza che cerchi di mobilitare il popolo e di investire le sue enormi capacità in una lotta integrale, decisa ed estesa contro l’occupazione israeliana, dentro e fuori dalle frontiere della Palestina storica.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Monitor de Oriente.

(traduzione dallo spagnolo di Amedeo Rossi)




Comunità palestinese in Cisgiordania distrutta per la sesta volta

Al Jazeera e agenzie di stampa

7 luglio 2021 – Al Jazeera

Le forze israeliane hanno distrutto case e attrezzature agricole a Humsa al-Baqai’a nella Valle del Giordano occupata.

Le forze israeliane hanno distrutto la comunità palestinese beduina di Humsa al-Baqai’a, nella Valle del Giordano, comprese strutture che sono state fornite dalla comunità internazionale.

Sono state sfollate almeno 65 persone, compresi 35 minori, ha detto Christopher Holt del Consorzio di Tutela della Cisgiordania, un gruppo di organizzazioni umanitarie internazionali sostenuto dall’Unione Europea, che dà assistenza agli abitanti.

La demolizione ha lasciato ancora una volta senza casa gli abitanti del villaggio, che si guadagnano da vivere essenzialmente allevando circa 4.000 pecore. In passato l’UE ha aiutato gli abitanti nella ricostruzione dopo precedenti demolizioni.

In base agli Accordi di Oslo la Valle del Giordano, che costituisce il 60% della Cisgiordania occupata, è classificata come area C – che significa sotto il pieno controllo militare e civile israeliano.

È la sesta volta che il villaggio viene distrutto dal novembre 2020, quando – secondo il Consiglio dei Rifugiati Norvegese (NRC) – sono state demolite 83 strutture nella più vasta azione di demolizione registrata negli ultimi anni.

Alcune delle case e fattorie provvisorie sono state fornite dall’Unione Europea. Humsa al-Baqai’a ha ricevuto assistenza materiale dal Consorzio di Tutela della Cisgiordania, creato per impedire il trasferimento forzato di palestinesi nella Cisgiordania occupata.

Holt ha detto che le famiglie si sono rifiutate di abbandonare la zona.

Sappiamo che ciò che è successo stamattina è che l’esercito israeliano è entrato nella comunità verso le 9 e vi ha distrutto tutto, comprese otto strutture abitative e agricole e stalle per animali, ha detto ad Al Jazeera.

Le forze israeliane hanno cercato di trasferire con la forza le famiglie, cosa illegale in quanto questo è un territorio occupato, e che le famiglie hanno rifiutato di andarsene…È un’escalation molto grave.”

Un funzionario della sicurezza israeliano ha detto che per mesi il governo ha condotto incontri con gli abitanti ed ha offerto una località alternativa nelle vicinanze. Il funzionario, che non era autorizzato a rilasciare dichiarazioni pubbliche, ha detto alla Associated Press [agenzia di stampa USA, ndtr.] che l’offerta della nuova sistemazione resta valida.

In base al diritto internazionale, ad una potenza occupante è rigorosamente vietato trasferire membri della popolazione occupata dalle proprie comunità contro la loro volontà.

Lo scorso febbraio, dopo aver eseguito demolizioni in due precedenti occasioni nello stesso mese, le forze israeliane hanno anche confiscato i serbatoi d’acqua del villaggio, lasciando la comunità senza acqua potabile e per il bestiame.

Attualmente le famiglie di Humsa al-Baqai’a non hanno riparo dai torridi 39 gradi di calore nella Valle del Giordano.

Le forze israeliane hanno nuovamente distrutto la vita delle famiglie di Humsa e adesso le stanno scacciando dalle loro case,” ha detto Caroline Ort, direttrice per la Palestina del Consiglio dei Rifugiati Norvegese.

La comunità internazionale deve condannare fermamente questa espropriazione e dimostrare che non tollererà queste sfrontate violazioni del diritto internazionale. Le autorità israeliane devono garantire immediatamente l’accesso umanitario alla comunità per soddisfare le necessità urgenti.”

Ort ha affermato che le demolizioni sono l’ultima di una “incessante serie di dimostrazioni di forza da parte delle autorità israeliane, che solo nei primi sei mesi del 2021 hanno distrutto almeno 421 strutture appartenenti a palestinesi.”

Ciò rappresenta un incremento del 30% delle demolizioni rispetto allo stesso periodo del 2020”, ha affermato Ort.

Aree di tiro’

Il villaggio è una delle 38 aree beduine parzialmente o totalmente collocate all’interno di un’area che Israele ha dichiarato zona militare di prove di tiro.

Secondo l’Ufficio ONU per il Coordinamento delle Questioni Umanitarie (OCHA) le “aree di tiro” indicate costituiscono circa il 30% dell’area C, dove vivono 6.200 beduini.

Queste comunità sono alcune delle più vulnerabili nella Cisgiordania occupata, con accesso limitato ai servizi basilari quali acqua, igiene, elettricità, educazione e servizi per la salute.

Le case palestinesi nella Valle del Giordano sono soggette a demolizioni da parte delle autorità israeliane, che sostengono che sono state costruite senza permessi.

L’area della Valle del Giordano palestinese copre circa 160.000 ettari con circa 13.000 coloni israeliani che vivono in 38 insediamenti. Nel contempo, circa 65.000 palestinesi vivono in 34 comunità.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Il popolo contro Mahmoud Abbas: l’Autorità Nazionale Palestinese ha i giorni contati?

Ramzi Baroud

6 luglio 2021 Middle East Monitor

Attualmente si sente dire spesso che l’Autorità Nazionale Palestinese [ANP] ha i giorni contati. Questo accade ancora di più dopo che il 24 giugno Nizar Banat, noto attivista palestinese di 42 anni, è stato torturato e ucciso ad Hebron (Al-Khalil) dagli sgherri delle forze di sicurezza dell’ANP.

L’uccisione di Banat – o “assassinio”, come viene descritto da alcune organizzazioni in difesa dei diritti dei palestinesi – non è tuttavia un fatto isolato. La tortura nelle prigioni dell’ANP è il modus operandi con cui gli interroganti palestinesi estorcono le “confessioni”. I prigionieri politici palestinesi detenuti dall’ANP vengono divisi solitamente in due gruppi principali: quelli sospettati da Israele di essere coinvolti in attività contro l’occupazione israeliana; e gli altri che sono stati fermati per avere espresso critiche nei confronti della corruzione dell’ANP o della sua subalternità ad Israele.

In un rapporto di Human Rights Watch del 2018, l’organizzazione ha parlato di “decine di arresti” eseguiti dall’ANP “a causa di messaggi critici postati sui social media”. Banat rientrava perfettamente in questa categoria, in quanto era uno dei critici più espliciti e tenaci, che con i suoi numerosi video e messaggi sui social denunciava e metteva in difficoltà la leadership ANP di Mahmoud Abbas e del suo partito di governo Fatah. A differenza di altri, Banat faceva i nomi ed invocava misure severe contro chi sperpera i fondi pubblici palestinesi e tradisce la causa del popolo palestinese.

Banat era stato arrestato dalla polizia dell’ANP diverse volte in passato. A maggio la sua casa era stata attaccata con pallottole, granate stordenti e gas lacrimogeni da uomini armati. Banat aveva accusato dell’attacco Fatah.

La sua ultima campagna sui social media riguardava lo scandalo delle dosi di vaccino Covid-19 quasi scadute che l’ANP aveva ricevuto da Israele lo scorso 18 giugno. A causa della pressione pubblica esercitata da attivisti come Banat, l’ANP è stata costretta a restituire i vaccini israeliani che il primo ministro israeliano, l’ultranazionalista di estrema destra Naftali Bennett, aveva pubblicamente decantato come un gesto di buona volontà.

Quando gli uomini dell’ANP hanno fatto un blitz nella casa di Banat il 24 giugno, la ferocia della loro violenza è stata inaudita. Suo cugino Ammar ha spiegato che quasi 25 membri della sicurezza dell’ANP hanno fatto irruzione in casa, gli hanno spruzzato spray al peperoncino mentre era ancora a letto, e “hanno iniziato a colpirlo con spranghe di ferro e manganelli di legno”. Dopo averlo spogliato completamente, lo hanno trascinato dentro un veicolo. Dopo un’ora e mezza, i familiari hanno saputo che cosa gli era accaduto da un gruppo WhatsApp.

Dopo le smentite iniziali, sottoposta alle pressioni di migliaia di persone che protestavano in tutta la Cisgiordania, l’ANP è stata costretta ad ammettere che quella di Banat non era stata una morte “naturale”. Il ministro della giustizia Mohammed Al-Shalaldeh ha dichiarato alla televisione locale che un primo rapporto medico aveva segnalato che Banat era stato oggetto di violenza fisica.

Questa rivelazione apparentemente esplosiva avrebbe dovuto dimostrare che l’ANP era disposta ad investigare e ad assumersi la responsabilità delle sue azioni. Niente di più falso, invece. L’ANP non si è mai assunta la responsabilità della propria violenza, che è il fulcro stesso della sua esistenza. Arresti arbitrari, tortura, repressione di proteste pacifiche sono sinonimi dei servizi di sicurezza dell’ANP, come hanno segnalato numerosi rapporti di organizzazioni in difesa dei diritti sia palestinesi sia internazionali.

Potrebbe darsi, dunque, che “l’ANP abbia i giorni contati”? Per valutare questo interrogativo è importante prendere in esame la logica di fondo che ha portato alla creazione dell’ANP e confrontare questa finalità iniziale con ciò che è emerso negli anni successivi.

L’ANP venne fondata nel 1994 come autorità nazionale di transizione con l’obiettivo di guidare il popolo palestinese lungo il processo che doveva culminare nella liberazione nazionale, passando per “negoziati per un assetto definitivo”, che si sarebbero dovuti concludere entro la fine del 1999. Sono trascorsi quasi tre decenni senza che l’ANP abbia segnato un qualsiasi risultato al proprio attivo. Questo non significa che l’ANP, dal punto di vista della sua dirigenza e di Israele, sia stato un fallimento completo, perché essa ha continuato a svolgere il ruolo più importante che le era stato affidato: il coordinamento della sicurezza con l’occupazione israeliana. In altre parole, proteggere i coloni illegali ebraici nella Cisgiordania occupata e a Gerusalemme, e fare il lavoro sporco per Israele nelle zone palestinesi gestite autonomamente dall’ANP [secondo gli accordi di Oslo, Cisgiordania e Gaza si sarebbero divise fra Zona A (pieno controllo civile dell’ANP); Zona B (controllo civile palestinese e controllo israeliano per la sicurezza); Zona C (pieno controllo israeliano, ndtr]. In cambio l’ANP avrebbe ricevuto miliardi di dollari provenienti dai “Paesi donatori” a guida USA e le tasse palestinesi raccolte a nome suo da Israele.

Quello stesso paradigma è tuttora operativo, ma per quanto ancora? In occasione della ribellione palestinese di maggio, il popolo ha mostrato un’unità nazionale mai vista prima e una determinazione che supera le divisioni fra fazioni, richiedendo con fermezza la rimozione dal potere di Abbas. Ha associato – con ragione – l’occupazione israeliana con la corruzione dell’Autorità Nazionale Palestinese.

Da quando ci sono state le proteste di massa a maggio, la retorica ufficiale dell’ANP è stata offuscata da confusione, disperazione e panico. I dirigenti dell’ANP, Abbas incluso, hanno tentato di posizionarsi come leader rivoluzionari. Hanno parlato di “resistenza”, “martiri” e persino di “rivoluzione”, quando al contempo rinnovavano il proprio impegno nei confronti del “processo di pace” e dell’agenda USA in Palestina.

Quando Washington ha ripreso a sostenere economicamente l’Autorità di Abbas dopo l’interruzione decisa dal precedente presidente Donald Trump, l’ANP ha sperato di ritornare alla situazione precedente di relativa stabilità, abbondanza economica e rilevanza politica. Sembra invece che il popolo palestinese abbia voltato pagina, come dimostrano le proteste di massa, che sono sempre state represse – il che è rivoltante ma assolutamente prevedibile – con violenza da parte delle forze di sicurezza dell’ANP nell’intera Cisgiordania, compresa Ramallah, sede dell’ANP.

Anche gli slogan sono cambiati. In seguito all’omicidio di Banat, a Ramallah migliaia di manifestanti, in rappresentanza di tutti gli strati della società, hanno chiesto all’ottantacinquenne Abbas di dimettersi. I cori si riferivano agli sgherri della sua sicurezza come “baltajieh”e “shabeha” — “delinquenti” – che sono termini mutuati dalle proteste arabe durante i primi anni delle varie rivolte in Medio Oriente.

Questo cambiamento di linguaggio rimanda ad uno spostamento critico nel rapporto fra i palestinesi medi – persone che hanno trovato il coraggio di organizzare una ribellione di massa contro l’occupazione e il colonialismo israeliani – e la propria “dirigenza” opportunista e collaborazionista. E’ importante notare che non c’è aspetto di questa Autorità Nazionale Palestinese che goda di una qualche credenziale democratica. Anzi, il 30 aprile scorso Abbas “ha rinviato” le elezioni generali che si sarebbero dovute tenere in Palestina a maggio. I pretesti addotti erano inconsistenti, e “rinviato” era un eufemismo per “annullato”. Il suo mandato personale come presidente è scaduto dal 2009.

L’ANP si è rivelata essere un ostacolo alla libertà dei palestinesi, e non ha alcuna credibilità fra coloro che vivono nella Palestina occupata. Rimane al potere solo per il sostegno di USA e Israele. Se questa particolare Autorità abbia i giorni contati o no dipende dalla capacità del popolo palestinese di dimostrare che la propria volontà collettiva è più forte dell’ANP e dei benefattori di questa. L’esperienza insegna che quando arriveremo al capitolo Il Popolo contro Mahmoud Abbas, alla fine sarà il popolo palestinese ad avere la meglio.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale del Middle East Monitor.

traduzione dall’inglese di Stefania Fusero




Soldati israeliani fanno irruzione in un centro per l’infanzia nel campo profughi di Jenin e distruggono libri, giocattoli e l’impianto idraulico

Tony Greenstein

5 luglio 2021- Mondoweiss

Il Brighton Trust, l’ente caritatevole di cui io sono un amministratore, insieme agli attivisti dell’inglese National Education Union, (sindacato personale scolastico) raccoglie fondi da tre anni per il centro per l’infanzia Al-Tafawk nel campo profughi di Jenin, nella Palestina occupata.

Il centro, gestito da volontari del posto e l’unico nel suo genere nel campo, ospita 14.000 profughi palestinesi che hanno perso la casa dopo la fondazione di Israele nel 1948. Offre giochi, istruzione, cibo e un’affettuosa accoglienza a circa 120 minori, fra i 3 e i 16 anni.

È l’unica occasione di divertimento nella cupa atmosfera del campo, che durante la Seconda Intifada nel 2002 ha perso decine di abitanti nel massacro dell’esercito israeliano e oltre 400 abitazioni in seguito a una brutale campagna di demolizioni, uno dei molti atti di punizione collettiva condotti dagli israeliani contro civili palestinesi. Da allora il campo ha subito regolari incursioni militari.

Il centro Al-Tafawk, sorto nel 2010, era riuscito a sfuggire all’attenzione dei militari, almeno fino a poco tempo fa. I primi segnali che l’esercito l’aveva preso di mira sono arrivati a gennaio, quando il manager è stato incarcerato per 24 ore e gravemente traumatizzato.

Sulla scia delle proteste nella Gerusalemme occupata dopo gli attacchi israeliani contro i fedeli della moschea Al-Aqsa e i sanguinari bombardamenti di Gaza, le forze israeliane hanno intensificato il loro regime di terrore su tutta la Palestina storica, estendendolo anche alla Cisgiordania occupata, dove alla fine di maggio sono stati uccisi oltre 25 palestinesi. A Jenin, come in altre città palestinesi, ci sono state dimostrazioni contro la violenza israeliana.

La sera del 15 maggio l’esercito israeliano ha compiuto un raid contro il centro per l’infanzia Al-Tafawk di Jenin distruggendolo completamente. La loro scusa era che stavano cercando delle armi, ma naturalmente non le hanno trovate.

Un testimone ha dichiarato:

Hanno fatto irruzione nel centro ieri sera. Hanno cominciato a sparare dall’esterno. Poi hanno abbattuto la porta d’ingresso e sono entrati. Hanno messo tutto a soqquadro e danneggiato ogni cosa di valore.”

Oltre ad arredi e attrezzature, i soldati hanno intenzionalmente distrutto le infrastrutture, rendendo l’edificio insicuro e inutilizzabile. Hanno demolito le tubature dell’acqua e i rubinetti, sfasciato il quadro elettrico, tagliando la luce e interrompendo l’erogazione dell’acqua, hanno danneggiato scale e porte, divelto maniglie. Il danno ammonta in totale a migliaia di dollari.

Non hanno neppure risparmiato i libri dei bambini. Secondo un altro testimone, un soldato intento a far proprio questo, ha urlato che i bambini palestinesi non hanno bisogno di leggere libri, dato che sarebbero cresciuti per diventare assassini ed essere uccisi.

Da ebreo, questo atteggiamento di totale disprezzo razzista per i bambini palestinesi, la convinzione che non abbiano bisogno di istruzione dato che comunque moriranno presto, mi ricorda l’atteggiamento dei nazisti verso i bambini ebrei.

Al regime di occupazione israeliano è chiaro che il centro Al-Tafawk, o qualsiasi altra organizzazione della società civile palestinese di questo genere, rappresenta una minaccia. Questo è il motivo per cui il centro, e iniziative simili, cerca di offrire ai palestinesi la possibilità di un minimo di normalità nelle loro vite.

Ma a una popolazione sfollata e traumatizzata, condannata a una totale pulizia etnica, non può essere permesso di mettere radici e vivere la normalità. Deve essere sempre tenuta in una condizione di precarietà, ripetutamente spossessata e oppressa affinché cessi di reclamare la propria terra.

Ecco perché Israele demolisce periodicamente case palestinesi, con bulldozer o bombe, distruggendo infrastrutture, che siano gli impianti di trattamento delle acque a Gaza o pannelli solari nella Cisgiordania occupata, e tormenta e attacca i fedeli palestinesi mussulmani e cristiani a Gerusalemme.

La distruzione del centro Al-Tafawk, come quella di molti altri edifici civili, smentisce l’affermazione che gli israeliani agiscano per legittima difesa. È una bugia che sempre meno persone in Occidente sono disposte a credere, dato che l’intento genocida di Israele è così chiaro.

Abbiamo cominciato a raccogliere fondi per riparare il centro e riaprirlo ai bambini, ma ho deciso di scrivere a Tzipi Hotovely, personalità di estrema destra e ambasciatrice di Israele nel Regno Unito, per chiedere che Israele paghi i danni e risarcisca i bambini che sono stati traumatizzati da ciò che è successo. Non ho ricevuto risposta.

Se voi lettori voleste contribuire lo potete fare qui. Potete anche aiutarci diffondendo la notizia e facendo pressione sui politici del vostro Paese affinché agiscano e smettano di ignorare i crimini israeliani contro i palestinesi. È ora che Israele sia considerato responsabile per la miriade di violazioni del diritto internazionale, inclusi l’uccisione, l’imprigionamento e la persecuzione di minori palestinesi e gli attacchi contro case e infrastrutture civili.

Tony Greenstein

Tony Greenstein, inglese di Brighton, veterano attivista anti-sionista e anti-fascista ebreo. Nel 1982 ha co-fondato in Gran Bretagna la Palestine Solidarity Campaign [Campagna di Solidarietà con la Palestina]. Nel 2016 è stato sospeso dal partito Laburista e nel 2018, in seguito a una caccia alle streghe sull’antisemitismo [all’interno del partito, ndtr.], è stato il primo ebreo a esserne espulso. È l’autore di The Fight Against Fascism in Brighton and the South Coast. [Lotta contro il fascismo a Brighton e nella Costa Meridionale]. Ha scritto molto sulla Palestina e il sionismo per varie pubblicazioni, fra cui il Guardian nella rubrica Comment is Free, Journal of Holy Land and Palestine Studies, Tribune e Weekly Worker. È figlio di un rabbino ortodosso e da giovane è stato membro del movimento religioso sionista Bnei Akiva, ora parte del movimento per il Greater Israel (Grande Israele).

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Una sconfitta per Bennett: la Knesset vota contro l’estensione della legge sulla cittadinanza

Michael Hauser Tov

5 luglio 2021 – Haaretz

Nonostante il compromesso raggiunto nella coalizione, scade la legge che vieta il ricongiungimento familiare tra palestinesi sposati con cittadini israeliani. La ministra degli Interni Shaked mette in guardia contro “15.000 domande di cittadinanza” e afferma che vedere i legislatori di estrema destra del Likud che applaudono assieme a quelli della Lista Unita è “follia”

Martedì mattina, dopo una sessione notturna, la Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.] ha votato contro un’estensione dell’emendamento sulla legge sulla cittadinanza, nonostante un compromesso sulla controversa norma raggiunto dalla coalizione di governo. Cinquantanove deputati hanno votato a favore e cinquantanove contro, mentre due membri della Lista Araba Unita [partito arabo islamista che fa parte della maggioranza governativa, ndt.] si sono astenuti.

In risposta, il primo ministro Naftali Bennett ha accusato l’opposizione di danneggiare deliberatamente la sicurezza dello Stato per “amarezza e frustrazione”.

“Chiunque abbia votato contro la legge sulla cittadinanza, da Bibi a Tibi e Chikli, ha preferito la politica politicante al bene dei cittadini israeliani e dovrà renderne conto per molto tempo”, ha detto Bennett, che ha promesso di trovare una nuova soluzione alla questione.

Pochi minuti prima del voto, è stato annunciato che il primo ministro Naftali Bennett aveva dichiarato che il voto era anche un voto di fiducia al governo. Nonostante l’emendamento sia stato respinto, la coalizione è sopravvissuta al voto dato che ci sono state alcune astensioni e non una maggioranza di voti contrari. Amichai Chikli di Yamina [ndtr: alleanza di partiti politici israeliani di estrema destra che fa parte della coalizione di governo] ha votato contro la legge, mentre Mansour Abbas e Walid Taha della Lista Araba Unita hanno votato a favore.

L’emendamento alla legge sulla cittadinanza impedisce ai palestinesi che vivono in Cisgiordania o a Gaza e che sposano cittadini israeliani di vivere permanentemente in Israele con i loro coniugi e nega loro un percorso verso la cittadinanza. La modifica temporanea della legge è stata rinnovata ogni anno dal 2003.

Durante il dibattito sulla proroga della legge, la ministra dell’Interno Ayelet Shaked ha annunciato dal podio che il governo aveva approvato un compromesso. Il suo annuncio ha provocato un prolungamento della sessione per discutere la nuova proposta che si è protratta per tutta la notte.

Dopo il voto, Shaked ha twittato che la vista dei membri del Likud e del sionismo religioso che esultavano accanto ai membri della Lista Unita [coalizione di partiti arabo-israeilani di sinistra, all’opposizione, ndtr.] era “follia” e che il fallimento del provvedimento era una “grande vittoria per il post-sionismo”.

“La condotta sconsiderata di Likud e Smotrich [leader della formazione di estrema destra Partito Religioso Sionista, all’opposizione, ndtr.] ha causato la fine della legge sulla cittadinanza e porterà a 15.000 domande di cittadinanza”, ha detto Shaked, aggiungendo che “nemmeno una virgola” era cambiata dalla versione originale della legge, in risposta alle affermazioni contrarie dell’opposizione.

Se la Knesset avesse approvato il compromesso, la proroga sarebbe stata di sei mesi (anziché un anno) e a diverse centinaia di palestinesi sposati con israeliani e che vivono in Israele da molto tempo sarebbe stato offerto lo status di residente non cittadino. Shaked ha detto che i visti A5, che garantiscono i diritti di residenza, sarebbero stati offerti a 1.600 palestinesi, spiegando che questo era il numero approvato dal suo predecessore, Arye Dery [del partito religioso Shas, attualmente all’opposizione, ndtr.]

La Lista Araba Unita in precedenza aveva rifiutato il compromesso e Shaked aveva successivamente avuto colloqui sulla questione con il presidente di quest’ultima, Abbas, poiché era necessario almeno un voto a favore della legislazione da parte del suo partito. Abbas e il suo collega Walid Taha, tuttavia, quando Bennett [primo ministro in carica e leader del partito di estrema destra Yamina, ndtr.] lo ha definito un voto di fiducia al governo, hanno finito per votare a favore dell’emendamento.

Il presidente della Lista Araba Unita ha affermato che “la proposta di compromesso aveva lo scopo di favorire migliaia di famiglie”.

“Ora tutto è nelle mani del ministro dell’Interno e del ministro della Difesa”, ha detto, invitandoli a “prendere decisioni e fornire una soluzione”.

In una successiva intervista con la radio pubblica Kan Bet, Abbas ha affermato che avrebbero votato “all’unisono” su un bilancio statale che garantirà un “piano quinquennale per affrontare i problemi relativi alla criminalità e alla violenza”.

Il Likud ha festeggiato il risultato del voto, affermando che la proposta di emendamento alla legge era un “accordo marcio, rappezzato nel buio della notte tra Bennett, Lapid, Shaked , LAU e Meretz [partito della sinistra sionista, ndtr.]” che è stato “schiacciato grazie allo sforzo determinato dell’ opposizione guidata da Netanyahu”.

Il parlamentare di Yamina, Amichai Chikli, che ha votato contro l’emendamento, ha chiesto un “governo sionista che funzioni come tale”.

Ha inoltre affermato che “stasera abbiamo avuto la prova delle difficoltà di un governo senza una chiara maggioranza. Un governo che inizia la notte con una proroga di un anno di una legge e la finisce con una proroga di sei mesi, che inizia con 1.500 permessi e finisce con oltre 3.000″.

Secondo le voci precedenti la votazione sui dettagli del compromesso, si sarebbe istituito un comitato per esaminare come rimuovere gli ostacoli burocratici per le rimanenti famiglie a cui non fossero stati concessi i diritti di residenza. Ciò avrebbe riguardato le condizioni per l’Assicurazione Nazionale, le domande per la patente di guida, l’uscita dal Paese e altro ancora. Il comitato avrebbe iniziato immediatamente i suoi lavori al fine di garantire lo stato di avanzamento sufficiente per un compromesso venisse accettato entro i termini di scadenza della proroga di sei mesi.

In vista del voto, il deputato della Lista Unita Ahmed Tibi ha ammonito il suo ex compagno di partito Abbas e lo ha invitato a respingere l’accordo: “Qualsiasi arabo che accetti di approvare la legge in realtà sputa in faccia alle famiglie, ai bambini e ai suoi compatrioti,” aggiungendo che acconsentire al disegno di legge sarebbe stata una “pugnalata alle spalle”.

(Traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Rapporto OCHA del periodo 15 – 28 giugno 2021

In Cisgiordania, in due distinti episodi, le forze israeliane hanno ucciso due palestinesi, un ragazzo e una donna

[seguono dettagli]. Il 16 giugno, durante le ripetute proteste palestinesi contro la creazione di un insediamento [colonico] israeliano vicino a Beita (Nablus), le forze israeliane hanno sparato, uccidendo un 16enne palestinese. A Beita, dall’inizio di maggio (data di avvio dell’insediamento), nel corso di proteste, le forze israeliane hanno ucciso cinque palestinesi. Ancora nella giornata del 16 giugno, vicino ad Hizma (Gerusalemme), è stata uccisa una donna palestinese 29enne che, secondo l’esercito israeliano, avrebbe cercato di investire dei soldati con un veicolo e successivamente avrebbe brandito un coltello.

Il 24 giugno, le forze palestinesi hanno arrestato un attivista politico palestinese [Nizar Banat], critico nei confronti del governo palestinese; poche ore dopo il dissidente è morto, presumibilmente per le lesioni subite durante l’arresto. Le autorità palestinesi hanno avviato un’indagine sulla sua morte. In protesta per l’accaduto, palestinesi hanno manifestato in tutta la Cisgiordania. In alcune di tali proteste le forze palestinesi hanno sparato gas lacrimogeni e granate assordanti ed hanno ferito o arrestato partecipanti ad alcune proteste.

A Gaza un palestinese è morto per le ferite riportate durante il conflitto del 10-21 maggio. Secondo l’Ufficio dell’Alto Commissario per i Diritti Umani (OHCHR), a Gaza, durante la recente guerra sono stati uccisi 260 palestinesi, tra cui 66 minori. È stato accertato che 129 di loro erano civili e 64 erano membri di gruppi armati, mentre lo status dei restanti 67 non è stato determinato.

In Cisgiordania forze israeliane hanno ferito almeno 1.075 palestinesi, tra cui 238 minori [seguono dettagli]. Circa 790 di questi, tra cui 237 minori, sono rimasti feriti durante le suddette proteste a Beita, 78 a Gerusalemme Est, 77 a Kafr Qaddum (Qalqiliya), 74 ad Al Mughayyir (Ramallah) e i rimanenti in altre località. Sei dei feriti sono stati colpiti da proiettili veri e 245, tra cui 47 minori, da proiettili di gomma. Durante le proteste a Beita, almeno 154 palestinesi sono stati feriti mentre fuggivano dalle forze israeliane o in circostanze non verificabili (questi 154 feriti non sono inclusi nei 1.075 sopra menzionati). Il 25 giugno, le forze israeliane hanno sparato ad un palestinese, successivamente arrestato, che, a detta dei militari, stava progettando una aggressione con coltello vicino ad un insediamento israeliano nella Cisgiordania settentrionale; secondo fonti palestinesi, l’uomo soffre di disturbi psichici.

In Cisgiordania le forze israeliane hanno effettuato 144 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 180 palestinesi, tra cui sette minori. Quarantanove delle operazioni si sono svolte a Nablus, 29 ad Hebron e 20 a Gerusalemme, le rimanenti in vari governatorati. Quarantacinque degli arrestati sono di Hebron, i rimanenti di altre località.

In Cisgiordania, per mancanza di permessi di costruzione, le autorità israeliane hanno demolito, sequestrato o costretto i proprietari ad autodemolire 24 strutture palestinesi [seguono dettagli]. Ciò ha causato lo sfollamento di 23 persone, tra cui 11 minori, ed ha creato ripercussioni su più di 1.200 palestinesi. La maggior parte delle persone colpite dai provvedimenti vivono nell’area di Massafer Yatta di Hebron, dove il 23 giugno le autorità israeliane hanno distrutto, per la seconda volta, tre strade e la principale conduttura acquifera che serviva più Comunità; la precedente demolizione era avvenuta il 9 giugno e sia le strade che l’acquedotto erano stati successivamente riparati. Complessivamente, 16 [delle 24 strutture] e 20 [dei 23] sfollati si trovavano in Area C; le rimanenti [otto] strutture ed i 3 sfollati restanti si trovavano in Gerusalemme Est.

Coloni israeliani hanno ferito almeno nove palestinesi, tra cui quattro ragazze [seguono dettagli]. Queste ultime sono state spruzzate con spray al peperoncino nel quartiere di Sheikh Jarrah di Gerusalemme Est; in un altro distinto episodio è accaduta la stessa cosa ad una donna. Ad At Tuwani (Hebron), coloni hanno ferito due donne con pietre, tra cui una disabile di 73 anni. Altri due palestinesi sono stati aggrediti e feriti a Hebron, in episodi separati. Ad Al Mughayyir (Ramallah), in due occasioni, coloni hanno attaccato palestinesi. Le forze israeliane sono intervenute in entrambi i casi, ferendo 74 palestinesi (già conteggiati in un precedente paragrafo riguardante le persone ferite dalle forze israeliane). In molti altri episodi accaduti in Cisgiordania, aggressori noti come coloni israeliani, o ritenuti tali, hanno danneggiato veicoli di proprietà palestinese, oltre duecento alberi, sistemi idrici, strutture agricole, un’officina, apparecchiature elettriche, materiali da costruzione e altre proprietà.

In Cisgiordania, palestinesi noti o ritenuti tali, hanno lanciato pietre ferendo almeno 8 coloni. Secondo fonti israeliane, almeno 49 auto israeliane sarebbero state danneggiate

All’interno della Striscia di Gaza, tra il 15 e il 20 giugno, palestinesi hanno manifestato, vicino alla recinzione perimetrale israeliana, contro le restrizioni in atto; alcuni partecipanti hanno lanciato palloni incendiari verso Israele, causando molteplici incendi. Durante queste proteste le forze israeliane hanno sparato e ferito quattro palestinesi ed hanno effettuato attacchi aerei su Gaza, prendendo di mira siti militari. Vicino alla recinzione perimetrale e al largo della costa, in almeno altre 10 occasioni, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento, secondo quanto riferito, per far rispettare ai palestinesi le restrizioni di accesso [loro imposte], ed hanno svolto due operazioni di spianatura del terreno all’interno di Gaza, vicino alla recinzione perimetrale.

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Ultimi sviluppi (successivi al periodo di riferimento)

Il 29 giugno, a Gerusalemme Est, le autorità israeliane hanno demolito due strutture palestinesi: una casa a Ras al Amud e un negozio a Silwan: due ragazzi e i loro genitori sono stati sfollati e altri 9 palestinesi hanno perso la loro fonte di reddito. Durante le proteste palestinesi contro tali demolizioni, le forze israeliane hanno sparato lacrimogeni e proiettili di gomma, ferendo almeno 19 persone (tra cui una donna) e arrestandone nove.

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nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




Iniziano le demolizioni a Silwan, nella Gerusalemme est occupata

Al Jazeera e agenzie di stampa

29 giugno 2021 – Al Jazeera

Le forze israeliane demoliscono il negozio di un macellaio ed usano gas lacrimogeni per respingere abitanti ed attivisti.

Dopo la demolizione di un negozio palestinese da parte delle forze israeliane, iniziata martedì nella zona di Bustan del quartiere di Silwan, nella Gerusalemme est occupata, è scoppiata la violenza.

Le forze israeliane accompagnate da bulldozer sono entrate nel quartiere palestinese ed hanno distrutto una macelleria a Silwan. I soldati hanno utilizzato gas lacrimogeni e manganelli per respingere gli abitanti e gli attivisti palestinesi mentre si svolgeva la demolizione.

Secondo la Mezzaluna Rossa palestinese almeno quattro palestinesi sono stati feriti negli scontri.

Harry Fawcett di Al Jazeera, corrispondente da Silwan, ha detto che martedì mattina i soldati israeliani sono arrivati in gran numero e che si sono verificati “gravi scontri”.

Abbiamo parlato con i membri della famiglia (titolare della macelleria) e ci hanno detto che le forze israeliane sono arrivate e li hanno attaccati con gas lacrimogeni ed altri mezzi – un inizio violento di queste demolizioni. Ma non si tratta solo di un negozio. In questo quartiere ci sono altri 20 edifici nella stessa situazione”, ha detto.

Il 7 giugno il Comune di Gerusalemme ha emesso una serie di ordini di demolizione nei confronti degli abitanti della zona di al-Bustan a Silwan.

Le 13 famiglie coinvolte, circa 130 persone, hanno avuto 21 giorni di tempo per andarsene e demolire loro stesse le proprie case. Non farlo significherebbe che le demolirà il Comune e le famiglie dovranno coprire i costi di demolizione – stimati in 6.000 dollari.

Ecco come funziona nella Gerusalemme est occupata”, ha affermato Fawcett. “Alle famiglie viene consegnato un ordine di 21 giorni che impone loro di demolire loro stessi la propria casa entro la scadenza dell’ordinanza, oppure lo faranno loro e poi alle famiglie verrà comminata una multa per il disturbo di dover demolire la loro casa.”

Ha aggiunto che una legge israeliana ha reso difficile per le famiglie palestinesi appellarsi contro gli ordini di demolizione davanti ai tribunali.

Dal 2005 gli abitanti di al-Bustan hanno ricevuto avvisi di demolizione per circa 90 case col pretesto di aver costruito senza permesso, allo scopo di favorire un’organizzazione di coloni israeliani che cerca di trasformare quella terra in un parco nazionale e collegarlo all’area archeologica della Città di David.

Secondo ‘Grassroots Jerusalem’ [Gerusalemme dal Basso], una Ong palestinese, sia le demolizioni di case sia gli sfratti forzosi per ordine del tribunale sono tattiche utilizzate per espellere gli abitanti palestinesi.

In una dichiarazione all’inizio di questo mese l’organizzazione palestinese per i diritti Al-Haq ha detto che i palestinesi a Gerusalemme est sono la maggioranza della popolazione, ma “le leggi urbanistiche israeliane hanno assegnato il 35% del terreno dell’area alla costruzione di colonie illegali da parte di coloni israeliani.”

Un altro 52% dell’area è stato “allocato come ‘aree verdi’ e ‘aree non previste dal piano’, in cui è proibito costruire”, ha affermato.

Chiara discriminazione’

Silwan si trova a sud della Città Vecchia di Gerusalemme, adiacente alle sue mura.

Almeno 33.000 palestinesi vivono nel quartiere, che per anni è stato nelle mire delle organizzazioni di coloni israeliani. In alcuni casi gli abitanti palestinesi sono stati costretti a condividere la casa con i coloni.

Alcune di queste famiglie palestinesi vivono a Silwan da più di 50 anni, da quando furono espulse dalla Città Vecchia negli anni ’60.

Nel 2001 Ateret Cohanim, un’organizzazione di coloni israeliani che ha l’obiettivo di acquisire terreni ed accrescere la presenza ebraica a Gerusalemme est, ha preso il controllo di una storica società fiduciaria ebrea.

Creata nel XIX secolo, all’epoca la società ha acquistato terreni nell’area per insediarvi ebrei yemeniti. L’organizzazione di coloni ha sostenuto in tribunale che la società che controlla è proprietaria della terra.

Rifugiati per la seconda volta’

Secondo la legge israeliana, se degli ebrei possono provare che le loro famiglie vivevano a Gerusalemme est prima della fondazione di Israele nel 1948, possono chiedere la “restituzione” della loro proprietà, anche se per decenni vi hanno abitato famiglie palestinesi.

La legge ha validità solo per gli [ebrei] israeliani e in base ad essa i palestinesi non hanno gli stessi diritti.

Mohammed Dahleh, un avvocato che rappresenta alcune famiglie di Silwan, ha detto ad Al Jazeera: “Vi è qui una chiara discriminazione, dal momento che gli ebrei possono rivendicare ogni proprietà che sostengono di aver posseduto nel passato prima del 1948, mentre i palestinesi che hanno perso la loro terra in 500 villaggi all’interno di Israele, compresa Gerusalemme ovest, non possono rivendicare la loro proprietà.”

Quelle famiglie non possono richiedere la restituzione delle loro proprietà, nonostante siano in possesso di carte di identità israeliane e siano considerate residenti dello Stato di Israele in base alla legge israeliana,”, ha proseguito.

Ciò significa che, se i tribunali israeliani alla fine approveranno questo genere di espulsione forzata, i membri di questa comunità diventeranno rifugiati per la seconda volta.”

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Opporsi alla frammentazione per valorizzare l’unità: la nuova rivolta palestinese

Yara Hawari 

29 giugno 2021 – Al Shabaka

La rivolta palestinese in corso nella Palestina colonizzata contro il regime colonialista israeliano non è cominciata a Sheikh Jarrah, il quartiere palestinese di Gerusalemme dove gli abitanti rischiano un’imminente pulizia etnica. Senz’altro la minaccia di sfratto delle otto famiglie ha catalizzato questa mobilitazione popolare di massa, ma, in ultima analisi, questa rivolta è un capitolo della lotta condivisa dai palestinesi contro il colonialismo sionista durata oltre 70 anni.

Questi decenni sono stati caratterizzati da continui sfratti, furti di terre, incarcerazioni, oppressione economica e la brutalizzazione dei corpi dei palestinesi. I palestinesi sono anche stati sottoposti a un processo intenzionale di frammentazione non solo geografico, in ghetti, bantustan e campi profughi, ma anche sociale e politico. Infatti l’unità che abbiamo visto negli ultimi due mesi, durante i quali i palestinesi in tutta la Palestina colonizzata, ma non solo, si sono mobilitati in una lotta a sostegno di Sheikh Jarrah, ha sfidato questa frammentazione, sorprendendo allo stesso modo il regime israeliano e la leadership politica palestinese. Una mobilitazione popolare di queste dimensioni non si era vista in decenni, neppure durante l’amministrazione Trump, sotto la cui egida ci sono stati il riconoscimento di Gerusalemme capitale di Israele, gli accordi di normalizzazione fra Israele e vari Stati arabi e un’ulteriore accelerazione delle pratiche colonialiste del sionismo.

Oltre alla mobilitazione nelle piazze, i palestinesi hanno usato forme creative di resistenza contro il loro assoggettamento. Queste includono la rivitalizzazione delle campagne della società civile per salvare dalla distruzione e dalla pulizia etnica i quartieri palestinesi di Gerusalemme, danni inferti all’economia del regime israeliano e il continuo coinvolgimento di un mondo globalizzato con chiari messaggi che invocano libertà e giustizia per i palestinesi. 

Gerusalemme: un catalizzatore dell’unità

Per decenni gli abitanti di Sheikh Jarrah, come quelli di moltissime comunità, hanno rischiato l’espulsione e la pulizia etnica. Infatti a Sheikh Jarrah i palestinesi sono impegnati da tempo in battaglie legali contro il regime di Israele nel tentativo di bloccare gli sfratti che servono all’obiettivo finale di Israele di ‘giudaizzare’ completamente Gerusalemme

Verso al fine di aprile 2021, il tribunale distrettuale di Gerusalemme ha respinto i ricorsi di abitanti di Sheikh Jarrah contro quello che i giudici definiscono lo “sfratto” di otto famiglie, ordinando loro di sgombrare le case entro il 2 maggio 2021. Per opporsi a questo ordine e per salvare il quartiere dalla pulizia etnica, le famiglie si sono affidate alla campagna del movimento di base “Salvate Sheikh Jarrah”. La campagna, che ha di recente guadagnato in popolarità grazie ai social, ha attratto una massiccia partecipazione locale e anche l’attenzione internazionale, non ultimo perché riassume in sé l’esperienza palestinese della spoliazione. Ha quindi dato slancio ad altre campagne per “salvare” dalla pulizia etnica e dalla colonizzazione altre zone in Palestina, come Silwan [altro quartiere di Gerusalemme est, ndtr.], Beita [nei pressi di Nablus, ndtr.] e Lifta [periferia est di Gerusalemme, ndtr.].

Durante gli ultimi due mesi i palestinesi della Palestina colonizzata, inclusi gli abitanti di Haifa, Giaffa e Lydda [Lod in ebraico, ndtr.] con cittadinanza israeliana, hanno protestato per sostenere la lotta condivisa di Sheikh Jarrah. Queste rivolte e dimostrazioni hanno attirato una repressione violenta da parte del regime israeliano, una reazione che non è né senza precedenti né inaspettata. Infatti durante le proteste della Seconda Intifada le forze del regime israeliano avevano ucciso 13 cittadini palestinesi nel corso della repressione più micidiale dalla Giornata della Terra del 1976. In tutta questa continua rivolta, la violenza delle forze del regime è stata accompagnata da quella dei coloni israeliani armati che hanno attaccato e linciato cittadini palestinesi, effettuato incursioni e distrutto case, veicoli e attività economiche dei palestinesi. 

Tuttavia sono stati i vari giorni di proteste presso il complesso della moschea di al-Aqsa a dominare i media internazionali, specialmente perché nel 2017 questo era stato il luogo di manifestazioni di massa vittoriose contro le barriere elettroniche collocate all’ingresso del complesso. Anche queste ultime proteste a metà maggio hanno dovuto affrontare una repressione violenta da parte delle forze di sicurezza israeliane che hanno fatto irruzione nel complesso, ferendo centinaia di fedeli palestinesi con proiettili di ferro ricoperti di gomma, lacrimogeni e granate stordenti.

Dopo l’assalto e i costanti tentativi di pulizia etnica del regime israeliano nella Gerusalemme palestinese, il governo di Hamas a Gaza ha contrattaccato lanciando razzi. Israele ha risposto con più di dieci giorni di pesanti bombardamenti contro Gaza, con un totale di 248 vittime, inclusi 66 minori. Nonostante le affermazioni del regime israeliano che sostiene di aver preso di mira solo le infrastrutture militari di Hamas, sono stati distrutti vitali infrastrutture civili, interi edifici residenziali e persino la torre che ospitava i media. Michelle Bachelet, Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, ha dichiarato che questi bombardamenti su Gaza potrebbero essere classificati come crimini di guerra. 

Danneggiare l’economia del regime israeliano

Mentre Gaza era sotto attacco nel resto della Palestina colonizzata continuava la mobilitazione dei movimenti di base. Il 18 maggio i palestinesi hanno indetto uno sciopero generale, probabilmente una delle più grandi manifestazioni di unità da anni. Hanno subito aderito l’High Follow-up Committee for Arab Citizens of Israel [Alto Comitato di Controllo per i Cittadini Arabi di Israele, organismo extraparlamentare che rappresenta i cittadini arabi di Israele a livello nazionale, ndtr.] e successivamente l’Autorità Palestinese (ANP) in Cisgiordania. Ma sono stati i movimenti di base ad assumere il controllo della comunicazione, attraverso varie dichiarazioni in arabo e inglese, invitando a un’ampia partecipazione e sollecitando il sostegno internazionale: “Chiediamo il vostro appoggio per continuare questo momento di resistenza popolare senza precedenti, partito da Gerusalemme ed esteso in tutto il mondo,” si leggeva in una dichiarazione. 

Lo sciopero è stato organizzato in risposta agli attacchi contro Gaza e alla rivolta per le strade di Gerusalemme. Ha raccolto una vasta partecipazione ed è stato particolarmente importante per i palestinesi con cittadinanza israeliana che ancora una volta hanno ribadito il loro legame e la condivisione della lotta con i palestinesi di Gaza e Gerusalemme. Comunque è stata anche una tattica per danneggiare in modo efficace l’economia israeliana. I palestinesi con cittadinanza israeliana, il 20% della popolazione di Israele, costituiscono una larga fetta della forza lavoro; per esempio, il 24% degli infermieri e il 50% dei farmacisti sono palestinesi. 

Anche il settore dell’edilizia israeliana è composto per la maggior parte da palestinesi, prevalentemente provenienti dalla Cisgiordania, ma anche da cittadini palestinesi di Israele. Il giorno dello sciopero hanno partecipato quasi tutti i lavoratori manuali, causando una completa sospensione delle industrie per l’intera giornata. Anche i sindacati si sono uniti in previsione dello sciopero esortando i sindacati internazionali a mostrare solidarietà con loro e a intervenire contro l’oppressione israeliana. Questo tipo di sostegno si è visto, alcuni giorni prima dello sciopero, fra i portuali di Livorno che hanno rifiutato di caricare sulle navi armi ed esplosivi israeliani, dichiarando: “Il porto di Livorno non sarà complice nel massacro del popolo palestinese.” 

Le proteste sono continuate nei giorni successivi allo sciopero, anche se su scala minore e con meno attenzione da parte dei media. Ciononostante lo sciopero ha acceso una scintilla e l’attenzione sull’oppressione economica è diventata un tema della mobilitazione. Varie settimane dopo, e sulla base del successo dello sciopero, è stata annunciata una campagna per promuovere il potere d’acquisto dei palestinesi. Denominato “Settimana dell’economia palestinese”, l’evento sottolineava che, nonostante la morsa economica con cui il regime israeliano soffoca i palestinesi, essi hanno un potere di acquisto collettivo. Tutto ciò ricorda molto la Prima Intifada, quando misure popolari, come il movimento cooperativo e la richiesta di boicottare i prodotti israeliani, sfidarono l’assoggettamento economico e la dipendenza dal regime israeliano. 

Il progetto colonialista sionista ha intenzionalmente soggiogato l’economia palestinese distrutta dalla fondazione dello Stato di Israele nel 1948 e dalla successiva occupazione di terra palestinese. Mentre il regime sionista conquistava la maggior parte dei settori produttivi e agricoli, escludeva i palestinesi da quasi tutte le aree della nuova economia. Dopo la guerra del 1967, che ha portato questi territori sotto occupazione militare israeliana, questa situazione si è estesa alla Cisgiordania e a Gaza.

 Agli inizi degli anni ’90 una serie di accordi di “pace” durante gli Accordi di Oslo hanno portato ai palestinesi un ulteriore assoggettamento economico, passando di fatto il controllo diretto ed indiretto della loro economia al regime israeliano. Gli accordi hanno anche accentuato la loro frammentazione sociale in Cisgiordania e a Gaza. Mentre alcuni sostenevano che i protocolli economici avrebbero portato prosperità a tutti, in realtà, hanno alimentato il clientelismo capitalista palestinese, espandendo il divario economico e le divisioni fra classi sociali. 

La Settimana dell’Economia Palestinese ha incoraggiato varie attività nella Palestina colonizzata, da Haifa a Ramallah e altrove, promuovendo la produzione e i prodotti palestinesi locali al posto di quelli israeliani che hanno monopolizzato il mercato con la loro abbondanza e la competitività dei prezzi. La Settimana ha così proposto, in alternativa alla dominazione coloniale capitalista, una concetto più olistico, dato che la liberazione economica è un aspetto chiave nel quadro di una più ampia lotta di liberazione nazionale.

Comprendere l’unità nell’Intifada dell’Unità

Il 21 maggio, dopo il “cessate il fuoco” fra Israele e Hamas, è venuta meno l’attenzione dei media internazionale per la rivolta e da allora le inevitabili discussioni sulla ricostruzione di Gaza dominano i notiziari. Nonostante le enormi distruzioni e le vittime a Gaza, molti palestinesi considerano il risultato una vittoria di Hamas. 

È comunque importante sottolineare che la rivolta, cominciata prima del bombardamento di Gaza, va oltre Hamas e la sua narrazione della vittoria. Come mi ha fatto notare un collega palestinese di Gaza: “Questa volta, a Gaza, è sembrato diverso. Questa volta ci è sembrato di non essere soli”. Infatti, data la mobilitazione di massa in tutta la Palestina colonizzata e la ripresa dei legami con i movimenti di base, seppure in presenza di una frammentazione forzata, questa nuova rivolta è stata soprannominata: “Intifada dell’Unità.”

Nel periodo dello sciopero è stato pubblicato online un documento, intitolato “Manifesto della dignità e speranza dell’Intifada dell’Unità”, che respinge questa frammentazione forzata:

Noi siamo un unico popolo e un’unica società in tutta la Palestina. Le bande sioniste hanno cacciato con la forza la maggior parte del nostro popolo, rubato le nostre case e demolito i nostri villaggi. Il sionismo era determinato a creare una divisione tra chi restava in Palestina, a isolarci in frammenti geografici e trasformarci in società differenziate e disperse, affinché ogni gruppo vivesse in una grande prigione separata. Ecco come il sionismo ci controlla, disperde la nostra volontà politica e ci impedisce una lotta unitaria contro il sistema razzista colonialista in Palestina.”

Il manifesto dettaglia i vari frammenti geografici del popolo palestinese: la “prigione Oslo” (Cisgiordania), la “prigione della cittadinanza” (terre occupate nel 19481), il brutale assedio di Gaza, il sistema di ‘giudaizzazione’ a Gerusalemme e quelli che vivono un esilio permanente. L’imposizione sulla Palestina di questa geografia colonizzata, caratterizzata da muri di cemento, checkpoint, comunità chiuse di coloni e recinzioni di filo spinato ha costretto i palestinesi a vivere in frammenti separati e isolati l’uno dall’altro. 

 Come fa notare il manifesto, ciò non è successo inevitabilmente o per caso. Al contrario, questa politica intenzionale di ‘divide et impera’ è stata implementata dal regime sionista per minare la lotta anticolonialista di una Palestina unita. Ma i palestinesi non sono rimasti passivi. Nel corso degli anni molti movimenti di base hanno cercato di interrompere la frammentazione, inclusi i vari movimenti giovanili di protesta, come la richiesta del 2011 di unità politica fra la Cisgiordania e Gaza, le dimostrazioni contro Prawer [progetto per deportare i beduini del sud di Israele in campi chiusi, ndtr.] nel 2013 contro la politica israeliana di pulizia etnica dei beduini nel Naqab e la campagna per togliere le sanzioni contro Gaza imposte dall’ANP. 

Più recentemente gruppi di donne palestinesi hanno fondato Tal’at, un movimento femminista radicale che mira, fra altre cose, a trascendere questa divisione geografica affermando che la liberazione della Palestina è una lotta femminista. Quest’ultima componente dell’unità palestinese è una conseguenza di questi continui sforzi per rivitalizzare una lotta palestinese condivisa.

Eppure, internazionalmente, molti non sono riusciti a capirlo. Anzi, la violenza che si stava consumando nei territori del 1948 è stata spesso erroneamente definita come violenza comunitaria, quasi una guerra civile fra ebrei e arabi, una definizione che separa nettamente i cittadini palestinesi in Israele dai palestinesi a Gaza e Gerusalemme. Questa valutazione non descrive la realità dell’apartheid, in cui gli ebrei israeliani e i cittadini palestinesi in Israele vivono vite totalmente separate e ineguali. 

Infatti, questa è l’eredità di una tendenza vecchia di decenni di fare riferimento ai palestinesi con cittadinanza israeliana come “arabi israeliani” tentando di separarli dalla loro identità palestinese. Nei casi migliori la loro situazione è descritta nell’informazione mainstream come il caso non eccezionale di un gruppo minoritario che subisce la discriminazione della maggioranza ebrea, invece di sopravvissuti autoctoni della pulizia etnica del 1948 che continuano a resistere all’annientamento da parte dei coloni. L’incapacità di riconoscere le recenti proteste nei territori del 1948 come una parte specifica di una rivolta di palestinesi uniti è particolarmente notevole se si prende in considerazione l’aspetto estetico: la maggior parte delle dimostrazioni era caratterizzata da una marea di bandiere palestinesi e gli slogan di protesta chiaramente palestinesi.

Anche Gaza è stata lentamente separata dalla lotta palestinese nelle descrizioni mainstream, discussa come un problema completamente separato da quello del resto della Palestina colonizzata. I continui bombardamenti del regime israeliano sono quasi sempre spiegati come una guerra fra Israele e Hamas, un’interpretazione distorta che deliberatamente ignora il fatto che anzi Gaza è il fulcro della lotta palestinese, come sostiene Tareq Baconi [politologo e membro della direzione di Al Shabaka, ndtr.].

Unità contro tutte le aspettative

Se le dimensioni della mobilitazione e la portata della partecipazione popolare a cui abbiamo assistito nelle ultime settimane sono state imponenti, il costo di questa rivolta è stato e continua ad essere alto. Oltre alla brutalità a Gaza, i palestinesi altrove nella Palestina colonizzata sono stati vittime di violenza efferata e arresti. Nelle ultime settimane, in seguito a operazioni di “legge e ordine” condotte dal regime israeliano i cittadini palestinesi di Israele, quasi tutti giovani operai, sono stati arrestati. Il regime israeliano usa questi arresti di massa come forma di punizione collettiva per intimidire e terrorizzare le comunità.  

In Cisgiordania l’ANP collabora ancora con il regime israeliano nel coordinamento per la sicurezza e ha arrestato vari attivisti coinvolti nelle proteste. Tali arresti, specialmente di coloro che criticano l’’ANP, non sono cosa nuova e seguono uno schema di repressione politica sia in Cisgiordania che a Gaza. Infatti il 24 giugno 2021 le forze di sicurezza dell’’ANP hanno arrestato e picchiato a morte Nizar Banat, un attivista molto conosciuto e critico del regime. Da allora in Cisgiordania sono scoppiate dimostrazioni per chiedere la fine del governo di Mahmoud Abbas, presidente dell’’ANP. Le proteste sono state accolte con violenza bruta e repressione, ma questo comportamento non sorprende. L’’ANP è tristemente nota per i suoi abusi di potere tramite questo tipo di violente intimidazioni.

Durante la rivolta in Cisgiordania, dominata da Fatah, l’’ANP è stata totalmente messa da parte in particolare di fronte alla narrazione della vittoria di Hamas. Ma oltre alla crescente irrilevanza dell’’ANP e la lotta per legittimità e potere fra i due partiti palestinesi dominanti, questa rivolta rivela qualcosa d’altro. Mostra che i movimenti di base e una leadership decentralizzata possono svilupparsi organicamente e al di fuori di istituzioni politiche corrotte. Ha anche fatto vedere che i palestinesi desiderano fortemente una mobilitazione unificata.

Lo slancio della rivolta continua e la sensazione di unità cresce nonostante la diminuzione dell’attenzione dei media e a livello internazionale. Qualcosa è infatti cambiato: i palestinesi invocano una narrazione condivisa e lottano dal fiume Giordano al mar Mediterraneo. Riconoscono così di trovarsi a fronteggiare un unico regime di oppressione anche se si manifesta in modi differenti nelle comunità palestinesi frammentate. Sostanzialmente, questa rivolta, come quelle che l’hanno preceduta, ha ribadito che nel popolo risiede il potere tramite il quale la liberazione palestinese deve essere ottenuta e lo sarà.

  1. Questo è spesso descritto dai politici internazionali come “Israele vero e proprio” e ritenuto differente dalla colonizzazione israeliana della Cisgiordania e di Gaza.

Yara Hawari è analista senior di Al-Shabaka, la Rete Politica Palestinese. Ha conseguito un dottorato in Politiche del Medio Oriente presso l’università di Exeter, dove ha insegnato ed è tuttora ricercatrice onoraria. Oltre al suo lavoro accademico focalizzato su studi indigeni e storia orale, è anche un’assidua commentatrice politica per varie testate, tra cui The Guardian, Foreign Policy e Al Jazeera in inglese.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)