Gaza: disabili o morte, molte giovani vittime degli attacchi israeliani non ritorneranno a scuola

Maha Hussaini

28 agosto 2021 – Middle East Eye

Fra le centinaia di minori palestinesi feriti durante la campagna israeliana contro Gaza a maggio, molti hanno ora davanti a sé una vita senza istruzione e poche prospettive.

Mohammed Shaaban, otto anni, siede in classe nel primo banco e ascolta attentamente l’insegnante cercando di seguire la lezione il meglio che può.

Con i suoi compagni frequenta la seconda in una scuola a Beit Lahia, nel nord della Striscia di Gaza, ma solo temporaneamente. Ha perso la vista durante l’intensa campagna di bombardamenti israeliani sulla Striscia e ora l’amministrazione scolastica rifiuta di permettergli di continuare gli studi se [la scuola] non può adeguarsi ad alunni con la sua disabilità.

In quella fatale giornata di maggio, Mohammed aveva appena finito di fare la spesa con la mamma e la cugina per la festa di Eid al-Fitr [che celebra la fine del Ramadan, N.d.T.] quando un razzo è caduto sul mercato, lanciando schegge ovunque, alcune delle quali l’hanno colpito in volto.

Tre settimane dopo è stato trasferito in un ospedale in Egitto per ricevere un trattamento per la ferita. I dottori hanno detto al padre che il caso di Mohammed era “senza speranza”.

Uno degli occhi è stato distrutto dalla scheggia, quindi non c’è assolutamente alcuna speranza di salvarlo,” ha detto suo padre, Hani Shaaban, a Middle East Eye (MEE).

L’altro è stato gravemente danneggiato e i medici ci hanno detto che non riuscirà mai più a vedere.”

La tragedia di Mohammed è tutt’altro che unica. Secondo l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, (OHCHR), ci sono stati 66 minori e 40 donne fra i 256 palestinesi uccisi durante gli attacchi durati 11 giorni del territorio soggetto a blocco. Fra i minori uccisi, 51 erano in età scolare. Circa 470 altri minori sono stati feriti negli attacchi.

Oltre 50 strutture scolastiche sono state danneggiate nei bombardamenti, incluse scuole, asili e l’Università islamica di Gaza.

Inoltre il team dell’Explosive Ordnance Disposal (EOD) [preposto alla rilevazione, messa in sicurezza, rimozione ed eliminazione di ordigni esplosivi, N.d.T.] del ministero dell’Interno a Gaza ha detto di aver localizzato quattro bombe israeliane inesplose ancora sepolte nel perimetro delle scuole gestite dall’UNRWA, l’Agenzia ONU per i rifugiati palestinesi.

Vivere in un ‘incubo orrendo ‘

Altrove a Beit Lahia, Mohammed al-Attar, con quattro figli, racconta il giorno in cui ha iscritto la figlioletta Amira alla prima elementare.

Il preside della scuola le ha chiesto di contare fino a 10 e dire l’alfabeto in arabo. Lei l’ha fatto ed erano tutti molto colpiti dalla sua intelligenza. L’hanno ammessa ed era super contenta,” afferma il padre a MEE.

Amira non vedeva l’ora di raccontarlo alla mamma appena tornata a casa, e il fratello maggiore Islam, di 8 anni, aveva già cominciato a programmare il loro primo giorno di scuola insieme.

Islam ha detto ad Amira che l’avrebbe accompagnata a scuola al mattino prima di andare alla sua scuola e poi nel pomeriggio l’avrebbe portata a casa con lui.”

La figlia era entusiasta di andare a fare shopping di materiale scolastico ed era inflessibile sul colore della cartella: doveva essere rosa, dice Attar, che loda Islam perché è un bravo fratello e studente.

Era arrivato primo della classe e noi eravamo così felici. L’abbiamo sempre incoraggiato e volevamo comprargli un regalo per il suo successo.”

Ma non hanno mai potuto andare a scuola insieme. “Il bombardamento è arrivato molto prima,” dice il padre.

Il 14 maggio cinque attacchi israeliani hanno colpito senza preavviso il quartiere di Attar, distruggendo completamente l’edificio che ospitava sei appartamenti.

Al momento dell’attacco la moglie di Attar e i bambini erano a casa seduti tutti insieme, mentre lui era con il fratello in un’altra stanza. La moglie e tre figli sono stati uccisi, mentre lui ha subito solo lievi ferite.

Appena due settimane dopo essersi iscritta a scuola, Amira ha perso la vita, come la mamma, Lamia, 27 anni, e i due fratellini, Islam e Zein, che aveva 5 mesi.

Avevamo progetti per il mese in cui i bambini avrebbero cominciato la scuola. Ma eccomi qui, seduto da solo con l’unico figlio che mi è rimasto a casa di mia madre,” ha detto Attar a MEE. “Tutto è successo così rapidamente che mi sembrava di sognare, adesso non ho nessuno eccetto un bimbo che ha solo cinque anni.

Onestamente non so ancora cosa fare e tutto sembra un incubo orrendo. Non riesco a credere di averli persi tutti e quattro in un solo giorno.”

Bambini traumatizzati

In un’inchiesta su 530 minori in tutta la Striscia di Gaza, un istituto di ricerca per i diritti umani con sede a Ginevra ha rilevato che 9 bambini su10 oggetto dello studio hanno sofferto di una qualche forma di sindrome da stress post-traumatico dovuta a un conflitto (PTSD).

Dopo l’attacco, Mohammed, il ragazzo che ha perso la vista, è cambiato e ora evita interazioni sociali e preferisce stare da solo, afferma il padre a MEE.

Il suo umore cambia ogni 15 minuti, talvolta comincia a piangere e urlare, qualche volta trova qualcosa che lo rallegra, ma è quasi sempre introverso e non parla con nessuno eccetto i familiari,” dice Shaaban.

Ogni mattina quando i fratelli e sorelle si preparano per andare a scuola comincia a piangere e chiede di andare con loro, ma non può più andare alla sua vecchia scuola.”

Shaaban ci ha detto che ha parlato con la scuola per far continuare a studiare il figlio, cieco da poco.

(L’amministrazione) ci ha detto che non può più frequentare scuole normali e che dobbiamo spostarlo in una speciale per ciechi,” dice.

Per accontentare il ragazzino disperato, la scuola permette a Mohammed di stare con i suoi compagni e lo incoraggia a partecipare alle lezioni. “Sta meglio, ma ora vuole andare ogni giorno [alla sua vecchia scuola],” afferma Shaaban. 

Shaaban non ha ancora trovato il coraggio di dire al figlio appassionato di matematica che non potrà mai più leggere o studiare.

Mi chiede sempre quando potrà vedere di nuovo e se potrà andare per strada e a scuola da solo … Non è più uno studente normale.”

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)

 




Opinione: il primo ministro israeliano non cerca un cambiamento. Vuole solo maggiore copertura per l’apartheid e la colonizzazione.

Noura Erakat

26 agosto 2021 – Washington Post

Questa settimana il primo ministro israeliano Naftali Bennett ha fatto una serie di incontri a Washington, incontrandosi con funzionari dell’amministrazione Biden (un colloquio alla Casa Bianca è stato rinviato a causa degli attacchi all’aeroporto di Kabul). Entrambe le parti sperano di ristabilire i rapporti tra gli USA e Israele dopo quattro anni in cui l’ex-presidente Trump ha sfacciatamente promosso gli interessi espansionistici di Israele senza la parvenza progressista delle passate amministrazioni USA. La sinergia tra Trump e il primo ministro Benjamin Netanyahu ha evidenziato la natura farsesca del processo di pace e rafforzato una crescente divisione di parte tra i democratici e i repubblicani riguardo a Israele.

Tuttavia, nonostante il loro massimo impegno per nascondere la realtà – la colonizzazione israeliana di insediamento sulla terra palestinese e il regime di apartheid imposto per consolidare queste appropriazioni di territorio e rafforzare la supremazia ebraica – nessuna operazione di pubbliche relazioni o manipolazione della realtà può cambiare quanto avviene sul terreno o le tendenze che stanno allontanando gli americani da Israele a favore del sostegno alla libertà dei palestinesi.

In politica niente è cambiato. Nei suoi primi otto mesi in carica Biden ha approvato la maggior parte delle iniziative più discutibili di Trump, compresi lo spostamento dell’ambasciata USA a Gerusalemme, l’opposizione all’inchiesta della Corte Penale Internazionale sulle azioni di Israele e l’adozione dell’estremamente problematica definizione di antisemitismo che confonde le critiche contro Israele con il fanatismo antiebraico.

Biden si è categoricamente opposto a qualunque condizionamento dell’aiuto militare a Israele in base alle violazioni dei diritti umani e ha ordinato ai suoi funzionari di lottare contro il movimento di base per il Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS) a favore dei diritti dei palestinesi, che si ispira ai movimenti per i Diritti Civili [negli USA, ndtr.] e contro l’apartheid in Sudafrica. In maggio, durante il bombardamento israeliano di Gaza che ha ucciso più di 250 palestinesi, tra cui 12 famiglie cancellate dall’anagrafe, Biden ha resistito a ripetute richieste all’interno del suo stesso partito per sollecitare pubblicamente Israele a interrompere le violenze.

Da parte sua Bennett è ansioso di presentarsi al principale sponsor di Israele e al mondo. Vuole distinguersi da Netanyahu, sotto il quale e al cui fianco ha lavorato per molti anni, nel tentativo di compiacere i sionisti progressisti USA, che sono alla disperata ricerca di una foglia di fico per sostenere la loro negazione riguardo all’esistenza dell’apartheid israeliano.

Tuttavia Bennett è, se possibile, persino più estremista di Netanyahu. Bennett è stato a capo del Consiglio Yesha, la principale organizzazione che rappresenta i coloni, e si è opposto senza riserve a uno Stato palestinese. In base all’accordo che tiene insieme la sua coalizione, il nuovo governo “incentiverà in modo significativo la costruzione a Gerusalemme,” comprese le colonie a Gerusalemme est, e, secondo informazioni, ha promesso ai capi dei coloni che non ci sarà un blocco delle colonie neppure nel resto della Cisgiordania.

Cosa forse ancor più allarmante, Bennett ha iniziato a cambiare lo status quo nel venerato complesso della moschea del nobile santuario, noto agli ebrei come Monte del Tempio, per consentire agli ebrei di pregarvi. Dall’occupazione di Gerusalemme est nel 1967 Israele ha vietato agli ebrei di pregare sul Nobile Santuario perché molte autorità religiose ebraiche vi si sono opposte per ragioni teologiche e per evitare di provocare tensioni con i musulmani. Ora con Bennett ciò sta cambiando, con conseguenze potenzialmente disastrose non solo per la regione.

Come parte di questo piano per presentare una nuova immagine, Bennett sta cercando di “ridimensionare il conflitto” rendendo più tollerabili le condizioni dei palestinesi con la prosecuzione della dominazione israeliana, proprio come la visione di Trump per una “pace economica”. Questo approccio riguarderà anche l’esaltazione come modelli per la pace degli Accordi di Abramo, il riconoscimento reciproco tra Israele e regimi autoritari sostenuti dagli USA. Bennett probabilmente appoggerà un incremento degli aiuti USA all’Autorità Nazionale Palestinese, che è parte dell’apparato di sicurezza israeliano: proprio di recente essa ha arrestato decine di difensori dei diritti umani palestinesi nel tentativo di reprimere il dissenso.

Biden è altrettanto ansioso di accogliere Bennett e una versione modificata delle politiche di contenimento di Trump. Egli rappresenta la vecchia guardia del Partito Democratico, che ha perso i contatti con gli elettori democratici e con l’opinione pubblica degli USA in generale. I sondaggi mostrano sistematicamente che gli americani di tutto lo spettro politico vogliono che gli USA siano più corretti e imparziali quando si tratta di Israele e dei palestinesi.

Questo spostamento dell’opinione pubblica statunitense è stato chiaramente evidente lo scorso maggio, quando gli americani hanno occupato le reti sociali e sono scesi in piazza in numero senza precedenti per chiedere la fine dell’attacco israeliano contro Gaza e un cambiamento della politica USA nella regione. Con un altro segno dei tempi, la popolare marca di gelati Ben & Jerry ha annunciato che smetterà di vendere gelati nelle colonie israeliane, una decisione che ha sostenuto benché le più alte cariche del governo israeliano abbiano vilmente accusato l’azienda di antisemitismo.

In ogni caso, quando Biden e Bennett si incontreranno alla Casa Bianca, i palestinesi figureranno al massimo come ombre. Ciò è particolarmente insultante alla luce del continuo movimento di protesta dell’Intifada Unita e una testimonianza del fatto che un cambiamento necessario non avverrà dall’alto verso il basso. Nel prossimo futuro probabilmente Israele sarà il suo stesso peggior nemico, in quanto insiste a sostenere che il suo regime di suprematismo razziale è una forma corretta di liberazione nazionale, e probabilmente gli Stati Uniti saranno l’ultima tessera a cadere come fu nel caso della lotta contro l’apartheid in Sud Africa.

Noura Erekat è avvocatessa per i diritti umani e docente associata dell’università Rutgers [prestigiosa università statunitense, ndtr.]. È autrice di “Justice for Some: Law and the Question of Palestine” [Giustizia per qualcuno: la legge e la questione della Palestina].

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Rapporto OCHA del periodo 10 – 23- agosto 2021

In Cisgiordania, durante operazioni di ricerca-arresto, cinque palestinesi sono stati uccisi da forze israeliane

[seguono dettagli]. Il 15 agosto, nel Campo profughi di Jenin, durante un’operazione notturna, le forze israeliane hanno sparato, uccidendo quattro palestinesi di età compresa tra i 19 e i 21 anni. Un quinto palestinese ha riportato gravi ferite. Durante l’operazione c’è stato uno scontro armato tra palestinesi e una unità israeliana sotto copertura che era entrata nel Campo per arrestare un palestinese, secondo quanto riferito, affiliato ad Hamas. Un altro palestinese, di 25 anni, è morto l’11 agosto per le ferite riportate durante un’altra operazione di ricerca-arresto svolta nella città di Jenin, il 3 agosto. Dall’inizio dell’anno, in Cisgiordania, sono stati uccisi dalle forze israeliane cinquantacinque (55) palestinesi; tutti colpiti da proiettili di arma da fuoco.

In Cisgiordania, complessivamente, le forze israeliane hanno ferito 221 palestinesi [seguono dettagli]. Dei 221 feriti, 152 sono stati colpiti durante le perduranti proteste contro l’attività di insediamento [colonico] vicino a Beita, 19 a Beit Dajan (entrambi a Nablus) e dieci a Kafr Qaddum (Qalqiliya). Altri trentadue sono rimasti feriti in scontri con forze israeliane sviluppatisi a Battir (Betlemme), nel corso di una demolizione (vedi sotto). Due scolari sono rimasti feriti durante scontri con forze israeliane nei pressi di una scuola nella Comunità di Tayasir (Tubas); i rimanenti feriti si sono avuti in altre località della Cisgiordania. Dei feriti palestinesi, tre sono stati colpiti con proiettili veri, 28 con proiettili di gomma; i restanti sono stati curati principalmente per inalazione di gas lacrimogeni o perché aggrediti fisicamente. Oltre ai 221 palestinesi feriti direttamente da forze israeliane, 23 sono rimasti feriti a Beita mentre scappavano dalle forze israeliane o in circostanze che non hanno potuto essere verificate.

In Cisgiordania, forze israeliane hanno effettuato 92 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 104 palestinesi. La maggior parte delle operazioni si è svolta nei governatorati di Gerusalemme e di Hebron. Dal 23 agosto, le forze israeliane hanno chiuso l’ingresso principale del villaggio [palestinese] di Sinjil a Ramallah con cumuli di terra (oltre ad aver chiuso una strada vicina), costringendo i residenti a fare lunghe deviazioni, rendendo difficoltoso il loro accesso ai servizi ed ai luoghi di lavoro. Circa 7.000 residenti palestinesi sono stati colpiti dalla chiusura.

Il 16 agosto, gruppi armati palestinesi hanno lanciato due razzi da Gaza verso il sud di Israele; si tratta del primo lancio dalla fine di maggio. Uno dei razzi è stato intercettato dal sistema di difesa israeliano “Iron Dome” e l’altro è caduto all’interno di Gaza. Non si registrano feriti o danni a cose. Il 23 agosto, gruppi armati palestinesi hanno lanciato da Gaza una serie di palloni incendiari che hanno causato diversi incendi in Israele. Jet militari israeliani hanno effettuato una serie di attacchi contro postazioni militari di Gaza, fronteggiati, a quanto riferito, da raffiche di mitragliatrice pesante sparate da gruppi armati palestinesi. A seguito del mitragliamento, le forze aeree israeliane hanno effettuato ulteriori attacchi aerei. Non si registrano feriti o danni.

Il 21 agosto, centinaia di persone hanno tenuto una manifestazione di massa sul lato palestinese della recinzione perimetrale israeliana che racchiude la Striscia di Gaza. Durante la protesta, i palestinesi hanno lanciato pietre e altri oggetti contro le forze israeliane che hanno risposto sparando proiettili veri e lacrimogeni. Il Ministero della Salute di Gaza ha documentato 53 feriti palestinesi (25 minorenni) di cui 46 feriti da proiettili di arma da fuoco. Un soldato israeliano è stato ferito gravemente da un colpo di pistola sparato da un manifestante palestinese. Successivamente, le forze israeliane hanno effettuato una serie di attacchi aerei su postazioni appartenenti a gruppi armati palestinesi di Gaza. Non sono stati segnalati feriti.

Ancora in Gaza, vicino alla recinzione perimetrale e al largo della costa, in almeno 11 occasioni, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento, presumibilmente per far rispettare [ai palestinesi] le restrizioni di accesso. Bulldozer militari israeliani hanno condotto una operazione di spianatura del terreno all’interno di Gaza, vicino alla recinzione perimetrale, ad est del Campo profughi di Al Maghazi, nell’Area Centrale della Striscia. In un altro caso, le forze navali egiziane hanno aperto il fuoco contro imbarcazioni palestinesi al largo di Rafah, ferendo un pescatore. A Gaza City, in due distinti episodi, cinque minori sono rimasti feriti dall’esplosione di residuati bellici che stavano maneggiando. Il 23 agosto, l’Egitto ha chiuso il valico di frontiera di Rafah, in entrambe le direzioni, fino a nuovo avviso. Il motivo di questa chiusura imprevista non è stato reso noto.

In Cisgiordania, a causa della mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, le autorità israeliane hanno demolito, sequestrato o costretto i proprietari a demolire un totale di 31 strutture di proprietà palestinese, sfollando 32 persone, tra cui 14 minori, e colpendo i mezzi di sussistenza di circa altre 680 persone. Anche a Gerusalemme Est, nel quartiere di Shu’fat, è stato demolito dai proprietari un edificio ad un piano, sfollando quattro famiglie (15 persone). Ciò ha fatto seguito a una risoluzione definitiva della Corte Suprema israeliana che ha stabilito che il terreno su cui erano state costruite le abitazioni apparteneva ai coloni; alle famiglie palestinesi sono stati concessi 20 giorni per sgomberare le loro case. Il provvedimento è contestato dai proprietari palestinesi che affermano di aver acquistato il terreno nel 1952. Inoltre, il 10 agosto, nel villaggio di Battir (Betlemme), le autorità israeliane hanno spianato e reso inagibile una strada rurale, compromettendo l’accesso alla terra a circa 100 famiglie (500 persone). Inoltre, nel quartiere di Beit Safafa, a Gerusalemme Est, circa 100 bambini sono stati penalizzati dalla demolizione di un ampliamento di un edificio destinato ad essere utilizzato come asilo. Il 22 agosto, nell’area di Ibziq (Tubas), almeno otto famiglie sono state costrette ad allontanarsi dalla loro residenza per un periodo di dieci giorni per consentire le esercitazioni militari israeliane. Per gli stessi motivi, altri quattro episodi di allontanamento temporaneo sono stati registrati in altre due comunità di Tubas.

In Cisgiordania, coloni israeliani hanno ferito almeno sei palestinesi, compreso un ragazzo di 15 anni [seguono dettagli]. In un episodio del 17 agosto, vicino al villaggio di Silat adh Dhahr (Jenin), coloni hanno investito con il loro veicolo un ragazzo; lo hanno condotto nell’insediamento israeliano di Homesh precedentemente evacuato, lo hanno legato a un albero e lo hanno picchiato fino a fargli perdere conoscenza. Due ore dopo, l’equipaggio di una jeep militare israeliana ha trovato il ragazzo e lo ha consegnato ad un’ambulanza. Il ragazzo è stato portato in ospedale dove è stato curato per contusioni e ustioni. Altri cinque palestinesi sono stati colpiti con pietre o aggrediti fisicamente: una donna nella zona H2 della città di Hebron controllata da Israele, un autista nel quartiere di Silwan a Gerusalemme Est e tre contadini a ‘Urif (Nablus). Inoltre, persone note o ritenute coloni israeliani hanno vandalizzato o rubato almeno 30 ulivi e alberelli di proprietà palestinese. In un raid ad ‘Asira al Qibliya a Nablus, coloni hanno lanciato pietre contro abitazioni e dato fuoco a terreni agricoli, causando danni. A Khirbet Zanuta (Hebron) sono stati registrati episodi che hanno avuto per protagonisti coloni e palestinesi locali; in un caso un contadino palestinese è stato arrestato dalle forze di sicurezza israeliane.

Persone note o ritenute palestinesi hanno lanciato pietre contro veicoli israeliani in transito sulle strade della Cisgiordania, ferendo tre coloni. Inoltre, secondo fonti israeliane, il lancio di pietre ha danneggiato almeno 22 auto israeliane.

¡

segue

Ultimi sviluppi (successivi al periodo di riferimento)

Il 24 agosto, durante un’operazione di ricerca-arresto israeliana, nel Campo profughi di Balata (Nablus), un ragazzo palestinese di 15 anni è stato colpito e ucciso dalle forze israeliane. [vedi  Zeitun ]

Il 25 agosto, un palestinese di 32 anni è deceduto per le ferite riportate il 21 agosto, durante una manifestazione tenutasi ad est della città di Gaza, dove era stato colpito da forze israeliane con arma da fuoco.




Israele sabota l’agricoltura palestinese con prodotti a basso costo

Amany Mahmoud

23 agosto 2021 – Al Monitor

Israele inonda i mercati palestinesi con grandi quantità di prodotti agricoli a basso costo per rovinare l’agricoltura palestinese.

I palestinesi denunciano che Israele distrugge e brucia i raccolti ed erode con prodotti a buon mercato il settore agricolo da cui gli agricoltori dipendono.

Alcuni dei principali raccolti durante i quali Israele infligge deliberatamente perdite agli agricoltori sono quelli delle olive e dell’uva: inonda i mercati palestinesi in Cisgiordania con grandi quantità di questi prodotti a prezzi inferiori, ostacolando la produzione dei palestinesi e incoraggiando la loro dipendenza economica da Israele.

In particolare la stagione della vendemmia, che inizia in agosto, è minacciata dalla concorrenza israeliana. Israele coltiva terreni agricoli nelle colonie che si trovano nei pressi delle città palestinesi e invia migliaia di tonnellate di uva nei mercati palestinesi. Israele utilizza fertilizzanti e altri prodotti chimici nella coltivazione dell’uva per fare in modo che il prodotto maturi in fretta.

In Cisgiordania i palestinesi coltivano circa 64 milioni di m2 di vigne, in cui sono impegnati circa 10.000 agricoltori palestinesi. Secondo il Consiglio Palestinese di Frutta e Uva, i palestinesi producono annualmente circa 50 milioni di kg di uva, di cui circa 27 milioni nel governatorato di Hebron, 6 milioni in quello di Betlemme e altri 6 milioni in quello di Jenin. In Cisgiordania l’uva rappresenta circa il 12% della produzione agricola totale della Palestina.

I palestinesi esportano in Israele grandi quantità di vari prodotti agricoli, per un valore annuo di 300 milioni di dollari. I palestinesi della Cisgiordania esportano quotidianamente verso Israele circa 280.000 kg di prodotti agricoli. Nel contempo, le importazioni agricole annuali palestinesi da Israele raggiungono circa il miliardo di dollari.

Per proteggere i prodotti palestinesi l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) vieta l’importazione di uva coltivata nelle colonie e considera ogni transazione commerciale con Israele un delitto. A dispetto di questo divieto, il mercato palestinese è inondato da prodotti israeliani proibiti e con marchio israeliano, importati illegalmente dai principali commercianti palestinesi nel cuore della notte per evitare i posti di blocco palestinesi.

Mahmoud Abou Merhi, agricoltore palestinese e attivista contro le colonie ebraiche, proprietario di un vigneto di circa 2 ettari, dice ad Al-Monitor che la vendemmia è uno dei raccolti agricoli più importanti in Palestina, e le famiglie palestinesi la festeggiano con canti tradizionali nelle vigne perché porta abbondanza e prosperità ai coltivatori.

“Tuttavia ora abbiamo timore della stagione della vendemmia: ogni anno i coloni ebrei distruggono deliberatamente le nostre vigne e sabotano il raccolto, cospargendo pesticidi tossici sui campi che lo distruggono o cacciando gli agricoltori e le loro famiglie dai terreni agricoli,” afferma.

Abou Merhi teme che la vendemmia di quest’anno vada persa, dato che il mercato locale è invaso da una grande quantità di uva israeliana a buon mercato. “Grandi quantità di uva palestinese rischiano di andare a male a causa delle temperature elevate e delle eccedenze di prodotti israeliani sul mercato palestinese.”

L’agricoltore palestinese Atef Abou Walid dice ad Al Monitor che Israele sta cercando di espellere i coltivatori palestinesi dalle loro terre e li spinge ad abbandonare questa professione, ereditata di generazione in generazione, in modo da insediare avamposti coloniali ed espanderli sulle terre dei cittadini che si trovano presso le colonie.

“Quando i palestinesi vanno al mercato vedono grandi quantità di frutta e verdura israeliane a prezzi che fanno concorrenza ai prodotti locali. A volte i prodotti israeliani costano meno di quelli palestinesi. Persino se la qualità è inferiore, spesso i cittadini finiscono con il comprare i prodotti israeliani a buon mercato,” nota.

Abu Wadi aggiunge: “Nonostante le gravi perdite che subiamo, i nostri agricoltori continueranno a coltivare le nostre terre per impedire che Israele raggiunga il suo obiettivo di confiscarle.” Egli accusa Israele di imporre restrizioni supplementari ai coltivatori palestinesi, in quanto di recente ha iniziato a chiudere le strade agricole che portano ai vigneti di Hebron, nel sud della Cisgiordania, isolando circa 2.000 ettari di terreni, molti dei quali sono vigneti.

Le attrezzature israeliane avanzate, i prodotti chimici, i fertilizzanti e i moderni sistemi di irrigazione aiutano gli agricoltori israeliani a offrire i loro prodotti agricoli, e in particolare l’uva, circa un mese prima che la produzione palestinese arrivi sul mercato. Israele vieta di fornire ai coltivatori palestinesi queste tecnologie e materiali, in particolare pesticidi e fertilizzanti chimici, che permettono l’allungamento della durata della vita della loro uva e ne migliorano sapore e qualità.

Fathi Abou Ayashn, direttore del Consiglio di Frutta e Uva, dichiara ad Al Monitor che i mercati palestinesi sono stati invasi da circa 27.000 tonnellate di uva sempre matura, il che attira l’attenzione dei consumatori.

“I mercati palestinesi non sono protetti, quindi i prodotti israeliani li possono inondare,” prosegue. Ciò è dovuto all’assenza di controlli efficaci dei prodotti israeliani sul mercato palestinese. I mercati palestinesi e israeliani sono strettamente interconnessi, il che permette a molti commercianti di importare in modo massiccio i prodotti e i beni israeliani.”

Abou Ayyash spiega che le autorità competenti che controllano il mercato non hanno risorse finanziarie, cosa che indebolisce la capacità dei palestinesi di controllare molti beni e merci. “Non abbiamo neppure standard tecnici vincolanti per tutti i beni commercializzati in Palestina e pochissimi procedimenti giudiziari sono stati avviati contro i trasgressori.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Proteste a Gaza contro l’assedio

 

25 Agosto 2021 – Al Jazeera

Le forze israeliane sparano proiettili veri e lacrimogeni mentre centinaia di palestinesi chiedono a Israele di allentare il blocco soffocante di Gaza.

Centinaia di palestinesi hanno manifestato a ridosso della recinzione israeliana nella Striscia di Gaza assediata chiedendo a Israele di allentare il blocco soffocante dopo pochi giorni che un’analoga manifestazione tenuta il fine settimana ha dato seguito a degli scontri letali con l’esercito israeliano.

I militari israeliani, che prima della manifestazione di mercoledì avevano potenziato le loro forze, hanno dichiarato di aver fatto uso di lacrimogeni e proiettili veri per disperdere la folla nella parte meridionale di Gaza. I medici palestinesi hanno riferito che sono rimaste ferite almeno nove persone.

La rete televisiva Al Aqsa TV, gestita da Hamas, il gruppo palestinese che governa Gaza, ha mostrato una massa di persone avvicinarsi alla recinzione per poi fuggire all’arrivo di un veicolo militare israeliano. Si poteva vedere il gas lacrimogeno fluttuare nel vento.

L’esercito ha affermato di aver utilizzato proiettili calibro 22, un tipo di arma che dovrebbe essere meno letale delle armi da fuoco più potenti, ma che può essere mortale.

Youmna El Sayed di Al Jazeera, nel riferire sulle proteste a Gaza, ha affermato che nella città meridionale di Khan Younis, nella Striscia di Gaza, sono state sparate decine di lacrimogeni contro i manifestanti.

“Oggi già tre palestinesi sono stati feriti da proiettili veri e decine sono rimasti soffocati dai lacrimogeni sparati contro di loro”, dice El Sayed.

Sabato hanno manifestato centinaia di palestinesi dando origine a violenti scontri.

Il ministero della Salute ha comunicato che durante le manifestazioni di sabato sono stati feriti dal fuoco israeliano più di 40 palestinesi, tra cui un ragazzo di 13 anni colpito alla testa.

Uno dei feriti, Osama Dueji, 32 anni, è morto mercoledì in seguito ad una ferita da proiettile a una gamba.

Hamas lo ha identificato come un componente del suo gruppo armato e lo ha pianto come un “eroico martire”.

Mercoledì un soldato israeliano, rimasto gravemente ferito quando un palestinese gli ha sparato alla testa a distanza ravvicinata attraverso un buco nel muro, è stato trasportato in ospedale.

Dopo la sparatoria, nelle prime ore di domenica, l’esercito israeliano ha bombardato i depositi di armi di Hamas nella Striscia di Gaza.

Hamas ha organizzato le proteste nel tentativo di fare pressione su Israele perché allenti il blocco di Gaza.

Israele ed Egitto hanno mantenuto il blocco da quando Hamas ha preso il controllo di Gaza nel 2007, un anno dopo aver vinto le elezioni palestinesi.

Il blocco ha devastato l’economia di Gaza e ha alimentato un tasso di disoccupazione che si aggira intorno al 50%. Israele ha affermato che il blocco, che limita fortemente il movimento di merci e persone dentro e fuori Gaza, ha lo scopo di impedire ad Hamas di rafforzare le sue capacità militari.

Dal 2007 Israele e Hamas hanno combattuto quattro guerre e numerose schermaglie e, più recentemente, a maggio, un’escalation di violenza di 11 giorni che ha ucciso 260 palestinesi e 13 persone in Israele.

Hamas ha accusato Israele di aver violato, inasprendo il blocco, il cessate il fuoco che ha posto fine ai combattimenti. In particolare ha limitato l’ingresso dei materiali necessari per la ricostruzione.

Israele ha chiesto la restituzione delle spoglie di due soldati uccisi nella guerra del 2014, così come la riconsegna di due civili israeliani che si ritiene siano prigionieri di Hamas.

La scorsa settimana Israele ha raggiunto un accordo con il Qatar che consente al Paese del Golfo di riprendere il versamento degli aiuti a migliaia di famiglie povere di Gaza.

Con il nuovo metodo, i pagamenti saranno consegnati dalle Nazioni Unite direttamente alle famiglie, dopo che queste siano state passate al vaglio da Israele. In passato, gli aiuti venivano consegnati in contanti direttamente ad Hamas.

I pagamenti dovrebbero iniziare nelle prossime settimane, fornendo un po’ di sollievo a Gaza.

Ma la tensione resta alta. Oltre alle manifestazioni, Hamas ha lasciato che i suoi sostenitori lanciassero palloni incendiari oltre il confine, provocando diversi incendi nel sud di Israele. Israele ha lanciato una serie di raid aerei sugli obiettivi di Hamas a Gaza.

L’Egitto, che fa da mediatore tra Israele e Hamas, si è impegnato per a negoziare una tregua a lungo termine tra gli acerrimi nemici.

Questa settimana l’Egitto, in segno di insofferenza nei confronti di Hamas, ha chiuso il suo valico di frontiera con Gaza, il principale punto di uscita a disposizione delle persone del territorio per viaggiare all’estero.

 

 

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Cisgiordania: le forze israeliane uccidono un adolescente palestinese durante una retata in un campo profughi

 Imad Khaled Salah Hashash è stato colpito alla testa dalle forze israeliane durante una retata nel campo profughi di Balata vicino a Nablus

Redazione di MEE

24 agosto 2021 –  Middle East Eye

Martedì un soldato israeliano ha sparato e ucciso un adolescente palestinese con proiettili veri dopo un’irruzione delle forze di sicurezza in un campo profughi nella Cisgiordania occupata.

Il ministero della Salute palestinese ha confermato che il sedicenne Imad Khaled Salah Hashash è morto dopo essere stato colpito alla testa dalle forze israeliane nel campo profughi di Balata, vicino a Nablus.

Secondo l’agenzia Wafa News il ministero ha riferito che Hashash è stato portato d’urgenza all’ospedale chirurgico Rafidia dove è stato dichiarato morto.

Le immagini pubblicate in rete mostrano la famiglia di Hashash che regge il suo cadavere dopo averlo avvolto in un sudario funebre blu.

L’esercito israeliano ha affermato che Hashash è stato colpito da un colpo di arma da fuoco quando i soldati hanno visto un abitante lanciare un “oggetto di grandi dimensioni” durante una retata nel campo profughi.

“Uno dei soldati ha risposto aprendo il fuoco ed è stato verificato che qualcuno è stato colpito”, ha affermato una dichiarazione dell’esercito israeliano, senza entrare nello specifico della morte dell’adolescente.

All’inizio di questo mese durante una protesta a Nablus le truppe israeliane hanno sparato e ucciso un palestinese ferendone altri.

Secondo il ministero della Salute palestinese il deceduto era stato ricoverato d’urgenza all’ospedale di Nablus per poi morire in seguito alle ferite riportate.

Il servizio di ambulanze della Mezzaluna Rossa Palestinese ha aggiunto che altri 21 palestinesi sono stati colpiti dalle truppe israeliane, la maggior parte con proiettili di gomma.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Il valico di Rafah e l’angosciosa procedura per i palestinesi di Gaza

Il viaggio dal Cairo a Rafah può durare fino a tre giorni a causa dei periodici controlli e delle ripetute perquisizioni dei bagagli. “I funzionari egiziani non dimostrano nessun rispetto, neppure per i malati o gli anziani.”

Motasem A. Dalloul

24 agosto 2021 – Monitor de Oriente

 

Il giovane Ayman Adly si è laureato in farmacia all’università Al Azhar di Gaza nel 2009. Dato l’alto tasso di disoccupazione provocato dall’assedio e dalle ripetute offensive militari lanciate contro l’enclave costiera da parte di Israele, non ha potuto trovare lavoro.

“Mi sono connesso a internet ed ho seguito decine di account di reti social e pagine specializzate nel mettere in contatto chi cerca un impiego con datori di lavoro all’estero,” mi dice. “Non c’è voluto molto perché fossi preselezionato per un colloquio. L’azienda mi ha chiesto se potevo lavorare negli Emirati Arabi Uniti (EAU) e ho detto di sì. Lì sono iniziate le difficoltà.”

L’ostacolo successivo è stato il valico di Rafah, dal 2007 [data d’inizio dell’assedio israeliano, ndtr.] l’unica uscita verso il resto del mondo per la maggioranza dei palestinesi della Striscia di Gaza. Per utilizzarlo aveva bisogno di un passaporto, per cui ha raccolto come dovuto tutta la documentazione richiesta ed ha presentato domanda. L’Autorità Nazionale Palestinese di Ramallah  ci ha messo due mesi a rilasciargli il passaporto.

“Mi è stato rilasciato nel 2009 ed è scaduto nel 2014,” dice. “Il secondo è stato rilasciato in due settimane nel 2015 ed è scaduto nel 2020.” Ne ha subito chiesto un terzo e l’ha ottenuto in una settimana. Quindi Adly ha avuto tre passaporti, e non ne ha utilizzato nessuno per viaggiare.

“Con in mano il primo passaporto sono andato al valico di Rafah e, dopo aver passato sul lato egiziano circa 20 ore in una sala per immigrati strapiena di gente, un impiegato mi ha chiamato per nome, mi ha restituito il passaporto e mi ha detto che il mio nome era sulla lista nera e che avevo il divieto di ingresso o di passaggio in Egitto.”

Con quella breve frase l’impiegato egiziano ha spezzato le speranze di Adly di arrivare al suo nuovo lavoro negli EAU. Continuerà a provarci, dice, ma ci vorrà molta pazienza.

Secondo il ministero degli Interni palestinese a Gaza c’è un elenco di più di 27.000 persone che devono viaggiare passando per il valico di Rafah. Le autorità egiziane consentono il passaggio solo a 350 persone attraverso la stanza normale e a circa 100 da quella VIP al giorno quando il valico è aperto (ci sono frequenti chiusure). Quelli che devono viaggiare ci mettono mesi per passare da Rafah.

“Il numero di persone che vogliono viaggiare aumenta costantemente,” spiega Iyad Al-Bozom, portavoce del ministero dell’Interno [di Gaza, ndtr.]. “Abbiamo chiesto agli egiziani di aumentare la quota giornaliera di persone che possono passare.” La richiesta è ovviamente caduta nel nulla.

Cinque anni fa l’esercito egiziano ha creato l’impresa Ya Hala per il turismo e i viaggi. Organizza viaggi VIP per i palestinesi di Gaza che possono pagare. All’inizio lavorava dietro le quinte. Dopo le proteste della Grande Marcia del Ritorno del 2018 e gli accordi raggiunti tra Israele, Egitto e i gruppi della resistenza palestinese a Gaza, il valico è rimasto aperto regolarmente e questa impresa ha iniziato a lavorare alla luce del sole.

Si è accordata con agenzie di viaggio di Gaza che hanno cominciato a promuovere i suoi servizi. Le autorità egiziane hanno costruito una sala immigrazione speciale per i suoi clienti.

Hatem, che non ha voluto fornire il suo cognome, è un agente di un’agenzia di viaggi e turismo con sede a Gaza. “Registriamo da 100 a 150 passeggeri VIP al giorno,” dice. “Facciamo controlli di sicurezza a ognuno di loro per 100 dollari. Se la persona non è sulla lista nera pagherà tra i 400 e i 500 dollari per passare sul lato egiziano del valico e per un taxi fino al Cairo.”

Questi VIP non subiscono ulteriori controlli di sicurezza e i taxi li portano dal confine direttamente al Cairo. Non si fermano a nessuno dei controlli militari e i loro bagagli non vengono controllati. Il viaggio al Cairo dura solo 6 ore, al massimo 7 o 8. “Tutti i soldi che facciamo pagare vanno a finire a imprese egiziane, sicuramente controllate dall’esercito,” sottolinea Hatem. “Noi riceviamo solo qualche provvigione.”

Tuttavia la gente come Ayman Adly non ha denaro sufficiente per pagare così tanto e passare da Rafah come VIP. Lui e quelli come lui possono aspettare anni prima di viaggiare.

Quelli che arrivano alla sala immigrazione egiziana possono aspettare molto tempo: le 20 ore di Adly non sono rare. I servizi della sicurezza nazionale egiziana interrogano molti sulla loro appartenenza politica e sulle attività politiche e religiose.

Sameer Abu Jazar è appena tornato a Gaza dal Qatar. Descrive il suo viaggio dal Cairo a Gaza come “la via verso l’inferno”. Tutti i viaggiatori che non sono VIP devono sopportare il sole ardente per 12 ore nel posto di controllo di Al-Faradan, nei pressi del Canale di Suez.

“Le forze di sicurezza egiziane controllano i bagagli dei palestinesi e confiscano quasi tutti gli apparecchi elettronici, compresi i computer portatili e i telefonini,” spiega Abu Jazar. “Lasciano solo un telefono a viaggiatore e a volte nessun computer portatile. Confiscano profumi e molte altre cose. A volte anche cibo.”

Ha aspettato con altre centinaia di persone dalle 6 del mattino fino alle 10 di notte all’aperto. Non c’è un posto in cui proteggersi e i servizi sono scarsi. “Non ci sono gabinetti. Se hai bisogno ti devi allontanare, trovare un posto un po’ appartate e farla lì.”

Il viaggio dal Cairo a Rafah può durare fino a tre giorni, a causa dei controlli regolari e delle continue perquisizioni del bagaglio. “I funzionari egiziani non dimostrano alcun rispetto, neppure per malati o anziani,” afferma Abu Jazar.

Ciò è quanto aspetta i palestinesi che vogliono viaggiare da Gaza attraverso il valico di Rafah. È un percorso doloroso, che però devono sopportare se sperano di ottenere un volo che li porti al luogo di studio, di cura o a un nuovo lavoro.

“Se avessi un’alternativa per tornare a Gaza l’avrei presa,” conclude Abu Jazar. “Qualunque cosa dev’essere meglio del modo infernale in cui ci trattano gli egiziani. Qualunque cosa.”

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Monitor de Oriente.

 

(traduzione dallo spagnolo di Amedeo Rossi)

 

 




Israele consente in sordina agli ebrei di pregare nel complesso di Al Aqsa: rapporto.

24 agosto 2021 – Al Jazeera

Il NYT informa che il governo israeliano sta consentendo agli ebrei di pregare nel complesso della moschea di Al- Aqsa, alimentando il timore di modifiche allo status quo del luogo sacro.

Il New York Times informa che il governo israeliano sta consentendo agli ebrei di pregare nel complesso della moschea di Al-Aqsa, noto agli ebrei come il Monte del Tempio, nella Gerusalemme occupata, con un’iniziativa che rischia di modificare lo status quo del luogo.

In un articolo pubblicato martedì il Times afferma che il rabbino Yehudah Glick ha fatto “ben poco per nascondere le sue preghiere” e le ha persino diffuse in diretta video.

L’area è all’interno delle mura della Città Vecchia di Gerusalemme e fa parte del territorio che Israele ha conquistato nella guerra del 1967 in Medio Oriente. Israele ha occupato [in realtà ha annesso, ndtr.] Gerusalemme est nel 1980, con un’iniziativa che non è mai stata riconosciuta dalla comunità internazionale.

Dal 1967 la Giordania e Israele hanno concordato che il Waqf, fondazione islamica, avrebbe avuto il controllo su questioni relative al complesso, mentre Israele si sarebbe occupato della sicurezza esterna. Ai non musulmani sarebbe stato consentito di entrare nel luogo durante gli orari di visita, ma non di pregarvi.

Secondo il Times, Glick, nato negli USA ed ex- deputato di destra, da decenni guida i tentativi di modificare lo status quo e afferma di definire i suoi tentativi come una questione di “libertà religiosa”.

Anche altri movimenti in ascesa, come quello del Devoto del Monte del Tempio e l’Istituto del Tempio, hanno sfidato il divieto del governo israeliano agli ebrei di entrare nel complesso della moschea di Al-Aqsa.

L’accordo formale in vigore, accettato da Giordania e Israele, intende evitare conflitti nel luogo particolarmente delicato.

Ma le forze israeliane consentono regolarmente a gruppi, a volte centinaia,  di coloni ebrei che vivono nei territori palestinesi occupati di affollare il complesso di Al-Aqsa con la protezione della polizia e dell’esercito, diffondendo tra i palestinesi il timore che Israele si impossessi del sito.

Nel 2000 il politico israeliano Ariel Sharon entrò nel luogo sacro accompagnato da circa 1.000 poliziotti israeliani. Il suo ingresso nel compound scatenò la Seconda Intifada, nella quale vennero uccisi più di 3.000 palestinese e circa 1.000 israeliani.

Nel 2017 il governo israeliano installò metal detector agli ingressi del luogo, cosa che portò a gravi scontri tra i palestinesi e le forze israeliane.

A maggio le truppe israeliane hanno fatto irruzione varie volte nella moschea di Al-Aqsa, e l’escalation che ne è seguita ha portato all’attacco israeliano di 11 giorni contro la Striscia di Gaza assediata.

“Non bloccateli più”

Secondo Glick la politica ha iniziato a cambiare sotto il governo dell’ex-primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che ha guidato partiti di estrema destra ed è stato uno strenuo alleato del presidente USA Donald Trump.

“Glick dice che cinque anni fa la polizia ha iniziato a consentire a lui e ai suoi sostenitori di pregare sul monte in modo più palese,” afferma l’articolo del Times.

Benché questa politica non sia mai stata ampiamente pubblicizzata per evitare reazioni, il numero è stato “incrementato in sordina.”

Nonostante gli accordi in vigore, in realtà “ogni giorno decine di ebrei ora pregano apertamente in un luogo appartato del lato orientale del sito, e i poliziotti israeliani che li scortano non cercano più di impedirglielo,” racconta il Times.

Israele limita già l’ingresso dei palestinesi nel complesso in vario modo, tra cui il muro di separazione, costruito negli anni 2000, che riduce l’afflusso di palestinesi dalla Cisgiordania occupata all’interno di Israele.

Dei circa 3 milioni di palestinesi della Cisgiordania viene consentito l’accesso a Gerusalemme di venerdì [giorno di preghiera per i musulmani, ndtr.] solo a quelli al di sopra di una certa età, mentre altri devono presentare richiesta alle autorità israeliane per avere un permesso molto difficile da ottenere.

Le restrizioni provocano già gravi ingorghi e tensioni ai checkpoint tra la Cisgiordania e Gerusalemme, dove in centinaia di migliaia devono passare attraverso controlli di sicurezza per entrare nella moschea e pregare.

 

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




La nostra arte si occupa di ingiustizie reali, alcune in Palestina: non sorprende abbia incontrato ostilità

Forensic Architecture

20 agosto 2021 – The Guardian

La nostra lotta per ripristinare un’affermazione nella mostra a Manchester in realtà riguarda cosa si può o non può dire negli spazi culturali

A Manchester mercoledì 18 manifestanti si sono ripresi una delle principali istituzioni culturali della città. Nonostante la pioggia, attivisti filo-palestinesi si sono radunati davanti al portone chiuso della galleria d’arte Whitworth, parte dell’università di Manchester. È stato grazie alla loro azione insistente e a 13.000 lettere inviate alla galleria, che è stata ripristinata una parte della nostra mostra, la dichiarazione scritta intitolata: “Forensic Architecture [Architettura forense] sta dalla parte della Palestina”. La mostra che dietro nostre insistenze era stata chiusa dopo la rimozione unilaterale dell’enunciato, è ora riaperta.

Sabato 15 agosto un post sul blog del sito web dell’organizzazione UK Lawyers for Israel [Giuristi Britannici per Israele] (UKLFI) aveva annunciato che, in seguito al loro intervento, la frase era stata rimossa dalla nostra mostra, “Cloud Studies” [Studi di Nubi]. Quando l’abbiamo appreso non ci siamo poi molto sorpresi. Lo stesso gruppo aveva già criticato una dichiarazione di solidarietà con i palestinesi pubblicata a giugno sul sito della Whitworth ed era riuscito a convincere l’università a toglierla. E questo non era per niente il primo attacco da parte di UKLFI contro di noi come organizzazione. Nel 2018, quando siamo stati nominati per il Turner Prize [prestigioso premio britannico di arte contemporanea, ndtr.], l’UKLFI aveva sollecitato la Tate [noto complesso museale britannico, ndtr.] a non consegnarci il premio adducendo il motivo ridicolo che i documenti che avevamo pubblicato sulla Palestina equivalevano a “una moderna ‘accusa del sangue’ [accusa antisemita diffusa dall’XI secolo secondo cui alcuni ebrei berrebbero sangue infantile per compiere riti di magia nera, ndtr.] che avrebbe potuto promuovere antisemitismo e attacchi contro gli ebrei”.

Forensic Architecture non è esattamente un collettivo di artisti come qualcuno ci descrive. Siamo piuttosto un gruppo universitario di ricerca che opera in tutto il mondo con comunità in prima linea nei conflitti. Noi sviluppiamo tecniche e strumenti architettonici per raccogliere prove delle violazioni dei diritti umani da usare nelle aule di tribunali nazionali e internazionali, in inchieste parlamentari, tribunali per i diritti dei cittadini, forum di comunità, istituzioni accademiche e media. Noi esponiamo i risultati delle nostre ricerche anche in gallerie e musei quando altri siti affidabili sono inaccessibili.

Perciò, seppure sorpresi dalla nomina del Turner Prize, abbiamo scelto di usare la piattaforma per rivelare le affermazioni ufficiali israeliane sull’uccisione del beduino palestinese Yaakub Abu al-Qi’an per mano di poliziotti israeliani il 18 gennaio 2017. Abbiamo collaborato con gli abitanti del villaggio palestinese Umm al-Hirane e con attivisti per redigere un’inchiesta che collettivamente smentisce l’affermazione dei poliziotti israeliani secondo cui al-Qi’an era un “terrorista” e al contrario svela l’uccisione efferata e il rozzo tentativo di occultarla. Era difficile contestare le conclusioni dell’inchiesta e persino l’allora primo ministro di estrema destra, Benjamin Netanyahu, è stato alla fine costretto a scusarsi per l’omicidio.

Il nostro lavoro rivela l’avvento di un nuovo tipo di arte politica, meno interessata a commentare che a intervenire in contesti politici. È con questo spirito che abbiamo esposto Cloud Studies alla Whitworth. Il titolo si riferisce alla comparsa della meteorologia nel diciannovesimo secolo con il lavoro combinato di scienziati e artisti, ma, invece di occuparsi del tempo, la mostra mappa le odierne nubi tossiche: dai gas lacrimogeni negli USA, in Palestina e in Cile, agli attacchi chimici in Siria, a quelli prodotti dalle industrie estrattive in Argentina, alle nuvole di CO2 create dagli incendi nelle foreste in Indonesia.

Un elemento chiave della mostra è il nostro studio sul razzismo ambientale in Louisiana, nello specifico sul “corridoio petrolchimico” intensamente industrializzato lungo il fiume Mississippi, fra Baton Rouge e New Orleans. Gli abitanti delle comunità, a maggioranza nera, che vivono nei pressi di questi impianti respirano una delle arie più tossiche del Paese e registrano i numeri più elevati di casi di tumore.

A maggio, mentre stavamo lavorando alla mostra, è cominciata la serie più recente di attacchi israeliani contro Gaza. Abbiamo seguito da vicino collaboratori, amici ed ex dipendenti a Gaza e altrove in Palestine che ci mandavano in tempo reale immagini orribili delle distruzioni che le forze armate israeliane stavano arrecando alle loro case e aziende. Mentre assistevamo al sorgere di nubi tossiche sopra gli stabilimenti chimici bombardati di Beit Lahia ci sembrava di vedere una rappresentazione dal vivo dei nostri ‘Studi di nubi’.

Gli attacchi si sono estesi anche a istituzioni artistiche: l’artista Emily Jacir, nostra cara amica palestinese, ci ha mandato video del raid dell’esercito israeliano contro Dar Jacir, uno spazio indipendente e vitale gestito da artisti a Betlemme.

La nostra dichiarazione, la cui inclusione nella mostra era stata approvata in fase di progettazione dai curatori della Whitworth, è stata scritta mentre si svolgevano questi attacchi. Abbiamo usato termini come “pulizia etnica” e “apartheid” per descrivere le politiche del governo israeliano in Palestina perché descrivono la realtà della vita palestinese, sono in linea con il linguaggio delle principali organizzazioni israeliane e internazionali per i diritti umani e sono naturalmente state usate in Palestina per decenni. Analogamente il termine “colonialismo di insediamento” è stato usato estensivamente dagli studiosi per descrivere le politiche israeliane in Palestina. Se tali termini sono offensivi, essi sono ancora più offensivi per quelli che sperimentano quotidianamente l’impatto di tali politiche. Le università devono essere luoghi dove tali categorie possono essere presentate, sviluppate e discusse e la nostra battaglia per ripristinare la dichiarazione riguardava in realtà quello che si può dire in un contesto accademico e culturale.

Compiacere gruppi come UKLFI, un’organizzazione che ha ospitato un evento pubblico a cui era presente Regavim, l’organizzazione israeliana di coloni di estrema destra che sostiene la demolizione delle case dei palestinesi, non è solo una violazione del principio della libertà di espressione, ma mostra anche un’assenza di integrità morale. Il nostro è solo un caso, e non uno degli esempi più significativi, della campagna di diffamazione e di attacchi giuridici contro artisti e intellettuali palestinesi, molti dei quali subiscono la repressione per mano delle autorità di occupazione israeliane, e censura e restrizioni della loro libertà di espressione a livello internazionale. Secondo noi la campagna di UKLFI per screditare Forensic Architecture fa parte di questi tentativi di far tacere e intimidire. Il fatto che uno sforzo concertato sia riuscito a ribaltare la posizione dell’Università di Manchester dimostra che a tali azioni si può opporre una resistenza a livello collettivo.

Questa lotta alla Whitworth ha anche qualcosa da dire ai responsabili delle politiche culturali: mentre le gallerie si orientano sempre di più ad ospitare arte politica, allo stesso modo istituzioni e l’opinione pubblica non dovrebbero essere sorpresi quando l’arte politica è, appunto, politica.

Forensic Architecture è un’organizzazione di ricerca che indaga violazioni di diritti umani, inclusa la violenza commessa da Stati, forze di polizia, militari e corporazioni.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Sono cresciuto guardando i coloni attaccare il mio villaggio palestinese. Adesso stanno diventando sempre più sfrontati. Ho paura.

Basil Al-Adraa

17 agosto 2021- Haaretz

Gli attacchi dei coloni contro le comunità palestinesi stanno diventando più gravi e coordinati e ora si usano anche le armi. Ecco come riescono a farla franca

Nel 2005, il giorno del mio decimo compleanno, ho visto per la prima volta i coloni attaccare la mia famiglia. Ricordo che papà stava arando la terra di famiglia nelle colline a sud di Hebron mentre poco lontano io e la mamma lo guardavamo. Ricordo di averle preso la mano quando un gruppo di uomini mascherati provenienti dal vicino avamposto di coloni israeliani correva verso di noi lanciando pietre contro mio padre. Lui cominciò a filmare gli aggressori mentre io cercavo di raggiungerlo, ma la mamma mi fermò.

“Non muoverti,” mi disse e notai che era terrorizzata. 

Adesso ho 25 anni. Sono cresciuto con questi attacchi la cui frequenza è aumentata e che sono diventati una parte centrale della mia vita, specialmente da quando la situazione è peggiorata in questi ultimi mesi. Vivo a Twani, un piccolo villaggio palestinese sulle colline meridionali della Cisgiordania e, come i miei genitori, sono un attivista che crede nella resistenza non violenta all’occupazione. Una macchina fotografica e un taccuino sono tutto quello che ho a mia disposizione.

Negli ultimi due mesi, dopo la più recente guerra contro Gaza, gli attacchi dei coloni sono diventati più gravi e coordinati ed essi hanno cominciato a usare le armi.

Recentemente ho collaborato a un’inchiesta giornalistica che ha rivelato che a maggio, in un solo giorno, mentre i caccia israeliani sganciavano bombe su Gaza, in quattro zone diverse della Cisgiordania sono stati ammazzati almeno quattro palestinesi dopo che coloni armati avevano assaltato contemporaneamente i loro villaggi, con i soldati israeliani che assistevano o partecipavano agli attacchi.

L’uso massiccio di armi durante attacchi premeditati dei coloni è un fenomeno nuovo e pericoloso. Il mio villaggio, Twani, è stato preso di mira. Ogni sabato durante gli ultimi due mesi, coloni dall’avamposto di Havat Ma’on hanno attaccato violentemente le nostre case. Sono riuscito a filmarne quattro.

In uno dei miei video si vede un gruppo di coloni mascherati invadere i terreni del nostro villaggio, impugnando bastoni di legno e fionde. Cominciano a bruciare i nostri campi e a lanciare pietre contro di noi mentre i soldati israeliani accanto a loro non fanno nulla.

Sono accorso con altri abitanti e abbiamo cercato di bloccarli, ma l’esercito israeliano ci ha respinti con granate stordenti. A questo punto uno dei coloni ha sparato parecchie volte con la pistola verso di noi. Il video in cui ho ripreso la sparatoria è mosso perché mi tremavano le mani dalla paura. Quando mi sono girato, ho scoperto che per fortuna nessuno dei miei amici era stato colpito. I soldati hanno assistito a tutto ciò senza far nulla.

Gli attacchi dei coloni israeliani non sono casuali né riflettono una qualche tendenza a esplosioni di violenza. Fanno quello che fanno per creare degli incidenti. Loro vogliono la nostra terra.

Durante gli ultimi due mesi i coloni hanno fondato tre nuove fattorie vicino a casa mia. Hanno ricevuto dall’esercito israeliano oltre 4.000 dunam (circa 400 ettari), una vasta area di terra che era stata espropriata ai palestinesi nel 1980 e dichiarata “terra statale”. Intere comunità palestinesi usano ogni giorno queste terre per scopi agricoli e per allevare pecore e la violenza inflitta contro di loro è uno strumento centrale per dissuaderli dal continuare a farlo. La terra era stata rubata ai palestinesi legalmente, dallo Stato: questa è violenza “legale”. La violenza illegale dei coloni non fa che completare questo processo.

Capire l’intreccio fra gli attacchi dei coloni, e le leggi razziste che le completano, è importante. Quattro meccanismi e pratiche legali del regime militare meritano un’attenzione speciale.

Secondo Peace Now [Ong israeliana contraria all’occupazione, ndtr.], per prima cosa lo Stato espropria terre palestinesi dichiarandole ‘terre statali’ usando una legge molto discriminatoria e poi assegnando il 99,76% di questi terreni solo ai coloni.

Secondo, le IDF [Forze di Difesa Israeliane, l’esercito israeliano, ndtr.] fingono di non vedere gli avamposti che vengono costruiti illegalmente su queste cosiddette “terre statali ” e permettono loro di collegarsi alla rete elettrica e idraulica.

Terzo, le IDF impediscono di collegarsi ad acqua ed elettricità alla maggior parte delle comunità palestinesi nella mia zona sotto diretto controllo militare in una zona definita dagli Accordi di Oslo “Area C” e respingono il 98% delle nostre richieste di permessi edilizi.

Quarto, in questo contesto di spossessamento, quando ci sono violenze da parte dei coloni la polizia non indaga attivamente e solo raramente arresta i colpevoli israeliani. Le ricerche di Yesh Din, un’associazione contraria all’occupazione, indicano che, fra il 2005 e il 2014, in Cisgiordania, il 91% delle denunce presentate dai palestinesi alla polizia israeliana sui reati politici commessi da israeliani si sono conclusi senza un rinvio a giudizio.

Nel 2019 mi sono personalmente trovato a fronteggiare le conseguenze di omissioni sistematiche della polizia. Era una giornata di sole e ho ricevuto una telefonata da un vicino che con voce tremante mi ha detto che un gruppo di coloni stava tirando pietre contro di lui e la sua famiglia.

Con la macchina fotografica in mano sono corso verso il campo da dove mi avevano telefonato e ho visto sei coloni e un cane. Quando ho cominciato a filmarli, uno di loro mi ha aizzato contro il cane che mi ha morso la mano. Ho sentito un dolore intenso e ho notato che stavo sanguinando.

Quando i soldati sono arrivati si sono rifiutati di chiamare un’ambulanza. Sono rimasto a terra sanguinante per circa 40 minuti. Finalmente è arrivata un’ambulanza palestinese e mi ha portato all’ospedale.

Due giorni dopo essere stato dimesso, sono andato direttamente a una stazione di polizia israeliana in una colonia nelle vicinanze. Non mi è facile entrare in una colonia, ma l’ingiustizia che avevo subito era così dolorosa che dovevo andarci. Come palestinese che vive sotto l’occupazione militare straniera questo è l’unico modo per chiedere giustizia.

Fortunatamente avevo ripreso tutta la scena. Nel mio video la faccia del colono si poteva vedere con chiarezza. Eppure il poliziotto che stava raccogliendo la mia deposizione ha rivoltato tutto contro di me. Mi ha chiesto: “Cosa stava facendo là? Perché non è scappato? Perché stava filmando? Perché porta altri attivisti a filmare e a causare problemi?”

Alla fine, dopo una giornata lunga e snervante, sono riuscito a presentare la mia denuncia. Non sorprende che nessuno sia mai stato arrestato. Recentemente lo stesso colono ha aizzato il cane contro altre due persone del mio villaggio.

L’impunità dei coloni che ho osservato personalmente e la ricerca di Yesh Din sono il contesto che ha permesso ai colpevoli di cominciare a usare le armi negli ultimi due mesi. Ho molta paura per la mia comunità che è completamente indifesa e deve lottare da sola contro forze e individui armati. I coloni possono fare quello che vogliono perché non c’è nessuno a fermarli e nessuno a ritenerli responsabili. Il risultato diretto è che i membri della mia comunità stanno soffrendo e perdono i propri mezzi di sussistenza. Alcuni sono stati uccisi e molte altre vite sono in pericolo fino a quando questa situazione non sarà presa sul serio. Quando si sveglierà il mondo?

Basil Al-Adraa è un attivista dei diritti umani e un giornalista.

(tradotto dall’inglese da Mirella Alessio)