L’ANP ha sempre avuto lo scopo di “uccidere” la causa palestinese

Somdeep Sen

6 ago 2021 – Al Jazeera

La morte di Nizar Banat per mano delle forze di sicurezza dell’ANP non è stata un’anomalia.

La morte del 24 giugno di Nizar Banat, un deciso oppositore dell’ANP, per mano delle forze di sicurezza di quest’ultima ha scatenato settimane di proteste e critiche internazionali. Ciò è avvenuto sulla scia di proteste senza precedenti contro il sequestro di case palestinesi da parte dei coloni israeliani a Gerusalemme est e di una brutale guerra israeliana a Gaza.

I palestinesi che hanno protestato per la morte di Banat considerano il presidente dell’ANP Mahmoud Abbas complice delle azioni dell’occupazione israeliana e chiedono la caduta del suo governo.

In una recente intervista con The Media Line, il ministro per gli Affari Civili dell’Autorità Nazionale Palestinese, Hussein al-Sheikh, si è scusato con la famiglia di Banat a nome del presidente Abbas. Ha inoltre spiegato: “Forse si è verificato un errore durante l’azione delle forze dell’ordine. Anche se [Banat] era ricercato o voleva comparire per ottenere giustizia, non c’è nulla che possa giustificare questa vicenda”. Tuttavia, di fronte alle continue critiche, l’ANP ha anche cancellato l’articolo 22 del “Codice di condotta” per i dipendenti pubblici che garantisce la “libertà di espressione”.

L’ANP guidata da Mahmoud Abbas ha una lunga e ben documentata storia di brutale repressione degli attivisti dell’opposizione. Ma la crisi di legittimità che l’ANP sta affrontando non è solo il risultato dell’autoritarismo di Abbas.

Questa crisi è un’eredità duratura degli Accordi di Oslo che hanno istituito l’Autorità Palestinese non come uno strumento del movimento nazionale palestinese, ma come un meccanismo istituzionale appositamente costruito per circoscrivere qualsiasi forma di attivismo palestinese che miri a contrastare l’occupazione israeliana. I palestinesi che protestano stanno sfidando sempre più l’ANP e la soluzione dei due Stati per la quale, apparentemente, si batte.

Lo scopo dell’ANP è garantire la sicurezza di Israele

Che l’ANP non si sarebbe preoccupata del movimento nazionale palestinese era già evidente nelle “lettere di mutuo riconoscimento” scambiate dal presidente dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP) e leader di Fatah Yasser Arafat e dal primo ministro israeliano Yitzhak Rabin il 9 settembre 1993.

Nella sua lettera Arafat riconosceva il diritto di Israele a “esistere in pace e sicurezza”, dichiarava che l’OLP avrebbe rinunciato alla violenza e si assumeva la responsabilità di prevenire attacchi violenti contro Israele e punire i trasgressori dell’accordo.

Nella sua risposta, Rabin non riconosceva la richiesta palestinese di uno Stato o della sovranità. Invece accettava l’OLP solo come “rappresentante del popolo palestinese” e concordava di iniziare i negoziati.

Gli Accordi di Oslo hanno poi stabilito l’ANP e il Consiglio Legislativo Palestinese (PLC) come un meccanismo provvisorio per l’autogoverno. Ma il processo di Oslo ha fatto ben poco per realizzare la formazione di uno Stato sovrano palestinese, poiché la confisca della terra, l’espansione del movimento delle colonie e la successiva frammentazione dei territori palestinesi occupati sono continuate nel corso del periodo provvisorio. E dal fallimento del vertice di Camp David, seguito dalla Seconda Intifada nel 2000, Israele ha solo consolidato ulteriormente il suo controllo militare sui territori occupati.

Con la dura occupazione israeliana in atto, il mandato di governo dell’ANP oggi è in gran parte limitato all’esecuzione di quanto contenuto nell’articolo 8 degli accordi di Oslo, in cui si afferma che l’ANP deve mantenere “l’ordine pubblico e la sicurezza interna” attraverso “un forte apparato di polizia”. Ciò ha portato ad assegnare la quota maggiore del bilancio nazionale alle forze di sicurezza dell’ANP. Inoltre il settore della sicurezza impiega quasi la metà del personale della pubblica amministrazione.

Questo apparato poliziesco è stato poi utilizzato per fornire una forte cooperazione nel campo della sicurezza con Israele. Le forze di sicurezza dell’ANP ostacolano e reprimono regolarmente l’attivismo palestinese che prende di mira la presenza militare e le colonie israeliane in Cisgiordania. L’ANP è anche impegnata nello scambio di informazioni con le autorità israeliane e contrasta preventivamente gli attacchi palestinesi progettati in aree e situazioni in cui l’esercito israeliano non è in grado di operare.

Esiste anche una “politica di arresti da porta girevole”: i palestinesi vengono arrestati dall’esercito israeliano subito dopo il loro rilascio dalle carceri dell’ANP, o viceversa. Questo sistema a due livelli di arresto e detenzione, che spesso comporta la tortura dei prigionieri in custodia, ha lo scopo di scoraggiare le attività di resistenza dei palestinesi contro Israele.

Riflettendo sulla peculiarità di questa cooperazione, un attivista mi ha detto: “È proprio frustrante… Stiamo combattendo gli israeliani, ma l’ANP e Fatah lavorano con loro e li aiutano. Ironia della sorte, il mio attivismo è contro Israele, ma sono stato picchiato più volte dall’Autorità Nazionale Palestinese [che dagli israeliani, ndt.]”

Il rivoluzionario è diventato il burocrate

Dietro la condotta dell’Autorità Nazionale Palestinese c’è anche una generazione di funzionari di Fatah che hanno abbandonato la loro posizione rivoluzionaria nel corso del processo di Oslo.

La rinuncia alla violenza di Arafat nel 1993 fu il più notevole allontanamento dall’ethos rivoluzionario della lotta nazionale palestinese. Nel 1974 Arafat intervenne alle Nazioni Unite come il simbolo iconico della lotta di liberazione palestinese e dichiarò di essere arrivato portando sia “un ramoscello d’ulivo che il fucile di un combattente per la libertà”. Quindi implorò la comunità internazionale di “non lasciare che il ramoscello d’ulivo mi cada di mano”. Eppure, meno di due decenni dopo, aveva di fatto criminalizzato la lotta armata palestinese.

La sua trasformazione ha ispirato altri, come uno stretto collaboratore e fedele membro di Fatah che intervistai nel 2012. Parlando dell’ala militare della fazione islamista Hamas, sua rivale, e della risposta di quest’ultima all’operazione “Pilastro di Difesa” di Israele contro Gaza, mi disse: “Guarda, ero molto vicino ad Arafat. Sono stato addestrato per diventare un combattente. Ero con Arafat in Libano a combattere gli israeliani durante la guerra civile. Ho visto come stava soffrendo. Gli israeliani lo cercavano casa per casa. Dormiva in una casa per 20 minuti e poi lo trasportavamo nella casa successiva. Ma abbiamo combattuto perché stavamo lottando per essere rispettati”.

Tuttavia, non era favorevole alle operazioni militari di Hamas. Invece mi spiegò: “Adesso le cose sono cambiate. Con Oslo, il nostro leader ci ha detto che era ora che il combattente palestinese si togliesse la tuta mimetica e si mettesse giacca e cravatta. Mi sono tolto l’uniforme militare e ho lavorato per costruire il mio Paese. Sono diventato un ufficiale di polizia e ho lavorato a lungo, addestrando i poliziotti dell’Autorità Nazionale Palestinese”.

La percezione che “le cose sono cambiate” era evidente anche nelle mie conversazioni con i leader di Fatah nella Striscia di Gaza governata da Hamas nel 2013. Uno di questi importanti membri di Fatah, seduto nel soggiorno della sua casa nel leggendario campo profughi di Jabalia, mi disse: “Guarda le notizie. Queste persone [Hamas] non possono gestire il governo. Non fanno altro che parlare di muqawama [resistenza]. Guarda lo stato di Gaza a causa di questo”.

Naturalmente, Abbas personifica il completamento di questa trasformazione del rivoluzionario palestinese. Arafat è stato spesso visto coprirsi la testa con la kefiah palestinese, uno storico simbolo della lotta nazionale palestinese e della rivendicazione militante delle terre palestinesi nella loro interezza. A confronto il suo successore ha poche credenziali militari. A volte Abbas indossa simbolicamente la kefiah al collo e parla la lingua del nazionalismo. Ma raramente affronta l’occupazione. Al contrario, mantiene una cooperazione in materia di sicurezza con Israele ed è principalmente interessato a mantenere un residuo istituzionale degli accordi di Oslo, nonostante il processo di Oslo abbia fallito per quanto riguarda lo Stato palestinese.

L’autoritarismo dell’ANP è finanziato dai donatori internazionali

In sostanza Abbas e l’ANP sono stati in grado di sostenere il loro sistema di “governo” perché i donatori internazionali, che continuano a finanziare gli stipendi del settore pubblico, gli sforzi di rafforzamento delle istituzioni e la riforma del settore della sicurezza nei territori occupati, vedono la costituzione di istituzioni statali come un mezzo di costruzione della pace.

L’ANP gode di un controllo civile e militare minimo nei Territori Occupati ed è in gran parte vincolata alla volubile volontà dell’occupazione militare israeliana. Tuttavia, donatori come l’Unione Europea – che nel 2020 ha contribuito con 85 milioni di euro a stipendi e pensioni del settore pubblico – continuano a fornire all’Autorità Nazionale Palestinese i mezzi finanziari per agire in termini statali come un modo per disincentivare uno scontro militare e garantire la sicurezza di Israele.

Il risultato è che la fazione al potere, Fatah, è in grado di porsi come sinonimo di politica ufficiale e legittima. Ciò è in parte dovuto al fatto che, avendo ufficialmente rinunciato alla lotta armata contro Israele, gli è stato concesso il sostegno politico e materiale degli interlocutori a livello internazionale in quanto partner negoziale accettabile.

Più significativamente, però, attraverso il ben finanziato apparato di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese, i suoi dirigenti hanno i mezzi per sorvegliare la popolazione palestinese e determinare le uniche forme legittime e concesse di attivismo politico.

Donatori come gli Stati Uniti – che hanno lavorato per rafforzare la leadership di Abbas contro Hamas – sostengono che questo mandato consente all’ANP di essere garante di sicurezza, stabilità e pace. Ma come è evidente nella risposta dell’ANP alle proteste in corso, ciò dà solo a una fazione, di fronte a livelli di opposizione senza precedenti, le risorse per sopprimere i suoi critici con il pretesto di mantenere la legge e l’ordine.

Un cambio di leadership potrebbe non risolvere la crisi

Edward Said si rammaricò amaramente per la firma degli Accordi di Oslo in quanto simbolo della “capitolazione palestinese”. Anche i palestinesi che protestano contro la morte di Nizar Banat considerano la condotta dell’ANP una continuazione della capitolazione della lotta nazionale palestinese.

Finora ci sono poche prove che dimostrino che Abbas sia disposto a rinunciare al suo ruolo alla guida dell’Autorità Nazionale Palestinese in Cisgiordania. Tuttavia, nell’improbabile scenario in cui l’attuale crisi costringesse alla fine a un cambio di leadership, il nuovo governo sarebbe ancora vincolato dall’assetto istituzionale dell’ANP e dalle priorità politiche dei donatori.

Un cambiamento di paradigma potrebbe aver luogo solo se una nuova leadership fosse in grado di riproporre l’ANP – con il sostegno politico e finanziario della comunità dei donatori – come un’istituzione che opera in accordo con il movimento nazionale palestinese.

Le opinioni espresse in questo articolo sono proprie dell’autore e non riflettono necessariamente la linea editoriale di Al Jazeera.

Somdeep Sen è professore associato di Studi sullo Sviluppo Internazionale alla Roskilde University in Danimarca. È l’autore di Decolonizing Palestine: Hamas between the Anticolonial and the Postcolonial [Decolonizzare la Palestina: Hamas tra l’anticoloniale e il post-coloniale] (Cornell University Press, 2020)

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Aggiornamento sullo sciopero della fame: continua la lotta contro la detenzione amministrativa

 

5 Agosto 2021 Samidoun

 

 

Alla data del 5 agosto 2021 quindici palestinesi continuano lo sciopero della fame nelle zone occupate da Israele, quattordici dei quali per protesta contro la detenzione amministrativa – reclusione senza capi di accusa o processo – ed uno, Mohammed Nuwarra, per protesta contro la protratta incarcerazione in isolamento. Altri due detenuti hanno iniziato lo sciopero della fame giovedì 5 agosto: Akram al-Fasfous ha seguito l’esempio del fratello, Kayed al-Fasfous, da 22 giorni in sciopero della fame.

Sempre giovedì l’altro fratello, Mahmoud al-Fasfous, in carcere anche lui senza capi di accusa né processo, ha sospeso lo sciopero della fame a causa di un grave peggioramento del suo stato di salute. Amjad Nammoura, di Dura, nei pressi di al-Khalil [nome arabo di Hebron, ndtr], ha iniziato anche lui lo sciopero della fame giovedì per protestare contro la sua detenzione amministrativa.

Altri tre prigionieri palestinesi avevano intanto sospeso lo sciopero della fame: Alaa el-Din Ali e Maher Dalaysheh, entrambi profughi del campo di Jalazone, vicino a Ramallah, e Guevara Nammoura, il calciatore professionista che ha fatto parte della squadra nazionale palestinese. Ali e Dalaysheh hanno sospeso lo sciopero della fame dopo avere ottenuto l’intesa di fissare una data di scadenza della loro detenzione amministrativa. Anche Nammoura ha sospeso lo sciopero in seguito a un accordo per porre termine alla sua detenzione amministrativa raggiunto davanti al tribunale militare israeliano il 5 agosto.

Anche se il 5 agosto il tribunale dell’ occupazione militare ne ha confermato la detenzione, portandola da quattro a tre mesi, esso non ha però chiarito se questa è un’ordinanza definitiva, il che lascia aperta la possibilità di un rinnovo dell’ordine di detenzione.

Gli ordini di detenzione amministrativa sono emessi per periodi massimi di sei mesi alla volta, ma sono rinnovabili senza limiti. Di conseguenza accade frequentemente che i palestinesi passino anni di seguito nelle prigioni dell’occupazione israeliana senza capi di imputazione né processo, sulla base di cosiddette “prove segrete” a cui non possono accedere né i detenuti né i loro avvocati. La detenzione amministrativa, originariamente introdotta nella Palestina occupata dal mandato coloniale britannico [il mandato della Società delle Nazioni permise al Regno Unito di governare la Palestina tra il 1920 e il 1948, dopo la sconfitta dell’Impero ottomano nella prima guerra mondiale, ndtr], fu in seguito adottata dagli occupanti sionisti per reprimere la resistenza palestinese.

Altri detenuti palestinesi hanno partecipato a proteste all’interno delle prigioni dell’occupazione israeliana in sostegno dei prigionieri in sciopero della fame. Si annuncia una serie di vasti scioperi di solidarietà e le prime adesioni vengono da Bara’a Issa di Anata [cittadina nei pressi di] Gerusalemme, Taha al-Tarwa di Taffouh [villaggio nei pressi di] al-Khalil, Malik al-Sa’ada di Halhoul e Qasim Masalmeh di Beit Awwa [cittadine nei pressi di al-Khalil, ndtr], tutti detenuti nella prigione di Ramon [nel nord di Israele, ndtr].

Le forze di occupazione israeliane hanno intensificato la repressione prendendo di mira i detenuti in sciopero della fame, mettendoli in isolamento, facendo irruzione e perquisizioni nelle celle e trasferendoli ripetutamente da una prigione all’altra, procedura fisicamente e mentalmente gravosa ed estenuante, specialmente perché i detenuti cominciano a soffrire di gravi problemi di salute. Il sistema penitenziario israeliano ha anche rallentato il rilascio delle autorizzazioni ai legali per visitare i detenuti in sciopero della fame, cercando di privarli di comunicazione e rappresentanza.

Samidoun, rete di solidarietà con i prigionieri palestinesi, fa appello a tutti i sostenitori della Palestina ad attivarsi per sostenere questi palestinesi in sciopero della fame e tutti i prigionieri palestinesi che lottano per la libertà, per la propria vita e per il popolo palestinese. Essi sono in prima linea nella lotta contro il sistema dell’oppressione israeliana e mettono a rischio i loro corpi e le loro vite per porre fine al sistema della detenzione amministrativa. Potete adottare queste diverse azioni per sostenere chi è in sciopero della fame e per lottare per la liberazione della Palestina, dal fiume [Giordano, ndtr] al mare [Mediterraneo,ndtr]!

ATTIVATI:

Firma la petizione!

Attivisti internazionali di base hanno lanciato una petizione in sostegno agli scioperi della fame e per porre fine alla detenzione amministrativa. Sostieni con la tua firma – e agisci di persona! 

Firma qui: change.org/NoChargeNoTrialNoJail

Protesta con l’ambasciata o il consolato nel tuo Paese!

Unisciti alle proteste in corso in tutto il mondo – affronta, isola e prendi d’assedio l’ambasciata o il consolato nella tua città o Stato di residenza. Fai capire che il popolo sta con la Palestina! Comunica gli eventi che organizzi a samidoun@samidoun.net.

Scendi in piazza: organizza una protesta in solidarietà con la Palestina!

Scendi in piazza e unisciti alle manifestazioni elencate nella nostra lista degli eventi, che viene costantemente aggiornata mano a mano che se ne annunciano altre! Organizzane una tu se non ve ne sono nella tua zona, e comunicala a  samidoun@samidoun.net.

Boicotta Israele!

Le campagne internazionali, arabe e palestinesi di boicottaggio di Israele possono giocare un ruolo importante in questo momento critico. I gruppi di boicottaggio locali possono protestare ed etichettare i prodotti agricoli ed alimentari. Durante il ramadan, i datteri israeliani prodotti nelle terre rubate ai palestinesi vengono distribuite per il mondo, mentre Israele tenta di scacciare i palestinesi da Gerusalemme, demolisce le loro case e ne imprigiona altre migliaia. Partecipando al boicottaggio di Israele, puoi aiutare a mettere un bastone fra le ruote dell’economia del colonialismo dell’occupazione.

Chiedi al tuo governo di sanzionare Israele!

Lo Stato razzista e coloniale di occupazione israeliano e i suoi crimini di guerra contro il popolo palestinese sono resi possibili e sostenuti massicciamente dagli oltre 3,8 miliardi di dollari forniti ogni anno dagli USA ad Israele – destinati direttamente al sostegno dell’occupazione militare israeliana che uccide bambini, donne, uomini e anziani nella Palestina occupata. Che siano il Canada, l’Australia o l’Unione Europea, i governi occidentali e le potenze imperialiste non solo continuano a fornire sostegno diplomatico, politico ed economico ad Israele, ma vendono anche miliardi di dollari di armi allo Stato dell’occupazione coloniale.

Nel contempo comprano anche miliardi di dollari di armamenti dallo Stato di Israele. Anche governi in combutta con le potenze imperialiste, come quelli delle Filippine, Brasile, India e altri, comprano armi e servizi di “sicurezza” – tutti “testati sul campo” sulla popolazione palestinese. Chiama i tuoi rappresentanti, i parlamentari, i politici e chiedi che il tuo governo sanzioni subito Israele, tagli tutti gli aiuti, ne espella gli ambasciatori e smetta di comprare e vendere armi!

(traduzione dall’inglese di Stefania Fusero)

 




Perché opporsi al sionismo non è antisemita: le radici cristiane del sionismo

Miko Peled

21 luglio 2021 – MPN NEWS

Quando Naftali Bennett, il primo leader israeliano ad indossare lo yarmulke [o kippah, copricapo circolare usato dagli ebrei maschi, ndtr.], fa riferimento alla Bibbia per giustificare le sue pretese sulla Terra d’Israele non si riferisce alle scritture ebraiche ma alla dottrina religiosa protestante.

GERUSALEMME Una volta Naftali Bennett ha dichiarato in un’intervista a Mehdi Hassan [giornalista politico, televisivo e scrittore britannico-americano, ndtr.] che, secondo la Bibbia, la Palestina o, come la chiama lui, Israele appartiene al popolo ebraico. Da alcuni la Palestina viene definita “La Terra di Israele” e in questa intervista del 2017 Bennett insiste che se Hassan vuole affermare che “la Terra non ci appartiene, dovrebbe modificare la Bibbia”.

In seguito Bennett è diventato primo ministro di Israele (un incarico che probabilmente non ricoprirà per molto tempo) e, per quanto molti siano in sintonia con questa affermazione, uno sguardo più attento a ciò che le scritture ebraiche effettivamente dicono mostra molto chiaramente che ciò che ha detto non è vero.

Secondo la Torah (le scritture ebraiche) e i discorsi di generazioni di saggi ebrei, la Terra Santa appartiene all’Onnipotente che le conferisce la grazia della santità. Al popolo ebraico fu concesso di risiedere nella Terra Santa e di godere della sua grazia purché si comportasse con rettitudine e osservasse le leggi che l’Onnipotente prescrisse nella Torah. Quando il popolo ebraico si allontanò dal sentiero della Torah, incorse nell’ira dell’Onnipotente e fu espulso dalla Terra Santa, con il divieto di tornare fino al momento della venuta del Messia e del ritorno di re David sul trono.

La Terra di Israele non ha valore in sé e per sé, ma solo come tramite per servire l’Onnipotente e seguire la Torah. Inoltre neanche la venuta del Messia ha a che fare con la sovranità ebraica sulla Terra d’Israele; è un concetto che racchiude molti significati. Soprattutto, però, si riferisce ad una trasformazione del mondo in un luogo pacifico in cui agli ebrei sarà ancora una volta permesso di risiedere pacificamente nella Terra Santa, con l’intento di seguire le leggi dell’Onnipotente in quella terra che ha ricevuto la grazia della santità. È un’idea religiosa che non ha nulla a che fare con le nozioni di conquista, nazionalità o sovranità.

Si potrebbe pensare che ciò che la Bibbia afferma riguardo alla Palestina non sia importante, ma dobbiamo riconoscere che molte persone ritengono importanti le parole delle scritture ebraiche e le riconoscono come vere parole di Dio. Pertanto, vale la pena dare un’occhiata da vicino a ciò che effettivamente sostengono la Torah e gli antichi saggi.

Dovremmo anche ricordare che il sionismo è un’ideologia laica e razzista e ai fondatori del sionismo importava poco della Bibbia o dell’ebraismo. Israele la mostruosa creazione del movimento sionista – è un regime di apartheid che sta commettendo crimini orrendi. Israele afferma di parlare e agire in nome e per il bene del popolo ebraico. Tuttavia sarebbe bene dimostrare che Israele e le rivendicazioni sioniste sulla Palestina non hanno nulla a che fare con l’ebraismo; infatti l’affermazione che la legittimità del sionismo possa essere trovata nella Bibbia è completamente falsa.

Il sionismo come idolatria

Secondo le scritture ebraiche gli ebrei furono trasformati in un popolo, il popolo ebraico, quando fu loro consegnata la Torah sul monte Sinai, una montagna nel deserto del Sinai lontana dalla Terra Santa. La trasformazione degli ebrei in una nazione non aveva nulla a che fare con l’acquisizione di terra o sovranità, né con nessuno degli altri simboli associati all’idea moderna di nazionalità. Fu realizzata attraverso un impegno religioso verso l’Onnipotente.

Nella sua dettagliata opera The Empty Wagon: Zionisms journey from identity crisis to identity theft [Il carro vuoto: il viaggio del sionismo dalla crisi di identità al furto di identità] il rabbino Yaakov Shapiro discute a lungo di questo problema. Cita il venerato rabbino Shlomo Ephraim ben Aaron Luntschitz del XVII secolo, noto come Kli Yakar (o Vaso Prezioso) per il suo commento alla Torah. Il rabbino Luntschitz ha scritto nel suo commento ai cinque libri della Torah che il popolo ebraico è semplicemente inquilino della Terra d’Israele e che l’Onnipotente è l’unico proprietario della Terra Santa. Rabbi Shapiro continua con una citazione dal Libro del Levitico [il terzo libro della Torah ebraica e della Bibbia cristiana, ndtr.] 25:23, dove l’Onnipotente dice al popolo ebraico: “La terra non deve essere venduta perché la terra è mia e voi risiedete nella mia terra come stranieri e forestieri”.

C’è una storia ancora antecedente nel Libro della Genesi, capitolo 23, dove viene chiarito che anche il patriarca Abramo si considerava uno straniero nella Terra d’Israele. Abramo vuole seppellire sua moglie Sarah nella città di Hebron e si avvicina a un uomo del posto chiedendo di poter acquistare un appezzamento di terreno da utilizzare per la sepoltura. L’uomo è d’accordo e Abramo acquista il fondo. Se la terra fosse stata sua in virtù della promessa divina non avrebbe avuto bisogno di acquistarla. In questa storia Abramo si definiva in quella terra come uno “straniero”.

Rabbi Shapiro prosegue spiegando che la sola devozione alla terra d’Israele, senza l’osservanza delle leggi della Torah e la devozione all’Onnipotente, è idolatria. Non c’è alcun valore nella Terra di per sé, dice. “L’amore per Eretz Yisroel [terra d’Israele in ebraico, ndtr.] dovrebbe essere parte dell’amore per Hashem (l’Onnipotente) e la Torah”.

Come quasi tutti sanno i Dieci Comandamenti, che fanno parte della Torah, proibiscono l’omicidio, il furto e il desiderio della casa di qualcun altro. Ciò significa che i sionisti – anche quelli come Naftali Bennett, che indossa un yarmulke – commettono idolatria, poiché il loro desiderio per la Terra deriva dalla brama, e fanno uso dell’omicidio e del furto come mezzo per ottenere quella terra. Sono ben lontani da un’onesta osservanza della Torah.

Ammonizioni, avvertimenti e proibizioni

Nelle preghiere quotidiane c’è una riga che gli ebrei ripetono regolarmente che dice “Siamo stati esiliati a causa dei nostri peccati”. Nei ventiquattro libri dell’Antico Testamento sono innumerevoli gli avvertimenti e gli ammonimenti dati dall’Onnipotente al popolo di Israele. Questo è messo ripetutamente sull’avviso che se si allontanerà dal sentiero assegnatogli dalle leggi della Torah verrà bandito dalla Terra. Ci sono numerosi passaggi in cui l’Onnipotente avverte gli ebrei che se gli voltano le spalle la Terra stessa li “vomiterà” proprio come aveva vomitato altre nazioni che vi erano vissute prima di loro. Forse il passaggio più noto proviene dal Libro del Levitico, capitolo 18, versetto 28: “Che non ti vomiti il Paese per averlo contaminato, come ha vomitato le nazioni che sono venute prima di te”.

Dopo che il popolo d’Israele fu esiliato per aver voltato le spalle alla Torah e alle sue leggi, gli fu proibito di tornare. Il grande rabbino Yoel Teitelbaum – noto come il rabbino di Satmar [movimento di ebrei principalmente ungheresi e rumeni sopravvissuti alla Seconda guerra mondiale, ndtr.], che ha ottenuto un seguito senza precedenti negli Stati Uniti e in tutto il mondo – cita questo divieto nel suo libro Vayoel Moshe. Rabbi Teitelbaum parla dei tre giuramenti che furono fatti dal popolo ebraico davanti all’Onnipotente. Questi giuramenti comprendono: non tentare mai di affrettare la fine dell’esilio (devono aspettare il Messia prima di poter tornare in Terra Santa); non tornare mai con l’uso della forza; e non ribellarsi alle altre nazioni, nazioni dove il popolo ebraico vive in esilio.

Un’interpretazione cristiana

L’idea che le scritture ebraiche promettano la Terra d’Israele agli ebrei come “patria” è una nozione cristiana che i sionisti hanno adottato. Secondo le scritture ebraiche, la Terra d’Israele non è la patria del popolo ebraico. L’Onnipotente fece degli ebrei una nazione sul monte Sinai quando impartì loro la Torah. Ciò non avvenne nella Terra d’Israele ma, come già detto, molto, molto lontano da essa. La nozione di connessione di un popolo con una patria è un’idea moderna, che coinvolge il nazionalismo e non è in alcun modo un’idea ebraica.

Il rabbino Shapiro scrive: “Il concetto sionista di Eretz Yisroel non deriva dalla Torah”. Questa idea, secondo le innumerevoli fonti che cita in The Empty Wagon, è “un’idea cristiana”. Egli continua col sottolineare che “la percezione di Eretz Yisroel come il ‘diritto di nascita’ o la ‘patria della nazione’ del popolo ebraico appare per la prima volta nelle fonti del restaurazionismo protestante cristiano”. Questa idea è nata con l’avvento del movimento protestante nella seconda metà del passato millennio; si è diffusa in tutto il mondo protestante e continua oggi con Cristiani Uniti per Israele, o CUFI, che è uno dei più significativi [movimenti] sostenitori di Israele nel mondo.

Il concetto che l’Onnipotente abbia dato tutta la Terra d’Israele al popolo ebraico in modo permanente e incondizionato e che gli ebrei alla fine vi torneranno è un concetto protestante, non ebraico. Questa è in gran parte la ragione che sta dietro il sostegno che i sionisti sono stati in grado di ottenere da Paesi per lo più protestanti come la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, dove il sionismo cristiano ha prosperato per diversi secoli.

Dalla fine del XVI secolo a Napoleone, dalla London Society for Promoting Protestant Christianity among Jews [Società londinese per la promozione del protestantesimo cristiano tra gli ebrei] (una missione cristiana sionista che fa parte della Chiesa d’Inghilterra conosciuta oggi come Churchs Ministry Among Jewish People [Ministero della Chiesa tra gli ebrei]), a John Quincy Adams e persino ad Abraham Lincoln, l’idea del ritorno degli ebrei nella loro “patria” è stata molto diffusa tra i protestanti nel mondo.

Anche lo slogan “una terra senza popolo per un popolo senza terra” non è di origine sionista. Sebbene di solito si presume fosse uno slogan sionista, la frase fu usata già nel 1843 da un pastore restauratore cristiano, il reverendo Dr. Alexander Keith, Dottore della Chiesa di Scozia. La frase continuò ad essere usata per quasi un secolo dai restaurazionisti cristiani prima che i sionisti la adottassero. Allo stesso modo, l’idea di trasformare la lingua ebraica nella lingua “nazionale” del popolo ebraico nella loro “patria” era anch’essa un’idea protestante che fu poi adottata dai sionisti.

Quindi quando l’attuale primo ministro israeliano Naftali Bennett, che è anche il primo leader israeliano ad indossare lo yarmulke, fa riferimento alla Bibbia per giustificare le sue pretese sulla Terra d’Israele, non si riferisce alle scritture ebraiche ma alla dottrina religiosa protestante. Quando lui e altri politici israeliani come l’ex primo ministro Benjamin Netanyahu fanno queste affermazioni, non si rivolgono agli ebrei, ma ai sionisti cristiani. Gli alleati più importanti che lo Stato di Israele e i sionisti hanno sono i sionisti cristiani evangelici.

Dichiarazioni come quelle di Bennett sono fatte per assicurarsi che i sionisti cristiani continuino a lavorare per Israele e per il movimento sionista facendo pressioni sui governi e raccogliendo fondi. Questa dottrina protestante, tra l’altro, invita il popolo ebraico a tornare nella Terra d’Israele non per il beneficio del popolo ebraico. Il fine di questo ritorno è che gli ebrei possano convertirsi al cristianesimo e affrettare la seconda venuta di Gesù Cristo.

L’antisionismo non può essere antisemita

Poiché le idee espresse dai sionisti non sono chiaramente idee ebraiche, opporsi al sionismo non può essere antisemita. Una volta chiarito che le rivendicazioni sioniste sulla Terra di Israele, o Palestina, non solo non sono ebraiche, ma provengono dalla teologia protestante cristiana, comprendiamo perché opporsi al sionismo non può essere antisemita. Essere un antisionista non è affatto essere antisemita perché i principi fondamentali del sionismo in realtà non sono affatto ebrei. Sono cristiani.

Miko Peled è uno scrittore che contribuisce con MintPress News [sito di notizie online americano di sinistra, ndtr.] autore di numerose pubblicazioni e attivista per i diritti umani nato a Gerusalemme.

I suoi ultimi libri sono The General’s Son. Journey of an Israeli in Palestine [ Il figlio del generale. Viaggio di un israeliano in Palestina] e Injustice, the Story of the Holy Land Foundation Five [Ingiustizia. Storia dei cinque nella fondazione della Terra Santa].

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di MintPress News.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Colono israeliano in Cisgiordania spara a dei palestinesi usando il fucile di un soldato

2 agosto 2021 – Middle East Monitor

Nel video, ripreso nel villaggio di Al-Tuwani, si vede anche che i coloni attaccano proprietà palestinesi, spezzano rami degli ulivi, lanciano pietre contro i palestinesi e danno fuoco alle loro proprietà, tutto in presenza delle forze di occupazione.

Un colono israeliano ha sparato a dei palestinesi nella Cisgiordania occupata usando l’arma di un soldato israeliano, come si vede in un video diffuso dall’organizzazione B’Tselem [ONG israeliana che si autodefinisce “Centro di informazione israeliano per i diritti umani nei territori occupati”, ndtr].

Come riferito da Haaretz, i palestinesi che hanno assistito all’episodio, avvenuto il 26 giugno scorso, dicono che il soldato ha dato l’arma al colono, mentre i militari israeliani sostengono che il colono “ha preso l’arma dal soldato per sparare poi in aria”.

“Sul tetto con me c’erano dieci bambini e tremavamo tutti, non ha sparato in aria, ha sparato nella nostra direzione,” dice un palestinese del posto. Anche un altro testimone oculare, che si trovava sullo stesso tetto, dice di aver visto il soldato dare il fucile al colono, aggiunge Haaretz. 

Nel video, ripreso nel villaggio di Al-Tuwani, si vede anche che i coloni attaccano proprietà palestinesi, spezzano rami degli ulivi, lanciano pietre contro i palestinesi e danno fuoco alle loro proprietà, tutto in presenza delle forze di occupazione.

Il portavoce dell’esercito israeliano afferma: “Si è verificato uno scontro violento fra coloni e palestinesi,” in cui “si sono scagliati pietre a vicenda e [i palestinesi] hanno lanciato petardi contro i coloni. Un soldato dell’IDF [l’esercito] ha caricato su un veicolo militare un abitante che gli aveva chiesto un passaggio, e quando sono arrivati sul posto sono state lanciate delle pietre contro il veicolo. Come reazione, il civile ha preso l’arma dal soldato e ha sparato in aria. Non ci sono stati feriti. Considerata la gravità dell’incidente, il soldato è stato immediatamente convocato dal comandante di brigata per indagini e approfondimenti, e c’è stato un chiarimento sulle regole di ingaggio.”

Secondo il sito palestinese di informazione Safa questo incidente non è che l’ulteriore dimostrazione della cooperazione congiunta fra coloni ed esercito israeliani nell’aggressione contro i palestinesi.

Safa afferma che nel maggio scorso undici palestinesi sono rimasti uccisi nella Cisgiordania occupata nel corso di aggressioni da parte dell’esercito israeliano e dei coloni.

traduzione dall’inglese di Stefania Fusero




La Corte israeliana rinvia l’appello contro le espulsioni di Sheikh Jarrah

2 Agosto 2021 – Al Jazeera

Le famiglie palestinesi respingono la proposta della Corte di rimanere nelle loro case come “inquilini protetti”, se riconoscono la proprietà israeliana

La Corte Suprema di Israele ha rinviato la decisione su un appello da parte di quattro famiglie palestinesi contro l’espulsione forzata dal quartiere di Sheikh Jarrah nella Gerusalemme est occupata, in quanto le famiglie affermano di aver respinto una proposta della Corte di rimanere nelle case come “inquilini protetti”, riconoscendo però la proprietà israeliana.

Il caso esaminato lunedì riguardava quattro famiglie palestinesi, per un totale di circa 70 persone.

I tribunali israeliani di prima istanza hanno approvato le espulsioni delle quattro famiglie per far posto a coloni israeliani. Hanno sentenziato che le loro case sono state costruite su terreni di proprietà di ebrei prima della fondazione di Israele nel 1948.

Ma, tenendo conto del ricorso di ultima istanza da parte dei residenti, la Corte ha proposto un accordo che concederebbe loro lo status di “inquilini protetti”, che riconoscerebbero la proprietà israeliana delle case e pagherebbero un affitto annuale simbolico, ma le famiglie lo hanno rifiutato.

Il giudice Isaac Amit ha richiesto ulteriore documentazione e ha detto: “Renderemo nota una decisione più avanti”, ma non ha fissato una data.

Hoda Abdel-Hamid di Al Jazeera, riferendo dal tribunale di Gerusalemme ovest, ha detto che il giudice ha offerto alle famiglie palestinesi l’opzione di firmare un documento che attesta che la terra appartiene ai coloni israeliani.

In cambio avrebbero una locazione garantita nella casa per le prossime tre generazioni”, ha detto Abdel-Hamid.

Ci hanno fatto forti pressioni per raggiungere un accordo con i coloni israeliani, in cui noi saremmo affittuari delle organizzazioni di coloni”, ha detto Muhammad al-Kurd, membro di una delle quattro famiglie al centro della disputa.

Ovviamente questo accordo è stato respinto”, ha detto.

Anche Sami Ershied, un avvocato che rappresenta le famiglie palestinesi, ha detto a Al Jazeera che la proposta era inaccettabile.

Finora non abbiamo ricevuto un’offerta che fosse abbastanza equa e tutelasse i diritti dei residenti. Perciò non abbiamo aderito ad alcun compromesso”, ha affermato Ershied.

Però ha detto che l’udienza è stata “un buon passo avanti”.

I giudici hanno detto che ci convocheranno ad una seconda udienza. Non hanno ancora respinto il nostro appello: questo è un buon segno”, ha detto.

Speriamo che i giudici continuino ad ascoltare le nostre argomentazioni e prendano in considerazione tutti i nuovi dettagli che abbiamo fornito loro e alla fine prendano una decisione favorevole ai residenti di Sheikh Jarrah”, ha affermato.

Ershied ha aggiunto che la Corte deciderà quando fissare la prossima udienza e che essa si potrebbe svolgere in un arco di settimane o mesi.

Lunga battaglia legale

Era previsto che la Corte Suprema emettesse una sentenza a maggio, ma ha rinviato la decisione dopo che il procuratore generale ha richiesto più tempo per esaminare i casi.

La minaccia delle espulsioni ha scatenato proteste che hanno subito una dura repressione da parte delle forze di sicurezza israeliane in aprile e maggio ed hanno messo alla prova la nuova coalizione di governo israeliana, che comprende tre partiti favorevoli alle colonie ed un piccolo partito che rappresenta i palestinesi cittadini di Israele. Per amor di unità, il governo ha cercato di accantonare le questioni palestinesi per evitare divisioni interne.

Settimane di disordini –caratterizzati dalle violente tattiche della polizia israeliana contro gli abitanti e i dimostranti che li sostenevano – hanno attirato l’attenzione internazionale prima degli 11 giorni di bombardamenti israeliani sulla striscia di Gaza assediata a maggio.

Il 21 maggio è entrato in vigore un cessate il fuoco, ma la campagna di lunga durata dei coloni israeliani per cacciare decine di famiglie palestinesi è continuata.

I coloni hanno condotto una campagna di decenni per espellere le famiglie dai quartieri palestinesi densamente popolati appena fuori dalle mura della Città Vecchia, in una delle aree più sensibili della Gerusalemme est occupata.

I coloni hanno sostenuto che le case erano costruite su terreni di proprietà di ebrei prima della guerra del 1948, quando fu creato Israele. La legge israeliana consente agli ebrei di reclamare tale proprietà, diritto negato ai palestinesi che hanno perso terra e case nello stesso conflitto.

La Giordania ha avuto il controllo su Gerusalemme est dal 1948 al 1967. Le famiglie divenute rifugiate durante la guerra del 1948 hanno detto che le autorità della Giordania hanno offerto loro le case in cambio della rinuncia allo status di rifugiati.

Israele ha occupato Gerusalemme est, insieme alla Cisgiordania e Gaza, nel 1967 e la ha annessa con un’iniziativa non riconosciuta a livello internazionale. La soluzione di due Stati concepita dagli Accordi di Oslo del 1993 considerava le tre aree parte di uno Stato palestinese.

Nel 1972 gruppi di coloni dissero alle famiglie che stavano sconfinando su terra di proprietà di ebrei. Fu l’inizio di una lunga battaglia legale che negli ultimi mesi è culminata in ordini di espulsione contro 36 famiglie di Sheikh Jarrah e altri due quartieri di Gerusalemme est occupata.

Associazioni per i diritti hanno affermato che anche altre famiglie sono a rischio, stimando che più di 1.000 palestinesi rischiano di essere espulsi.

Qualunque sarà la sentenza del giudice sia per i coloni che per le famiglie palestinesi, essa darà il segnale di ciò che avverrà in seguito”, ha detto Abdel-Hamid.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)

 




Israele combatte contro i suoi figli migliori: gli ex soldati che hanno il coraggio di parlare

Zehava Galon

1 agosto 2021 – Haaretz

L’Agenzia delle Entrate si è arresa alla pressione da parte delle organizzazioni di destra e ha chiesto che venissero tolti dal proprio edificio i cartelli messi da Breaking the Silence [‘Rompere il silenzio’ – organizzazione non governativa israeliana fondata nel 2004 da militari contrari all’occupazione, ndtr.] per una campagna con cui chiedeva al ministro della Difesa e al ministro della Pubblica Sicurezza di agire in modo deciso contro la violenza dei coloni. Tale violenza è un evento quotidiano e il suo obiettivo è il terrore, in modo da espellere i palestinesi dalle proprie terre con la forza combinata dei coloni e dell’esercito e convincerli che non c’è motivo di ritornarvi. Se i palestinesi non coltivano la terra per parecchi anni, il governo la passerà ai coloni. E ora un altro ramo del governo si è unito ai teppisti mascherati di Yesha [l’alleanza dei comuni delle colonie illegali israeliane nella Cisgiordania occupata, che funge da guida informale per il movimento dei coloni. ndtr.] (Giudea e Samaria).

Qualche parola sui soliti sospetti: il rapper Yoav Eliasi, alias The Shadow [l’Ombra], è un noto teppista, coinvolto nel 2014 nell’organizzazione di attacchi contro attivisti di sinistra durante l’operazione “Margine Protettivo” contro Gaza. Arieh King, vicesindaco di Gerusalemme, diventò famoso nel 2014 quando, dopo l’assassinio di tre giovani studenti della yeshiva [scuola religiosa ortodossa ebraica, ndtr.], aveva invocato “i nostri Fineas” [un’allusione al personaggio biblico noto per il suo fanatismo, ndtr.] per punire i palestinesi, poche ore prima che tre persone autoproclamatesi fineasisti’ rapissero e uccidessero dandogli fuoco un quindicenne, Mohammed Abu Khdeir. C’è poi un attivista di destra, Shai Glick, che orgogliosamente si fa chiamare “una specie di terrorista.” Queste tre perle sono oggi la faccia dello Stato di Israele.

La decisione gli si è ritorta contro: l’Agenzia delle Entrate non aveva alcuna autorità legale di rimuovere i cartelli. E così sono stati tolti l’ultimo giorno della campagna e l’organizzazione Breaking the Silence è stata rimborsata dell’intera somma spesa per la campagna che continuerà. È comunque una giornata funesta quella in cui un’autorità ufficiale in Israele dichiara che la battaglia contro il crimine ideologico è un “atto politico”.

Lo Stato di Israele sta combattendo in modo determinato contro i suoi figli migliori, i soldati che hanno prestato servizio nei territori, ma che, diversamente dalla maggioranza dei loro colleghi, sono rimasti così scioccati da quello che hanno visto e che sono stati costretti a fare che hanno deciso che nessuno avrebbe più dovuto farlo. Hanno denunciato il regime quotidiano di orrori della dittatura militare nei territori, non tanto gli omicidi, che sono relativamente rari, ma piuttosto la sistematica, silenziosa, tacita violenza. Fino a quando non hanno rotto il silenzio.

E a causa di questo sono perseguitati. Attivisti dell’organizzazione sono stati attaccati ripetutamente. Il regime di occupazione israeliano protesta e sostiene che stanno raccontando al mondo quello che hanno visto, come se non fosse il mondo che finanzia le Forze di Difesa Israeliane [l’esercito israeliano, ndtr.] e sostiene il regime di occupazione. Contro di loro è stata approvata una legge con lo scopo di impedire loro di parlare agli studenti.

Anche questa, come la battaglia per la rimozione dei cartelli, gli si è rivoltata contro. Eppure, appellandosi a questa legge, la galleria Barbur [centro culturale e artistico indipendente, ndtr.] a Gerusalemme che ospitava Breaking the Silence, è stata chiusa dal Comune. Shai Glick si è vantato di aver messo in guardia la polizia sulla violenza prevista agli eventi dell’organizzazione, il che ha offerto alla polizia la scusa per annullarli.

Gli ebrei sono sempre stati in prima linea nelle lotte per i diritti umani, ovunque e contro ogni regime oppressivo. I rabbini hanno marciato accanto a Martin Luther King quando era molto pericoloso farlo perché i suoi sostenitori finivano ammazzati. E qui, proprio nello Stato degli ebrei, si butta nel cestino questa straordinaria tradizione. Lo Stato ebraico vuole così disperatamente la terra dell’Area C in Cisgiordania che si mette alla testa di chi cerca di far arretrare la rivoluzione dei diritti umani cominciata dopo la Seconda Guerra Mondiale.

Come se non avessimo imparato nulla dal periodo in cui i regimi potevano trattare i propri cittadini come pareva loro. Verrà il giorno in cui quelli di Breaking the Silence saranno degli eroi e tutta la comunità che incoraggiava attacchi contro di loro abbasserà lo sguardo. Ma come ci libereremo dalla vergogna?

(traduzione dall’inglese Mirella Alessio)




Gaza: due mesi dopo la guerra l’enclave palestinese resta paralizzata

Adam Khalil – Gaza, Striscia di Gaza sotto assedio

31 luglio 2021- Middle East Eye

A Gaza le restrizioni israeliane alle importazioni hanno ostacolato gli sforzi di ricostruzione e aumentato la disoccupazione, ma ciò porterà a nuove ostilità?

Due mesi dopo il raggiungimento da parte di Israele e Hamas di un accordo di cessate il fuoco che ha segnato la fine di un conflitto durato 11 giorni che ha ucciso 248 palestinesi nella Striscia di Gaza e 13 persone in Israele, nell’enclave palestinese sotto assedio per molti la vita è rimasta sospesa.

I due milioni di palestinesi che vivono a Gaza continuano ad affrontare le rigide restrizioni israeliane all’ingresso delle merci nel piccolo territorio, che provocano una grave recessione economica e rendono impossibile la ricostruzione.

Mentre la mediazione dell’Egitto ha avuto successo nel porre fine alle uccisioni e alla distruzione, gli sforzi del Cairo devono ancora riuscire a riportare la situazione a Gaza ai livelli prebellici – uno status quo che era già precario e difficile per i suoi abitanti, che vivono da 14 anni sotto l’assedio israeliano.

Data l’ostinazione da parte di Israele nel voler collegare la questione delle importazioni e della ricostruzione al rilascio di quattro israeliani che si ritiene siano detenuti da Hamas, gli analisti sono divisi sul fatto che la paralisi in corso a Gaza possa innescare ulteriori scontri lungo la linea di confine.

Tentativi di ricostruzione in sospeso

A Gaza fonti ufficiali hanno reso noto che le rigide restrizioni israeliane hanno avuto effetti negativi su tutti gli aspetti della vita nel territorio palestinese sotto assedio, portando a un aumento senza precedenti della povertà e dei tassi di disoccupazione.

Rami Abu al-Rish, direttore generale del commercio e valichi del ministero dell’Economia di Gaza, ha riferito a Middle East Eye: “Israele non consente l’accesso di più del 30% della quantità di articoli e merci che entrava a Gaza prima dello scoppio della guerra, il che ha causato un aumento pazzesco dei prezzi”.

Israele ha impedito l’importazione a Gaza di materie prime, materiali da costruzione, elettrodomestici ed apparecchiature, nonché attrezzature in legno, metallo e plastica, imponendo rigide restrizioni alle esportazioni e consentendo l’uscita dal territorio palestinese solo di piccole quantità di prodotti e pesce.

Abu al-Rish aggiunge che le restrizioni hanno portato Gaza a uno stato di “paralisi” in vari settori industriali, commerciali e agricoli, determinando conseguenze negative sulla popolazione in generale, con un tasso di disoccupazione salito al 75%.

Secondo il ministero dell’Economia di Gaza negli ultimi mesi migliaia di lavoratori hanno perso il proprio sostentamento, sia a causa della distruzione di strutture commerciali e industriali, sia della sospensione della produzione a causa del blocco e delle limitazioni, oltre che per l’impatto delle restrizioni marittime [la marina israeliana mantiene un blocco a tre miglia dalla costa, con periodici inasprimenti fino alla chiusura totale della zona di pesca, ndtr.] sulla vita di migliaia di persone il cui sostentamento dipende dalla pesca.

Con le merci ordinate bloccate sul versante israeliano dei valichi, le imprese palestinesi si trovano in sofferenza. Adel Hussein, direttore di un’azienda che lavora nel settore dell’energia solare, ha dichiarato a MEE: “Ci sono grosse spedizioni di merci per la nostra e per altre aziende che non possono entrare, nonostante la sofferenza della Striscia di Gaza a causa delle interruzioni di corrente e la necessità di impianti per la produzione di energia solare.”

Secondo le stime dell’Alto Comitato governativo per la ricostruzione di Gaza, le perdite e i danni dovuti agli 11 giorni di guerra ammontano a circa 479 milioni di dollari [404 milioni di euro, ndtr.]. Tuttavia Hussein sostiene che il costo a lungo termine del conflitto è difficile da quantificare.

“Le perdite dirette a causa della guerra sono ormai evidenti, ma ci sono anche quelle legate alla chiusura, e nessuno ne parla, non se ne discute”, dice. “C’è una grave recessione economica dovuta alla mancanza di molti beni e allo scarso potere d’acquisto dei cittadini».

Nel frattempo, dalla Grande Marcia del Ritorno del 2018 Israele ha bloccato l’accesso degli aiuti del Qatar, pari a circa 30 milioni di dollari [25 milioni di euro, ndtr.] al mese, – impedendo a Mohammed al-Emadi, un funzionario del Comitato per la ricostruzione del Qatar, di portare i soldi in una valigia attraverso il valico di Erez.

Israele ha sostenuto che le procedure per la concessione degli aiuti a Gaza devono essere modificate per garantire che non giungano nelle mani di Hamas – modifiche finora respinte dall’organizzazione palestinese, che dal conflitto armato nel 2007 con il rivale politico Fatah è di fatto il partito di governo nella Striscia di Gaza.

La municipalità di Gaza City, che è la più grande della Striscia di Gaza, è stata colpita in modo particolarmente pesante dalle restrizioni sulle importazioni. Secondo il ministero dei Lavori pubblici e degli alloggi a Gaza, sono state distrutte circa 1.800 unità abitative, mentre circa 16.800 abitazioni sono state parzialmente danneggiate. Tra gli edifici distrutti risultano cinque torri, 74 strutture pubbliche e governative, 66 scuole e tre moschee.

Il consigliere comunale Hisham Skaik ha riferito a MEE che in seguito allo scoppio della guerra sono stati interrotti 13 progetti infrastrutturali in corso.

“L’inasprimento delle restrizioni a Kerem Shalom, l’unico valico commerciale verso Gaza, ha anche causato il mancato avvio di circa 16 progetti infrastrutturali, che erano stati finanziati due anni fa e i cui contratti erano già stati firmati”, dice Skaik.

Aggiunge inoltre che il Comune deve ancora ricevere molti aiuti internazionali per far fronte ai danni causati a maggio alle infrastrutture dagli attacchi aerei israeliani, stimati in 20 milioni di dollari [17 milioni di euro, ndtr.].

Per al-Rish, “l’orizzonte è bloccato”. Con la situazione di Gaza che peggiora di giorno in giorno, l’imprenditore palestinese non vede alcun indizio di una svolta a breve termine.

Pressioni per il rilascio dei prigionieri

Si ritiene che, attraverso le sue rigide restrizioni sulle importazioni, Israele stia deliberatamente facendo pressioni su Hamas per ottenere il rilascio di quattro israeliani, due dei quali morti, che si pensa siano trattenuti dal movimento palestinese a Gaza.

Secondo quanto riferito, i corpi dei soldati israeliani Oron Shaul e Hadar Goldin sarebbero nelle mani di Hamas dalla guerra del 2014. Due civili israeliani, Avera Mengistu e Hisham al-Sayed, sono finiti accidentalmente a Gaza rispettivamente nel 2014 e nel 2015 e si ritiene che siano tenuti prigionieri da Hamas.

Hamas ha insistito affinché il rilascio avvenga nel quadro di un accordo di scambio di prigionieri simile all’accordo Shalit del 2011, in seguito al quale un soldato israeliano, Gilad Shalit, è stato consegnato in cambio di 1.027 palestinesi imprigionati da Israele.

In seguito ai tentativi di mediazione condotti dall’Egitto fonti ufficiali palestinesi hanno affermato che finora non sono stati compiuti progressi tangibili.

In risposta, Hamas e le sue fazioni alleate a Gaza hanno cercato negli ultimi giorni di esercitare pressioni su Israele attraverso il parziale rilancio dei cosiddetti interventi di “confusione notturna”, già attuati durante la Grande Marcia del Ritorno lungo la barriera di separazione tra Gaza e Israele – dall’incendio notturno di pneumatici al lancio di palloni incendiari ed esplosivi verso il territorio israeliano al di là di Gaza.

Secondo i rapporti dei media israeliani i funzionari militari e della sicurezza del Paese temono la possibilità di un rinnovato confronto con Hamas nel caso persistesse lo stallo sull’ingresso a Gaza degli aiuti del Qatar e sui colloqui per l’accordo sui prigionieri, e non fossero allentate le continue difficoltà economiche e umanitarie nell’enclave e le persistenti tensioni nella Gerusalemme est occupata, inclusa la moschea di al-Aqsa.

Il portavoce di Hamas Abdul-Latif al-Qanu ha avvertito che “ulteriori restrizioni nei confronti di Gaza genereranno solo una violenta reazione contro l’occupazione”.

Ma l’analista politico palestinese Hassan Abdo esclude una ripresa del confronto militare su larga scala con Israele nel breve termine.

La realtà sul campo a Gaza dopo l’ultima guerra non ha i requisiti idonei per una nuova fase di scontri armati, mentre d’altra parte il nuovo governo israeliano guidato da Naftali Bennett è un governo ‘fragile’ che teme che qualsiasi scontro con Gaza porti alla sua caduta».

Tuttavia Abdo non scarta la prospettiva che le continue restrizioni israeliane nei confronti di Gaza potrebbero portare al riemergere di movimenti della Grande Marcia del Ritorno e alla nascita di nuove forme di resistenza all’occupazione”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Le forze israeliane uccidono un giovane palestinese durante il funerale di un ragazzino di 12 anni

Akram al-Waara

30 luglio 2021 – Middle East Eye

Shawkat Awad, 20 anni, è stato ucciso in un attacco armato al funerale di Mohammed al-Alami, ucciso a colpi di arma da fuoco dalle forze israeliane a Beit Ummar il giorno precedente

Le forze armate israeliane hanno sparato e ucciso un giovane palestinese durante gli scontri nella città di Beit Ummar, nel sud della Cisgiordania occupata, giovedì, meno di 24 ore dopo che i soldati avevano ucciso un ragazzo di 12 anni della stessa città: un caso che ha provocato grande indignazione.

Shawkat Awad, 20 anni, è stato ucciso dalle forze israeliane durante gli scontri scoppiati a Beit Ummar quando elementi della polizia di frontiera israeliana hanno attaccato il corteo funebre di Mohammed al-Alami, un dodicenne palestinese ucciso dai soldati che hanno sparato all’auto della famiglia mercoledì mentre tornavano a casa dopo aver fatto la spesa.

Giovedì pomeriggio, mentre migliaia di palestinesi che partecipavano al corteo funebre di Alami si dirigevano verso il cimitero di Beit Ummar, vicino al quale si trova una base militare israeliana, le forze israeliane hanno iniziato a sparare contro la folla bombe assordanti, gas lacrimogeni e proiettili di acciaio ricoperti di gomma.

Youssef Abu Maria, residente a Beit Ummar e membro dei Comitati di resistenza popolare della parte meridionale della Cisgiordania, ha detto a Middle East Eye: “Eravamo sotto shock in quel momento. La gente correva in tutte le direzioni, cercando di allontanarsi dai gas lacrimogeni ma anche cercando di raggiungere il cimitero in modo da poter seppellire Mohammed”.

L’attacco israeliano al corteo funebre ha scatenato “duri scontri” tra soldati armati e giovani palestinesi a Beit Ummar, ha detto Abu Maria, aggiungendo che i residenti della città hanno lanciato pietre contro i soldati, che hanno iniziato a sparare proiettili veri e skunk water [liquido puzzolente che provoca vomito ndt.] contro i manifestanti.

Secondo il Ministero della Salute dell’Autorità Palestinese, almeno 12 palestinesi, incluso Awad, sono stati feriti con proiettili veri durante gli scontri. Awad è stato colpito due volte: una alla testa e una al petto.

“I soldati gli hanno sparato a bruciapelo”, ha detto Abu Maria. “Era chiaro che volevano uccidere qualcuno”.

In una dichiarazione rilasciata giovedì, l’esercito israeliano ha accusato “centinaia di rivoltosi” di violenza e ha affermato di “essere al corrente della diceria” secondo cui un palestinese era stato ucciso e di aver avviato un’indagine sulla questione.

“Non abbiamo alcun modo per difenderci e nessuno che ci protegga”, ha detto Abu Maria. “Abbiamo solo pietre per difenderci da uno degli eserciti più forti del mondo. E quando lanciamo sassi contro di loro ci chiamano terroristi”.

Nel primo pomeriggio di venerdì, Abu Maria ha descritto la situazione a Beit Ummar come “deprimente” e “tesa” mentre i residenti si preparavano a partecipare al funerale di Awad.

Siamo riusciti a malapena a seppellire Mohammed e a piangere la sua morte, poi l’occupazione ha ucciso un altro dei nostri figli. È devastante”, ha detto.

Abu Maria ha detto a MEE che dozzine di soldati israeliani si stavano radunando all’ingresso della città venerdì mattina; i residenti temevano che il funerale di Awad potesse finire come il funerale di Alami il giorno prima.

“Abbiamo paura che i soldati ci attacchino di nuovo”, ha dichiarato. “A Beit Ummar non possiamo seppellire in pace i nostri morti perché il cimitero è vicino alla base militare. Speriamo solo che non ci sia un altro martire oggi”.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Rapporto OCHA del periodo 13 -26 luglio 2021

Durante il periodo di riferimento sono morti due palestinesi, tra cui un ragazzo, colpiti dalle forze israeliane [seguono dettagli]

Forze israeliane sono entrate in An Nabi Salih (Ramallah) per eseguire un’operazione di arresto e, quando i residenti palestinesi hanno lanciato loro pietre, i soldati hanno sparato proiettili veri e lacrimogeni. Durante questo scontro a fuoco, le forze israeliane hanno ucciso un ragazzo di 17 anni che, secondo i militari, stava lanciando pietre mettendo in pericolo la vita dei soldati. Secondo fonti palestinesi, gli hanno sparato alla schiena. Il 26 luglio, un palestinese è morto per le ferite riportate il 14 maggio a Sinjil (Ramallah), quando venne colpito dalle forze israeliane durante scontri tra palestinesi e forze israeliane.

In Cisgiordania, complessivamente le forze israeliane hanno ferito 615 palestinesi, inclusi 24 minori, il più piccolo dei quali ha tre mesi [seguono dettagli]. 588 [dei 615] sono rimasti feriti a Beita (Nablus), durante proteste contro gli insediamenti [colonici israeliani]. Durante tali proteste anche due soldati israeliani sono stati colpiti e feriti da pietre, a quanto riferito, lanciate da palestinesi. Tredici minori palestinesi sono rimasti feriti A Ein al Hilwa, nella Valle del Giordano; in questo caso, coloni israeliani avevano cercato di sottrarre una serbatoio d’acqua, innescando scontri tra residenti palestinesi e forze israeliane. I rimanenti [dei 615] sono stati feriti in altre località. Del totale di feriti palestinesi, 44 sono stati colpiti con proiettili veri, 140 con proiettili di gomma; i rimanenti sono stati curati principalmente per inalazione di gas lacrimogeni o per lesioni conseguenti ad aggressioni fisiche. Oltre ai 615 [palestinesi] feriti direttamente dalle forze israeliane, 69 sono rimasti feriti a Beita e Osarin mentre scappavano dalle forze israeliane, o in circostanze non verificabili.

In Cisgiordania le forze israeliane hanno effettuato 91 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 158 palestinesi [seguono dettagli]. Circa 45 studenti universitari sono stati arrestati a Turmus’ayya (Ramallah) durante una protesta contro le “demolizioni punitive”; altri 20 sono stati arrestati nella Città Vecchia di Gerusalemme, durante scontri con le forze israeliane, conseguenti all’ingresso di oltre 1.600 israeliani nel complesso di Haram Al Sharif / Monte del Tempio; i restanti sono stati arrestati in Cisgiordania in circostanze diverse.

Il 25 luglio, da Gaza, gruppi armati palestinesi hanno lanciato palloni incendiari, innescando incendi in Israele. In risposta, l’aviazione israeliana ha effettuato attacchi aerei su Gaza, a quanto riferito prendendo di mira basi militari. Secondo i media israeliani, durante tali attacchi aerei, raffiche di mitragliatrice provenienti da Gaza avrebbero preso di mira gli aerei militari, colpendo e danneggiando leggermente una struttura nel sud di Israele. In conseguenza di ciò, le autorità israeliane hanno ridotto, da 12 a 6 miglia nautiche, la zona di pesca consentita [ai palestinesi] lungo la costa meridionale di Gaza.

Il 22 luglio, nella città di Gaza, un palestinese è morto e altri 14, tra cui sei minori, sono rimasti feriti a seguito dell’esplosione verificatasi in un edificio. La struttura a tre piani è crollata e diverse case e negozi vicini hanno subito danni. Alcune fonti hanno ipotizzato che l’esplosione sia stata causata da esplosivi immagazzinati nell’edificio.

Sempre a Gaza, vicino alla recinzione perimetrale e al largo della costa, in almeno nove occasioni, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento, verosimilmente per far rispettare le restrizioni di accesso [imposte ai palestinesi]. Almeno due volte [le forze israeliane] hanno anche svolto operazioni di spianatura del terreno all’interno di Gaza, a ridosso della recinzione perimetrale.

In Cisgiordania, per mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, le autorità israeliane hanno demolito, sequestrato o hanno costretto i proprietari ad autodemolire un totale di 59 strutture di proprietà palestinese, sfollando 96 persone e creando ripercussioni su 550 [seguono dettagli]. La maggior parte delle strutture (49) e degli sfollati (84) erano in Area C, nella Comunità beduina di Ras al Tin (Ramallah); in particolare, a Furush Beit Dajan (Nablus), la demolizione di un serbatoio idrico agricolo (oggetto di una donazione) ha compromesso l’accesso all’acqua di oltre 500 persone.

Nel governatorato di Hebron, in episodi separati, coloni israeliani hanno fisicamente aggredito e ferito tre palestinesi. Inoltre, in Cisgiordania, coloni israeliani noti, o ritenuti tali, hanno danneggiato almeno 200 alberi o alberelli e altre proprietà palestinesi.

Palestinesi, lanciando pietre, hanno ferito almeno quattro coloni israeliani in transito a Gerusalemme Est, tra cui un bambino di un anno. Secondo fonti israeliane, sono state danneggiate almeno 16 auto israeliane.

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Ultimi sviluppi (successivi al periodo di riferimento)

Il 28 luglio, all’ingresso di Beit Ummar (Hebron), le forze israeliane hanno sparato, uccidendo un ragazzo palestinese 11enne che si trovava in auto con suo padre. Secondo l’esercito israeliano, i soldati avevano ordinato all’autista di fermarsi e, non avendo questi fermato il veicolo, hanno sparato contro l’auto, mirando alle ruote. Il 29 luglio, al funerale del ragazzo, durante il quale i palestinesi hanno lanciato pietre in segno di protesta, i soldati delle forze israeliane hanno sparato proiettili veri, proiettili di gomma e lacrimogeni, colpendo ed uccidendo un palestinese.

Il 27 luglio, all’ingresso di Beita (Nablus), le forze israeliane hanno ucciso un palestinese di 41 anni. Secondo i militari, l’uomo stava procedendo in direzione dei soldati impugnando una spranga di ferro e, nonostante gli spari di avvertimento, ha continuato ad avanzare. In quel momento non erano in corso scontri.




Palestinesi d’Israele. Un duro colpo al mito della “coesistenza”

GRÉGORY MAUZÉ

29 luglio 2021 – Orient XXI

Un partito arabo, il Raam, ha contribuito alla formazione del governo israeliano che in buona misura continua le pratiche di apartheid e la colonizzazione. Le mobilitazioni della primavera scorsa in solidarietà con Gerusalemme est e Gaza hanno tuttavia ricordato la solidità dei rapporti che uniscono tutte le componenti del popolo palestinese.

Il ruolo cruciale giocato dai palestinesi di Israele nella recente crisi ha fatto vacillare molte certezze. Cittadini di serie B, con le loro mobilitazioni hanno evidenziato la situazione di discriminazione materiale e simbolica che colpisce i discendenti degli autoctoni rimasti sulla propria terra quando venne creato Israele. La fiammata di violenza nelle città cosiddette “miste” ha fatto esplodere il mito di una coesistenza armoniosa tra comunità che in realtà non è mai stata pacifica per il gruppo dominato.

Soprattutto ha ricordato le somiglianze tra la loro condizione e quella del popolo palestinese nel suo complesso. Sheikh Jarrah, Al-Aqsa, Gaza: i riferimenti all’oppressione subita nei territori occupati erano sulle bocche di tutti. Questa dinamica di solidarietà, inedita dallo scoppio della Seconda Intifada, è culminata con il grande “sciopero per la dignità” del 18 maggio 2021 dei lavoratori palestinesi, molto partecipato da entrambi i lati della Linea Verde [il confine tra Israele e la Cisgiordania prima dell’occupazione nel 1967, ndtr.]. Ha sanzionato l’incapacità israeliana di risolvere il problema palestinese all’interno delle proprie frontiere riconosciute. Fin dalla sua creazione quest’ultimo di fatto si è impegnato a reprimere l’affermazione nazionale dei suoi cittadini palestinesi, significativamente definiti “arabi israeliani” per cancellare l’origine colonialista dell’oppressione a cui si trovano di fronte.

Esatto contrario

Questo ritorno imprevisto della centralità della causa nazionale nella minoranza palestinese contrasta con una dinamica quasi simmetricamente opposta all’interno della sua classe politica.

All’inizio del 2021 la Lista Unita, coalizione che dal 2015 raggruppava in modo intermittente i partiti che rappresentano gli interessi della minoranza araba nel parlamento israeliano, è stata indebolita dall’uscita del partito islamista Raam. Infatti il suo leader, Mansour Abbas, ha manifestato in modo sempre più esplicito il suo desiderio di rompere con quello che cementava questa eterogenea alleanza: il legame tra la lotta per i diritti dei palestinesi nei territori occupati e di quelli di Israele. Questi ultimi, ritiene Mansour Abbas, dovrebbero ormai pensare soprattutto a difendere i propri interessi. Liberati dal peso morto che rappresenterebbe la causa palestinese, potrebbero allora prendere in considerazione una collaborazione promettente con una destra nazionalista che, per quanto colonialista e suprematista, è tuttavia stabilmente al potere. Ultima trasgressione, Mansour Abbas ha manifestato in modo evidente la sua complicità con Benjamin Netanyahu, proponendo il suo partito come perno del gioco politico israeliano.

Se questo approccio ha rappresentato un punto di rottura per i suoi ex-alleati, è stato accolto a braccia aperte dal mondo politico e mediatico israeliano. “Mano a mano che la causa palestinese svanisce nel mondo arabo, essa si attenua anche tra gli arabo-israeliani,” scriveva entusiasticamente nel 2020 il Times of Israel [quotidiano israeliano on line in lingua inglese, ndtr.]. Dopo gli accordi di normalizzazione avvenuti qualche mese prima tra Israele e varie monarchie del Golfo, sarebbero dunque i cittadini palestinesi di Israele a dimostrare a loro volta il proprio “pragmatismo”.

Nella posizione di persona decisiva in seguito alle elezioni del 23 marzo 2021, Abbas ha continuato a centrare le proprie esigenze sugli interessi della “sua comunità”, evitando ogni riferimento alla questione palestinese nel suo insieme. Salvo i suprematisti del Partito Sionista Religioso, la classe politica [ebreo-israeliana, ndtr.] ha allora salutato, secondo le parole di un ministro della coalizione di Benjamin Netanyahu, “la vera voce degli arabo-israeliani”. “Una rivoluzione politica,” ha persino intitolato Haaretz [quotidiano israeliano di centro-sinistra, ndtr.], che ha esortato la popolazione ebraica ad accettare la mano tesa.

L’unità palestinese manifestata durante le rivolte di maggio e aprile non ha impedito a Mansour Abbas e al suo partito, che si sono dissociati per quanto possibile dalle mobilitazioni, anche da quelle pacifiche, di essere conseguenti con la loro logica. La polvere dei bombardamenti a Gaza si era appena depositata quando essi hanno contribuito in modo decisivo alla conclusione di un accordo di governo destinato ad allontanare Netanyahu dal potere. Come previsto, nessuna citazione della questione palestinese da parte sua, ma un piano sostanzioso di investimenti nelle località arabe, il riconoscimento di una manciata di villaggi beduini nel Negev e una sospensione temporanea della distruzione di edifici costruiti senza permesso. In modo altrettanto prevedibile, questa collaborazione arabo-sionista è stata considerata dai commentatori politici un segno dell’apertura della società israeliana e della vitalità della sua democrazia.

Persistenza dell’apartheid

Tra i palestinesi le reazioni sono state nettamente meno entusiastiche. La debole speranza di vita di questo governo, che va dalla sinistra sionista all’estrema destra annessionista, fa sorgere dubbi sul conseguimento effettivo di misure a favore degli arabi, tanto più che esso è in un primo tempo diretto dall’araldo della corrente messianica suprematista ebraica, Naftali Bennett. Cosa ancora più importante, molti hanno criticato l’assenza di risposte alle cause profonde delle diseguaglianze razziali in Israele. Rimangono in vigore norme discriminatorie strutturali come legge sullo Stato-Nazione del 2018, che relega le minoranze non ebraiche in una condizione di secondo piano, o della legge sulla Nakba del 2011, che impedisce di commemorare la grande espulsione dei palestinesi durante la creazione dello Stato di Israele.

Allo stesso modo gli islamisti e la sinistra sionista hanno appoggiato con una relativa facilità il prolungamento del divieto per i palestinesi dei territori occupati di ottenere la cittadinanza israeliana grazie ai ricongiungimenti familiari.

Se l’obiettivo perseguito è l’uguaglianza, non è possibile isolare la questione degli arabi israeliani da quella palestinese nel suo complesso, dal momento che l’oppressione delle diverse componenti del popolo palestinese risponde, in misura variabile, alla stessa filosofia di apartheid,” sostiene Naim Moussa, del centro Mossawa, che promuove l’uguaglianza dei cittadini arabi [di Israele, ndtr.].

Di fatto la rivolta di piazza dei palestinesi dal Giordano al Mediterraneo conferma la constatazione ormai largamente condivisa dalle organizzazioni dei diritti umani: l’esistenza di un regime di supremazia razziale su tutto il territorio controllato da Israele. Il confinamento del 18% dei palestinesi di Israele sul 3% delle terre, l’impossibilità di ottenere un permesso edilizio o l’ebraizzazione a marce forzate da parte di coloni fanatici dei quartieri arabi riecheggiano così clamorosamente la situazione di Gerusalemme est e in Cisgiordania. Allo stesso modo la repressione spietata di queste manifestazioni, a volte con l’appoggio di ausiliari estremisti venuti dalle colonie, e l’ondata di arresti massicci che ne è seguita (più di 2.000 dall’inizio del maggio 2021) evocano i metodi contro-insurrezionali praticati nei territori occupati.

In questo contesto molti temono una risistemazione di facciata che lasci intatte le strutture istituzionali di dominazione. “Quei pochi miglioramenti ottenuti dal Raam non sono molto diversi da quelli ottenuti in modo puntuale grazie al nostro lavoro parlamentare, con la differenza che all’epoca non avevamo da pagare il prezzo del sostegno a un governo che perpetua l’occupazione, le colonie e la discriminazione razziale,” osserva Raja Zaatry, del partito comunista israeliano (Hadash), principale componente della Lista Unita.

Inoltre la tanto celebrata rivoluzione nei rapporti tra ebrei e arabi non lo è affatto. “La storia è piena di cosiddetti dirigenti palestinesi che hanno effettivamente venduto la causa del loro popolo per ottenere un vantaggio personale”, rivela il giornalista e militante Rami Younis, originario di Lod-Lydda, che ricorda la partecipazione di partiti-satellite arabi ai primi governi laburisti o la cooptazione di notabili locali sotto il regime dell’amministrazione militare [israeliana] dal 1948 al 1966.

Come all’epoca, questa collaborazione tra élite senza dubbio non si rifletterà sui rapporti intercomunitari nella società. L’inclusione di Raam è innanzitutto il risultato di un’aritmetica parlamentare che lo ha reso indispensabile. È quindi poco suscettibile di cancellare anni di incitamento all’odio contro la minoranza araba da parte di quegli stessi che oggi incensano l’atteggiamento di Abbas. Del resto, con quattro seggi, il suo partito è certo il primo della sua comunità se si contano separatamente i sei ottenuti dalla Lista Unita, ma nel contesto di un tasso record d’astensione delle località arabe (55,4% contro il 33,6% nel 2020), in grande misura provocato dalla divisione della rappresentanza politica palestinese. Perché l’iniziativa di Abbas ha soprattutto segnato una battuta d’arresto del processo di affermazione di una forza parlamentare palestinese autonoma. Il successo clamoroso della Lista nel 2020 l’aveva in effetti portata a 15 seggi e ridotto i voti arabi per i partiti sionisti al 12%, il livello più basso da sempre, fornendole un’attenzione inedita. Al contrario, la sua scissione nel 2021 consente di opporre con poco sforzo gli “arabi buoni”, che aspirano a partecipare nel posto che gli compete al sogno israeliano, senza rimettere in discussione le disuguaglianze strutturali e il razzismo, agli “arabi sleali”, che reclamano diritti in quanto minoranza nazionale.

Scetticismo riguardo alle elezioni

Peraltro non è detto che la sequenza imposta dalla piazza palestinese favorisca la Lista Unita. Lo scoppio delle rivolte d’aprile e maggio fuori da qualunque quadro centralizzato costituisce di fatto una sconfessione generale per la classe politica palestinese, che fa eco al divorzio tra l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) e le mobilitazioni nate spontaneamente in Cisgiordania. A questo riguardo è significativo che le città “miste” nelle quali si sono prodotte siano anche quelle in cui la popolazione araba ha maggiormente disertato le urne il 23 marzo 2021.

Queste mobilitazioni spontanee testimoniano pertanto un profondo scetticismo quanto all’efficacia della partecipazione palestinese al gioco politico israeliano. “I palestinesi si sono fortemente mobilitati nel 2020 per porre la Lista Unita in terza posizione e con il suo risultato migliore unicamente per essere poi rifiutati dal sistema,” spiega Amjad Iraqi sul sito +972 Magazine, in riferimento al dialogo abortito avviato nel 2020 per affrettare la caduta di Netanyahu tra il capo dell’opposizione Benny Gantz e Ayman Odeh, dirigente di Hadash. L’ambizione di quest’ultimo di far progredire una collaborazione ebreo-palestinese basata sull’inclusione della questione palestinese in senso lato e l’impegno a combattere le disuguaglianze nel loro complesso si è scontrata con la persistente ostilità della maggioranza dell’opinione pubblica ebraica.

Mansour Abbas ha fatto lo stesso errore di Ayman Odeh. Questi ultimi 3 anni sono stati un esame per i nostri rappresentanti politici, e purtroppo hanno fallito due volte,” sostiene Rawan Bisharat, militante originaria di Giaffa ed ex-codirettrice dell’associazione per il dialogo ebraico-arabo Sadaka-Reut. “Il fossato tra la nuova generazione che è scesa in piazza e quella precedente che si è dimostrata incapace di comprendere l’escalation a cui abbiamo assistito è oggi evidente. La Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.] non è più il luogo adeguato per far avanzare i nostri diritti e dovremmo prendere in considerazione in modo diverso il nostro contributo per il futuro.

La partecipazione alle elezioni rimane una leva per difendere i diritti del popolo palestinese nel suo complesso, tanto più se ci mobilitiamo in modo consistente,” confida Naim Moussa. Continuare su questa strada richiederà però di tener conto dei cambiamenti della società araba in Israele nella sua diversità. La persistenza a lungo termine delle disuguaglianze tra i più precari li rende da parte loro sensibili alle proposte, per quanto aleatorie, che consistono nel migliorare nell’immediato la loro vita quotidiana, finché non si porrà fine al regime discriminatorio che colpisce il popolo palestinese nel suo complesso.

GRÉGORY MAUZÉ

Politologo e giornalista.

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)