Una madre sola palestinese fa sorgere una tendopoli in segno di protesta contro la gentrificazione di Giaffa

Oren Ziv

23 novembre 2021 – +972 Magazine

Anni di abbandono da parte dello Stato e l’aumento dei prezzi fanno sì che le famiglie palestinesi non possano più permettersi un affitto nella propria città. I manifestanti hanno allestito tende per chiedere soluzioni.

Farida Najar aspetta da quattro anni di ricevere un alloggio pubblico a Giaffa. Ma questa madre palestinese sola con quattro figli non può più affrontare l’aumento degli affitti nella città in cui è nata e cresciuta. La scorsa settimana ha trasferito la sua famiglia in una tenda in un parco pubblico, per protestare contro la gentrificazione razziale che, secondo lei, sta cacciando via da Giaffa gli abitanti palestinesi.

“Mi sono trasferita in una tenda perché non ho una casa in cui vivere”, dice Najar a +972 Magazine. Tutto quello che voglio è un appartamento. Lo Stato vuole che ce ne andiamo in altre città come Lydda o Ramle [altre città israeliane con una forte presenza di arabo-israeliani, ndtr.]. Questa è una politica razzista e non resteremo in silenzio”.

Giorni dopo che Najar aveva montato la sua tenda, altre madri sole che affrontano sfide simili hanno iniziato ad unirsi a lei. Mercoledì il piccolo parco di Yefet Street era pieno di tende.

In un primo momento, nonostante l’ordine municipale di sgombero emesso contro la tendopoli, le 10 famiglie hanno continuato a rimanere nel parco con i loro bambini. Nemmeno le forti piogge le hanno scoraggiate. Decine di manifestanti palestinesi e israeliani, tra cui i parlamentari Ayman Odeh, Sami Abu Shehadeh e Ofer Cassif [tutti e tre parlamentari arabo-israeliani della Lista Unita, ndtr.] hanno partecipato per tutta la settimana alle veglie per sostenere la lotta delle madri sole.

Ma dopo un incontro domenicale con il Mishlama, settore locale del comune di Tel Aviv che si occupa di questioni riguardanti gli abitanti di Giaffa, alcune famiglie hanno accettato di lasciare immediatamente il parco in cambio di aiuti sociali e finanziari, anche se non è stato offerto loro un alloggio come soluzione definitiva. Fino a lunedì almeno sei delle donne hanno firmato quelli che hanno descritto come ” accordi migliori ” e hanno lasciato l’accampamento di protesta.

Le donne che hanno deciso di restare, tra cui Najar, si sono trasferite a dormire nel rifugio pubblico del parco, dopo che martedì mattina sono arrivati gli agenti comunali per rimuovere il materiale rimasto.

L’accampamento di protesta è stato eretto da famiglie di Giaffa, per lo più madri sole, che stanno vivendo gravi difficoltà a causa di anni di abbandono da parte delle politiche governative riguardanti l’edilizia popolare”, ha detto a +972 Magazine un portavoce di Tel Aviv-Giaffa. “Le tende sono state smantellate volontariamente, dopo un incontro tra le donne, il Comitato di rappresentanza di Giaffa e i rappresentanti del comune, il cui obiettivo era trovare soluzioni per le famiglie e porre fine alla protesta in modo rispettoso e non violento”.

Il portavoce ha aggiunto che i rappresentanti dei servizi sociali del comune e del Comitato di rappresentanza di Giaffa si incontreranno con le donne ogni due settimane per seguire i loro casi.

Ogni protesta è legittima e il comune incoraggia gli abitanti a partecipare attivamente alla dialettica democratica. Detto ciò, l’allestimento di un campo in uno spazio pubblico ha un limite di tempo, indipendentemente dalla legittimità della causa”, aggiunge il portavoce.

Anche se le famiglie hanno diritto all’edilizia pubblica, anni di politiche carenti hanno reso quasi impossibile assicurarsi un appartamento economico in città. Esse dicono che i sussidi che nel frattempo ricevono dallo Stato non bastano a coprire un affitto a Giaffa.

La carenza di appartamenti di edilizia pubblica disponibili a Tel Aviv in generale e a Giaffa in particolare fa sì che le famiglie spesso aspettino anni prima di assicurarsi un alloggio a prezzi accessibili. Secondo un rapporto del 2019 della Corte dei Conti le persone che hanno diritto all’alloggio popolare hanno dovuto aspettare in media 31 mesi per ricevere un appartamento, e nella zona centrale di Israele i tempi di attesa possono essere anche più lunghi.

“I nostri genitori hanno debiti e non possono aiutarci, e ora noi non possiamo aiutare i nostri figli”, lamenta Najar.

Una delle donne che si è unita a Najar è Fatima, madre di quattro figli, che ha preferito non far sapere il suo cognome. “Siamo 8 famiglie con 27 bambini, viviamo come una grande famiglia”, dice. Siamo qui perché non abbiamo un tetto sotto cui vivere con i nostri figli. A Giaffa l’affitto è caro e l’assistenza che riceviamo dallo Stato non ci permette di vivere dignitosamente».

“All’inizio i bambini pensavano che fossimo in campeggio, ma dopo pochi giorni per loro è diventato difficile”, prosegue Fatima. “Con questa pioggia ne hanno abbastanza, ma resteremo qui finché non vedremo soddisfatti i nostri diritti”.

La crisi abitativa che i cittadini palestinesi affrontano a Giaffa ha un contesto storico più ampio. Dopo la Nakba del 1948 [l’esodo della popolazione araba palestinese in seguito alla guerra di occupazione israeliana, ndtr.] gli abitanti palestinesi rimasti a Giaffa vennero concentrati nei quartieri di Ajami e Jabalia, dove molti ricevettero lo status di protezione” come affittuari in case di loro proprietà o appartenenti a famiglie di palestinesi sfollati o profughi. Quelle case vennero registrate come di proprietari “assenti”, per cui alla fine furono trasferite all’Autorità statale per lo sviluppo.

Negli ultimi anni i progetti per la costruzione di immobili di lusso hanno dominato il paesaggio della città costiera e le società di edilizia residenziale pubblica hanno venduto gli edifici a investitori privati. Ciò ha reso ancora più difficile per gli abitanti palestinesi del luogo prendere in affitto o acquistare una casa a Giaffa.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




I palestinesi si scontrano con la sicurezza israeliana dopo l’attacco terroristico a Gerusalemme

Rina Bassist

22 novembre 2021 Al Monitor

I residenti del campo profughi di Gerusalemme est Shuafat si sono scontrati con le forze di sicurezza israeliane esprimendo il loro sostegno all’assalitore che ha ucciso un israeliano e ne ha ferito altri quattro nei vicoli della Città Vecchia di Gerusalemme

Centinaia di palestinesi hanno marciato il 21 novembre attraverso il campo profughi di Shuafat a Gerusalemme est a sostegno di Fadi Abu Shkhaydam, che ha sparato e ucciso un cittadino israeliano e ne ha ferito altri quattro all’inizio della giornata. Dopo la sparatoria le forze di sicurezza israeliane sono arrivate al campo per arrestare diversi familiari di Abu Shkhaydam sospettati di averlo assistito. Secondo quanto riferito, i sospetti sono aumentati dopo che si è saputo che la moglie di Abu Shkhaydam e alcuni dei suoi figli avevano lasciato la loro casa a Shuafat tre giorni prima dell’attacco.

Secondo quanto riferito, i residenti di Shuafat si sono riuniti per protestare contro il raid. I manifestanti hanno dato fuoco a pneumatici e lanciato sassi contro gli agenti della polizia di frontiera che sono giunti sul posto, mentre cantavano canzoni di sostegno all’ala militare di Hamas. Hanno anche chiamato ad uno sciopero generale oggi a Shuafat.

La sparatoria è avvenuta la mattina del 21 novembre nella Città Vecchia di Gerusalemme. Abu Shkhaydam, noto alle agenzie di sicurezza israeliane come membro di Hamas, ha sparato più volte con un fucile automatico contro un gruppo di civili israeliani e agenti di polizia israeliani nei vicoli della Città Vecchia. Una delle persone prese di mira da Abu Shkhaydam era Eliyahu David Kay, 26 anni, una guida turistica della Western Wall Heritage Foundation, immigrato un paio di anni fa dal Sudafrica e in procinto di sposarsi con la sua fidanzata. Abu Shkhaydam gli ha sparato più volte, incluso un colpo mortale alla testa. Gli agenti di polizia sulla scena hanno sparato ad Abu Shkhaydam dopo che aveva aperto il fuoco, uccidendolo.

Il ministro dell’interno, Omer Bar Lev, ha affermato che l’aggressore “si è mosso attraverso i vicoli e ha sparato un bel po’. Fortunatamente, il vicolo era semideserto perché altrimenti – il cielo non voglia – ci sarebbero state più vittime. L’intero incidente è durato 32 o 36 secondi. L’azione delle agenti donne è stata al più alto livello operativo possibile”.

Migliaia di persone hanno partecipato al funerale di Kay questa mattina. Una delle quattro persone ferite sarebbe ricoverata a Gerusalemme in condizioni critiche. Il primo ministro Naftali Bennett ha twittato ieri: “Il cuore piange per l’amato Eliyahu David Kay che è stato ucciso questa mattina da un vile terrorista a Gerusalemme. Eliyahu è emigrato in Israele dal Sud Africa, ha servito come paracadutista nel 202° battaglione e per il suo sostentamento ha lavorato come guida turistica al Muro del Pianto. Incarnava il meraviglioso israeliano che è legato al suo paese e alla sua patria”.

L’incidente è stato il primo del suo genere nella Città Vecchia di Gerusalemme dal 2018, quando un uomo ebreo – Adiel Kolman – fu pugnalato a morte. Kolman aveva lavorato all’epoca negli scavi archeologici nel vicino sito della Città di David.

Le informazioni dicono che Abu Shkhaydam era un insegnante di studi islamici e che frequentava assiduamente la moschea di Al-Aqsa. Altri rapporti sostengono che di tanto in tanto predicava nel complesso del Monte del Tempio. Una dichiarazione di Hamas ha elogiato Abu Shkhaydam per il suo atto, affermando: “La Città Santa continua a combattere contro l’occupante straniero e non si arrenderà all’occupazione”.

Hamas non ha rivendicato l’attentato.

Questa mattina il ministero degli Esteri francese ha condannato l’attentato nella Città Vecchia di Gerusalemme.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




“È divertente sparare ai palestinesi”: parlano sei ex-soldati israeliani

Rasha Reslan

21 novembre 2021- Al Mayadeen

Sei soldati dell’occupazione israeliana rievocano in un video le atrocità che hanno commesso in una realtà sconcertante che riflette la gravità della situazione ad al-Khalil da un punto di vista: una realtà di crimini contro l’umanità.

Ai soldati piace proprio sparare proiettili ricoperti di gomma.”

E’ divertente.”

Tutti si danno il cinque.”

Sei fantastico, l’hai beccato.”

Di recente il New York Times ha ottenuto dalla regista ed ‘ex’-soldatessa israeliana Rona Segal un documentario breve: “Mission: Hebron”.

È la prima volta negli ultimi anni che un documentario mette in luce una parte delle sofferenze giornaliere dei palestinesi nella al-Khalil/“Hebron” occupata: una realtà sconvolgente che raramente viene consentito all’opinione pubblica di vedere.

Al-Khalil è considerata la più grande città della Cisgiordania occupata e l’unica in cui i coloni israeliani abitano accanto ai palestinesi, accentuando quindi le loro sofferenze.

I palestinesi devono affrontare gravi limitazioni agli spostamenti, in quanto le forze di occupazione israeliane sono costantemente presenti e impegnate da molto tempo a espellerli, in particolare dalla Città Vecchia.

Nei suoi sei capitoli il breve documentario inquadra le atrocità israeliane ad al-Khalil

Sei soldati dell’occupazione israeliana, tutti arruolati all’età di 18 anni, descrivono la loro cosiddetta “missione” ad al-Khalil. A loro è stato “affidato l’incarico di proteggere e controllare i coloni israeliani.” A questi soldati appena maggiorenni è stato dato un totale controllo sulle vite dei palestinesi in città.

I sei ‘ex’ soldati descrivono in un set in studio la loro “missione” basata sui “doveri stabiliti dalle loro regole d’ingaggio”: i coloni israeliani di al-Khalil sono “controllati e protetti” attraverso una serie di strategie, rendendo nel contempo insopportabili le vite dei civili palestinesi.

Ripensandoci, i soldati ricordano la loro confusione, il loro disagio e il loro odio.

Raccontano sullo schermo le atrocità commesse con una nuova prospettiva della gravità della situazione sul terreno ad al-Khalil, che costituisce un crimine contro l’umanità, di apartheid e persecuzione.

Missione” principale

Il tuo unico compito è di controllare e proteggere i coloni israeliani a Hebron (al-Khalil).”

Chiarendo che il compito dei soldati israeliani è di proteggere e scortare i coloni israeliani con ogni mezzo, risulta chiaro che la crescente e sempre più grave violenza dei coloni israeliani contro i palestinesi viene attuata con l’esplicito appoggio delle autorità israeliane di occupazione. Nel contempo i soldati israeliani hanno l’ordine di chiudere gli occhi e persino di difendere i responsabili [delle violenze].

La violenza dei coloni contro i palestinesi include danneggiamento di proprietà privata, lancio di pietre e aggressioni fisiche, così come attacchi contro attivisti e giornalisti.

Tali aggressioni sono diventate sempre più frequenti negli ultimi anni e vengono commesse impunemente.

Uno dei soldati israeliani testimonia che è un coordinatore della sicurezza dei coloni israeliani che gli dà gli ordini, non il loro comandante militare. In molti casi i soldati dell’occupazione israeliana forniscono agli aggressori una scorta e un supporto. Ma quando i soldati israeliani non si uniscono agli attacchi, secondo le ammissioni dei soldati, “i coloni illegali possono rivoltarsi contro di loro, diventando quindi nemici,”.

Se spari ai palestinesi i coloni ti danno una pizza e un caffè.” Questo è di gran lunga uno degli aspetti più sgradevoli della “missione”. L’‘affetto’ dei coloni può trasformarsi in odio se a loro viene vietato di fare aggressioni estreme contro i palestinesi. A questo punto il soldato che prima era amato si trasforma in “traditore” e “nazista”.

Una strada sterilizzata senza palestinesi”

Con un’affermazione razzista, uno degli ‘ex’ soldati israeliani afferma che ci sono strade che sono “sterilizzate da palestinesi”.

Come parte della politica dell’esercito israeliano di rendere queste zone “sterilizzate” da palestinesi, ad al-Khalil le forze israeliane di occupazione vietano ai palestinesi di camminare in vaste aree di quella che prima dell’occupazione era la principale arteria della città.

Nel suo racconto Imad Abu Shamsieh, il coordinatore dello Human Rights Defenders Group [Gruppo dei Difensori dei Diritti Umani, ong palestinese che documenta le violazioni dei diritti umani nei territori palestinesi, ndtr.], dice ad al Mayadeen in edizione inglese che l’occupazione israeliana ha piazzato più di cento posti di controllo con cancelli in metallo ed elettronici, videocamere di sorveglianza, barriere di cemento armato e avamposti di ispezione nelle vie “sterilizzate”.

Rivela anche che circa 525 negozi palestinesi cono stati completamente chiusi nel 2000 a causa della decisione di un tribunale militare dell’occupazione israeliana.

Inoltre Abu Shamsieh afferma chiaramente che dall’ottobre del 2000 i veicoli palestinesi, comprese le ambulanze, sono esclusi dall’“area H2” [sotto totale controllo israeliano, ndtr.].

L’attivista per i diritti umani continua affermando che “le forze di occupazione israeliane impediscono ai giornalisti locali e internazionali di entrare nell’area H2 e nelle strade sterilizzate. Nel contempo io, insieme a un gruppo di palestinesi di al-Khalil, abbiamo deciso di documentare i crimini di guerra israeliani che avvengono giornalmente e prendono di mira uomini, donne e bambini palestinesi.”

Dal 2010, con l’iniziativa ‘Capturing Occupation Camera Project in Palestine’ [Progetto della Telecamera che Riprende l’Occupazione in Palestina]”, abbiamo iniziato a filmare le atrocità dell’occupazione israeliana contro i palestinesi.

Siamo un gruppo di circa 30 giovani volontari palestinesi che mettono in evidenza e documentano le violazioni dei diritti umani e delle leggi internazionali in Palestina,” dice Abu Shamsieh ad Al Mayadeen.

Perquisizioni corporali

Uno dei soldati israeliani afferma spavaldo che lo scopo principale delle perquisizioni corporali è “fermare e perquisire ogni palestinese”, ma implicitamente le perquisizioni sono di fatto intese a umiliare i palestinesi senza alcuna giustificazione legale.

Quando perquisisci qualcuno che prendi per la strada ciò richiede di toccare la persona,” dice un soldato.

Un gruppo di uomini palestinesi può essere preso di mira per una perquisizione semplicemente perché può avere un aspetto basato sullo stereotipo hollywoodiano razzista di “terrorista” nella mente dell’occupante. Le perquisizioni non sono messe in atto per trovare armi, ma per umiliare i palestinesi o creare “tensioni” tra loro. “L’idea è di provocare loro tensione, in modo che tengano la testa bassa.”

A causa della vicinanza delle colonie israeliane in città, i palestinesi sono circondati da una grande presenza militare e sono sottoposti a caso a perquisizioni di routine e offensive, a maltrattamenti e pestaggi.

Pattuglie

La ricercatrice sul campo palestinese Manal al-Jaabari di al-Khalil dice ad Al Mayadeen che i minori di al-Harika, un quartiere della città, sono quotidianamente soggetti al terrorismo israeliano.

Ad al-Harika, che si trova nei pressi di “Kiryat Arba” [una delle prime e più violente colonie israeliane, ndtr.], le forze dell’occupazione israeliana entrano nelle case dei palestinesi quando viene lanciata una pietra contro la barriera, e i minori vengono interrogati nelle loro case. A volte i soldati israeliani li trascinano per le strade e li piazzano davanti alle telecamere di sorveglianza,” aggiunge.

La giovane ricercatrice afferma con commozione che i soldati israeliani incitano giovani coloni israeliani ad aggredire ragazzini palestinesi della loro età nel quartiere di Jaber.

Le forze di occupazione israeliane affermano di essere state colpite da pietre per arrestarli o detenere minori palestinesi per ore, conferma al-Jaabari ad Al Mayadeen.

Nei pressi delle scuole, soprattutto nella zona sud vicino ai posti di controllo, molti minori sono arrestati e detenuti per lunghi periodi. A volte vengono picchiati o insultati e lasciati senza cibo e senz’acqua prima di essere consegnati all’al-Khalil Coordination and Liaison Office [Ufficio del Coordinamento e Collegamento di Al-Khalil] se hanno un’età inferiore ai 13 anni.”

Sopra questo limite d’età vengono arrestati e sottoposti a un’indagine alla stazione della polizia israeliana occupante, poi trasferiti in un tribunale israeliano o multati per almeno 1000 shekel [circa 280 €] prima di essere rilasciati.

Ai posti di controllo è tutta una questione casuale

Piazzi degli spuntoni antigomme, fermi le auto e provochi un grande ingorgo.” 

A volte non c’è nessuna ragione.”

Mentre i posti di controllo israeliani ostacolano la vita quotidiana dei palestinesi in città, gli ‘ex’ soldati israeliani confessano che un checkpoint è una specie di posto di blocco stradale.

È solo un episodio e quello che è stato documentato dal Palestinian Human Rights Defenders Group è molto più tragico.

Abu Shamsieh racconta ad Al Mayadeen che nel 2016 la sua telecamera ha ripreso l’esecuzione a sangue freddo del martire Abdel Fattah al-Sharif a uno dei posti di controllo dell’occupazione israeliana.

Il difensore dei diritti umani afferma che il caso di al-Sharif è solo uno dei molti crimini di guerra israeliani.

Egli rivela anche ad Al Mayadeen in versione inglese che i coloni israeliani hanno regolarmente investito bambini palestinesi persino di cinque anni.

Abu Shamsieh afferma di aver subito maltrattamenti, limitazioni alla sua libertà di movimento, sequestri, lunghi periodi di detenzione arbitraria, in genere con ordini di detenzione amministrativa [cioè senza accuse né processo, ndtr.] e perquisizioni illegali in casa e nel suo ufficio, per non parlare delle minacce di morte.

Detenzioni: “chiunque è sospetto”

Secondo le confessioni dei soldati, ogni palestinese è sospetto, e la procedura di arresto include il fatto di mettere ogni palestinese “in un posto con un soldato e poi tenerlo sotto sorveglianza’

Gli ‘ex’ soldati testimoniano che i militari israeliani mettono una benda sugli occhi e ammanettano i palestinesi arrestati a caso.

Come ogni città e villaggio palestinese, anche al-Khalil assiste quotidianamente ad arresti arbitrari di palestinesi, anche di bambini di 10 anni.

La violenta repressione delle proteste da parte delle forze di occupazione israeliane ha anche incluso l’arresto e la detenzione di manifestanti palestinesi.

Un altro “compito”: prendere di mira i giornalisti

Da parte sua un giornalista palestinese sul campo di al-Khalil, Sari Jaradat, dice ad Al Mayadeen che le forze dell’occupazione israeliana impediscono deliberatamente ai giornalisti palestinesi e internazionali di informare sull’attualità per nascondere i loro crimini quotidiani che colpiscono ogni aspetto della vita in città.

Circa una settimana fa un ufficiale dell’occupazione mi ha detto: ‘Se vieni ucciso dai nostri proiettili noi non ne avremo alcuna responsabilità.’”

Avevano già l’intenzione di prendermi di mira per impedirmi di fare il mio lavoro ed ho subito in totale cinque ferite da proiettili veri mentre informavo sui loro crimini, per non parlare delle decine di fermi, arresti, divieti di informare e limitazioni agli spostamenti,” aggiunge.

Jaradat parla del progetto “Blue Wolf” e dell’installazione ad al-Khalil di telecamere per il riconoscimento facciale, affermando che queste telecamere porteranno all’eliminazione della libertà più importante, quella della stampa, che è già limitata.

I soldati dell’occupazione israeliana emaneranno qualunque legge desiderino per impedire ai giornalisti palestinesi di fare il loro lavoro,” aggiunge.

La sistematica oppressione dei palestinesi è stata parzialmente riflessa da “Mission” ed evidenziata nel suo complesso dalle testimonianze accorate di Sari, Imad e Manal. Eppure ciò che sta avvenendo in Palestina, e in particolare ad al-Khalil, non può essere documentato o riassunto in un film, in un titolo o in una foto.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




ICSPR: La decisione del Ministero degli Interni del Regno Unito di considerare Hamas una “organizzazione terroristica” è l’ennesimo intervento britannico che nega il diritto della popolazione di resistere all’occupante.

La Commissione Internazionale per i Diritti dei Palestinesi (ICSPR)

20 novembre 2021 – ICSPR

Comunicato stampa,

ICSPR: La decisione del Ministero degli Interni del Regno Unito di considerare Hamas una “organizzazione terroristica” è l’ennesimo intervento britannico che nega il diritto della popolazione di resistere all’occupante.

La Commissione internazionale per i diritti dei palestinesi (ICSPR) condanna con la massima fermezza l’annuncio fatto oggi (19 novembre 2021) dal ministro degli Interni britannico Priti Patel di designare Hamas come “organizzazione terroristica” e porre fuori legge le sue attività in tutto il Regno Unito.

Questa decisione arriva sulla scia di analoghe decisioni americane ed europee di considerare terroristi un certo numero di movimenti, organizzazioni e personalità palestinesi.

Nel 2018 il Dipartimento del Tesoro americano incluse Ismail Haniyeh, capo dell’Ufficio politico del Movimento della resistenza islamica (Hamas) e deputato nel Consiglio legislativo, nella lista dei terroristi. A metà ottobre del 2017 l’FBI inserì il segretario generale del Movimento per il Jihad islamico in Palestina [gruppo militante fondato negli anni settanta nella striscia di Gaza, ndtr.], a quel tempo il dottor Ramadan Abdullah Shallah e l’ex detenuto Ahlam Al-Tamimi, insieme ad altri otto palestinesi, nella sua lista di ricercati.

E prima ancora, esattamente nel 2014, il Dipartimento di Stato americano incluse nella lista dei “terroristi” il vicesegretario generale del Movimento per il Jihad islamico Ziad al-Nakhala.

ICSPR ritiene che l’intervento del Regno Unito esprima un reiterato e chiaro disprezzo da parte britannica per i principi sanciti dal diritto, l’ordine e la giustizia internazionali e dia il suo benestare a che lo Stato di occupazione israeliano privi il popolo palestinese dell’esercizio dei suoi diritti legittimi, soprattutto, il suo diritto di resistere all’occupante. ICSPR condanna la decisione britannica contro il Movimento di Resistenza Islamico, Hamas e la considera come un’estensione delle stesse politiche che produssero la Dichiarazione Balfour [lettera scritta nel 1917 dall’allora ministro degli esteri inglese Arthur Balfour a Lord Rothschild, principale rappresentante della comunità ebraica inglese, e referente del movimento sionista, con la quale il governo britannico affermava di guardare con favore alla creazione di un “focolare nazionale per il popolo ebraico” in Palestina, ndtr.]. L’ICSPR dichiara la sua solidarietà al movimento, alla sua leadership, ai suoi membri e a tutti i leader e partiti palestinesi che le varie amministrazioni occidentali hanno inserito in quelle che chiamano liste dei terroristi. Di conseguenza:

1- ICSPR afferma che le leggi internazionali concedono ai popoli sotto occupazione militare il diritto di resistere all’occupante in tutte le forme fino alla liberazione e all’indipendenza politica ed economica.

2- ICSPR sottolinea che la nuova dichiarazione britannica contro Hamas fornisce ulteriori prove del pregiudizio britannico e occidentale nei confronti dello stato di occupazione a spese del diritto e della giustizia internazionali.

3- ICSPR attribuisce al governo britannico la responsabilità internazionale come partner in qualsiasi crimine israeliano contro qualsiasi palestinese affiliato ad Hamas.

4- ICSPR sottolinea che i vari rapporti internazionali dimostrano con prove conclusive che lo Stato di occupazione israeliano è quello che pratica il terrorismo internazionale contro il popolo palestinese e che la resistenza palestinese è impegnata sulla base delle norme e delle convenzioni internazionali che regolano i conflitti armati internazionali.

5- ICSPR esorta allo stesso modo la diplomazia palestinese, araba e islamica a impegnarsi duramente per garantire che il governo britannico abolisca la sua recente decisione e a lavorare allo sviluppo e alla pubblicazione di una lista nera palestinese e araba con i nomi dei leader israeliani accusati di aver commesso crimini internazionali e crimini di terrorismo.

ICSPR

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




La messa al bando dei difensori dei diritti umani: Israele e Sudafrica a confronto

La messa al bando dei difensori dei diritti umani: Israele e Sudafrica a confronto

Neppure il regime di apartheid in Sudafrica mise mai fuorilegge i difensori dei diritti umani come ha appena fatto Israele che ha dichiarato “organizzazioni terroriste” sei associazioni palestinesi

John Dugard

16 novembre 2021- Mondoweiss

 

Israele ha definito “organizzazioni terroriste” sei associazioni dedite alla causa dei diritti umani nella Palestina occupata. Esse sono: A- Haq che monitora violazioni dei diritti umani nella Palestina occupata e che recentemente ha giocato un ruolo importante nel fornire assistenza al pubblico ministero della Corte Penale Internazionale nelle sue indagini sui crimini commessi da Israele nella Palestina occupata; Addameer che fornisce supporto legale ai prigionieri palestinesi e denuncia le torture contro i detenuti commesse da Israele; Defense for Children International  [Difesa internazionale dei minori -Palestina] che promuove il benessere dei minorenni nella Palestina occupata; la Union of Agricultural Work Committees [Unione dei Comitati del lavoro agricolo], la Union of Palestinian Women’s Committees [Unione dei Comitati delle Donne Palestinesi] e il Bisan Center for Research and Development  [Centro Bisan per la Ricerca e lo Sviluppo].

Questa dichiarazione, fatta ai sensi di una legge israeliana del 2016, autorizza Israele a chiudere i loro uffici, confiscarne i beni, incarcerare i dipendenti, proibirne il finanziamento e punire il sostegno pubblico per le loro attività.

Oggi si fanno sempre più spesso paragoni fra le leggi e le pratiche dell’apartheid in Sudafrica e in Israele nella Palestina occupata. Due organizzazioni per i diritti umani molto autorevoli, Human Rights Watch, con base negli Stati Uniti, e l’ong israeliana B’Tselem hanno recentemente dichiarato che Israele pratica l’apartheid nella Palestina occupata. Al momento iI pubblico ministero della Corte Penale Internazionale sta indagando se Israele abbia commesso il crimine di apartheid nella Palestina occupata. Nel 2007, quando ero relatore speciale delle Nazioni Unite per i diritti umani nei Territori palestinesi occupati ho denunciato di non avere dubbi che le leggi e le pratiche israeliane costituiscano apartheid, un giudizio basato su 40 anni di vita sotto l’apartheid in Sudafrica e per aver diretto un organismo di difesa dei diritti umani per oltre 10 anni.

Ciò mi induce a esaminare la reazione nel Sudafrica sotto l’apartheid contro le organizzazioni di opposizione o che monitoravano le sue pratiche razziste e repressive.

La legislazione del Sudafrica assomigliava alla legge israeliana del 2016 che ha permesso di dichiarare illegali le organizzazioni. Applicando tali norme il governo sudafricano mise fuori legge, fra gli altri, il partito comunista, l’African National Congress, il partito Liberale, il National Union of South African Students [Sindacato nazionale degli studenti sudafricani] e il Christian Institute, [Istituto Cristiano]. Queste leggi erano chiaramente così ampie da permettere al regime d’apartheid di chiudere organizzazioni che monitoravano violazioni di diritti umani, difendevano diritti umani e lottavano per i diritti umani.

Verso la fine degli anni ’70, al culmine dell’apartheid, furono fondate varie organizzazioni per i diritti umani, quasi tutte con fondi provenienti dagli Stati Uniti.

Insieme monitoravano violazioni di diritti umani, propugnavano uguaglianza razziale e libertà politica, si opponevano alla repressione politica e lottavano per il cambiamento sociale. Il lavoro di queste organizzazioni assomigliava, sotto molti aspetti, a quello delle sei organizzazioni palestinesi recentemente dichiarate illegali. Una di queste era il Centre for Applied Legal Studies [Centro per gli Studi Giuridici Applicati] che dirigevo io.

Il regime di apartheid in Sudafrica mise in chiaro di non gradire queste organizzazioni di difesa dei diritti umani, soprattutto quando le loro pubblicazioni e denunce attiravano l’attenzione su tortura, confisca di terre, demolizioni di case, repressione politica e apartheid, il tipo di attività per cui le sei associazioni palestinesi per la difesa dei diritti umani sono state bandite.

Ma non bandì queste organizzazioni, sebbene ci fossero leggi che l’avrebbero autorizzato. Perché? Sospetto che la ragione principale fosse che erano tutte organizzazioni che cercavano di usare la legge per far progredire la giustizia razziale. Esse dimostravano, specie a una comunità internazionale ostile, che il Sudafrica rispettava lo Stato di Diritto. E il Sudafrica sapeva che ciò era cruciale per mantenere una sembianza di rispettabilità agli occhi degli Stati occidentali.

Ora Israele ha vietato sei associazioni palestinesi che difendono i diritti umani e che, nei limiti della legge, cercano, come le loro controparti sudafricane, di ottenere giustizia per i palestinesi denunciando torture, demolizioni di case, confisca di terre, espansione delle colonie, violenza dei coloni, persecuzione razziale, trasferimenti forzati di palestinesi e l’apartheid israeliano.

Tutto ciò prova che Israele non si preoccupa di presentare un’immagine di Stato di diritto. Non ne ha bisogno perché sa che l’Occidente non agirà contro alcuna violazione. Sa che il suo eccezionalismo è un valore occidentale che perdona a Israele tutti i suoi crimini.

Oggi persone imparziali e informate non si pongono più la domanda: “Israele commette il crimine di apartheid nella Palestina occupata?” Esse accettano l’evidenza che mostra chiaramente che gli ebrei israeliani in Cisgiordania e Gerusalemme Est, compresi gli oltre 800.000 coloni e soldati, costituiscono un gruppo razziale che sistematicamente opprime il gruppo razziale palestinese tramite atti inumani, la definizione del crimine di apartheid dello Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale. Si fanno invece la domanda: “L’apartheid israeliano è peggio di quello del Sudafrica?”. A giudicare dalle ultime azioni di Israele contro i paladini dei diritti umani la risposta deve essere “sì”.

John Dugard

John Dugard è professore emerito presso le Università di Leiden e Witwatersrand (Johannesburg). Era relatore speciale del Consiglio per diritti umani sui diritti umani nella Palestina occupata e autore del libro “Confronting Apartheid: A personal history of South Africa, Namibia and Palestine.” ([Confrontare gli apartheid: una storia personale di Sudafrica, Namibia e Palestina)

 

(tradotto dall’inglese da Mirella Alessio)

 

 

 

 

 

 

 

 




Amnesty condanna la JCB per i macchinari usati per demolire le case dei palestinesi

Areeb Ullah

18 novembre 2021 – Middle East Eye

L’organizzazione per i diritti umani riporta che il rappresentante esclusivo della JCB in Israele ha venduto macchinari al ministero della difesa israeliano che li ha usati per demolire le case dei palestinesi e distruggere coltivazioni

Amnesty International ha accusato l’impresa edile britannica JCB di ignorare la vendita, tramite la sua unica sussidiaria in Israele, dei suoi bulldozer al governo israeliano che si dice li abbia usati per demolire le case dei palestinesi nella Cisgiordania occupata. 

In un’inchiesta divulgata giovedì, Amnesty International riporta che la JCB non ha adottato le misure necessarie per impedire alla Comasco, il suo distributore in esclusiva in Israele, di vendere ed eseguire la manutenzione di mezzi quali bulldozer e scavatrici al ministero della difesa israeliano.

L’organizzazione con sede a Londra ha detto che ci sono decine di casi specifici riguardanti macchinari della JCB usati per demolire edifici residenziali e agricoli appartenenti a palestinesi, oltre a condutture, oliveti e altre coltivazioni.

Peter Frankental, direttore del Programma affari economici di Amnesty UK (Regno Unito), ha attaccato la JCB per la sua inazione e ha detto che l’azienda aveva “i mezzi tecnologici e contrattuali per opporsi” all’uso dei suoi macchinari fatto da Israele per infrangere il diritto internazionale.   

“Nessuna azienda responsabile dovrebbe stare a guardare mentre i suoi prodotti sono usati per violare i diritti umani, specialmente quando ciò succede da oltre un decennio come la demolizione delle case dei palestinesi nei territori palestinesi occupati,” dice Frankental a Middle East Eye.   

“È assolutamente prevedibile che i macchinari che la JCB vende al suo unico distributore in Israele vengano usati per la demolizione delle case dei palestinesi e per la costruzione delle colonie illegali di Israele.

“È semplicemente imperdonabile la negligenza della JCB nel valutare l’impatto sui diritti umani dell’uso dei suoi macchinari nell’occupazione dei territori palestinesi da parte di Israele.”

L’anno scorso il governo inglese lanciò un’indagine circa le denunce secondo cui i macchinari costruiti dalla JCB sono stati usati per demolire le case dei palestinesi e la costruzione di colonie israeliane illegali nei territori palestinesi occupati. 

L’UK National Contact Point (NCP) [Punto di contatto nazionale del Regno Unito] che è finanziato dal governo britannico per indagare in modo indipendente su reclami contro le imprese multinazionali per presunte violazioni dei diritti umani e di altri obblighi, ha accolto la denuncia contro la JCB presentata dall’ente britannico e filantropico di assistenza legale Lawyers for Palestinian Human Rights (LPHR).  

La scorsa settimana il NCP ha detto che è “deplorevole” che la JCB “non abbia preso alcuna iniziativa per applicare la dovuta diligenza circa la difesa dei diritti umani di ogni tipo, sebbene consapevole dell’impatto di eventi che potrebbero essere contrari ai diritti umani”.

Un portavoce della JCB ha detto a Middle East Eye che “l’impresa non tollera alcuna forma di violazione dei diritti umani” e che “non contribuisce né è in alcun modo responsabile o collegata a violazioni dei diritti umani nei Territori palestinesi occupati, sia direttamente che indirettamente.” 

“Queste asserzioni sono state recentemente oggetto di un’indagine completa e indipendente da parte dell’UK National Contact Point per le linee guida OCSE [Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico] per le imprese multinazionali,” aggiunge il portavoce. 

“La recente conclusione del NCP-UK riconferma gli accertamenti iniziali secondo cui non ci sono state violazioni da parte della JCB. In particolare, il NCP–UK ha concluso che il presunto impatto sui diritti umani non può essere collegato alle operazioni commerciali o agli accordi contrattuali della JCB.”  

Una storia di violazioni dei diritti

Le attività della JCB in Israele sono al centro di polemiche e hanno ricevuto pesanti critiche da parte di attivisti per i diritti [umani]. 

L’azienda domina il mercato israeliano con una quota di mercato del 65% di tutte le scavatrici e con il 90% del mercato dei veicoli da carico comunemente usati nel Paese. 

All’inizio di quest’anno la JCB era su una lista pubblicata dal Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite secondo cui l’impresa edile ha dei legami con le colonie israeliane ritenute da molte organizzazioni a livello globale in violazione del diritto internazionale. 

Il consiglio ha compilato la lista e detto che le imprese elencate hanno agevolato la costruzione delle colonie, fornito loro apparecchiature di sorveglianza o servizi di sicurezza a imprese che vi lavorano.

Nel 2018 Middle East Eye rivelò che attrezzature di perforazione della JCB erano usate nei pressi di Khan al-Ahmar, un villaggio palestinese nella Cisgiordania centrale occupata e da tempo minacciato di demolizione da Israele.

Nel 1984 la JCB cominciò a produrre veicoli di tipo militare appositamente ideati per costruire edifici. Tramite la sua branca JCB Defence Products ha fornito 3.500 veicoli alle forze armate di 57 Paesi. 

“Per molti palestinesi i caratteristici bulldozer gialli e neri della JCB sono un segno nefasto dell’incombente perdita delle loro case e di altre terre sottratte ai palestinesi per far posto alle illegali colonie israeliane,” dice Sacha Deshmukh, l’AD di Amnesty UK.

“Secondo gli standard internazionali di commercio, la JCB ha la chiara responsabilità di prendere misure per assicurare che i propri prodotti non siano usati nel commettere violazioni dei diritti umani e ciò dovrebbe essere considerato parte essenziale della diligenza dovuta per garantire i diritti umani.”

MEE ha contattato la JCB per un commento ma al momento della pubblicazione di questo articolo non ha ricevuto risposta.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Le star di Hollywood denunciano la designazione da parte di Israele di alcune associazioni palestinesi quali ‘gruppi terroristi’

Redazione di MEE, Washington

17 novembre 2021  Middle East Eye

Richard Gere, Mark Ruffalo, Tilda Swinton, Susan Sarandon e Simon Pegg fra i firmatari di una lettera che chiede ad Israele di revocare la messa al bando di sei associazioni palestinesi

Oltre cento attori, registi, autori e musicisti di Hollywood hanno sottoscritto una lettera aperta mercoledì per contestare la decisione israeliana di designare sei organizzazioni di spicco della società civile palestinese quali organizzazioni terroriste.

La lettera descrive la recente mossa israeliana come “un attacco indiscriminato senza precedenti contro i difensori dei diritti umani palestinesi”, e chiede al Paese di revocare quella designazione.

Ciò che Israele tenta di bloccare è esattamente il lavoro fondamentale svolto da queste sei organizzazioni per proteggere e rafforzare i palestinesi e per denunciare le responsabilità di Israele per le sue gravi violazioni dei diritti umani e per il suo regime di apartheid e di discriminazione razziale istituzionalizzata,” si afferma nella lettera.

Fra i firmatari si trovano le star hollywoodiane Richard Gere, Mark Ruffalo, Tilda Swinton, Susan Sarandon e Simon Pegg; il regista Ken Loach, il musicista Jarvis Cocker, il gruppo musicale Massive Attack e gli autori Rashid Khalidi e Naomi Klein.

Ruffalo è dichiaratamente critico nei confronti di Israele e sostenitore dei diritti palestinesi. In passato ha condiviso una petizione che richiedeva ai leader internazionali di imporre sanzioni contro i settori chiave dell’industria israeliana “fino a quando non vengano garantiti ai palestinesi pieni e pari diritti civili”.

Quanto a Sarandon, attrice ed attivista di lungo corso, durante l’offensiva israeliana di maggio contro Gaza, ha pubblicato diversi tweet sulle tensioni, in uno dei quali affermava che i palestinesi si trovavano ad affrontare la nuova forma di colonialismo imposta da Israele.

Questa lettera non è che l’ultima di una serie di condanne della mossa israeliana – dall’ONU a fondazioni filantropiche e associazioni di attivisti fino a parlamentari USA. 

Lo scorso ottobre il ministro della difesa israeliano Benny Gantz ha bollato come organizzazioni terroriste sei ONG palestinesi: Addameer, al-Haq, Comitati del Sindacato per il Lavoro Agricolo, Centro “Bisan” per la Ricerca e lo Sviluppo, Unione dei Comitati delle Donne Palestinesi e Difesa dei Bambini Palestinesi.

Il ministero di Gantz ha accusato le associazioni di essere collegate a gruppi armati, ma la misura ha suscitato ampie critiche da parte dell’ONU, oltre che di note organizzazioni per la difesa dei diritti umani, quali Human Rights Watch e Amnesty International. 

In seguito, un’inchiesta da parte di Frontline Defenders [ONG che protegge gli attivisti per i diritti umani a rischio, ndtr] ha rivelato che i cellulari di diversi palestinesi membri di quelle associazioni erano stati hackerati.

La minaccia di ritorsioni è concreta e mette a repentaglio non solo le associazioni in questione, ma anche l’intera società civile palestinese e le decine di migliaia di palestinesi che esse assistono quotidianamente,” afferma la lettera.

La lettera è uscita mercoledì, esattamente un giorno dopo che oltre cento fra fondazioni filantropiche e donatori avevano firmato un’altra lettera aperta in solidarietà con le associazioni della società civile palestinese.

(traduzione dall’inglese di Stefania Fusero)




Rapporto OCHA del periodo 2 -15 novembre 2021

Il 5 novembre, nel villaggio di Deir al Hatab (Nablus), forze israeliane hanno ucciso un 15enne palestinese.

L’uccisione è avvenuta nel contesto di proteste durante le quali palestinesi hanno lanciato pietre contro le forze israeliane che hanno sparato con armi da fuoco e lanciato lacrimogeni. A quanto riferito, l’esercito israeliano ha aperto un’indagine.

In Cisgiordania, complessivamente, le forze israeliane hanno ferito 190 palestinesi [seguono dettagli]. 135 sono rimasti feriti durante le proteste contro le attività di insediamento vicino a Beita (126) e Beit Dajan (9), nel governatorato di Nablus. Altri 47 palestinesi sono rimasti feriti negli scontri avvenuti nei pressi del checkpoint DCO [Ufficio di Coordinamento Distrettuale] (Ramallah). Un palestinese è stato ferito in At Tuwani (Hebron), durante un’operazione di ricerca-arresto; i rimanenti feriti sono dovuti a scontri scoppiati tra palestinesi e forze israeliane nei governatorati di Betlemme ed Hebron. Nel complesso, un palestinese è stato ferito da proiettili veri e 27 da proiettili di gomma, sette sono stati aggrediti fisicamente e i rimanenti sono stati curati per inalazione di gas lacrimogeno. Oltre a quelli feriti direttamente dalle forze israeliane, a Beita, 11 palestinesi sarebbero stati feriti mentre scappavano dalle forze israeliane, o in circostanze che non è stato possibile verificare. Inoltre, nell’area di Betlemme, un uomo è stato ferito da un ordigno inesploso mentre raccoglieva rottami metallici in una zona dichiarata da Israele “area militare chiusa”.

In Cisgiordania forze israeliane hanno effettuato 65 operazioni di ricerca-arresto ed hanno arrestato 92 palestinesi. Il maggior numero di operazioni è stato registrato in Hebron, seguito da Betlemme.

In almeno 4 occasioni, in Gaza, vicino alla recinzione perimetrale ed al largo della costa, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento [verso palestinesi], apparentemente per far rispettare le restrizioni di accesso [loro imposte]. Non sono stati segnalati feriti. Bulldozer militari israeliani, [entrati] all’interno della Striscia di Gaza, hanno spianato il terreno vicino alla recinzione perimetrale, ad est di Khan Younis. Durante tale operazione sono stati danneggiati 7.000 metri quadri di terreno coltivato ad ortaggi. In un altro caso, un uomo è stato arrestato mentre, secondo quanto riferito, cercava di entrare in Israele attraverso la recinzione perimetrale.

Per mancanza di permessi edilizi israeliani, le autorità israeliane hanno demolito, sequestrato o costretto i proprietari palestinesi ad autodemolire 49 strutture, sfollando 38 persone e pregiudicando, in grado diverso, i mezzi di sussistenza o l’accesso ai servizi di quasi altre 400 persone [seguono dettagli]. Fra le strutture demolite in Area C c’è una moschea, otto strutture abitative e 23 strutture di sostentamento, distribuite in 16 Comunità. Otto strutture, comprese due abitazioni demolite dai proprietari, sono state demolite in Gerusalemme Est.

Coloni israeliani hanno ferito 20 palestinesi e cinque volontari israeliani; persone note come coloni israeliani (o ritenuti tali) hanno danneggiato o rubato il raccolto di dozzine di ulivi [seguono dettagli]. A Khallet Athaba’ (Hebron), palestinesi hanno lanciato pietre contro coloni israeliani che avevano eretto una tenda; alcuni fra questi ultimi hanno ferito cinque palestinesi, di cui tre con armi da fuoco. Nello stesso contesto, alcuni coloni hanno dato fuoco a una tenda ed a cinque veicoli palestinesi, tra cui due ambulanze. Altri undici palestinesi sono stati feriti, con pietre, da coloni che avevano fatto irruzione nei villaggi di Burin e Burqa (Nablus) e nel quartiere di Ras al Amud a Gerusalemme Est; in questa seconda località sono state vandalizzate anche diverse auto. In Hebron, nella zona di Saadet Tha’lah, tre pastori, tra cui due donne, sono stati aggrediti fisicamente. A Huwwara (Nablus), coloni hanno aggredito fisicamente e ferito un altro agricoltore che stava raccogliendo olive ed hanno ucciso tre vitelli. Inoltre, a Surif (Hebron), coloni hanno lanciato pietre e ferito cinque volontari israeliani che scortavano raccoglitori di olive palestinesi. A Burin e nell’area Ash Shuyukh di Hebron, coloni avrebbero vandalizzato circa 120 ulivi e rubato il raccolto di altre dozzine di ulivi. Secondo quanto riferito, in diversi episodi accaduti a Nablus ed Hebron, coloni hanno vandalizzato pozzi d’acqua e serbatoi mobili, telecamere di sorveglianza e una struttura abitativa. Nella zona H2 di Hebron, mentre coloni molestavano palestinesi, un colono è stato colpito e ferito da pietre lanciate da palestinesi.

Nel governatorato di Gerusalemme e nella Valle del Giordano, palestinesi, o persone ritenute tali, hanno lanciato pietre contro veicoli israeliani, ferendo tre coloni. In Cisgiordania, secondo fonti israeliane, il lancio di pietre da parte di palestinesi ha danneggiato 30 auto israeliane.

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Ultimi sviluppi (successivi al periodo di riferimento)

Il 16 novembre, a Tubas, durante un’operazione di ricerca-arresto, le forze israeliane hanno ucciso un palestinese di 26 anni.

Il 17 novembre, nella Città Vecchia di Gerusalemme, un ragazzo palestinese 16enne ha accoltellato due agenti di polizia israeliani ed è stato successivamente colpito a morte.




Ex soldati israeliani rivelano: niente è così integro come un cuore spezzato

Ex soldati israeliani rivelano: niente è così integro come un cuore spezzato

Jim Miles

11 novembre 2021 –  Palestine Chronicle

La scorsa settimana (11-04-2021) Independent Jewish Voices [Voci ebraiche indipendenti: organizzazione di eminenti intellettuali britannici che combattono l’opinione che tutti gli ebrei sostengano le politiche del governo israeliano, ndtr.] (IJV – Canada) ha presentato un webinar intitolato “From IDF to IJV”, che illustrava la storia di tre ebrei già appartenenti all’esercito israeliano ma che nel corso degli anni e attraverso esperienze simili se pur diverse hanno finito per collaborare con IJV-Canada.

Il conduttore del programma, Aaron Lakoff, ha sottolineato la “solidarietà senza compromessi” di IJV con le lotte del popolo palestinese per i diritti umani e l’uguaglianza civile in Palestina, in sostanza, in tutta la Palestina storica. IJV è stata una delle prime organizzazioni in Canada a riconoscere e sostenere la campagna del BDS. Per riassumere l’immagine complessiva dello scoprire di essere stati ingannati dalla famiglia, dal governo e dalla società civile, si è fatto riferimento agli scritti ebraici radicali di Kokzter Rebbe [il rabbino Menachem Mendel of Kotzk (1787-1859), ndtr.]: “Niente è così integro come un cuore spezzato”. Il suo significato non mi è risultato chiaro fino a quando non ho sentito le tre storie.

I racconti

Tutti e tre i protagonisti risultavano avere delle esperienze simili ma con delle differenze; la principale caratteristica comune era il loro ebraismo laico, per cui la religione insita nell’essere ebrei era sostituita da una fede nel sionismo. L’adesione all’esercito era scontata, incoraggiata da una influente propaganda. Era un esercito come nessun altro, l’esercito più etico del mondo.

La conduttrice del webinar, Lia Tarachansky, ha rilevato come l’esercito sia mutato in tre  aspetti significativi: in primo luogo, la maggior parte degli sforzi è stata dedicata all’Unità 8200, il reparto di intelligence dell’esercito, e ai suoi compiti massicci di sorveglianza e hasbara [parola in lingua ebraica che indica gli sforzi mediatici per diffondere informazioni positive sullo Stato di Israele e le sue azioni, ndtr.]; successivamente ha menzionato l’uso crescente di un esercito “telecomandato”, con l’impiego dell’intelligenza artificiale e la robotica moderne per affrontare qualsiasi presunto nemico; e – cosa più sorprendente, anche se forse non lo è, in linea con quanto avviene negli Stati Uniti – la privatizzazione delle attività dell’esercito nel tentativo di assolvere il governo da responsabilità per i crimini commessi.

Prese di coscienza

Pur accettando inizialmente il loro impegno nell’esercito, con il tempo, a volte rapidamente, questi soldati hanno progressivamente perso le loro illusioni sull’esercito e sulla politica israeliana in generale. Per Daphna Levit, un’ebrea Mizrahi [ebrei originari del mondo arabo, ndtr.], l’esercito presentato nelle scuole era “sempre qualcosa per cui provavamo ammirazione” e il ruolo dell’esercito costituiva un “impegno glorioso ed eroico” nella misura in cui era “bello morire per il paese” – Dio era diventato Sion.   Il suo compito nella guerra del 1967 era quello di scortare gli addetti alle comunicazioni in diverse zone di guerra e, nel far questo, “creare una narrazione” differente da ciò che vedeva. Ha citato in particolare l’immagine dei profughi palestinesi che attraversavano l’Allenby Bridge [importante ponte internazionale che collega la Cisgiordania alla Giordania, ndtr.] verso la Giordania, una scena resa non fedelmente dalla descrizione che le è stata fornita.

Yom Shamash si avventurò in Israele nel 1971, sentendosi “al sicuro” in Israele, che era in pace avendo “neutralizzato” l’Egitto [in seguito al conflitto arabo israeliano del giugno 1967, chiusosi dopo sei giorni con la vittoria di Israele, ndtr.]. Nel descriversi come “un pessimo soldato”, ha raccontato di essere stato distaccato nel deserto del Sinai quando la guerra dello Yom Kippur [conflitto arabo israeliano dell’ottobre 1973, ndtr.] colse “tutti di sorpresa” e che “la mia unità venne decimata”. Iniziò a mettere in discussione il senso di tutto, chiedendosi “per cosa sono morti… per la sabbia?”     Venne totalmente sconvolto quando seppe che Golda Meier aveva respinto la richiesta di colloqui di pace da parte di Anwar Sadat. Ha rievocato come, in precedenza, durante il suo addestramento, fosse all’aperto durante un pattugliamento notturno e si fosse reso conto che la strana sensazione sotto i suoi stivali derivava dal “marciare sugli ortaggi” – si stavano addestrando calpestando gli orti dei palestinesi.

Giungendo poco più tardi, Rafi Silver emigrò in Israele nel 1971 e si stabilì in un kibbutz (dove i soldati “erano venerati”) sulle alture del Golan. Provenendo da una famiglia profondamente sionista rimase “intrappolato nel mito dell’esercito” e le sue convinzioni vennero poi “fatte a pezzi dalla realtà”.  Al momento di decidere dove arruolarsi, il problema comune era “come entrare in un corpo d’élite”: non mettersi alla prova era motivo di vergogna. Cosa che superò nei primi quindici minuti dell’addestramento iniziale.

Ha rievocato l’”incidente definitivo” che fece cambiare le sue convinzioni radicalmente verso la pace.   Nel 1996 prestò servizio in un’unità di riserva che aveva imposto un blocco e un coprifuoco di una settimana in un campo profughi vicino a Betlemme. Ha raccontato che nel buio della notte, cessato il coprifuoco, aveva visto un ragazzo alzarsi dalla posizione accovacciata che i soldati gli avevano ordinato di assumere. Di riflesso, nel buio della notte, teso e impaurito dal contesto del campo, mosse il dito sul grilletto del suo fucile pronto a sparare. “Ero spaventato.” Un altro membro dell’unità gli intimò di non sparare e alla fine lui disse: “Basta… non ce la faccio più… ho quasi ucciso un ragazzino”.

L’altro

Un forte filo conduttore è costituito dal modo in cui venivano rappresentati i palestinesi. Nessuno dei protagonisti ha avuto rapporti diretti con loro.

Yom ha affermato che ogni giorno vedeva giungere dei palestinesi per lavorare nei parchi israeliani a Gaza, ma di non aver avuto contatti con loro. Ha detto: “Ai soldati israeliani veniva chiesto di fare ogni genere di cose orribili” e quando protestava, gli veniva detto “È l’unico modo per farlo… quelle persone non sono come te”, erano “meno che umani”. Il lavaggio del cervello nell’esercito era volto a creare soldati obbedienti, che non facessero domande, sottolineando che “l’altro non è come te”.

Daphna all’inizio li vedeva solo come fredde vittime di una guerra da cui doveva ricavare una narrazione che sostenesse lo Stato e non la realtà. Nata in Israele, ne aveva “sentito parlare” ma non aveva visto nessun palestinese, fornendo così la sua definizione della natura di “apartheid” di Israele. Un po’ più tardi, mentre lavorava con Physicians for Human Rights [Medici per i diritti umani: ONG con sede negli Stati Uniti che documenta e difende contro le atrocità e le gravi violazioni dei diritti umani, ndtr.], si è imbattuta in una ragazzina in una clinica in cui lavorava. La ragazzina le chiese da dove venisse, e quando le disse di essere israeliana, il viso della ragazzina espresse lo sgomento di trovarsi insieme al “nemico”.

Dopo il suo servizio di leva Rafi è tornato a Gaza come civile nel campo profughi di Jabaliya – e ha visto ciò che non vedeva come soldato: degli esseri umani. Era “stupito” dal fatto che, sebbene ogni palestinese sapesse che era stato nell’esercito, “non ho incontrato l’ostilità o l’odio che mi aspettavo”. Divenne, alla fine, un rapporto umano, e non ideologico.

“Niente è così integro come un cuore spezzato.”

Dopo un’educazione che inculca un particolare dogma ideologico, può essere traumatizzante solo fino a un certo punto vedere quelle convinzioni infrangersi o dissolversi gradualmente.

Questi ex appartenenti all’esercito hanno compiuto un percorso emozionale da una fede convinta nella superiorità della loro religione – il sionismo – e nella maggiore eticità del loro esercito fino a diventare attivisti contro i crimini di guerra e i crimini contro l’umanità israeliani in Palestina. Anche molti altri hanno compiuto questo percorso e si può sperare che molti più cuori saranno spezzati per essere integri.

Jim Miles è un educatore canadese e un giornalista che collabora regolarmente attraverso articoli di opinione e recensioni di libri con Palestine Chronicles. Il suo interesse per questo argomento nasce originariamente da una prospettiva ambientalista, che prende in esame la militarizzazione e la sottomissione economica della comunità globale e la sua mercificazione da parte del dominio delle imprese e del governo americano.

 

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




l settore della sicurezza della Autorità Nazionale Palestinese: consolidare la repressione di Stato

ll settore della sicurezza della Autorità Nazionale Palestinese: consolidare la repressione di Stato

Alaa Tartir *

14 novembre 2021   Al Shabaka

 

Nell’ottobre 2021, il Palestinian Civil Society Team for Enhancing Public Budget Transparency [un’organizzazione della società civile palestinese per la trasparenza del bilancio pubblico, ndt] ha rivelato che il settore della sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) continua a ricevere la maggior parte del budget di quest’ultima. Durante la prima metà del 2021, sono stati spesi più di 50 milioni di shekel israeliani (oltre 14 milioni di euro) per la riforma delle forze di sicurezza dell’ANP (PASF). La PASF ha anche ricevuto 1.675 milioni di shekel (circa 480 milioni di euro) – oltre il 22% del budget totale dell’ANP. L’88% della cifra è stato destinato agli stipendi, un aumento di 115 milioni di shekel (circa 33 milioni di euro) rispetto ai primi sei mesi del 2020.

Queste cifre indicano il netto divario tra i bisogni del popolo palestinese e le priorità dell’ANP. Mentre i palestinesi cercano di porre fine all’oppressivo quadro di sicurezza imposto dagli Accordi di Oslo, l’ANP continua a investire politicamente, finanziariamente e istituzionalmente nello status quo, rafforzando l’ambito della sicurezza con il pretesto della stabilità e della costruzione dello Stato.

Invece di condurre ad un processo di democratizzazione, inclusione e responsabilità, i processi di riforma della sicurezza dell’ANP, sponsorizzati a livello internazionale – che sono stati il ​​fulcro del progetto di costruzione dello Stato post-2007 dell’ANP – hanno portato alla repressione, alla persecuzione e alla professionalizzazione dell’autoritarismo dell’ANP. In questo modo quest’ultimo si è strutturalmente radicato nel sistema politico palestinese.

Repressione e deterioramento delle condizioni sociali

Dopo l’uccisione dell’attivista critico dell’ANP Nizar Banat nel giugno 2021, la PASF ha represso le proteste pacifiche con l’uso illegittimo della forza, prendendo di mira, con arresti arbitrari e torture, giornalisti, attivisti della società civile e avvocati. Il livello di repressione osservato durante l’estate del 2021 è stato senza precedenti ed evidentemente si è trattato di un’operazione complessa: ha mostrato il costante coinvolgimento delle istituzioni legali, politiche, di sicurezza ed economiche dell’ANP. Far convergere le forze per reprimere in modo più efficace è uno sviluppo preoccupante e, a meno che non venga contrastato con meccanismi di responsabilità controllati dalla popolazione stessa, l’aggressione autoritaria si intensificherà e non vi sarà spazio per alcuna transizione democratica.

Il consolidamento del potere nel settore della sicurezza continua ad essere un obiettivo chiave dell’ANP. L’obiettivo delle campagne del 2007 della PASF era “ripulire” la Cisgiordania dalle armi non in possesso dell’Autorità Nazionale Palestinese, condurre un processo di disarmo, arrestare coloro che sfidavano l’autorità dell’Autorità Nazionale Palestinese e inviare un messaggio chiaro ai palestinesi che l’Autorità Nazionale Palestinese era l’unica struttura di governo e di potere. Quindi, l’ANP ha adottato un “approccio indifferenziato” per confiscare le armi e intenzionalmente non ha distinto tra le “armi dell’anarchia” e quelle della “resistenza armata”. Ciò ha significato che criminali e membri della resistenza sono stati trattati e presi di mira allo stesso modo. Come ha chiesto con scherno un abitante del campo profughi di Balata: “Come può un ladro essere tenuto nella stessa cella di un muqawim (combattente per la libertà)?”

Le conseguenze dei processi di riforma del settore della sicurezza (SSR) richiedono tempo per manifestarsi nella società e in Palestina stanno diventando chiare solo ora. Le campagne di sicurezza del 2007, ironicamente denominate “sorriso e speranza” e il processo di riforma che ne è seguito, ancora in corso, hanno creato profondi problemi strutturali e carenze che hanno portato a radicare una cultura della paura, addomesticare o criminalizzare la resistenza, e hanno approfondito la sfiducia che i palestinesi provano nei confronti della loro leadership.

In effetti, la tortura e l’uccisione di oppositori politici, l’arresto arbitrario in condizioni disumane di voci critiche, l’aumento dei livelli di sorveglianza e la diminuzione di quelli di tolleranza e pluralità, sono ingredienti chiave per il deterioramento della società palestinese. Un’ulteriore sorveglianza oppressiva degli spazi sociali toglierà potere al popolo palestinese, rafforzerà la sua frammentazione e indebolirà la sua capacità di resistere efficacemente alle strutture coloniali e oppressive.

Ripensare la gestione del settore della sicurezza

Ripensare una gestione del settore della sicurezza palestinese nella quale sia data priorità al popolo palestinese deve essere parte di qualsiasi dialogo nazionale serio e globale. Il consolidamento del potere, anziché dell’inclusività e della responsabilità, ha fatto sì che le PASF siano più responsabili nei confronti dei donatori e del regime israeliano che nei confronti del popolo palestinese. Invertire questo processo è un punto fondamentale per il settore della sicurezza. Per far ciò è necessario quanto segue.

  • La società civile e la leadership palestinesi devono impegnarsi in un dialogo nazionale inclusivo, onesto e complessivo. Rivedere il programma nazionale palestinese nell’ottica della gestione del settore della sicurezza potrebbe servire a molteplici scopi, poiché richiede l’avvio di un dibattito sulle strategie di resistenza, la natura delle strutture di gestione degli affari pubblici e i meccanismi di responsabilizzazione.
  • Le fazioni politiche palestinesi e la società civile devono esigere che l’ANP ridistribuisca equamente il proprio budget, anche nei settori economici produttivi, per porre fine agli stanziamenti gonfiati dell’establishment della sicurezza dell’ANP.
  • La società civile palestinese deve fare pressione sull’ANP affinché metta in atto la decisione dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina di porre fine al coordinamento della sicurezza con Israele, cosa che non ha fatto nonostante le sue dichiarazioni.
  • La società civile e la leadership palestinesi devono adottare una strategia di resistenza unitaria, anche per quanto riguarda la resistenza armata, per evitare che le armi diventino strumenti nella lotta interna alle fazioni politiche, specialmente in tempi di transizione del potere e vuoti di leadership.

*Alaa Tartir è consulente per i programmi di Al-Shabaka.  Tartir è anche ricercatore associato presso il Center on Conflict, Development, and Peacebuilding e visiting fellow presso il Dipartimento di Antropologia e Sociologia del Graduate Institute of International and Development Studies (IHEID), Ginevra, Svizzera. Tra le altre attività, Tartir è stato borsista post-dottorato presso The Geneva Centre for Security Policy (GCSP) dal 2016-17, ricercatore e docente invitato (2015) presso il Dipartimento di Storia e Storia dell’Arte dell’Università di Utrecht, Paesi Bassi, e, tra il 2010 e il 2015, è stato ricercatore in studi di sviluppo internazionale presso la London School of Economics and Political Science (LSE), dove ha conseguito il dottorato di ricerca.

 

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)