Israa Jaabis: da un giorno all’altro da vittima a criminale
Israa Jaabis: da un giorno all’altro da vittima a criminale
Mahmoud Usruf
9 novembre 2021 – Monitor de Oriente
Nel 2017 un tribunale israeliano ha condannato una madre palestinese con gravi ustioni a undici anni di prigione senza che avesse fatto assolutamente niente. Solo in Israele si può essere incarcerati senza accuse di aver commesso un reato e venire condannati a tenersi le ferite per sempre, fino alla morte.
Israa Jabbis, 37 anni, il 10 ottobre 2015, un giorno prima della presentazione finale del suo progetto di ricerca per un corso di Educazione per alunni con disabilità, stava tornando a casa a Gerusalemme. Improvvisamente la sua auto prese fuoco per un problema tecnico a cinquecento metri dal posto di controllo militare di Al-Zayyim, a Gerusalemme. I soldati israeliani che si trovavano nei pressi pensarono che Israa fosse un potenziale pericolo e puntarono le armi contro la signora, che perse il controllo del veicolo e venne avvolta dalle fiamme.
Secondo l’avvocato di Israa, dell’associazione per i diritti umani Addameer, nell’auto di Israa scoppiò accidentalmente una bombola di gas, e in seguito a ciò lei uscì di corsa dall’auto gridando per chiedere aiuto. Tuttavia le venne risposto puntandole la canna di un fucile e con le urla di un ufficiale israeliano: “Lascia il coltello.” Israa cadde in fiamme sull’asfalto e per 15 minuti rimase ad aspettare la pietà del soldato o una morte imminente. Ma alla fine fu arrestata.
I militari israeliani l’accusarono di “tentativo di assassinio”. Tuttavia non vennero fornite prove. La donna palestinese negò anche con veemenza queste accuse, sottolineando che stava trasportando mobili nella sua casa nel quartiere di Jabal Al-Mukaber.
Questo incidente avvenne durante la cosiddetta “Intifada di Gerusalemme”, scoppiata nel 2014 in seguito all’indignazione dei palestinesi per le provocazioni israeliane nella moschea di Al-Aqsa. L’insurrezione continuò fino alla seconda metà del 2015.
Gli scontri giornalieri e l’ondata di violenza si estesero in Cisgiordania e alla frontiera con Gaza. Tuttavia la risposta israeliana fu spesso una rappresaglia indiscriminata. Un giovane senza gambe, Ibrahim Abu Thuraya, è un esempio delle decine di palestinesi uccisi in modo arbitrario dalle forze israeliane. Venne assassinato nella barriera di separazione di Gaza mentre protestava pacificamente contro le violazioni israeliane a Gerusalemme.
Le forze israeliane uccisero nelle strade della Cisgiordania molti palestinesi anche adolescenti accusati di “avere con sé un coltello”. Durante questi avvenimenti il numero di morti arrivò a 222 palestinesi.
Secondo Addameer, Israa langue nella prigione di Damon, nel nord di Israele, con altre dieci madri palestinesi e trentacinque detenute.
Secondo un rapporto di Medici senza Frontiere presenta ustioni di secondo e terzo grado sul 60% del corpo. Otto delle sue dita si sono fuse a causa delle bruciature ed ha bisogno di assistenza medica urgente.
“Non c’è un dolore peggiore di questo”
Nasreen Abu Kmail, una detenuta rilasciata che è stata nella stessa cella della prigione di Damon con Israa, ha l’descritta come il “caso più difficile” dietro le sbarre. “Non può mangiare né respirare bene e a causa delle sue lesioni patisce di infiammazioni acute.”
Nonostante la sua sofferenza l’amministrazione del carcere di Damon non le fornisce l’assistenza medica necessaria per curare le ferite. Il Servizio Penitenziario Israeliano (ISP) lascia deliberatamente che Israa patisca le conseguenze della mancanza di cure.
“Ogni volta che Israa sollecita un trattamento medico, sia assistenza sanitaria di base che chirurgia plastica, l’amministrazione carceraria risponde che è stata lei stessa a provocarsi il dolore,” ha detto Anhar Al-Deek, una detenuta palestinese liberata su cauzione lo scorso settembre.
Israa è comparsa davanti al tribunale nel gennaio 2018 per presentare appello contro la sua condanna al carcere. Quando durante l’udienza le hanno chiesto del suo stato, ha alzato ciò che resta delle sue mani verso i giudici dicendo: “C’è un dolore peggiore di questo?”. Il suo volto e gli occhi erano molto eloquenti riguardo a come si senta e a quanto soffra.
La sorella di Israa, Mona Jaabis, ha detto a MEMO che Israa ha bisogno di otto operazioni urgenti, per non parlare dei trenta interventi di chirurgia plastica per curare, almeno parzialmente, le estese lesioni. “Israa respira con la bocca perché le narici sono totalmente ostruite. Ora abbiamo avviato una battaglia legale per fare pressione sull’IPS perché permetta a Israa di sottoporsi alle necessarie operazioni chirurgiche al naso, alle orecchie, alla gola e al labbro inferiore.”
L’IPS non le fornisce alcun tipo di pomata per le ustioni né consente che lo faccia la sua famiglia. “Non consentono alcun tipo di assistenza sanitaria.”
Mona ha evidenziato che dalla sua detenzione sua sorella ha subito un trauma psicologico acuto e l’ha citata: “Quando mi guardo il volto nello specchio mi spavento… e il ricordo dell’incidente è un incubo quotidiano.”
Abu Kmail e Al-Deek, che hanno scontato la loro condanna nella stessa cella di Israa, hanno raccontato che questa madre palestinese si alza tutte le mattine gridando: “Fuoco, fuoco, fuoco!”
“Mamma, fammi vedere le mani.”
Gli attivisti palestinesi si sono mobilitati sulle reti sociali a favore della madre palestinese. L’hashtag #Save_Israa è stato il più utilizzato su Twitter all’inizio di settembre. La famiglia di Israa ha detto a MEMO che la campagna va avanti.
Mutasim, il figlio tredicenne di Israa, ha anticipato questi tentativi. “Ho passato 6 anni separato da mia madre. Tutti i bambini del mondo tornano a casa e vedono la mamma. Ma io no,” ha detto Mutasim in un video.
Fin dal suo arresto l’IPS ha negato a Israa le visite della sua famiglia, con una flagrante violazione della IV convenzione di Ginevra del 1949, salvo che in un incontro speciale tra Israa e Mutasim organizzato dalla Commissione Internazionale della Croce Rossa (CICR) 18 mesi dopo la detenzione.
“C’era un vetro doppio tra Israa e Mutasim e un telefono con un segnale molto debole da una parte e dall’altra della barriera divisoria. I due hanno parlato tra loro attraverso il telefono. “Fammi vedere la tua faccia, mamma.” Israa ha alzato di malavoglia una parte della testa che cercava di nascondere dietro a un ripiano di pietra che si trovava sotto il vetro divisorio. Israa si era anche coperta il volto con una maschera gialla che si era fatta lei stessa.
Ha disegnato sulla maschera un animale dei cartoni animati per nascondere le sue ferite e non spaventare il bambino.
“Fammi vedere il tuo viso, mamma”, ha ripetuto Mutasim, ha raccontato Mona, la sorella di Israa, che ha accompagnato il bambino nella visita.
“A quel punto tutti quelli che erano presenti nella sala visite sono scoppiati a piangere, compresi gli altri visitatori e le guardie carcerarie. ‘Mamma, ti voglio bene così come sei,’ ha detto Mutasim, e ha messo la sua mano da una parte del vetro, invitando sua madre a fare altrettanto.”
Quella è stata la prima e ultima “stretta di mano” tra i due.
Le autorità israeliane hanno anche annullato l’assicurazione sanitaria di Israa, impedendo così ogni possibilità di cure mediche in futuro, in quanto è stata considerata dimessa. L’IPS vuole sopraffare con il dolore e l’umiliazione Israa per il resto della sua vita. Allora, può essere più doloroso rimanere in vita?
Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Monitor de Oriente.
(traduzione dallo spagnolo di Amedeo Rossi)