Rapporto OCHA del periodo 11- 24 gennaio 2022

Due aggressioni (o presunte tali) ad opera di palestinesi contro forze israeliane hanno provocato l’uccisione di un presunto aggressore, il ferimento e l’arresto di un altro e il ferimento di un soldato israeliano [seguono dettagli]

Il 17 gennaio, allo svincolo di Gush Etzion (Hebron), un palestinese di 39 anni avrebbe tentato di accoltellare un soldato israeliano che poi gli ha sparato, uccidendolo; alla fine del periodo di riferimento [di questo Rapporto] il corpo del presunto aggressore era ancora trattenuto dalle autorità israeliane. L’11 gennaio, a un checkpoint vicino all’ingresso dell’insediamento [colonico] di Hallamish (Ramallah), un palestinese ha guidato la sua auto contro soldati israeliani, ferendo se stesso e un soldato. Forze israeliane, hanno arrestato l’uomo. Le due famiglie dei presunti colpevoli hanno dichiarato che il loro parente soffriva di disturbi psicologici.

Tre palestinesi sono morti nel contesto di tre distinte operazioni militari israeliane [seguono dettagli]. Il 12 gennaio, nel villaggio di Jilijliya (Ramallah), durante un’operazione di ricerca, le forze israeliane hanno arrestato, bendato e ammanettato, per circa un’ora, un uomo di 80 anni. Poco dopo il ritiro delle forze israeliane, poiché l’uomo non manifestava alcun movimento, è stato portato in ospedale dove è stato dichiarato morto. Le autorità israeliane hanno annunciato un’indagine. Il 17 gennaio, un attivista palestinese di 65 anni è morto per le ferite riportate il 5 gennaio; in quella circostanza, l’uomo era intervenuto nel corso di una operazione di confisca, da parte della polizia israeliana, di un’auto senza licenza nella Comunità di Umm al Kheir (Ebron), ed era stato investito da un carro attrezzi che non si era fermato. Secondo i media israeliani, in quel caso, l’autista del camion era stato colpito e ferito alla testa da pietre lanciate da palestinesi. Il 24 gennaio, nel campo profughi di Qalandiya (Gerusalemme), le forze israeliane hanno sparato proiettili veri, proiettili di gomma e lacrimogeni su palestinesi che lanciavano pietre contro di loro; sei palestinesi sono stati feriti da proiettili di gomma. Molteplici candelotti lacrimogeni sono caduti vicino a un Centro sanitario dell’UNRWA, dove un paziente di 57 anni ha inalato gas lacrimogeni all’interno dell’ambulanza che lo trasferiva in ospedale; l’uomo è morto alcune ore dopo. In una dichiarazione rilasciata il 26 gennaio, l’UNRWA ha invitato le autorità israeliane a indagare sull’episodio, riferendo che il personale sanitario aveva fatto appello alle autorità israeliane per fermare gli spari e consentire ai pazienti di uscire in sicurezza dalla struttura.

In Cisgiordania 135 palestinesi, inclusi 22 minori, sono stati feriti dalle forze israeliane in scontri [seguono dettagli]. Il numero maggiore di feriti, 46 persone, tra cui almeno sei minori, sono stati registrati in tre episodi accaduti a Burqa e Beita (entrambi a Nablus), dove coloni israeliani avevano fatto irruzione ed avevano attaccato le Comunità, con conseguente scambio di lanci di pietre con palestinesi; le forze israeliane sono intervenute sparando lacrimogeni e proiettili di gomma. Altri 16 feriti sono stati registrati nella città di Nablus, durante scontri tra residenti palestinesi e forze israeliane, in seguito all’ingresso di un gruppo di israeliani in visita a un sito religioso. Palestinesi sono stati feriti anche durante le proteste contro gli insediamenti vicino a Beita (28) e Kafr Qaddum (23) nei governatorati di Nablus e Qalqiliya; undici sono rimasti feriti vicino al checkpoint di Beit El a Ramallah, durante manifestazioni di protesta contro l’arresto, da parte delle forze israeliane, di quattro studenti universitari dell’Università di Birzeit. Un uomo è stato aggredito fisicamente e ferito dalle forze israeliane durante una demolizione a Hebron (vedi sotto), e altri tre durante un’operazione di ricerca-arresto a Betlemme. Complessivamente, due palestinesi sono stati feriti da proiettili veri, 24 da proiettili di gomma e la maggior parte degli altri ha necessitato di cure per aver inalato gas lacrimogeni.

In Cisgiordania le forze israeliane hanno effettuato 88 operazioni di ricerca-arresto, arrestando 148 palestinesi. La maggior parte delle operazioni si è svolta nei governatorati di Gerusalemme ed Hebron. In un episodio separato, il 18 gennaio, le forze israeliane hanno fatto irruzione in una scuola del villaggio di Deir Nidham (Ramallah) ed hanno aggredito fisicamente e arrestato due studenti di 17 anni per aver lanciato pietre, a quanto riferito. Secondo il preside, durante il confronto fisico tra personale scolastico, studenti e forze israeliane, queste ultime hanno danneggiato finestre, sedie e banchi della scuola. Le lezioni per gli oltre 210 studenti sono state sospese per il resto della giornata.

Le forze israeliane hanno continuato a bloccare con cumuli di terra gli ingressi principali dei villaggi di Sabastiya, Burqa e Al Mas’udiya (tutti in Nablus), nelle vicinanze dei quali, il 16 dicembre, un colono israeliano era stato ucciso con arma da fuoco; queste misure hanno costretto circa 8.000 palestinesi a dover effettuare lunghe deviazioni, rendendo difficoltoso il loro accesso ai mezzi di sussistenza e ai servizi. Inoltre, a intermittenza, le forze israeliane hanno continuato a presidiare l’insediamento israeliano di Shavei Shomron, controllando i veicoli palestinesi e provocando lunghi ritardi. Le forze israeliane hanno anche spianato terreni e collocato cumuli di terra sulle strade agricole di Deir al Ghusun (Tulkarm) e sul monte Sabih (Nablus), impedendo ai palestinesi l’accesso ai terreni agricoli.

Nelle prime ore del mattino del 19 gennaio, nella zona di Sheikh Jarrah, a Gerusalemme Est, le forze israeliane hanno sfrattato con la forza una famiglia allargata composta da 12 persone, tra cui due minori, ed hanno poi demolito la loro casa. L’operazione era iniziata il 17 gennaio, quando le forze israeliane avevano demolito le strutture commerciali del complesso, ma non avevano sfrattato le persone. Secondo il Comune di Gerusalemme, il terreno è stato destinato alla costruzione di una scuola per bambini con disabilità. Durante l’operazione sono state arrestate circa 20 persone, tra membri della famiglia ed attivisti. Stati Membri hanno espresso preoccupazione al Consiglio di Sicurezza ONU in merito alle misure fisiche utilizzate dalle forze israeliane durante l’operazione. Ancora a Sheikh Jarrah, alla fine di gennaio o all’inizio di febbraio 2022, un’altra famiglia [palestinese] sarà probabilmente sfrattata in modo forzoso, a seguito di una causa legale intentata da coloni.

Le autorità israeliane, adducendo la mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, hanno demolito o costretto i proprietari a demolire 20 strutture di proprietà palestinese. Di conseguenza, 39 persone sono state sfollate, inclusi 19 minori, e sono stati colpiti i mezzi di sussistenza di altre 38 [seguono dettagli]. Quindici delle strutture erano in Area C e cinque a Gerusalemme Est. A Khirbet Al Fakheit (Hebron), in un’area designata dalle autorità israeliane come “zona di tiro”, sono state demolite otto strutture, tra cui abitazioni, ricoveri per animali e una cisterna d’acqua; cinque di esse erano state fornite come assistenza umanitaria.

In Cisgiordania, in tre episodi, coloni israeliani hanno ferito tre palestinesi, e in 14 casi, persone note come coloni israeliani o ritenute tali, hanno danneggiato proprietà palestinesi [seguono dettagli]. Il 24 gennaio, nella città di Huwwara (Nablus), durante un raid, coloni hanno ferito un palestinese ed hanno fracassato i vetri di almeno cinque auto e di almeno due negozi. Il 21 gennaio, in un terreno agricolo vicino al villaggio di Burin (Nablus), coloni hanno aggredito e ferito fisicamente cinque attivisti israeliani per i diritti umani, hanno appiccato il fuoco a uno dei loro veicoli e ne hanno danneggiato un altro. A Deir Sharaf e Qaryut (Nablus), Yassuf (Salfit), Massafer Yatta (Hebron) e Mazra’a al Qibiliya (Ramallah) sono stati sradicati o vandalizzati almeno 550 alberi e alberelli di proprietà palestinese.

In Cisgiordania, in 18 episodi, persone conosciute come palestinesi, o ritenuti tali, hanno lanciato pietre o bottiglie molotov contro veicoli israeliani, ferendo due israeliani e provocando danni ai veicoli. Inoltre, il 15 gennaio, nel sud di Hebron, in un insediamento “avamposto” [illegale, cioè, anche per Israele] una sinagoga è stata data alle fiamme da palestinesi, a quanto riferito.

Vicino alla recinzione perimetrale israeliana e al largo della costa di Gaza, in almeno 25 occasioni, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento, presumibilmente per far rispettare [ai palestinesi] le restrizioni di accesso [loro imposte]; non sono stati segnalati feriti. In tre occasioni, le forze israeliane [sono entrate all’interno della Striscia ed] hanno spianato terreni adiacenti alla recinzione.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina:https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




“Siamo qui per mettere sotto pressione il villaggio”: le truppe israeliane ammettono la politica delle punizioni collettive

Yuval Abraham 

 24 gennaio 2022,  +972 Magazine

Da dicembre l’esercito israeliano ha imposto al villaggio di Dir Nizam una chiusura quasi totale e violente incursioni. E i soldati sono sinceri sul perché lo stanno facendo.

Per quasi due mesi i soldati israeliani hanno sottoposto i 1.000 residenti del villaggio palestinese di Dir Nizam a punizioni collettive, sostenendo che si trattava di una reazione ai bambini che lanciano pietre contro i veicoli di passaggio. Il 1° dicembre 2021 l’esercito ha chiuso tutti e tre gli ingressi al villaggio, che si trova a nord di Ramallah nella Cisgiordania occupata, e ha allestito un posto di blocco con bande chiodate all’unico ingresso lasciato aperto al traffico.

Da allora, i soldati israeliani hanno piantonato l’ingresso 24 ore su 24, controllando a lungo ogni macchina al passaggio, interrogando i passeggeri, aprendo i bagagli e fotografando le carte d’identità. A volte bloccando completamente tutti i movimenti dentro e fuori il villaggio per ore.

I soldati non si limitano a restare fuori dal villaggio; sono entrati a Dir Nizam in almeno 14 occasioni dall’inizio della chiusura per effettuare arresti, condurre indagini o compiere “azioni di deterrenza” contro gli abitanti del villaggio. In tre diverse occasioni sono persino entrati nella scuola del villaggio.

La punizione collettiva è stata imposta a Dir Nizam apparentemente per impedire ai bambini di lanciare pietre, ma gli episodi di lanci di pietre sono in realtà aumentati da quando l’esercito ha chiuso il villaggio e non sembra esserci in progetto che se ne vadano presto. Ho visitato l’area la scorsa settimana e ho chiesto ai soldati cosa stessero facendo esattamente lì:

Posso chiederti qual è lo scopo di questo posto di blocco?

“Certo. Siamo qui perché sulla statale 465, vicino al villaggio di Dir Nizam, gruppi di bambini dagli 8 ai 16 anni circa lanciano mattoni e piccoli sassi ai veicoli di passaggio… [Il posto di blocco] che abbiamo allestito qui è per fare pressione sul villaggio stesso. Stiamo facendo arrivare gli adulti in ritardo al lavoro al mattino, stiamo davvero rendendo difficile la loro vita quotidiana. Gli adulti sono consapevoli di ciò che stanno facendo i bambini e sono contrari. Non vogliono che lancino pietre”.

Quindi questa è in realtà una forma di punizione collettiva imposta al villaggio?

“Esatto. È una punizione collettiva per l’intero villaggio. La pressione sugli adulti, gli ‘anziani della tribù’, come qui vengono chiamati, farà pressione sui bambini che quindi smetteranno di lanciare pietre”.

Ok. E che senso ha questo per te? Punire mille persone, a causa di pochi bambini?

“O è così, o altre soluzioni che non sono sempre piacevoli. Per non dire altro.”

Cosa intendi per altre soluzioni?

“Oggi disponiamo di mezzi molto avanzati per identificare i bambini, i volti dei lanciatori di pietre. Se attiviamo questi mezzi, possiamo arrestarli. E questi bambini saranno messi dove devono essere messi”.

La nuova “normalità”

A duecento metri dal posto di blocco, accanto alla scuola, si sono radunati intorno a me otto bambini: il più grande è all’undicesima, il più giovane alla seconda, la maggior parte alle elementari [il sistema scolastico palestinese prevede sei anni di elementari, tre di medie e decimo e undicesimo anno di istruzione superiore ed è obbligatorio sino alla decima classe, ndtr.]. Quando ho chiesto in che modo la presenza militare li avesse colpiti, hanno iniziato a ridere. Ogni volta che uno parlava, gli altri lo interrompevano.

“Mi hanno arrestato”, ha detto un bambino di quinta elementare con uno zaino strappato. “Mi hanno picchiato”, ha gridato un altro ragazzo. «Sto lanciando sassi», urla un altro di quarta elementare, che poi corre goffamente lungo la strada.

L’atmosfera è cambiata grazie a Ahmad Nimer, un ragazzo che non rideva. Lo sguardo dei suoi occhi marroni appariva più vecchio dei suoi 13 anni e, vedendo i miei tentativi di avere una conversazione seria, ha detto: “Posso dirti io come mi colpisce l’esercito “. Tutti tacquero.

“E’ sempre mio padre che guida l’auto, mia madre siede accanto a lui e io mi siedo dietro”, dice mentre il gruppo gli si raduna intorno. “Da quando hanno allestito il posto di blocco, i soldati li fermano di continuo. Dicono ai miei genitori, in ebraico, ‘Dove state andando?’ e fotografano i loro documenti. A volte ci fanno scendere dall’auto, a volte dicono a loro o a me: ‘Perché i bambini lanciano sassi?’”

E tu cosa dici?

“Niente. Sono sul sedile posteriore e guardo mio padre”.

E cosa pensi?

“Niente. Non penso niente. Per me è normale”.

Il resto dei bambini annuisce. “È normale”, dice Tamer, un dodicenne con i capelli corti. “Il giorno in cui sono entrati nella nostra scuola sono svenuto per i gas lacrimogeni e mi sono svegliato pochi minuti dopo a casa”.

Tamer fa riferimento a quanto accaduto il 9 dicembre: secondo testimonianze e video, quel giorno i soldati israeliani sono entrati nella scuola del villaggio nelle ore pomeridiane, dopo che le lezioni erano finite, hanno interrogato gli studenti in cortile e cercato i bambini che tiravano pietre. “Hanno esaminato le aule, dicendo che stavano cercando quelli che tirano le pietre”, dice Adham, che ha 16 anni. “Hanno lanciato molti gas lacrimogeni e granate stordenti in cortile”.

Da quando sono iniziate le punizioni collettive al villaggio, i soldati sono entrati a scuola tre volte; l’incursione più recente è stata la scorsa settimana, il 18 gennaio, alle 8:45 mentre iniziavano le lezioni.

Il brutale ingresso dei soldati è stato ben documentato nei video ripresi da studenti e insegnanti che hanno assistito in prima persona alle aggressioni. In uno di essi si vedono soldati picchiare e tirare fuori dalla classe uno studente dell’undicesima classe mentre la sua insegnante cerca di proteggerlo con il suo corpo e grida: “Questa è una scuola, andate via!”

In un altro video, i soldati bendano lo stesso ragazzo vicino al cortile, mentre sullo sfondo si vedono bambini delle elementari che entrano dai cancelli e corrono verso le aule. Un altro video mostra un gruppo di soldati che attraversa il campo da basket della scuola, spintonando due membri dello staff. Due studenti sono stati arrestati: il primo, Ahmad al-Ghani, è stato rilasciato il giorno successivo; il secondo, Ramez Muhammad, è tuttora in custodia.

“Di solito prendono i bambini per qualche ora, li portano in giro in jeep, danno loro qualche schiaffo in faccia, chiedono loro perché hanno lanciato pietre e poi li riportano al villaggio”, ha detto Adham. La mattina del 5 gennaio, ad esempio, l’esercito è entrato a Dir Nizam e ha arrestato nove bambini, ma poche ore dopo li ha riportati tutti al villaggio. Non sono stati portati alla stazione di polizia per essere interrogati e non sono stati processati.

Si stanno facendo odiare ancora di più dai bambini”

Arin, una 43enne residente a Dir Nizam, ha affermato che tra tutte le conseguenze della politica delle punizioni collettive, ciò che colpisce di più i suoi figli sono le incursioni notturne dell’esercito. “I soldati vengono proprio a casa a interrogare i ragazzi e più volte hanno lanciato granate stordenti e gas lacrimogeni per le strade, per svegliare tutti”, ci ha detto.

Ad esempio, il 2 dicembre alle 22:30, una telecamera di sicurezza su una delle case del villaggio ha documentato i soldati che lanciavano nove granate stordenti sulla strada principale della zona residenziale. Dall’angolazione della telecamera è impossibile comprendere completamente il contesto, ma il linguaggio del corpo dei soldati è rilassato e non si vedono lanci di pietre prima del lancio delle granate stordenti.

Tutti a casa si sono immediatamente svegliati”, ricorda una donna anziana di nome Fatima, la cui casa si trova su quella strada. “Recentemente non ho più potuto dormire la notte, né io né i bambini”, dice un’altra donna di 30 anni, che ha chiesto di non essere nominata.

“Ogni notte, da un mese ormai, mio nipote mi chiede: ‘Nonna, hai chiuso a chiave la porta?’ Tre volte a notte lo chiede”, dice Arin. “Chi non ha mai lanciato pietre si dice: ‘Ora comincerò a tirare pietre, che importa? A prescindere dal fatto che io lanci o no pietre, tutti vengono puniti.’ Stanno facendo in modo che i bambini li odino ancora di più”.

Il nuovo posto di blocco si trova vicino al paese su una strada interna che si collega con la statale 465; vi sono stati recentemente posati anche blocchi di cemento. “L’unico giorno in cui possiamo rilassarci senza punizioni collettive è la loro vacanza, Shabbat. Il sabato non c’è posto di blocco al mattino, ma torna la sera”, ha detto Fatima.

Elham, 32enne che culla il figlio piccolo tra le braccia, mi ha raccontato una discussione avvenuta entrando in macchina nel villaggio. “Mio figlio era con me sul sedile posteriore. Il soldato gli ha detto: ‘Perché lanci sassi?’ e mio figlio ha risposto ‘Io non lancio sassi’ e il soldato: ‘Bugiardo, ti ho visto’. Mio figlio oggi era con me al lavoro, dalle sette del mattino”, ha continuato Elham. “Così ho cercato di dire al soldato che non ha lanciato pietre perché l’ho avuto sott’occhio tutto il giorno, dalla mattina. Ma il soldato mi ha semplicemente detto: ‘Parla ebraico, non capisco l’arabo.'”

“Controllate l’aria che respiriamo”

Come in moltissimi villaggi della Cisgiordania, la maggior parte delle terre di Dir Nizam si trova nell’Area C [sotto completo controllo israeliano, ndtr.] (e il 4,7% nell’Area B) [sotto parziale controllo israeliano, ndtr.], in cui Israele proibisce ai palestinesi quasi sempre di costruire anche su propria terra privata. “Vivo vicino all’insediamento di Halamish e tutto il giorno un drone aleggia sopra le nostre teste, scattando foto per assicurarsi che non abbiamo costruito nulla sulla nostra terra. Se qualcosa viene costruito, l’esercito viene a distruggerlo”, dice Fatima.

Halamish, noto anche come Neve Tzuf, è un insediamento israeliano di circa 1.500 residenti. È stato fondato nel novembre 1977 su un sito che fungeva da base militare giordana prima della guerra dei Sei Giorni e un ordine militare israeliano ha reso possibile l’espropriazione di circa 600 dunam di terra di proprietà privata dei residenti di Dir Nizam e Nabi Saleh. “Splendide viste panoramiche, a 25 minuti da Modi’in”, si legge sul sito web dell’insediamento in espansione che pubblicizza nuovi appartamenti.

I residenti palestinesi affermano che di recente i militari hanno impedito loro di coltivare la propria terra con mezzi pesanti quali i trattori nelle aree vicine all’insediamento. Jaber Musab, un contadino la cui casa si affaccia su Halamish, dice di aver lavorato tutta la vita per gli ebrei israeliani nella vicina Herzliya e anche ad Halamish. A differenza dei suoi vicini israeliani, non può lasciare la Cisgiordania senza un permesso dell’esercito. Gli ho chiesto perché i bambini del villaggio lancino pietre e lui ha risposto in ebraico: “Perché controllate l’aria che respiriamo”. Poi è rimasto in silenzio.

A dicembre Nasser Mazhar, un anziano contadino molto amico di Musab, è stato eletto capo del consiglio del villaggio di Dir Nizam, l’unica elezione che si è tenuta come previsto dopo che lo scorso maggio il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas ha annullato le elezioni presidenziali e parlamentari. Il precedente capo del consiglio, Bilal Tamimi, ha lasciato il villaggio: “Non potevo più viverci, a causa dei problemi con l’esercito”, mi ha spiegato al telefono da Ramallah. Musab ha precisato che anche suo fratello ha di recente lasciato il villaggio, una tendenza che secondo lui è aumentata a causa della punizione collettiva.

“Esci dal villaggio per un quarto d’ora e sei perquisito due volte, uscendo e rientrando”, mi ha detto Mazhar nel suo soggiorno, e il suo timido nipote di 12 anni ascoltava sul divano di fronte. “Ogni volta che passo mi dicono: ‘Dacci i nomi dei bambini che lanciano pietre’, anche se hanno comunque le macchine fotografiche. I soldati ci controllano perché siamo nelle Aree B e C. Loro sono responsabili della nostra sicurezza, non siamo noi responsabili della loro sicurezza”.

Fermati medici e infermieri

Da quando è iniziata la punizione collettiva, i soldati israeliani hanno chiuso completamente il villaggio quattro volte per periodi che vanno da una a sette ore. Tre settimane fa, durante una di queste chiusure, i soldati hanno negato l’ingresso a un gruppo di medici e infermieri di Ramallah che si stavano recando alla clinica locale per visitare i residenti.

Nel mese scorso agli insegnanti delle scuole superiori che provengono da altre città palestinesi è stato impedito per due volte di uscire o entrare nel villaggio, annullando così la giornata scolastica. “Tutti i bambini erano contenti di essere a casa”, ha riso Shadi, il nipote timido. Mi ha mostrato al cellulare un video del 7 dicembre, che mostrava la lunga fila degli insegnanti fermati al posto di blocco. «Quella è la macchina del signor Jumah, l’insegnante», dice. I soldati hanno lasciato entrare gli insegnanti dopo circa tre ore.

Shadi e il suo amico, entrambi in prima media, mi hanno portato a fare un giro nel villaggio mentre il sole cominciava a tramontare. Ho chiesto loro se passano del tempo a Ramallah. “A Tel Aviv!” disse Shadi, forse scherzando. “È vicina, guarda”, indica oltre l’orizzonte, dove si possono vedere le case della città e il mare.

Tel Aviv dista 30 chilometri in linea d’aria dal villaggio assediato. Nel cielo, grandi aerei si librano bassi. L’aeroporto Ben Gurion è a soli 20 chilometri da qui; a Shadi, come agli altri palestinesi residenti in Cisgiordania, non è permesso volare. Sono controllati da noi e lavorano per noi, ma non hanno un aeroporto.

All’uscita, vicino al posto di blocco, ho incontrato un palestinese della mia età che tornava dal lavoro a Herzliya. Ci va tutti i giorni per ristrutturare case, previo permesso di ingresso dell’esercito. “Parto alle 3 del mattino”, dice. “I soldati sono al posto di blocco anche allora.” Abbiamo parlato a lungo e mi ha chiesto di non pubblicare il suo nome, per paura che gli venisse negato il permesso di ingresso.

“Per tutto il viaggio di ritorno dal lavoro sono preoccupato di cosa accadrà al posto di blocco”, mi dice. “Proprio ora passavo con mia madre. Era andata a fare la spesa. I soldati mi hanno chiesto di scendere dall’auto e di deporre davanti a loro il contenuto delle borse. Ho detto loro che la carne si sarebbe sporcata e alla fine mi hanno permesso di sollevarla invece di metterla giù. Uno di loro mi ha chiesto: ‘Perché i ragazzi tirano pietre?’ Gli ho detto: ‘Sono bambini’. E lui ha detto: ‘Finché continueranno, continueremo a punirvi”.

Da un’analisi e da un incrocio di dati tra il gruppo Telegram di Hashomer Judea e Samaria – un’organizzazione di coloni che documenta esaurientemente i lanci di pietre palestinesi in Cisgiordania – e la pagina Facebook di Dir Nizam, che riporta le azioni dell’esercito nel villaggio, sembra che i soldati di solito impongano una chiusura totale dopo che il gruppo dei coloni riferisce di sassi lanciati sulla statale 465.

All’inizio dello scorso anno Rivka Teitel, un’israeliana di 30 anni, è stata gravemente ferita da un sasso lanciato contro la sua auto vicino a Dir Nizam, che l’ha colpita alla testa. Circa due settimane fa, anche un cittadino palestinese di Israele è stato leggermente ferito da un sasso lanciato in zona. Questi sono stati gli unici incidenti da lancio di pietre che hanno causato feriti nell’ultimo anno a Dir Nizam.

Da quando il 1° dicembre l’esercito ha imposto la chiusura, c’è stato un forte aumento nella zona degli incidenti causati da lanci di pietre. In media, sono stati documentati 10 volte più episodi di lanci di pietre rispetto al periodo precedente l’introduzione delle punizioni collettive e ci sono stati sei volte più ingressi militari nel villaggio per effettuare arresti, indagini o attività di deterrenza.

Abbiamo chiesto al portavoce dell’esercito israeliano se ai soldati fosse stato ordinato di punire i residenti del villaggio e se la punizione collettiva fosse una politica dichiarata dell’esercito nei territori occupati. La risposta affermava: “Recentemente, c’è stato un aumento significativo degli incidenti terroristici locali, inclusi il lancio di pietre e bombe molotov contro i veicoli che viaggiano sulla statale 465. Tra le azioni per affrontare questo fenomeno le forze dell’esercito israeliano stanno operando nell’area in conformità con le valutazioni operative, attraverso attività sia palesi che segrete”.

Yuval Abraham è un giornalista freelance israeliano che lavora in strutture educative bilingue israelo-palestinesi. Ha studiato l’arabo e insegna la lingua ad altre persone di lingua ebraica che credono nella lotta comune per la giustizia e in una società condivisa tra israeliani e palestinesi.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




L’hasbara di Israele a Sheikh Jarrah: il sasso ‘terrorista’ e la logica distorta di Gilad Erdan

Ramzy Baroud

24 gennaio 2022 – Middle East Monitor

L’ambasciatore israeliano alle Nazioni Unite, Gilad Erdan, sta conducendo la propaganda (hasbara, ndtr.) antipalestinese del suo Paese, impegnandosi questa volta in una propaganda preventiva che anticipa una risposta palestinese alle continue espulsioni nel quartiere Sheikh Jarrah di Gerusalemme est.

Lo riterreste un attacco terroristico se un sasso come questo fosse scagliato contro la vostra macchina mentre state guidando con i vostri figli?”, ha chiesto Erdan al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite tenendo in mano la pietra. “Come minimo, condannereste questi brutali attacchi condotti da palestinesi contro civili israeliani?”

Questa logica israeliana è del tutto tipica, laddove i palestinesi oppressi sono descritti come aggressori e l’oppressore Israele – uno Stato razzista di apartheid sotto ogni aspetto – si presenta come vittima che non fa che difendere i propri cittadini.

Ma la logica selettiva di Erdan questa volta è dovuta ad altro. La sua messinscena all’ONU mira esclusivamente a stornare l’attenzione dai continui terribili fatti che avvengono a Sheikh Jarrah e in tutta la Gerusalemme est occupata. Mercoledì 19 gennaio la casa della famiglia palestinese Salhiya è stata demolita da Israele, lasciando senza un tetto 15 persone, in maggioranza bambini.

Pochi giorni prima è avvenuto un fatto straziante sul tetto di quella casa, quando membri della famiglia Salhiya hanno minacciato di darsi fuoco perché angosciati dall’imminente perdita della casa della loro famiglia.

Non abbiamo più niente a Gerusalemme. Questa è pulizia etnica. Oggi tocca a me, domani ai miei vicini. Meglio per noi morire sulla nostra terra con dignità che arrenderci a loro”, ha detto Mahmoud Salhiya, il proprietario della casa, prima di essere dissuaso dai vicini dal darsi fuoco.

A questi tragici eventi si assiste attentamente, anzitutto da parte dei palestinesi, ma anche della gente di tutto il mondo. Se la prassi delle distruzioni israeliane continuerà ci sono probabilità che assisteremo ad un’altra sollevazione popolare. Lo spettacolo di Erdan all’ONU è un disperato gesto di propaganda per dissuadere i membri della comunità internazionale dal criticare Israele.

Ma Israele non riesce a far valere la propria causa, come non è riuscito a difendere la propria terribile violenza contro i palestinesi in tutta la Palestina occupata nel maggio 2021. Persino i tradizionali alleati di Israele esprimono contrarietà verso l’ultima ondata di pulizia etnica a Sheikh Jarrah.

La rappresentante degli USA alle Nazioni Unite ha espresso ‘preoccupazione’ riguardo all’espulsione forzata nel quartiere palestinese. “Per compiere un passo avanti, sia Israele che l’Autorità Nazionale Palestinese devono evitare mosse unilaterali che esasperano le tensioni e soffocano gli sforzi per far progredire una soluzione negoziata di due Stati”, ha detto Linda Thomas-Greenfield, utilizzando l’usuale linguaggio prudente. Tuttavia Thomas-Greenfield ha proseguito mettendo in guardia contro “le annessioni di territori, l’attività di colonizzazione, le demolizioni e le espulsioni – come quelle che abbiamo visto a Sheikh Jarrah.”

Il 19 gennaio anche il deputato repubblicano USA Mark Pocan ha duramente criticato la decisione di Israele di espellere con la forza la famiglia Salhiya a Sheikh Jarrah.

La scorsa notte, con la complicità del buio e di un freddo pungente, le abitazioni della famiglia Salhiya a Sheikh Jarrah, Gerusalemme, sono state distrutte dalle forze israeliane, lasciando senza casa 15 persone. Ciò non è accettabile e deve finire”, ha twittato Pocan, aggiungendo il popolare hashtag # Savesheikhjarrah.

Da parte sua l’inviato speciale dell’ONU per il Medio Oriente, Tor Wennsland, ha duramente condannato l’espulsione della famiglia palestinese da parte delle autorità occupanti israeliane.

Chiedo alle autorità israeliane di porre fine agli sfratti ed alle espulsioni dei palestinesi, in base ai loro obblighi previsti dal diritto internazionale, e di approvare nuovi programmi che consentirebbero alle comunità palestinesi di costruire legalmente e di provvedere alle proprie necessità di sviluppo”, ha detto Wennsland, secondo quanto riportato sul sito web dell’ONU.

Torniamo allo spettacolo di Erdan, quando ha presentato il ‘terrorismo’ palestinese mostrando la presunta prova schiacciante di un sasso.

Va detto che criticare o difendere la resistenza palestinese, anche simbolica, permette ad Israele di impostare un dibattito fuorviante e futile, che crea un’equivalenza morale tra l’occupante e l’occupato, il colonizzatore e il colonizzato.

Che i palestinesi usino una pietra, un fucile o un pugno per resistere e difendersi, la loro resistenza è moralmente e legalmente giustificata. Israele invece, come tutti gli altri occupanti militari e colonialisti, non ha argomenti né morali né legali per giustificare la sua oppressione sui palestinesi, la distruzione delle loro case – come quella della famiglia Salhiya – e l’uccisione dei loro figli.

A giudicare dalla crescente solidarietà con i palestinesi dovunque, è chiaro che il patetico spettacolo di Erdan è solo un ulteriore esercizio di futilità politica.

Nulla di ciò che Israele può dire o fare potrà alterare la realtà lampante del fatto che una nuova generazione di palestinesi sta riunificando ancora una volta la narrazione palestinese, in particolare riguardo alla resistenza palestinese all’occupazione israeliana. Sia che l’oppressione israeliana avvenga a Sheikh Jarrah, a Gaza o nel deserto del Negev, ora i palestinesi rispondono in modo collettivo, come un unico corpo politico. Grazie alla rivolta del maggio 2021 sono finiti i tempi in cui i palestinesi vengono scacciati dalle loro case nel cuore della notte come fosse una consuetudine senza conseguenze.

Inoltre sta cambiando il linguaggio politico usato per descrivere gli eventi in Palestina in ambito internazionale. Il ‘diritto di Israele di difendersi’ non è più la reazione automatica che spesso viene adottata per descrivere la violenza israeliana e la resistenza palestinese.

Infine sembra che Israele non sia più la parte che determina gli eventi in Palestina e controlla la narrazione ad essi relativa. I palestinesi ed un crescente movimento internazionale di loro sostenitori stanno attivamente dando forma alla percezione globale della realtà sul campo. Né Erdan né i suoi capi a Tel Aviv possono ribaltare questo slancio a guida palestinese. Il suo intervento all’ONU non fa che rispecchiare il grado di disperazione e fallimento intellettuale di Israele e dei suoi rappresentanti.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Un nuovo documentario mostra come in Israele il negazionismo della Nakba sia annoso e profondo

Jonathan Ofir  

21 gennaio 2022Mondoweiss

Un nuovo documentario demolisce il negazionismo ufficiale del massacro di Tantura dove oltre 200 palestinesi furono trucidati da miliziani sionisti pochi giorni dopo la costituzione di Israele nel 1948.

35 metri per 4. Queste sono le dimensioni della fossa comune in cui furono sotterrati oltre 200 palestinesi del villaggio di Tantura in seguito al massacro del 22 e 23 maggio, nei primi giorni della proclamazione ufficiale di Israele, da parte della brigata Alexandroni dell’Haganah, la milizia ebraica sionista.

Queste dimensioni sono ora attestate da un nuovo documentario di Alon Schwarz intitolato “Tantura” presentato questo weekend al Sundance Festival in Utah. Ora il luogo del massacro è una spiaggia popolare in Israele, dove ha nuovamente suscitato alcune controversie. I veterani della brigata Alexandroni avevano già tentato di far passare tutto sotto silenzio nel 2000, dopo le loro testimonianze raccolte dallo storico Theodore (Teddy) Katz per la sua tesi di master completata nel 1998, di cui il massacro è il tema centrale. Le loro testimonianze (insieme a quelle dei palestinesi sopravvissuti) probabilmente sarebbero rimaste nascoste nella biblioteca dell’Università di Haifa se nel 2000 il quotidiano israeliano Ma’ariv non avesse diffusamente denunciato il massacro. I veterani querelarono Katz per diffamazione (1 milione di shekel, oggi 279.000 euro) e in un momento di debolezza, senza il suo avvocato, sotto pressione economica e della famiglia e in gravi condizioni di salute (un infarto recente), Katz firmò un testo preparato di ritrattazione per uscirne fuori del tutto. Se ne pentì poche ore dopo, ma era troppo tardi, la giudice che non si era in realtà immersa nelle testimonianze del lavoro di Katz disse che la questione era chiusa.

Oggi Haaretz pubblica sul documentario un articolo di Adam Raz sul documentario intitolato “There’s a Mass Palestinian Grave at a Popular Israeli Beach, Veterans Confess” [C’è una fossa comune accanto a una popolare spiaggia israeliana, confessano i veterani]. Raz sottolinea il fatto che la giudice, Drora Pilpel, ha ascoltato alcune delle testimonianze originali ottenute da Katz per la prima volta nel corso della realizzazione del documentario, e lei ha affermato:  

Se è vero, è un peccato … Se aveva cose così avrebbe dovuto proseguire [con la causa] fino alla fine.

Non si tratta di “se”: Katz aveva “cose così,” ne aveva per 60 ore. Non sarebbe stato rilevante se la giudice avesse dato un’occhiata a quelle cose prima di chiudere il caso?

Persino i testimoni ebrei citati da Katz erano stati categorici. 

Yosef Graf, una guida della vicina cittadina di Zichron Ya’akov che accompagnò le forze dell’Alexandroni, dice:

Lo affermo chiaramente, quelli [dell’Alexandroni], loro hanno compiuto il massacro.

Mordechai Sokler, also a guide from Zichron Ya’akov, said:

Mordechai Sokler, anche lui una guida di Zichron Ya’akov, dice:

Otto giorni dopo sono tornato sul posto dove li avevamo seppelliti, vicino alla ferrovia. C’era una montagnola perché i corpi si erano gonfiati.

Sokler ha detto a Katz di aver contato 230 corpi.

Quando nel 2000 i veterani dell’Alexandroni ottennero la ritrattazione di Katz erano esultanti. Sul loro sito ufficiale postarono:

La storia di Tantura: la fine dell’accusa del sangue [classico argomento antisemita, ndtr.].

Nel gennaio 2000 il quotidiano “Maariv” ha pubblicato un’inchiesta, iniziata da un tal Teddy Katz, che pretende di essere uno storico, sul massacro che si presume compiuto dai combattenti della Divisione 33 (Alexandroni) contro gente indifesa dopo lo scontro di Tantura. I combattenti della brigata hanno iniziato una battaglia legale e pubblica per ripristinare il loro buon nome e rimuovere una macchia ingiusta che è stata loro attribuita dal succitato “storico”. Segue qui il riassunto dell’episodio alla fine del quale la verità è venuta alla luce.  

È esattamente il contrario: i veterani stavano ancora una volta cercando di seppellire la verità. Il grado di negazionismo fra i veterani dell’Alexandroni è scandaloso, al punto che uno dei testimoni principali, l’ex-soldato dell’esercito israeliano, generale Shlomo Ambar, firmò una dichiarazione giurata in cui affermava che lui e i suoi commilitoni non ricordavano nulla di quello che avevano detto a Katz. 

La testimonianza originale di Ambar è particolarmente pesante. Incredibilmente lui riflette sulle sue azioni e su quelle dei suoi commilitoni e, paragonandola ai nazisti, giudica la politica dei nazisti verso i prigionieri di guerra più favorevole della loro:

Io associo [quello che è successo a Tantura] solo con questo: sono andato a combattere contro i tedeschi che erano i nostri peggiori nemici. Ma quando combattevamo noi obbedivamo alle leggi di guerra dettate dalle norme internazionali. Loro [i tedeschi] non uccidevano i prigionieri di guerra. Uccidevano gli slavi, ma non i prigionieri di guerra inglesi e nemmeno ebrei, tutti quelli dell’esercito britannico prigionieri dei tedeschi sopravvissero.

E ora, nel recente documentario, Ambar riappare, questa volta con frasi di sconcertante negazione (citate da Raz su Haaretz):

Cosa vuole?” chiede Shlomo Ambar che è salito al grado di brigadiere generale e capo della Difesa Civile, oggi l’Home Front Command [comando regionale dell’esercito]. “Che io sia un’anima sensibile che parla come un poeta? Mi sono messo da parte. Questo è tutto. Basta così.” Parlando nel film, Ambar chiarisce che gli eventi nel villaggio non gli erano piaciuti, “ma dato che non ho parlato allora, per me non c’è motivo di parlarne oggi.”

Comunque nel documentario ci sono testimonianze persino più candide:

Non è bello da dirsi. Li hanno messi in un barile e gli hanno sparato nel barile. Ricordo il sangue nel barile.” Uno dei soldati ha concluso dicendo che nel villaggio i suoi commilitoni semplicemente non si erano comportati come esseri umani e poi è risprofondato nel silenzio.

O questo:

Un altro soldato della brigata, Micha Vitkon, parla di un ufficiale “che in anni seguenti diventò un pezzo grosso del Ministero della Difesa. Con la sua pistola aveva ucciso un arabo dopo l’altro. Era un po’ squilibrato e quello era un sintomo del suo squilibrio.”

O questo:

Una delle testimonianze più orrende nel film di Schwarz è quella di Amitzur Cohen, che parla dei suoi primi mesi come combattente in guerra: “Ero un assassino. Non ho fatto prigionieri.” Cohen riferisce che se una squadra di soldati arabi stava con le mani alzate lui li uccideva tutti. Quanti arabi ha ucciso non sui campi di battaglia? “Non ho contato. Avevo una mitragliatrice con 250 pallottole. Non so dire quanti.”

In sostanza tutti questi strazianti dettagli non sono nuovi. Abbiamo decine di testimonianze di palestinesi fin da subito dopo il massacro, come questa di Salih ‘Abd al-Rahman (Abu Mashayiff) di Tantura riportata da Teddy Katz: 

[Shimshon Mashvitz] accettò [di fermarsi] dopo aver ucciso [da solo] 85 persone… Li uccise [con un mitra Sten]. Stavano davanti al muro, con la faccia rivolta verso il muro, lui è arrivato da dietro e li ha uccisi tutti, sparando alla testa … In ogni gruppo c’erano venti o trenta persone. Ha cambiato i caricatori due o tre volte.

Ali ‘Abd al-Rahman Dekansh (Abu Fihmi) disse a Katz:

La persona che era con me conosceva l’ebraico. Li sentì dire che dopo che loro (quelli che stavano scavando) avessero finito la prima fossa comune, dovevano scavarne un’altra, di ucciderli e buttarceli dentro … Il comunicato del loro esercito disse che avevano ucciso 250 persone. Era un comunicato di guerra dell’esercito, fu trasmesso alla radio.” 

Non è importante se ogni parola è esatta. Ma questa è la natura della pedante e ossessiva caccia alle streghe che quelli dell’Alexandroni condussero contro Teddy Katz. Trovarono all’incirca sei esempi in cui il testo non era abbastanza preciso, come quando aveva scritto “nazisti” invece di “tedeschi” (in relazione alla testimonianza di Ambar). E la giudice accettò quel livello di presunti errori, non li mise in discussione.

Dopo il processo e la ridicola e ipocrita proclamazione di vittoria dell’Alexandroni contro “l’accusa del sangue”, anche l’università di Haifa si unì alla caccia alle streghe. Nonostante Katz avesse ottenuto uno dei voti più alti (97), insinuarono che ci fossero imprecisioni e che la tesi andasse aggiustata. Katz la corresse e anzi aggiunse altre testimonianze. Due degli esaminatori convocati per la commissione, il dr. Avraham Sela (Università Ebraica) e il dr. Arnon Golan (Università di Haifa), diedero a Katz un 50 e un 40. Nonostante avesse avuto 85, 83 e 74 dagli altri tre esaminatori, voti sufficienti per ottenere il titolo, a Katz fu annullato il Master dell’Università di Haifa. Sela e Golan hanno palesemente falsato la Nakba, e persino lo storico israeliano Benny Morris [prima contrario e ora favorevole all’espulsione dei palestinesi, ndtr.] ha mostrato insofferenza nei confronti della loro distorsione e minimizzazione delle espulsioni a Lydda e Ramle. 

Tutto questo fa parte del vergognoso negazionismo israeliano della Nakba. Il professor Ilan Pappé, che è stato un convinto sostenitore di Katz, ha scritto ieri su Facebook:

Nel 2007 dietro insistenza del ministero dell’Educazione mi dovetti dimettere dal mio posto all’Università di Haifa (nonostante avessi una cattedra); uno dei miei “crimini” fu insistere che ci sia stato un massacro nel villaggio di Tantura nel 1948 come era stato rivelato dallo studente del master, Teddy Katz. Io feci le mie ricerche e dichiarai categoricamente, persino dopo che Katz dietro enormi pressioni e intimidazioni aveva ritrattato ciò che aveva scoperto, che si trattò di uno dei peggiori crimini commessi dall’esercito israeliano nel 1948. 

Non sono affatto pentito e sono grato di aver potuto continuare negli ultimi 15 anni la lotta contro il negazionismo della Nakba all’università di Exeter e spero ancora di costituire a Londra un centro contro il negazionismo della Nakba.

Il kibbutz Nachsholim fu costruito sopra Tantura appena tre settimane dopo la pulizia etnica e la fossa comune è diventata un parcheggio. Tantura adesso si chiama Nachsholim o anche Dor Beach.    

Nelle guide turistiche l’area di Dor Beach oggi sembra un paradiso. Sole e acqua blu. Ma sotto quel paradiso c’è un vero inferno. 

Noi sappiamo precisamente dove si trova la fossa comune (grazie al confronto di foto aeree prima e dopo il massacro che appaiono nel recente documentario). Noi sappiamo quanto è lunga e larga: 35 metri per 4. Non sappiamo esattamente quanto sia profonda. E quanto è profondo il negazionismo israeliano della Nakba? Molto profondo. Ci sono ancora milioni di pagine di rapporti israeliani sugli eventi della Nakba del 1948 che sono censurati e non disponibili al pubblico. Io ritengo che, se i sopravvissuti palestinesi e i discendenti trovano questo accettabile e rispettoso, questa fossa comune debba essere scavata e che in questo modo si possa trovare una forma di chiusura. 

Non che questo cancellerebbe il negazionismo israeliano della Nakba. Questo è qualcosa che sembra essere sepolto sotto strati molto più spessi delle sabbie della spiaggia di Tantura,

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Un tribunale federale tedesco stabilisce che la politica anti-BDS di Monaco è illegale

Adri Nieuwhof

24 gennaio 2022 – Electronic Intifada

Con una vittoria della libertà politica, un tribunale federale tedesco ha sentenziato che il rifiuto dell’amministrazione comunale di Monaco di mettere a disposizione uno spazio pubblico per un dibattito sulla risoluzione anti-BDS della città è stato un provvedimento anticostituzionale.

Il tribunale ha stabilito che la politica dell’amministrazione comunale della città “viola il diritto fondamentale alla libertà d’espressione”.

La decisione è uno schiaffo per il consiglio comunale di Monaco, che nel 2017 ha adottato una risoluzione che nega finanziamenti e spazi pubblici ai sostenitori del BDS, la campagna per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni per i diritti dei palestinesi.

La sentenza ha importanti implicazioni per la libertà di parola in tutta la Germania, dove le persone che difendono i diritti dei palestinesi affrontano una metodica repressione e calunnie da parte di politici.

Nel contempo nella vicina Austria la giunta comunale di Vienna ha denunciato un membro di BDS Austria per “diffamazione” per un post su Facebook in cui critica l’apartheid israeliano.

Monaco viola la legge

Nell’aprile 2018 Klaus Ried ha cercato di prenotare una sala del Museo della Città di Monaco in cui tenere un dibattito su come la risoluzione anti-BDS della municipalità avrebbe colpito la libertà di parola. L’amministrazione comunale ha rifiutato la prenotazione in quanto lo considerava un evento legato al BDS.

Ried ha portato la questione in tribunale. In un primo tempo la corte ha sentenziato contro di lui, affermando che l’amministrazione comunale di Monaco aveva il diritto di imporre simili restrizioni.

Egli ha presentato appello e nel 2020 ha vinto.

Ma l’amministrazione comunale di Monaco non ha accettato questa decisione e ha portato la causa davanti a un tribunale federale, sperando di ribaltare la vittoria di Ried.

Tuttavia il tentativo è fallito. Il 20 gennaio il tribunale federale amministrativo tedesco di Lipsia ha emanato la sua sentenza a favore di Ried. La corte federale ha affermato che la legge tedesca “garantisce a chiunque il diritto di esprimersi liberamente e di diffondere la propria opinione.” Ha stabilito che la giunta comunale di Monaco non poteva violare quel diritto negando il permesso a un evento a causa del fatto che fosse prevedibile che “venissero espresse opinioni sulla campagna BDS o sul suo contenuto, obiettivi e tematiche.”

Il tribunale federale ha affermato che la risoluzione anti-BDS di Monaco non è una legge.

La storica sentenza invia un avvertimento ai consigli comunali in tutta la Germania che hanno approvato risoluzioni simili e hanno negato la disponibilità di spazi pubblici

a organizzatori di eventi riguardanti il BDS.

La sentenza ha anche implicazioni riguardo alla risoluzione anti-BDS del parlamento tedesco del 2019, in cui, pur non essendo giuridicamente vincolante, si invitano le istituzioni tedesche e gli enti pubblici a negare finanziamenti e strutture a gruppi che appoggiano il movimento BDS.

BDS Austria sotto attacco

La giunta comunale [alleanza tra socialdemocratici e liberali, ndtr.] della capitale austriaca, Vienna, ha denunciato un rappresentante di BDS Austria per un post dell’agosto 2021 su una pagina Facebook del gruppo di attivisti.

Il post mostra la foto di un manifesto del Comune con incollato sopra un cartello di protesta, ma con il logo ufficiale della città ancora visibile.

Il manifesto di protesta richiama il famoso cartello degli anni ’30 “Visita la Palestina” [manifesto propagandistico sionista, ndtr.]. Ma porta invece la scritta “Visita l’apartheid”. Anche il manifesto di protesta ha il logo della città. Un post sulle reti sociali di BDS Austria ha l’ironica didascalia: “Siamo lieti che anche la Città di Vienna prenda atto dell’apartheid e lo affermi pubblicamente.”

In novembre a un membro di BDS Austria è stato notificato che il Comune di Vienna aveva presentato una denuncia sostenendo che il movimento BDS “incita all’odio contro il popolo israeliano.” Di conseguenza, sostiene l’amministrazione cittadina, essere pubblicamente associati al BDS è una diffamazione, dato che “la definizione della situazione in Israele/Palestina come ‘apartheid’ costituisce un danno per la nostra reputazione.”

L’amministrazione cittadina chiede al tribunale di proibire a BDS Austria di utilizzare i loghi del Comune e circa 3.500 € di danni. Se il tribunale ordinerà a BDS Austria di pagare le spese legali la cifra totale potrebbe arrivare fino a 35.000 €.

L’ European Legal Support Center [Centro Europeo di Sostegno Giuridico] (ELSC), un’associazione per i diritti civili e la difesa legale, l’ha definito un esempio di SLAPP –Strategic Lawsuit Against Public Participation [denuncia strategica contro l’attivismo pubblico].

Simili denunce intendono generalmente zittire le opinion critiche.

L’affermazione dell’amministrazione cittadina è palesemente ridicola perché risulta evidente che il manifesto era incollato in modo approssimativo su quello della città e che non si trattava di un messaggio ufficiale della città di Vienna.

Inoltre la negazione da parte di Vienna della situazione di apartheid vissuta dai palestinesi è in netto contrasto con un crescente consenso ed è sostenuta persino da importanti associazioni, come Human Rights Watch e l’israeliana B’Tselem.

ELSC ha organizzato una campagna di raccolta fondi per chiedere a donatori pubblici di contribuire alle spese giudiziarie.

E una petizione a sostegno di BDS Austria ha ottenuto circa 700 firme.

Strenui difensori di Israele

Nel 2017 l’Austria ha adottato la cosiddetta definizione di antisemitismo dell’IHRA [International Holocaust Remembrance Alliance, ente intergovernativo che riunisce rappresentanti di 34 Paesi, per lo più europei, ndtr.].

La controversa “definizione”, promossa da Israele e dalla sua lobby, confonde le critiche contro Israele e la sua ideologia statale sionista con il fanatismo antiebraico. La definizione dell’IHRA è ora regolarmente utilizzata in vari Paesi per calunniare i sostenitori dei diritti dei palestinesi.

Un anno dopo l’amministrazione comunale di Vienna [alleanza tra socialdemocratici e verdi, ndtr.] ha adottato una risoluzione che definisce il movimento BDS come intrinsecamente antisemita. La risoluzione nega appoggio istituzionale ai sostenitori del BDS e minaccia l’esistenza di uno spazio politico sicuro per la difesa dei diritti dei palestinesi in Austria. Nel 2019 membri di BDS Austria hanno organizzato una protesta presso il consiglio comunale della città contro questa censura ufficiale.

Come in Germania, l’élite politica austriaca sostiene strenuamente Israele. L’annessione dell’Austria da parte di di Adolf Hitler, austriaco, nel 1938 fu ben accolta dalla maggioranza dell’opinione pubblica austriaca, per cui, proprio come in Germania oggi, molti austriaci vedono l’incondizionato sostegno a Israele, indipendentemente da quello che fa ai palestinesi, come una forma di espiazione dei crimini nazisti.

L’avvocatessa Elisabetta Folliero, insieme al European Legal Support Center, ha presentato una confutazione della denuncia dell’amministrazione comunale. Essa include un parere specialistico dei giuristi di fama internazionale Eric David, Xavier Dupré De Boulois, Richard Falk e John Reynolds.

Essi sostengono che le risoluzioni austriache contro il BDS violano gli standard internazionali ed europei per i diritti umani, anche riguardo ai diritti fondamentali di libertà di espressione e associazione.

Tra le altre cose, gli esperti citano la fondamentale sentenza della Corte Europea per i Diritti dell’Uomo del 2020 che afferma che chiedere il boicottaggio dei prodotti israeliani costituisce un discorso politico protetto [dal principio della libertà di espressione, ndt].

La causa contro BDS Austria verrà discussa il 28 gennaio 2022 dal tribunale commerciale di Vienna.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




La lobby filoisraeliana nel Regno Unito prende di mira una ricercatrice palestinese

Nora Barrows-Friedman

22 gennaio 2022 – Electronic Intifada

Un’università britannica ha sospeso dall’insegnamento una dottoranda in seguito a una campagna di calunnie da parte dei sostenitori di Israele.

Shahd Abusalama, da molto tempo attivista e collaboratrice di The Electronic Intifada, è una studentessa di dottorato presso l’Hallam University di Sheffield.

Abusalama ha scritto della sua esperienza nella Striscia di Gaza, dove è nata e cresciuta sotto l’occupazione, l’assedio e gli attacchi militari israeliani.

Ha anche scritto del terrore quando si è trovata separata dalla sua famiglia a Gaza mentre questa si trovava sotto i bombardamenti israeliani nel 2014 [operazione Margine protettivo, ndtr.].

La campagna contro di lei ricorda la strategia utilizzata lo scorso anno per colpire David Miller, docente dell’università di Bristol. Miller è stato licenziato nonostante sia stato scagionato da ogni accusa di fanatismo antiebraico da due inchieste indipendenti commissionate dall’università di Bristol.

Recentemente Abuslama era stata assunta come lettrice associata presso la Hallam University di Sheffield, nel nord dell’Inghilterra.

Si stava preparando a tenere la sua prima lezione il 21 gennaio, quando la sera prima un funzionario l’ha informata che la sua lezione era stata annullata e che i suoi studenti sarebbero stati avvertiti.

L’impiegato ha affermato che una denuncia aveva provocato un’indagine e che, in base alle norme dell’università, non le sarebbe stato consentito di insegnare finché questa non si fosse conclusa.

In passato Abusalama ha subito ripetuti attacchi da associazioni e pubblicazioni antipalestinesi.

Lei e la sua famiglia sono rifugiati palestinesi che nel 1948 subirono la pulizia etnica e furono espulsi dalle loro case in quella che è ora Israele dalle milizie sioniste. Come a tutti gli altri profughi palestinesi, Israele vieta loro di tornare al luogo d’origine in quanto non ebrei.

Abusalama è un’importante attivista per i diritti dei palestinesi fin dal suo arrivo nel Regno Unito come studentessa. è stata una militante contro l’adozione della definizione di antisemitismo dell’IHRA, che confonde erroneamente le critiche a Israele con il fanatismo antiebraico, e nel 2019 per il boicottaggio dell’Eurovision [che quell’anno si tenne in Israele, ndtr.].

La controversa definizione dell’IHRA è regolarmente utilizzata dalle associazioni della lobby filo-israeliana per calunniare e censurare i sostenitori dei diritti dei palestinesi.

Abusalama ha affermato che il suo attivismo in queste due campagne è stato al centro di attacchi da parte di organizzazioni e pubblicazioni della lobby filo-israeliana.

Ha detto a Electronic Intifada che le ultime calunnie sono iniziate a dicembre, quando Jewish News [settimanale gratuito che si rivolge alla comunità ebraica della zona di Londra, ndtr.] e l’associazione della lobby filo-israeliana Campaign Against Antisemitism [Campagna contro l’Antisemitismo] l’hanno accusata di promuovere l’ostilità nei confronti degli ebrei.

In precedenza Joe Glasman, capo delle “inchieste politiche” di Campaign Against Antisemitism, nel 2019 si è attribuito a nome dell’associazione il merito della sconfitta elettorale del partito Laburista, allora guidato da Jeremy Corbyn. In seguito alla sconfitta Corbyn annunciò che avrebbe dato le dimissioni da leader del partito.

La bestia è stata uccisa,” si rallegrò Joe Glasman in un video che in seguito cercò di togliere da Internet. Il video diceva che Corbyn era stato “massacrato”.

Sostenitore dei diritti dei palestinesi, Corbyn, insieme ai suoi militanti di base, è stato bersaglio di una campagna di calunnie durata anni che lo accusava falsamente di antisemitismo.

Glasman ha sostenuto che lui e i suoi collaboratori hanno colpito Corbyn con una campagna coordinata utilizzando metodi che includevano “nostre spie e intelligence”.

Il direttore esecutivo della Campaign Against Antisemitism, Gideon Falter, è vicepresidente del Jewish National Fund UK [Fondo Nazionale Ebraico-UK], che raccoglie fondi per i progetti di colonizzazione israeliani su terre palestinesi. Resoconti sul JNF UK mostrano che fornisce sostegno finanziario per campagne di reclutamento nell’esercito israeliano e per Ein Prat, un’associazione che organizza corsi di addestramento per nordamericani che si arruolano in quell’esercito.

Affermazioni false

Queste accuse in malafede da parte di sostenitori del colonialismo di insediamento israeliano sono chiari tentativi di perseguitare e intimidire attivisti e accademici come Abusalama in modo da farli tacere.

Abusalama ha solo scoperto che l’università potrebbe aver indagato i suoi post sulle reti sociali leggendo le calunnie di Campaign Against Antisemitism e del Jewish News.

Lei afferma che l’università non si è messa in contatto con lei né le ha dato la possibilità di smentire le affermazioni diffamatorie.

Poi, il 19 gennaio, il Jewish Chronicle, nota pubblicazione antipalestinese con una lunghissima storia di calunnie, diffamazioni e denigrazioni, ha scritto una mail ad Abusalama, informandola che intendeva pubblicare un articolo sulla sua assunzione come lettrice.

Jewish Chronicle ha elencato una selezione dei suoi post sulle reti sociali che intendeva includere nell’articolo.

Abusalama ha risposto, spiegando il contesto di ogni post sulle reti sociali e aggiungendo di essere consapevole che le intenzioni della pubblicazione erano di diffamarla ulteriormente e intimidirla per proteggere Israele dalle critiche.

Sabato [22 gennaio] il Jewish Chronicle non aveva ancora pubblicato l’articolo.

Legittimare attacchi razzisti

Non è ancora chiaro chi o quale associazione abbia presentato la protesta che ha provocato la sua sospensione dall’insegnamento. Abusalama afferma che l’università non le ha ancora fornito alcuna informazione. Ma definisce vergognoso che l’università abbia legittimato gli attacchi considerando

la denuncia credibile e degna di un’indagine.

Abusalama afferma di essere sconvolta per il fatto che “l’università abbia dato retta e risposto a simili pubblicazioni razziste ed abbia confermato loro che avrebbe indagato sul mio conto senza prendere prima contatto con un membro della sua stessa comunità.”

I danni all’immagine provocati da pubblicazioni razziste come quelle sono una priorità più di quanto lo sia il dovere di salvaguardare i membri della propria comunità,” aggiunge.

Frattanto nelle caselle di posta elettronica dell’amministrazione stanno affluendo lettere di sostegno che chiedono che l’università protegga il lavoro di Abusalama e comprenda le ragioni politiche e razziste delle calunnie. Il sindacato dell’università e del college si sta mobilitando in sua difesa.

Non sono la prima e non sarò l’ultima ad essere presa di mira,” afferma. “È per questo che è fondamentale la resistenza contro di loro, per non consentirgli di continuare a diffondere stereotipi sui palestinesi come antisemiti solo perché osano sognare la libertà, la giustizia e l’uguaglianza per il loro popolo.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Ecco come la legge israeliana sulla proprietà degli assenti allontana i palestinesi dalle loro case

Mustafa Abu Sneineh

21 gennaio 2022 – Middle East Eye

La legge draconiana viene applicata solo nei confronti dei palestinesi e resta una politica costante in Israele da più di mezzo secolo, dicono alcuni giuristi a MEE

Con più di una decina di pagine e 39 articoli la legge sulla proprietà degli assenti è uno dei testi fondativi di Israele, che garantisce allo Stato il potere di confiscare e sequestrare ai palestinesi proprietà e beni che essi furono costretti ad abbandonare nel 1948.

La legge, che si applica solo ai palestinesi, è draconiana e nel corso degli anni è rimasta una politica costante di numerosi governi israeliani, dicono a Middle East Eye alcuni giuristi.

Questa settimana Israele ha usato la legge per giustificare lo sgombero della famiglia Salhiya e la demolizione della loro casa nel quartiere di Sheikh Jarrah nella Gerusalemme Est occupata.

La legge sulla proprietà degli assenti mette i palestinesi in una posizione di svantaggio fin dall’inizio, bollandoli come assenti anche se sono presenti nel Paese o hanno la cittadinanza israeliana.

La legge è stata emanata nel marzo 1950 dal governo del primo capo del governo israeliano, David Ben-Gurion.

I leader israeliani hanno dovuto occuparsi di vaste aree di terra e migliaia di proprietà in più di 500 città, svuotate della popolazione palestinese dalle milizie sioniste nel corso della Nakba (Catastrofe) del 1948 e della fondazione di Israele.

Si sono anche trovati a gestire beni – compresi contanti, azioni, mobili, libri, società, banche e altri beni mobili – lasciati da quasi 800.000 palestinesi fuggiti e finiti nei campi profughi in Giordania, Siria, Libano e Iraq.

Queste terre e proprietà si trovano nell’odierna Israele. I loro proprietari originari sono principalmente rifugiati, ma alcuni sono sfollati interni e ora vivono in Israele.

“Secondo la legge, un palestinese della Galilea [nord dell’attuale Israele, ndtr.] che è diventato un rifugiato in Siria, e un cittadino palestinese di Israele che nel 1948 ha lasciato la sua città a Tiberiade e si è rifugiato a Nazaret, sono entrambi [considerati] assenti”, dichiara a MEE Suhad Bishara, direttore legale del centro Adalah [centro legale per i diritti delle minoranze arabe in Israele e organizzazione per i diritti umani, ndtr.]

Nessun palestinese aveva il diritto di rivendicare la restituzione della sua proprietà da Israele in quanto assente nel periodo tra il novembre 1947 e la data di entrata in vigore della legge.

“(Tecnicamente) il palestinese di Nazareth non è un assente, poiché ha continuato a vivere in quello che è diventato Israele nel 1948″, afferma Bishara, “ma la legge lo considera comunque un assente”.

Dopo la guerra del 1948, secondo i dati delle Nazioni Unite, i cittadini palestinesi di Israele erano 160.000, il 30% dei quali sfollati internamente. Oggi la popolazione palestinese in Israele è di 1.800.000 persone e rappresenta il 20% della popolazione del Paese. In Israele un palestinese su quattro ora vive non lontano dalle terre e dalle proprietà da cui la sua famiglia fu espulsa nel 1948.

Dal 1998 la comunità palestinese all’interno di Israele tiene annualmente una marcia rituale verso uno di quei villaggi per dimostrare ancora oggi la sua presenza nelle terre dei suoi antenati. Ciò nonostante, la legge sulla proprietà degli assenti nega tuttora il loro diritto di rivendicare queste terre.

Tenere sotto controllo i saccheggi’

Il tenore della legge si rivolgeva principalmente ai nuovi coloni israeliani per indurli a dichiarare al Custode delle proprietà degli assenti [funzionari nominati dal ministro delle finanze israeliano allo scopo di prendere in custodia la proprietà definita appartenuta ad assenti”, ndtr.] qualsiasi bene e proprietà palestinese da essi rilevata. In caso contrario, essi rischiavano una multa e, in alcuni casi, la reclusione.

Prima del 1950 Israele aveva diverse leggi di emergenza per gestire queste proprietà e beni. Ma in seguito all’adozione da parte delle Nazioni Unite della risoluzione 194 del dicembre 1948, che sanciva il diritto al ritorno dei palestinesi e chiedeva un risarcimento finanziario per la perdita o il danno delle proprietà, Israele dovette affrontare il compito di regolamentare il saccheggio su larga scala compiuto dai nuovi coloni.

Esisteva la necessità di organizzare il meccanismo di controllo di queste proprietà e beni”, riferisce a MEE Mohammad Zeidan, ex direttore dell’Associazione araba per i diritti umani. “Israele fece una promozione della legge sulla scena internazionale sostenendo che stava proteggendo queste proprietà e che aveva trovato un modo per tenere sotto controllo i saccheggi fino a quando la questione dei rifugiati non fosse stata risolta”.

Pertanto, il Ministero delle Finanze istituì un nuovo dipartimento, chiamato Custode delle proprietà degli assenti, per attuare tre leggi: la legge sulla proprietà degli assenti – 1950; la legge sulle proprietà in Germania – 1950; e la legge sulla proprietà degli assenti (compensazione) – 1973. I suoi ispettori hanno collaborato fino ai primi anni ’90 con il Jewish National Fund (JNF) [ente fondato nel 1901 a Basilea dall’organizzazione sionista mondiale allo scopo di comprare e coltivare terra nella Palestina ottomana per l’insediamento degli ebrei, ndtr.], con imprese immobiliari e organizzazioni di coloni.

Due volte rifugiati

Case e terre non sono gli unici beni confiscati da Israele. Anche numerose attività commerciali nelle città costiere di Giaffa e Haifa, dove i proprietari palestinesi divennero rifugiati e furono considerati assenti, sono cadute sotto l’autorità del Custode.

“Tutte le aziende palestinesi che si occupavano dell’esportazione di agrumi dopo l’allontanamento dei proprietari passarono sotto il controllo e la gestione di Israele. Queste società hanno continuato a operare e realizzare profitti per alcuni anni. L’azienda del tabacco di Haifa è un esempio”, afferma Zeidan.

La famiglia Salhiya, che è stata cacciata dalla sua casa a Gerusalemme Est alle 3 del mattino nella notte fredda e piovosa del 19 gennaio, è stata sfollata due volte. È originaria della frazione di Ein Karem a Gerusalemme Ovest, occupata dalle forze israeliane nel 1948.

Il comune israeliano di Gerusalemme ha affermato che i Salhiya non hanno alcun diritto sulla terra che un tempo apparteneva al Gran Mufti di Gerusalemme, Amin al-Husseini, e che Israele confiscò nel 1967, dopo la conquista della città, ai sensi della legge sulla proprietà degli assenti.

“La legge dà a chiunque sia un ebreo il diritto di rivendicare la proprietà, in linea di principio, indipendentemente dal fatto che possa provarne il possesso o meno. Ma un palestinese espulso dal suo villaggio nel 1948 sulla base della stessa legge non ha il diritto di rivendicare la sua proprietà”, dice Bishara.

Legge a favore dei coloni

Secondo un rapporto del 2020 dell’organizzazione israeliana per i diritti Peace Now, la legge è stata attuata in varie fasi al fine di espropriare le proprietà palestinesi a Gerusalemme est.

“Il meccanismo ha funzionato come segue: gli organismi legati ai coloni hanno reclutato delle persone che dichiarassero che i proprietari di alcune proprietà erano proprietari terrieri assenti”, afferma il rapporto. “Queste dichiarazioni giurate sono state trasmesse al Custode delle proprietà degli assenti che, senza ulteriori controlli, ha sancito che si trattava effettivamente di beni degli assenti. Successivamente i beni degli assenti sono stati trasferiti al JNF, che li ha ceduti ai coloni”.

Questo è ciò che è successo alla famiglia Salhiya, così come a molti altri nei quartieri di Silwan, Sheikh Jarrah, Batn al-Hawa e Wadi Hilweh a Gerusalemme est.

In alcuni casi sono state rilasciate dichiarazioni giurate per proprietà già abitate da palestinesi, afferma Peace Now. I proprietari hanno quindi dovuto combattere battaglie legali nei tribunali israeliani contro organizzazioni di coloni ben finanziate, come Elad, Ateret Cohanim e Nahalat Shimon, che rivendicavano la proprietà delle case a loro cedute dal JNF e dal Custode.

Ad Haifa, Jaffa e Acri, la società immobiliare statale Amidar ha l’incarico di sequestrare circa 4.500 proprietà i cui proprietari – principalmente cittadini palestinesi di Israele – sono considerati assenti. A Giaffa ci sono 1.200 di queste abitazioni, e nel 2021 il tentativo di prendere il controllo di una di esse ha provocato violenti scontri con la polizia israeliana e proteste.

Qualsiasi palestinese è un assente’

“La legge è pervasiva e considera ogni palestinese un assente per quanto riguarda le sue proprietà e i suoi beni”, dice Bishara. “Se qualcuno oggi si recasse in viaggio in Siria o in Libano, potrebbe essere considerato assente poiché nella legge quei Paesi sono denominati Stati nemici”.

Sebbene la legge individui un lasso di tempo tra il novembre 1947 e il marzo 1950 per poter considerare il proprietario di una casa o di un terreno un assente, le autorità israeliane non vi si sono attengono. Dal 1967 [anno della conquista israeliana di Gersualemme est, Cisgiordania, Gaza e Alture del Golan, ndtr.] la legge è stata applicata dal 1967 a Gerusalemme Est, in Cisgiordania e – prima del piano di disimpegno del 2005 – nella Striscia di Gaza.

Nel 2015 la corte suprema israeliana ha dato il via libera all’applicazione della legge sulla proprietà degli assenti, pronunciandosi contro i palestinesi che vivevano in Cisgiordania e a cui erano state sequestrate le proprietà a Gerusalemme est in quanto ritenuti assenti.

“Se sei ebreo e hai lasciato Israele non sarai mai un assente, non importa quanti anni hai trascorso all’estero”, spiega Zeidan. Se sei palestinese e hai cercato rifugio in un’altra città dello stesso Paese, sei un assente. Se sei ebreo hai il diritto di rivendicare la proprietà precedenti il 1948, come hanno fatto i coloni nella Città Vecchia di Hebron e a Gerusalemme Est, e non sarai mai considerato un assente; ma se sei un palestinese non ti è permesso rivendicare la terra o la casa [di proprietà] della tua famiglia prima del 1948, perché sei un assente”, aggiunge.

“Dipende dalla tua religione. È una vittoria garantita per un ebreo israeliano e una sconfitta garantita per un palestinese”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




La “guerra di logoramento” di Israele contro i minori palestinesi

Marwa Koçak , Amy Addison-Dunne

21 gennaio 2022 – Al Jazeera

Mentre continua la battaglia tra i Beduini palestinesi e Israele, i minori vengono indiscriminatamente arrestati

Hanno sfondato la porta prima dell’alba e circa 30 soldati israeliani hanno invaso la casa di famiglia.

L’obiettivo del loro arresto? Il dodicenne Ammar, accusato di aver partecipato a una protesta contro lo sgombero dei terreni nella regione di Naqab [più nota in occidente con il nome ebraico di Negev, ndt]. Ma sua madre dice che la famiglia non è ancora sicura del motivo per cui lo hanno arrestato, dato che il ragazzo in quel momento era a casa.

Non sappiamo esattamente perché l’hanno arrestato. Alle 5:30, 30 soldati israeliani hanno preso a calci la porta. Siamo stati presi dal panico e loro hanno chiesto di lui che dormiva”, ricorda la madre di Ammar.

Ha 12 anni, non può andare a scuola perché è agli arresti domiciliari. Le autorità israeliane gli hanno vietato di andare a scuola per 10 giorni a partire da ieri. Sono rimasta sconvolta quando ce l’hanno comunicato. Ho urlato loro: “Cosa potrebbe farvi un dodicenne?” Avevo così paura che lo picchiassero o torturassero in prigione, era così spaventato e piangeva”, dice.

Ammar è stato detenuto e alla fine rimandato a casa. Non ha detto una parola da quando è tornato e la sua famiglia è preoccupata per quello che è successo durante la sua custodia.

Le proteste nel deserto del Naqab sono divampate per diversi giorni: i Beduini palestinesi combattono per la loro stessa esistenza e resistono a un progetto di forestazione aggressivo supervisionato dal Jewish National Fund (JNF), un’organizzazione sionista.

Per decenni JNF ha piantato pini non autoctoni sulla terra palestinese con l’obiettivo finale di espandere il programma di colonizzazione israeliano. Questo particolare progetto vale la stupefacente cifra di 48 milioni di dollari e ha il pieno sostegno del governo israeliano.

L’organizzazione ha in programma di radere al suolo Beer al-Sabe (Be’er Sheva) nel deserto del Naqab in particolare un villaggio chiamato Sa’wa. Secondo Marwan Abu Frieh, un ricercatore sul campo e coordinatore dell’ufficio del Naqab (Negev) per Adalah, centro legale per i diritti degli arabi in Israele, la polizia israeliana ha avviato una campagna di arresti che ha portato alla detenzione di circa 150 persone, di cui il 40% legalmente minorenni. Abu Frieh afferma che almeno 16 sono ancora detenuti.

“Nessuna paura”

Lo stato israeliano non riconosce il diritto alla terra dei Beduini palestinesi, nonostante detengano atti di proprietà precedenti alla creazione dello Stato di Israele e la loro presenza su queste terre sia testimoniata da migliaia di anni.

Il padre di una studentessa, Jenin di 16 anni, non era in casa quando sua figlia è stata arrestata. Mentre era al lavoro, il suo WhatsApp trillava continuamente per le immagini inviategli di Jenin che veniva arrestata dalle forze israeliane durante le proteste.

Sebbene avesse paura di ciò che sarebbe potuto accadere a sua figlia detenuta dagli israeliani, provava anche un senso di orgoglio per il fatto che la ragazza stesse combattendo per la sua patria.

“Ho preso permesso dal lavoro e sono andato a cercare mia figlia che è stata arrestata per alcune ore e poi è stata mandata a casa”, ricorda. “Le ho chiesto come fosse stata arrestata e come si è sentita mentre era in arresto: si sentiva orgogliosa di sé e non aveva alcuna paura”.

Ci racconta che la vita è difficile nel Naqab, con gli israeliani che si rifiutano di consentire loro di costruire sulla propria terra o di ammettere la loro esistenza, nonostante i ripetuti tentativi dei Beduini e le campagne internazionali per il riconoscimento delle richieste dei Beduini sulla terra e di essere lasciati in pace.

Le forze israeliane fanno affidamento sulla legislazione approvata alla Knesset e sui precedenti legali che hanno portato alla legge, che consente alla polizia di arrestare minori di appena 12 anni. L’organizzazione di Marwan, Adalah agisce come difesa legale degli arrestati palestinesi, ma si trova ad affrontare difficoltà, tra cui lavorare con la documentazione che viene rilasciata agli avvocati.

Le condizioni per i minori in detenzione sono pessime e molti sono infettati dal COVID-19 e subiscono abusi fisici e psicologici.

“Anche se vengono rilasciati, hanno già sofferto a causa della detenzione e di quella amara esperienza per un periodo di giorni o una settimana o più. Questa spezza il loro morale e li mette in uno stato psicologico pessimo a seguito a tutto quello che hanno subito durane la detenzione”, afferma l’avvocato Shahda Ibn Bari che difende regolarmente i minori palestinesi arrestati durante le proteste.

“I minori subiscono abusi durante il loro arresto e abbiamo visto alcune foto di minori che subivano forme di strangolamento”, dice Marwan. “Abbiamo anche appreso che durante le indagini sono minacciati di futuri rischi, come se stessero cercando di intimidire i minori per non farli manifestare o per informare altri minori di quello che è successo loro in modo da diffondere la paura tra di loro”.

Minori tenuti in isolamento

Queste tattiche vengono messe in atto per garantire che i giovani come Jenin abbiano troppa paura per unirsi alla protesta. Jenin, dice suo padre, è andata a fianco dei suoi compagni di scuola e mentre era lì non ha commesso atti violenti.

“Sentiva che stava facendo una azione giusta per il suo popolo e la sua causa perché le forze israeliane hanno attaccato i nostri vicini e molti dei suoi compagni erano presenti all’evento e questo è ciò che l’ha incoraggiata ad andare “, ha detto.

La polizia distorce la legge a proprio vantaggio. Sebbene i minori di età inferiore ai 14 anni debbano comparire in tribunale entro 12 ore dal loro arresto, la polizia chiede ripetutamente ai tribunali una proroga della detenzione, che di solito viene concessa.

Marwan spiega: “Un esempio di quello che sta succedendo: l’altro giorno è stato rilasciato un minore di 14 anni, la sua detenzione è stata prorogata sei volte. Sì, sei volte il tribunale ha chiesto di prorogare la sua detenzione, abbiamo fatto appello alla Corte Centrale che ha restituito il fascicolo alla Corte ordinaria e ha esteso la sua detenzione”.

“Oggi, durante la procedura per il suo rilascio, la polizia ha chiesto di interrompere l’attuazione del rilascio, ma quando abbiamo presentato ricorso contro questa decisione la polizia ha ritrattato ed è stato rilasciato”.

Shahda afferma che la vita degli avvocati è molto difficile nel difendere i minori, poiché i servizi di intelligence spesso intervengono e annullano per motivi di sicurezza nazionale ogni decisione del tribunale per il rilascio di un minore, e i presunti reati di questi minori sono riclassificati come tali [mincce alla sicurezza nazionale, ndtr.]

“[I servizi di intelligence] hanno l’autorità di impedire a un minore di incontrare un avvocato, di trattenerlo per giorni, di portarlo davanti al tribunale senza vedere un avvocato e possono tenere il bambino in isolamento dal mondo esterno”, dice.

L’arresto di minori è una guerra di logoramento contro i minori palestinesi da parte dei tribunali e della polizia che li arresta, noi facciamo sempre appello ma non sempre riusciamo a convincere la corte, a volte il tribunale israeliano non accetta il nostro ricorso”.

La madre di Ammar, preoccupata per il danno psicologico causato a suo figlio, si lamenta del fatto che le autorità israeliane si rifiutano di vedere i minori palestinesi per quello che sono: dei bambini. Dice: “Un bambino è sempre e solo un bambino, ma non lo è agli occhi dei feroci occupanti. Ciò che mi spezza di più il cuore è lo sguardo negli occhi dei bambini che vedono la loro casa demolita dagli occupanti”.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Sheikh Jarrah: le forze israeliane hanno demolito la casa dei Salhiya durante un raid notturno

Huthifa Fayyad, Nadda Osman

19 gennaio 2022 – Middle East Eye

Le forze israeliane hanno preso d’assalto la casa nel quartiere occupato di Gerusalemme Est, arrestando diversi abitanti, tra cui il padre Mahmoud Salhiya, e demolito la casa

Alle prime ore di mercoledì le forze israeliane hanno fatto irruzione nella casa della famiglia Salhiya a Sheikh Jarrah nella Gerusalemme est occupata e prima di svuotare la casa e demolirla hanno arrestato con violenza e aggredito i membri della famiglia.

Intorno alle 3 del mattino, ora locale, un gran numero di unità di polizia, comprese forze antiterrorismo e antisommossa con bulldozer, hanno preso d’assalto la casa dei Salhiya.

Yasmin Salhiya, residente nella casa e figlia del proprietario Mahmoud Salhiya, racconta a Middle East Eye che numerose unità israeliane hanno interrotto la fornitura di elettricità alla casa mentre la perquisivano e hanno iniziato a sparare gas lacrimogeni, bloccando la vista a tutti.

Yasmin dice che gli agenti hanno poi aggredito la famiglia e arrestato cinque di loro, incluso Mahmoud. Anche circa 22 sostenitori che si erano accampati all’interno della proprietà in solidarietà con la famiglia sono stati aggrediti e arrestati.

Mio padre stava dormendo quando l’hanno preso. Non gli hanno permesso di indossare una giacca o delle scarpe”, racconta Yasmin, 19 anni, a MEE.

Hanno separato tutti quelli che erano lì e hanno iniziato a picchiare i giovani uomini prima di trattenerli nelle jeep e portarli via”.

Tra le persone aggredite c’erano la sorella di nove anni di Yasmin, Ayah, e la loro zia.

Hanno strattonato Ayah e aggredito suo padre, i suoi fratelli e sua zia proprio di fronte a lei. È sconvolta”, afferma Yasmin.

Dopo aver svuotato le case, le forze israeliane hanno iniziato a sparare proiettili di gomma contro giornalisti e sostenitori che erano fuori e hanno impedito alle ambulanze di accedere al sito, racconta Yasmin.

I bulldozer hanno terminato la demolizione tre ore dopo, lasciando la casa in rovina e i beni della famiglia sparpagliati a terra.

La demolizione e l’espulsione della famiglia sono avvenuti tra freddo e forti piogge, costringendo coloro che non erano stati arrestati a cercare rifugio presso i parenti.

Diciotto persone vivevano nella proprietà in due case adiacenti, tra cui Mahmoud, sua moglie e i suoi figli, sua madre e la famiglia di sua sorella.

“Quando guardo la casa in cui sono cresciuta con la mia famiglia in questo stato non so come descrivere i miei sentimenti”, dice Yasmin.

Torneremo a casa nostra. Qualunque cosa ci facciano, ritorneremo. Il nostro messaggio per tutti è restate nelle vostre case. Non lasciatele. Non vendetele. Stiamo perdendo la Palestina pezzo a pezzo”.

‘Voglio vivere con dignità o morire’

Ahmad al-Qadmani, l’avvocato della famiglia, dichiara a MEE che le forze israeliane hanno approfittato della quiete della notte per effettuare la demolizione. Afferma che la famiglia aveva cercato di bloccare la demolizione presentando un ricorso in tribunale, ma che la demolizione è andata avanti a prescindere.

“Ieri abbiamo presentato ricorso alla corte suprema per congelare l’ordine di demolizione, ma non abbiamo avuto risposta fino ad ora… è un attacco aggressivo che viola leggi e regolamenti”, aggiunge.

Lunedì le forze israeliane avevano tentato di espellere la famiglia Salhiya dalla loro casa, facendo irruzione nel terreno su cui sorge e distruggendo cinque attività commerciali di proprietà di Mahmoud. Il quale si è poi barricato sul tetto della casa e ha minacciato di darsi fuoco e di bruciare la casa se le forze israeliane avessero tentato di rimuoverlo.

Dopo 10 ore di stallo, le forze israeliane hanno lasciato l’area e sostenitori e giornalisti hanno potuto entrare. Da allora, decine di persone hanno visitato la casa per mostrare sostegno e alcune, nel timore di una successiva incursione israeliana, vi hanno pernottato.

“Voglio vivere con dignità o morire”, ha detto Mahmoud a MEE lunedì. “Stavo per darmi fuoco perché ogni giorno muoio, muoio da 25 anni”, ha aggiunto, riferendosi alle pressioni ricevute per decenni per vendere o rinunciare alla terra.

La morte è meglio che restare a guardare la tua casa che viene distrutta… stiamo morendo ogni giorno. Siamo stati ripetutamente espulsi dalla nostra patria. Siamo già morti. Siamo morti dentro. Siamo morti dal 1948″, ha detto Mahmoud.

Ultimatum

La famiglia di Mahmoud ha affrontato l’espulsione sin dal 2017, quando la loro terra è stata destinata alla costruzione di scuole, dopo 23 anni di azioni giudiziarie contro il governo israeliano. Israele ha emesso un ultimatum a dicembre per l’evacuazione della proprietà il 25 gennaio.

Il comune israeliano di Gerusalemme sostiene che i Salhiya non hanno alcun diritto sulla terra che un tempo apparteneva al Gran Mufti di Gerusalemme, Amin al-Husseini – che Israele confiscò dopo aver catturato la città nel 1967 – in base alla legge sull’assenza del proprietario. Mahmoud dice che la famiglia possiede la casa e vi vive da generazioni, da quando fu espulsa dalla milizia sionista da Ain Karem nel 1948 durante la Nakba o catastrofe palestinese: la guerra che portò alla creazione di Israele.

Dopo che Israele ha cercato di espellere le famiglie palestinesi dall’area lo scorso maggio per far posto ai coloni israeliani, Sheikh Jarrah è diventato nell’ultimo anno un luogo simbolo. Infatti le espulsioni hanno scatenato proteste in tutta la Cisgiordania occupata e nella comunità palestinese all’interno di Israele, nonché un’operazione militare su larga scala nella Striscia di Gaza assediata.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




La polemica razzista di Israel Harel contro i beduini rivela la profondità dell’apartheid

Rawia Aburabia, Oren Yiftachel 

18 gennaio 2022, Haaretz

A volte, un solo commento spontaneo rivela improvvisamente la vera natura di qualcosa. Questo è quello che è successo con l’arrogante editoriale di Israel Harel “Con la legge sull’elettricità Israele sta riconoscendo le conquiste beduine” (Haaretz, 12 gennaio), e lo stesso con un editoriale successivo pubblicato su Haaretz in ebraico venerdì scorso.

In questi editoriali ha affermato che la nuova legge promulgata per fornire elettricità ad alcune case costruite illegalmente avrebbe “strappato” allo Stato ampie zone del Negev centrale a favore di un simil-Stato di crimine, droga e illegalità che ha definito nientemeno che “Beduiland”.

Perché Harel è tanto arrabbiato? Per il collegamento alla rete elettrica di case di cittadini israeliani? Vorremmo ribattergli che la sua rabbia rivela una preoccupante realtà alla radice dell’apartheid che va ben oltre la legge sull’elettricità.

L’intollerabile facilità con cui un articolo del genere è stato pubblicato, senza nemmeno una minima modifica per correggere i fatti (dov’erano i redattori di Haaretz?), quando il suo unico scopo era quello di sollevare astio contro uno dei segmenti più deboli della società israeliana – un gruppo ben lontano dal ricevere giustizia – solleva seri interrogativi sulla cecità e la negazione che affliggono gran parte della società israeliana. Questa cecità è ciò che permette di pubblicare un articolo che incita contro un’intera comunità il cui unico crimine è di esistere in un Paese che rifiuta di riconoscerla.

Quell’articolo isterico e istigatorio è simile alla ingannevole propaganda di gruppi estremisti di destra come Regavim e Im Tirtzu. Ha rivelato la profondità dell’ignoranza di Harel che aderisce all’antica tradizione colonialista di incolpare le vittime. Inoltre, il fatto che questo articolo sia stato pubblicato su un giornale stimato mostra come la cecità storica nei confronti della questione beduina in particolare e dell’apartheid israeliano in generale sia penetrata in profondità nella coscienza pubblica e debba essere continuamente confutata.

Cominciamo a correggere i fatti. In primo luogo, le terre in cui vivono i beduini comprendono il 3% del Negev. Inoltre, si trovano nell’angolo a nord-est, ben lontano dal “cuore del Negev centrale”, come sostiene Harel.

In secondo luogo, contrariamente al suo grido di disperazione, si prevede che la legge sull’elettricità avrà un impatto trascurabile sul Negev, poiché è probabile che solo poche centinaia di case saranno riconosciute come parte di futuri piani generali. Al contrario, più di 100.000 cittadini israeliani chiedono riconoscimento e servizi di base.

Terzo, anche se tutti fossero collegati alla rete elettrica – un diritto fondamentale che non dovrebbe dipendere dalla generosità dello Stato – perché questo “strapperebbe” l’area a Israele? Dopotutto, i beduini sono cittadini, no?

Qui si insinua un dubbio. Harel, giornalista veterano, ha verificato i fatti prima di avvelenare il discorso?

Ma ripensandoci, forse è meglio che Harel non controlli e parli invece d’istinto. Le sue generalizzazioni autenticamente razziste rivelano un problema più profondo: l’apartheid in tutte le aree sotto il controllo di Israele, dal fiume Giordano al Mar Mediterraneo. Vale la pena rileggere i suoi articoli per comprendere le profonde ragioni sotterranee delle forze che governano il Paese da decenni.

Solo in un regime di apartheid un colono come Harel, che vive nella colonia di Ofra in Cisgiordania su terra palestinese rubata, può accusare una comunità indigena che vive nelle sue terre da centinaia di anni di “occupazione”. Solo in un regime di apartheid Harel, ex presidente del Consiglio delle colonie Yesha, ha potuto ignorare la vera occupazione, sotto i cui auspici furono costruite quelle colonie illegali solo per ebrei in Cisgiordania. In altre parole, il suo stesso status di occupante lo squalifica.

Ovviamente, Harel non è solo. Si è semplicemente unito alla orrida marea di discorsi incendiari e razzisti contro i beduini, provenienti da ampie fasce della società ebraica. Un esempio palmare dell’incolpare la vittima, comportamento molto amato dai regimi coloniali.

Se sono stati commessi crimini nel sud vanno condannati, ma è importante non dimenticare i fatti. I beduini vivono nel Negev da centinaia di anni. E come hanno dimostrato tutti gli studi su questo argomento, ne possedevano gran parte fino a quando non furono espropriati dallo Stato di Israele. Sono anche la comunità più trascurata, impoverita e derelitta oggi in Israele.

Pertanto, è fondamentale ricordare che i beduini non si sono impadroniti di questa terra; erano nel Negev molto prima che iniziasse l’insediamento ebraico. Vorremmo anche cogliere l’occasione per ricordare ad Harel che le sue ridicole accuse non possono cancellare il fatto che lui è un colono illegale, parte della macchina di occupazione che commette quotidianamente crimini di guerra.

Come dobbiamo procedere? Le dichiarazioni al vetriolo di Harel rivelano il regime di apartheid che vige tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Il passo ovvio e necessario adesso è che tutti i veri sostenitori della democrazia, nel Negev e in Israele, si uniscano alla battaglia contro questo regime razzista. Che inizia con la condanna degli articoli di Harel e di altri commenti simili. E continua con la lotta per l’uguaglianza sia individuale che collettiva di tutti gli abitanti di questa terra.

Prof. Oren Yiftachel insegna geografia politica e giuridica alla Università Ben-Gurion. La dottoressa Rawia Aburabia è membro della Facoltà di Giurisprudenza del Sapir College. Entrambi vivono nel Negev. Le loro opinioni non riflettono necessariamente quelle delle loro istituzioni.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)