Maureen Clare Murphy
3 febbraio 2022 – Electronic Intifada
Cosa rende diverso da quelli che l’hanno preceduto il nuovo rapporto di Amnesty International secondo cui Israele pratica il crimine di apartheid contro i palestinesi?
Sicuramente la reazione di Israele, “isterica” nelle parole di un titolo di Haaretz [giornale israeliano di centro sinistra, ndtr.], all’analisi di Amnesty è notevolmente diversa dalla sua risposta, relativamente di basso profilo, a rapporti simili recentemente resi pubblici da B’Tselem, un’associazione israeliana per i diritti umani, e da Human Rights Watch, con sede a New York.
Organizzazioni palestinesi per i diritti umani come Al-Haq e Al Mezan hanno da molto prima presentato un quadro generale di apartheid, e i rapporti delle summenzionate associazioni israeliane e internazionali prendono spunto dal loro lavoro.
Amnesty, Human Rights Watch e B’Tselem hanno esaminato il sistema di controllo di Israele che privilegia gli ebrei israeliani in tutta la Palestina storica, emargina i palestinesi e viola i loro diritti in vario modo, in larga misura a seconda di dove essi vivano.
E, a differenza delle analisi pubblicate dalle associazioni palestinesi, questi tre rapporti, accolti come rivoluzionari e innovativi, sono inadeguati nel collocare il sistema dell’apartheid di Israele nel contesto del colonialismo di insediamento. (Una ricerca delle parole chiave nel rapporto di Amnesty dà tre risultati per i termini “colonialismo” e “coloniale”, che si trovano nei titoli di lavori citati nelle note.)
Amnesty sottolinea ripetutamente “il tentativo di Israele di conservare il suo sistema di oppressione e dominazione” senza mettere esplicitamente in chiaro che l’apartheid è un mezzo il cui fine è la colonizzazione di insediamento: cacciare i palestinesi dalla terra in modo che siano sostituiti da coloni provenienti dall’estero.
L’organizzazione per i diritti afferma che “dalla sua fondazione nel 1948 Israele ha perseguito una politica esplicita di creazione e conservazione di un’egemonia demografica ebraica e massimizzazione del suo controllo sulla terra a favore degli ebrei israeliani, riducendo nel contempo al minimo il numero di palestinesi, limitandone i diritti e ostacolandone la possibilità di resistere a questa spoliazione.”
Onore al merito: Amnesty fa piazza pulita del mito fondativo di Israele, riconoscendo che è stato razzista fin dall’inizio, una presa di distanza dal tipico atteggiamento progressista secondo cui nel corso del tempo Israele in qualche momento si è allontanato dai suoi ideali.
Amnesty evidenzia persino che “molti elementi del sistema militare repressivo di Israele nei TPO [territori palestinesi occupati, ndtr.] (Cisgiordania e Gaza) hanno origine nel regime militare israeliano sui palestinesi cittadini di Israele durato 18 anni,” iniziato nel 1948, “e che la spoliazione dei palestinesi di Israele continua fino a oggi.”
Amnesty riconosce anche che “nel 1948 singoli individui e istituzioni ebraiche detenevano circa il 6,5% della Palestina mandataria, mentre i palestinesi erano in possesso del 90% della terra di proprietà privata,” in riferimento a tutta la Palestina storica prima della fondazione dello Stato di Israele. “In soli 70 anni la situazione è stata ribaltata,” aggiunge l’organizzazione.
E questo è l’obiettivo di Israele – il “sistema di oppressione e dominazione” sottolineato da Amnesty è il mezzo attraverso cui esso ha usurpato la terra palestinese a favore di coloni provenienti dall’estero.
Dopotutto i coloni sionisti non sono andati in Palestina dall’Europa con l’intenzione di dominare e opprimere i palestinesi: essi sono arrivati con l’intenzione di colonizzarne la terra.
Come afferma il Jerusalem Legal Aid and Human Rights Center [Centro Palestinese di Assistenza Legale e Diritti Umani di Gerusalemme, ndtr.], un’organizzazione palestinese, “ogni riconoscimento di Israele come Stato di apartheid dovrebbe essere collocato all’interno del contesto del suo regime di colonialismo d’insediamento.”
Amnesty evita anche di esaminare e mettere in discussione il sionismo, l’ideologia razzista dello Stato di Israele attorno alla quale si è organizzato il suo progetto di colonialismo d’insediamento.
Come ha chiesto mercoledì Adalah-NY, un’associazione di sostegno con sede negli USA: “È possibile porre fine all’apartheid senza fare altrettanto con il progetto colonialista d’insediamento sionista?”
Un lavoro preliminare per obbligare a pagare le conseguenze
Nonostante questi limiti problematici, l’analisi di Amnesty pone una solida base per considerare Israele responsabile all’interno del carente contesto delle leggi internazionali e fa energiche raccomandazioni per porvi fine.
Amnesty si unisce alle associazioni palestinesi che sollecitano la Corte Penale Internazionale a “indagare sulla messa in atto del crimine di apartheid” e la sua procura generale a “prendere in considerazione l’applicabilità del crimine contro l’umanità di apartheid all’interno della sua attuale indagine formale” in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza.
Dato che la CPI non ha giurisdizione territoriale in Israele, Amnesty chiede al Consiglio di Sicurezza dell’ONU di sottoporre “tutta la situazione alla CPI” oppure di creare “un tribunale internazionale per processare i presunti responsabili” del crimine contro l’umanità di apartheid.
Amnesty aggiunge che il Consiglio di Sicurezza “deve anche imporre sanzioni mirate, come il congelamento dei beni, contro i politici israeliani più coinvolti … e un complessivo embargo militare contro Israele.”
Ripetendo il suo “appello di lunga data” agli Stati perché sospendano ogni forma di assistenza militare e vendita di armamenti a Israele, Amnesty chiede anche alle autorità palestinesi di “garantire che ogni tipo di accordo con Israele, principalmente attraverso il coordinamento per la sicurezza, non contribuisca a mantenere il sistema di apartheid contro i palestinesi” in Cisgiordania e a Gaza.
Amnesty afferma inoltre che Israele deve riconoscere il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi e fornire alle vittime palestinesi “risarcimenti completi”, compresa la “restituzione di tutte le proprietà acquisite su base razziale.”
Queste richieste di Amnesty, che afferma di essere la principale organizzazione mondiale per i diritti umani, vanno molto oltre quelle fatte da Human Rights Watch e da B’Tselem.
Ciò spiega in certa misura perché Israele e i suoi alleati e apologeti abbiano tentato di fare pressione su Amnesty perché ritirasse il suo rapporto prima della pubblicazione e, non essendovi riusciti, ora stanno ricorrendo alle solite accuse senza fondamento di antisemitismo.
Yair Lapid, ministro degli Esteri di Israele, ha cercato di screditare il rapporto di Amnesty affermando che esso “riecheggia la propaganda” e “le stesse menzogne condivise da organizzazioni terroristiche,” in riferimento a importanti associazioni palestinesi recentemente dichiarate illegali da Israele.
“Se Israele non fosse uno Stato ebraico, nessuno ad Amnesty avrebbe osato fare simili affermazioni contro di esso,” ha aggiunto Lapid.
Nel suo rapporto Amnesty osserva che “le organizzazioni palestinesi e i difensori dei diritti umani che hanno guidato la sensibilizzazione contro l’apartheid e si sono impegnati in campagne hanno subito per anni la repressione israeliana come punizione per il loro lavoro.”
Mentre definisce “organizzazioni terroristiche” le associazioni palestinesi per i diritti umani, Israele sottopone “le organizzazioni israeliane che denunciano l’apartheid a campagne di calunnie e delegittimazione,” aggiunge Amnesty.
Israele potrebbe scoprire che tali tattiche, quando utilizzate contro la principale organizzazione mondiale per i diritti umani, potrebbero non convincere nessuno al di fuori della sua cerchia.
Il suo tentativo di “anticipare la faccenda”, che sarebbe stato guidato dal primo ministro israeliano Naftali Bennett insieme a Lapid attaccando preventivamente il rapporto di Amnesty, è solo servito a rafforzare la correlazione tra Israele e l’apartheid.
Ha anche garantito che “il rapporto avesse una pubblicità molto maggiore di quella di cui avrebbe beneficiato,” come ha osservato un editorialista di Haaretz.
Rendere noto al grande pubblico il contesto di apartheid
C’è un’altra differenza fondamentale tra il rapporto di Amnesty sull’apartheid e quelli che lo hanno preceduto.
Amnesty International è un’organizzazione che fa campagne con milioni di membri e sostenitori che, afferma l’organizzazione, “rafforzano la nostra richiesta di giustizia.”
Amnesty ha accompagnato il suo rapporto con un corso in rete di 90 minuti intitolato “Decostruire l’apartheid israeliano contro i palestinesi.”
Ha anche prodotto un documentario di 15 minuti per un vasto pubblico disponibile su YouTube che analizza la domanda se Israele pratica l’apartheid.
Finora la lista di attività di Amnesty include solo il fatto di inviare una cortese lettera a Naftali Bennett, primo ministro israeliano, contro le demolizioni di case e le espulsioni, cose per niente entusiasmanti.
Invece la sezione statunitense di Amnesty ha fatto bizzarre smentite per distinguersi dal movimento per il boicottaggio, disinvestimento e le sanzioni guidato dai palestinesi ed ha persino affermato che l’organizzazione non prende posizione sull’occupazione in sé, concentrandosi invece sugli obblighi di Israele “come potenza occupante, in base alle leggi internazionali”.
Sia Amnesty International che Human Rights Watch hanno sede in Paesi imperialisti e sono state create nel contesto della guerra fredda perché si concentrassero principalmente sulla rivendicazione dei diritti di persone nei Paesi comunisti dell’Europa orientale.
Il loro quadro ristretto e l’ideologia costitutiva le hanno portate ad opporsi alle lotte di liberazione anticolonialiste e alla violenza che esse implicavano perché, come ha detto Nelson Mandela, “è l’oppressore che definisce la natura della lotta e spesso l’oppresso è lasciato senza altri mezzi se non ricorrere a metodi che rispecchiano quelli dell’oppressore.”
Queste contraddizioni fondamentali significano che le associazioni occidentali per i diritti umani prenderanno sempre posizioni di compromesso, se non dannose, contrarie alla liberazione dei palestinesi, e Human Rights Watch recentemente ha suggerito un’equivalenza etica tra la violenza utilizzata da Israele contro i palestinesi assediati a Gaza e quella della resistenza palestinese contro di esso.
Ma i materiali didattici di Amnesty, comprendenti un lungo documento con domande e risposte, contribuiranno a preparare i militanti di base per rispondere ai sostenitori di Israele che intendano sviare le critiche alle prassi dello Stato attaccando chi le divulga.
Dopotutto, come ha detto su Twitter un acuto osservatore, questa è l’unica freccia a disposizione dell’arco di quanti sono impegnati a mantenere il governo di apartheid di Israele e la situazione di impunità.
Il rapporto di Amnesty è un potente indicatore che un’analisi al di là dell’occupazione del 1967 in Cisgiordania e a Gaza sta diventando di dominio pubblico.
Nel contempo Israele e i suoi alleati e sostenitori nel Congresso USA e nel Dipartimento di Stato hanno tirato in ballo triti argomenti, ignorando nel contempo la sostanza dei risultati di Amnesty.
(Al contrario, pochi parlamentari del partito Democratico hanno pubblicamente sostenuto le conclusioni di Amnesty, e Cory Bush [afroamericana eletta nel Missouri, ndtr.] ha chiesto di porre fine al “sostegno USA, con i soldi dei contribuenti, a questa violenza”).
Ma, come politici dell’ONU e dell’UE che blaterano noiosamente all’infinito sul loro impegno per un’inesistente processo di pace verso la soluzione a due Stati, quanti ripetono a pappagallo questi argomenti della lobby israeliana così slegati dalla realtà appaiono sempre più ridicoli.
Israele teme un rapporto ONU
Mentre respingono il termine “apartheid” e attacca Amnesty, Israele e i suoi alleati e sostenitori hanno gli occhi puntati su una minaccia ancora maggiore per l’impunità di Israele.
Secondo un dispaccio del ministero degli Esteri israeliano visionato dal periodico Axios [sito statunitense di notizie, ndtr.], Israele ha pianificato una campagna che cerca di screditare una commissione d’inchiesta permanente dell’ONU sulle violazioni dei diritti dei palestinesi da parte di Israele in tutto il territorio sotto il suo controllo.
Lo scorso maggio la Commissione ONU per i Diritti Umani ha approvato di stretta misura una risoluzione che crea questa commissione d’inchiesta in seguito all’attacco israeliano di 11 giorni contro Gaza durante il quale i palestinesi si sono ribellati in tutta la loro patria.
Associazioni palestinesi hanno a lungo chiesto agli Stati di “affrontare le cause che sono alla radice del colonialismo d’insediamento e dell’apartheid imposto sul popolo palestinese nel suo complesso,” come ha affermato Al-Haq prima del voto.
La commissione d’inchiesta condotta da tre esperti di diritti umani indipendenti scelti dalla Commissione per i Diritti Umani dovrebbe presentare i suoi risultati a giugno.
La scorsa settimana Axios ha informato che i politici israeliani sono “molto preoccupati che il rapporto della commissione faccia riferimento a Israele come uno ‘Stato di apartheid’.”
La rivista aggiunge che “l’amministrazione Biden non appoggia l’inchiesta e ha giocato un ruolo centrale nel tagliarle i fondi del 25% nei negoziati sul bilancio ONU.”
Nel contempo un gruppo bi-partisan di 42 membri del Congresso ha chiesto al Segretario di Stato USA di “guidare un tentativo di porre fine alla vergognosa e ingiusta commissione permanente d’inchiesta.”
Ma evidentemente Israele teme che questo intervento non sia sufficiente.
Questa settimana Haaretz ha informato che “importanti politici israeliani” non meglio identificati sono preoccupati che l’ONU “possa presto accettare una narrazione secondo cui Israele è uno ‘Stato di apartheid’, infliggendo un duro colpo allo status di Israele a livello internazionale.”
Il consenso dell’ONU riguardo all’apartheid israeliano “potrebbe portare all’esclusione di Israele da varie manifestazioni internazionali, comprese competizioni sportive o eventi culturali,” aggiunge la rivista.
In altre parole, i politici israeliani temono che lo Stato venga trattato come un paria a livello globale nello stesso modo in cui lo fu il Sudafrica prima del crollo dell’apartheid in quel Paese.
Il comitato direttivo del movimento guidato dai palestinesi per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni, che si ispira alla campagna di boicottaggio globale che contribuì alla fine dell’apartheid in Sudafrica, sostiene che “indagini sull’apartheid israeliano da parte dell’ONU e dei suoi membri sono passi necessari per raggiungere la libertà, la giustizia e l’uguaglianza per il popolo palestinese.”
Questo comitato esorta le Nazioni che sono state colonizzate a riprendere “il ruolo di guida che hanno assunto all’ONU per l’eliminazione dell’apartheid nell’Africa meridionale.”
Human Rights Watch ha invitato a nominare un incaricato internazionale ONU per i crimini di persecuzione e apartheid.
Amnesty afferma che l’Assemblea Generale dell’ONU “dovrebbe ripristinare la Commissione Speciale contro l’Apartheid, creata in origine nel novembre 1962 per concentrarsi su ogni situazione… in cui sia stata commessa la grave violazione dei diritti umani e crimine contro l’umanità di apartheid.”
Secondo il comitato direttivo del movimento BDS queste iniziative avrebbero conseguenze al di là della causa palestinese all’interno del sistema dell’ONU, dove “le intimidazioni e la pressione politica hanno impedito l’analisi e la discussione, per non parlare delle sanzioni, sull’apartheid israeliano.”
In definitiva, la ricerca di Amnesty non sarebbe fondamentalmente diversa da quelle che l’hanno preceduta. Ma il contesto in cui compare – mentre si consolida il consenso internazionale riguardo al riconoscimento dell’apartheid israeliano, è in corso un’indagine della Corte Penale Internazionale e con le ripercussioni del programma di spionaggio israeliano – suggerisce che potrebbe essere iniziato un nuovo capitolo nella lotta globale per la libertà dei palestinesi.
Maureen Clare Murphy è caporedattrice di The Electronic Intifada.
(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)