Israele: cinque morti nella sparatoria alla periferia di Tel Aviv

Lubna Masarwa, Huthifa Fayyad

29 marzo 2022 – Middle East Eye

Dopo l’attacco di un palestinese armato proveniente dalla Cisgiordania occupata Israele alza il livello di allerta al livello più alto da maggio dello scorso anno

Martedì un uomo armato ha ucciso cinque persone nel corso di una sparatoria nella periferia della città israeliana di Tel Aviv, pochi giorni dopo che due attacchi simili hanno provocato la morte di sei persone e diversi feriti.

L’assalitore, identificato come Diya Hamarshah, 27 anni, è stato successivamente colpito a morte dalla polizia.

I media locali hanno riferito che Hamarshah era un ex prigioniero palestinese della città occupata di Yabad, in Cisgiordania, vicino a Jenin.

La sparatoria sarebbe avvenuta in due posti diversi a Bnei Brak, un’area ebraica ultra-ortodossa.

Haaretz ha riferito che l’aggressore ha colpito un giovane in un minimarket con un fucile d’assalto, prima di sparare a un’altra persona in bicicletta e poi a un’auto di passaggio.

Un’abitante di Bnei Brak, che vive vicino al luogo dell’attacco e ha preferito non dire il suo nome, ha detto a Middle East Eye che la sparatoria l’ha lasciata “spaventata e triste”.

“Mi sento in pericolo. Non posso credere che sia successo così vicino a noi. Sono sempre scioccata nel vedere incidenti come questo, ma quando è così vicino ha un effetto diverso”, afferma.

“Non credo ci sia un futuro in Israele. Le lancette dell’orologio stanno tornando indietro. Non ho nessuna speranza”.

Alle 22:00 ora locale il primo ministro israeliano Naftali Bennett ha tenuto una riunione con il ministro della Difesa Benny Gantz e altri funzionari della difesa per valutare la situazione della sicurezza.

La polizia ha annunciato di aver alzato il livello di allerta al livello più alto da maggio dello scorso anno.

Il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas si è affrettato a condannare l’attacco, affermando che “l’uccisione di civili palestinesi e israeliani porterà solo a un deterioramento della situazione in un momento in cui stiamo cercando di raggiungere una stabilizzazione alla vigilia del mese di Ramadan.”

Ha condannato l’attacco anche Ayman Odeh, capo della Lista Comune, alleanza politica palestinese in Israele.

“Oggi cinque civili sono stati uccisi – ognuno un mondo a sé stante. Si uniscono ai 51 palestinesi uccisi dall’inizio dell’anno – ognuno un mondo a sé“, ha detto Odeh.

Condanno fermamente qualsiasi danno nei confronti di civili, sia palestinesi che israeliani, insieme a qualsiasi offesa a persone innocenti”, ha aggiunto.

È tempo di porre fine alla fonte dell’odio che consiste nella maledetta occupazione e di stabilire una pace che porti sicurezza e vita normale a entrambi i popoli”

“Israele deve incolpare sé stesso

L’assalto di martedì arriva pochi giorni dopo due attacchi simili da parte di cittadini palestinesi di Israele a Beersheba e Hadera, che hanno provocato la morte di un totale di sei persone, inclusi due agenti di polizia. Tutti e tre gli assalitori sono stati uccisi.

L’assalto arriva anche un giorno prima del 46° anniversario del primo Land Day. I palestinesi celebrano la Giornata della Terra ogni 30 marzo dal 1976, quando i cittadini palestinesi di Israele protestarono contro la politica israeliana di furto della terra e discriminazione.

L’analista israeliano Meron Rapoport ha detto a MEE che gli assalti probabilmente porranno il governo israeliano in una situazione molto difficile.

“Israele è molto sconcertato di fronte a questa situazione perché non ha nessuno contro cui combattere. Non è possibile occupare città palestinesi come nel 2002 perché sono già occupate, né può “occupare” Umm al-Fahm [nel Distretto di Haifa, con 45.000 abitanti quasi tutti palestinesi, ndtr.] perché sono cittadini israeliani”, afferma Rapoport.

“Israele potrebbe essere soddisfatto che l’Occidente e gli Stati arabi abbiano cessato di interessarsi alla causa palestinese, e il vertice del Negev [incontro sul Medio Oriente organizzato da Israele il 27 marzo 2022 a Sde Boker, nel Negev, con Egitto, Emirati Arabi Uniti, Bahrain e Marocco, con lobiettivo di dare vita a unarchitettura di sicurezza regionale, ndtr.] avrebbe dovuto esserne una prova. Ma – come ha detto il professor Menachem Klein [docente della facoltà di Scienze Politiche dell’Università israeliana di Bar-Ilan, ndtr.] nel corso di una conversazione personale – la questione palestinese è stata trasformata in una mera questione interna israeliana, ed è esattamente ciò che sta accadendo ora. Israele può incolpare solo se stesso”.

La violenza sarà tuttavia sfruttata dall’estrema destra israeliana, avverte Rapoport.

Poco dopo l’attacco decine di israeliani si sono radunati sulla scena dove si potevano sentire cantare slogan anti-palestinesi, tra cui “morte agli arabi”. Alcuni chiedevano le dimissioni di Bennett.

Negli ultimi anni è cresciuta l’influenza dell’estrema destra all’interno delle forze di polizia e in generale nella politica israeliane.

Quelle forze, spiega Rapoport, ora useranno questi eventi per smantellare il governo, che è una fragile alleanza di compagini di destra, sinistra e centro, oltre che di rappresentanze palestinesi.

“L’estrema destra ha paura che Israele diventi una vera democrazia, quindi vuole rimuovere i palestinesi dalla vita politica”.

Tensioni nel Ramadan

A Yabad, citata come città natale di Hamarshah, dopo l’attacco la folla è scesa in piazza per mostrare solidarietà alla famiglia in vista delle scontate incursioni dell’esercito.

Raed Bakr, un abitante di Yabad, ha detto a MEE che dopo l’attacco è stato chiuso il posto di blocco di Dotan, situato a sud di Yabad, sulla strada che collega Jenin a Tulkarm.

“I giovani, in previsione delle incursioni israeliane, hanno bloccato l’ingresso di Yabad usando massi e bidoni della spazzatura”, dice Bakr.

“Al momento tutto è calmo ma la gente si aspetta da un momento all’altro incursioni dell’esercito”.

Aouni al-Mashni, un’importante figura politica palestinese di Betlemme, ha detto a MEE che i recenti eventi sono una prevedibile reazione alle continue aggressioni israeliane contro i palestinesi.

“La violenza usata da Israele, uno Stato razzista, contro i palestinesi in Cisgiordania e all’interno di Israele, avrà come ovvia contropartita una risposta violenta da parte dei palestinesi”, ha detto al-Mashni a MEE in un’intervista telefonica.

“L’espulsione dei residenti del Naqab [estesa zona desertica meridionale chiamata in ebraico Negev, ndtr.] la ebraificazione di Gerusalemme, gli attacchi a Sheikh Jarrah, le provocazioni alla moschea di al-Aqsa, le uccisioni quotidiane in Cisgiordania – tutto questo porta naturalmente alla contro-violenza. Questa violenza è esclusiva responsabilità di Israele”, ha aggiunto.

“E’ presto per arguire che stiamo entrando in una nuova fase, ma ci troviamo certamente in una fase caratterizzata da violenza e deterioramento”.

La tensione è aumentata nelle ultime settimane in vista del primo anniversario dell’offensiva di 11 giorni di Israele su Gaza [dal 10 al 20 maggio 2021, ndtr.].

Le violenze sono scoppiate lo scorso Ramadan quando Israele ha cercato di espellere delle famiglie palestinesi dal quartiere occupato di Sheikh Jarrah a Gerusalemme Est per far posto ai coloni israeliani.

Ciò ha provocato proteste diffuse in tutta la Cisgiordania occupata e nella comunità palestinese all’interno di Israele, scatenando nel maggio 2021 l’operazione militare su vasta scala di Israele sulla Striscia di Gaza assediata.

Secondo Axios [organo di informazione online israeliano in lingua inglese, ndtr.], i funzionari statunitensi si sono adoperati per mantenere la calma a Gerusalemme, in vista dell’anniversario del conflitto in cui più di 260 palestinesi sono stati uccisi a Gaza, 29 nella Cisgiordania occupata e 13 persone in Israele.

“I leader arabi sono avulsi dalla realtà

All’inizio di questa settimana, i ministri degli Esteri di Marocco, Egitto, Bahrain, Emirati Arabi Uniti (EAU) e Stati Uniti si sono incontrati in Israele per un vertice di due giorni a Naqab (Negev) per discutere di questioni regionali.

Nel frattempo, il re di Giordania Abdullah ha incontrato lunedì a Ramallah il capo dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) Mahmoud Abbas.

La serie di incontri ad alto livello tra leader regionali nelle ultime settimane è stata vista come un tentativo di allentare le tensioni in vista del mese sacro del Ramadan, che dovrebbe iniziare la prossima settimana.

“I leader palestinesi e arabi sono chiaramente avulsi dalla realtà. Sono avulsi dalla lotta del popolo palestinese e dal fatto che le relazioni israelo-palestinesi si sono deteriorate”, ha affermato al-Mashni [figura politica palestinese, attivista del partito Fatah, ndtr.], riferendosi agli incontri regionali.

Nonostante gli sforzi per ridurre le tensioni i coloni israeliani hanno continuato a prendere d’assalto la moschea di al-Aqsa. Sono previste altre marce dei coloni ad al-Aqsa il prossimo Ramadan, che si sovrapporrà alle festività ebraiche.

Israele ha occupato Gerusalemme Est, dove si trova la Moschea di al-Aqsa, durante la guerra del 1967. Ha annesso l’intera città nel 1980 con una mossa mai riconosciuta dalla comunità internazionale.

La Giordania è stata la custode dei luoghi santi musulmani di Gerusalemme dagli anni ’20. La moschea, che si trova su un altopiano alberato nella Città Vecchia, è venerata anche dagli ebrei che la chiamano Monte del Tempio.

Gli attivisti israeliani di estrema destra hanno ripetutamente spinto per una maggiore presenza ebraica nel sito e alcuni hanno sostenuto la distruzione della moschea di al-Aqsa per far posto a un Terzo Tempio.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




So che Israele pratica l’apartheid perché ho contribuito ad imporla

Rafael Silver

28 Marzo 2022Mondoweiss

Rafael Silver ha lasciato Israele perché non poteva più far parte di un sistema che pratica l’apartheid contro il popolo palestinese. “L’ho vista esercitare sotto i miei occhi”, scrive. “L’ho applicata durante il mio servizio militare in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza e l’ho sostenuta in quanto contribuente israeliano”.

Sono un ebreo. Sono un cittadino israeliano. Sono un veterano di un’unità di combattimento dell’esercito israeliano. Ho lasciato Israele nel 2001 e sono immigrato in Canada dove sono diventato cittadino canadese perché sentivo che non potevo più far parte di un sistema che pratica l’apartheid contro il popolo palestinese. Non uso la parola apartheid alla leggera, ma con riluttanza. Scelgo di usare questa parola per descrivere la realtà che il popolo palestinese sta sopportando da generazioni perché l’ho vista praticare con i miei occhi. L’ho applicata durante il mio servizio militare in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza e l’ho sostenuta in quanto contribuente israeliano.

Le strade riservate agli ebrei che i palestinesi in Cisgiordania non possono utilizzare. L’intera gamma di leggi e protezioni concesse dallo Stato israeliano ai coloni ebrei in Cisgiordania, ma negate ai palestinesi che vivono letteralmente proprio accanto a loro. In Cisgiordania la sottomissione ai regolamenti militari riguarda solo i palestinesi. Ciò significa che le restrizioni ai viaggi, l’accesso limitato all’acqua, l’arresto e la detenzione arbitraria di civili, la confisca di terreni, la demolizione di case e l’applicazione di punizioni collettive si applicano solo ai palestinesi e non agli ebrei. L’uso frequente della forza letale da parte delle forze di sicurezza israeliane esclusivamente contro i civili palestinesi è un evento abituale. Anche un diritto umano fondamentale riconosciuto in tutto il mondo, quello del ricongiungimento familiare, è negato solo ai palestinesi.

Anche all’interno dello stesso Israele il sistema dell’apartheid fa parte della struttura dello Stato e riguarda quasi tutti gli aspetti della vita. Lo so perché ho beneficiato di un tale sistema di apartheid all’interno di Israele come cittadino ebreo che godeva di diritti che non erano concessi ai cittadini palestinesi dello stesso Paese. Essendo un ebreo nato al di fuori di Israele mi è stata concessa la cittadinanza il giorno del mio arrivo nel Paese in base alla Legge del Ritorno che si applica esclusivamente agli ebrei. I palestinesi che sono stati cacciati dalle loro terre durante le guerre del 1948 e del 1967 non hanno tale diritto al ritorno. Persino i cittadini palestinesi di Israele non possono tornare nei loro villaggi che sono stati distrutti a causa di quelle guerre, ma devono invece trovare un alloggio altrove. In quanto ebreo, anche se non cittadino, ho il diritto di acquistare un alloggio ovunque all’interno dello Stato; tuttavia, a un cittadino palestinese di Israele non è consentito acquistare immobili se si trovano su un terreno sotto il controllo del Fondo Nazionale Ebraico [ente non profit dell’Organizzazione sionista mondiale nato per comprare e sviluppare terra nella Palestina per l’insediamento degli ebrei, ndtr.]. In quanto cittadino ebreo di Israele, sono protetto grazie alla legge contro la discriminazione, che si tratti di alloggi, lavoro o opportunità educative. I cittadini palestinesi di Israele non hanno tali protezioni. In quanto facente parte del popolo ebraico, ho alle spalle il peso giuridico dello Stato per consentirmi di esprimere i miei diritti e bisogni all’interno della collettività e della nazione. I cittadini palestinesi di Israele non hanno tale riconoscimento nazionale o collettivo. Anche la mia lingua ancestrale, l’ebraico, è riconosciuta come l’unica lingua ufficiale in Israele. L’arabo, la lingua del popolo palestinese, non lo è.

Un sistema che riserva leggi e pratiche ad un gruppo di persone ma le nega a un altro gruppo definito esclusivamente su basi etniche è per definizione apartheid. E’ stato il caso del Sud Africa in passato ed è il caso di Israele oggi. Il primo passo per correggere un torto storico è riconoscere la realtà di fronte a noi. Nessuna società, nessuno Stato in cui la giustizia è negata ad alcuni mentre ad altri è concessa può pretendere di sostenere la democrazia e i diritti umani universali. Israele non fa eccezione a questa regola.

Independent Jewish Voices of Canada [Voci ebraiche indipendenti, organizzazione per i diritti umani che si batte per una giusta soluzione del conflitto israelo-palestinese, ndtr.] ha recentemente avviato una campagna di sensibilizzazione pubblica chiamata Together Against Apartheid [Insieme contro l’apartheid, ndtr.] per informare ed educare il pubblico canadese sulla realtà che milioni di palestinesi devono affrontare. Solo attraverso una maggiore consapevolezza e una più ampia conoscenza delle iniquità e delle ingiustizie sistematiche che i palestinesi devono affrontare i canadesi possono iniziare a influenzare le politiche e le azioni del nostro governo. Vi esorto a unirvi a questa campagna come ho fatto io, a qualsiasi titolo possiate. Rimanere in silenzio è complice e consente il protrarsi di discriminazione, oppressione e ingiustizia. Alzate la voce e fate la differenza.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




I cittadini palestinesi di Israele temono rappresaglie in seguito agli attacchi omicidi

Lubna Masarwa , Huthifa Fayyad

martedì 29 marzo 2022 – Middle East Eye

In seguito agli attacchi di Hadera e nel Negev il governo israeliano e i gruppi armati dell’estrema destra hanno annunciato varie misure che provocano inquietudini tra la minoranza palestinese del Paese.

Poco dopo l’attacco omicida di domenica ad Hadera le forze israeliane si sono schierate nella vicina città di Umma al-Fahm, mentre una milizia di civili israeliani armati ha cominciato a mobilitarsi.

Alla ricerca di indizi sulla sparatoria, nel corso della quale due poliziotti sono morti e altri dieci sono rimasti feriti, la polizia e le forze speciali hanno effettuato irruzioni nella città a maggioranza palestinese del centro di Israele. Sono stati eretti dei blocchi stradali ed alcuni abitanti sono stati arrestati.

La loro presenza e gli arresti, una quindicina, sono continuati lunedì e martedì. I due aggressori, cittadini palestinesi di Israele originari di Umm al-Fahm, sono stati uccisi da agenti in borghese nel corso di uno scontro a fuoco dopo l’attacco.

Come in tutto Israele, a Umma al-Fahm i cittadini palestinesi, chiamati anche palestinesi del 1948, hanno subito condannato l’attacco nel contesto di accresciuti timori di rappresaglie israeliane contro di loro, sia da parte dello Stato che di milizie ebraiche armate.

“Questi attacchi non rappresentano gli abitanti della città, né la nostra società, né i nostri valori che invitano a una vita dignitosa, alla tolleranza, quelli di una società che ricerca la sicurezza e la pace,” ha dichiarato il Comune di Umm al-Fahm in un breve comunicato pubblicato domenica. Ma secondo Taha Ighbariya, un giornalista che vive in città, oggi a Umm al-Fahm regna una certa tensione.

Il rapido arrivo delle unità di poliziotti e l’incremento degli incitamenti all’odio nei mezzi di comunicazione israeliani provocano i timori e le preoccupazioni dei palestinesi.

“Israele, tanto a sinistra come a destra del quadro politico, utilizza sempre avvenimenti come questi per attizzare l’odio verso i palestinesi del 1948,” afferma il giornalista.

“Ieri sera abbiamo visto il deputato (della Knesset) Itamar Ben-Gvir gridare ‘Morte agli arabi!’ (durante manifestazioni che hanno fatto seguito alla sparatoria).

“Ha persino osato urlare in faccia al ministro della Sicurezza Pubblica (Omer Barlev [del partito laburista]) e incitare all’odio contro di lui e contro gli arabi. Nessuno lo può fermare.”

Arresti e rinforzi

Dopo la sparatoria di domenica il governo e gruppi armati di estrema destra hanno annunciato varie misure, il che provoca inquietudine da parte dei cittadini palestinesi di Israele, che rappresentano circa un quinto della popolazione.

Lunedì la polizia ha affermato di aver richiamato sei unità di agenti della riserva e che è possibile che altri vengano riconvocati per il servizio attivo.

Questo annuncio è stato fatto qualche ora dopo che l’esercito israeliano ha annunciato l’invio di rinforzi lungo le frontiere del 1967 che separano Israele dalla Cisgiordania occupata.

Il primo ministro israeliano Naftali Bennett ha dichiarato che gli arresti amministrativi per gli “agenti terroristi” dovrebbero essere utilizzati “nei casi appropriati quando esiste una base giudiziaria adeguata,” senza fornire ulteriori chiarimenti.

Le detenzioni amministrative sono una controversa prassi che Israele utilizza quasi esclusivamente contro i palestinesi dei territori occupati. Essa consente la detenzione a tempo indefinito di prigionieri senza processo né imputazione.

Le autorità hanno già arrestato cinque abitanti di Umm al Fahm, tra cui il fratello di uno degli aggressori. Lunedì il tribunale penale di Haifa ha prolungato la loro detenzione di dieci giorni dopo che il pubblico ministero ha chiesto di tenerli in arresto per 15 giorni in attesa di un’inchiesta.

Milizie armate

Dopo la sparatoria di domenica in Israele e nei territori occupati sembra essersi intensificato l’incitamento alla violenza da parte dell’estrema destra e dei coloni contro i cittadini palestinesi.

Domenica nella Cisgiordania occupata i palestinesi di Nablus e Ramallah sono stati aggrediti da coloni che hanno incendiato delle auto e danneggiato proprietà.

Nella regione meridionale del Negev (chiamato Naqab dagli arabi), dove martedì scorso un altro palestinese cittadino di Israele ha ucciso quattro persone durante un attacco all’arma bianca e con un’autobomba, una milizia armata ha annunciato di aver organizzato delle squadre in tutta l’area per difenderla da ogni nuovo attacco.

“Dopo l’attacco terroristico abbiamo iniziato a mettere in stato d’allerta delle squadre armate (di volontari). Al momento sono schierate a Omer, Meitar, Lehavim, Dimona, Carmit et Beersheba” ha dichiarato il gruppo in messaggi pubblicati sulla sua pagina Facebook. “Anche una squadra antiterrorismo sarà presente nella zona per affrontare ogni tipo di situazione,” precisa l’organizzazione.

L’“Unità Barel Rangers” è una milizia fondata la settimana scorsa con l’obiettivo di “salvare il Negev dalla problematica assenza di sicurezza personale” in un contesto di maggiori tensioni.

Ancor prima, questo stesso mese era stata annunciata la formazione di un gruppo simile nella città di Lod [Lydda in arabo, ndtr.], nel centro del Paese, epicentro della maggior parte delle violenze che hanno scosso le città israeliane lo scorso maggio.

Domenica mattina la rete pubblica israeliana Kan TV ha informato che un altro gruppo di coloni armati della Cisgiordania prevedeva di fare un’incursione a Sheikh Jarrah durante il mese di Ramadan e di aumentare la sua presenza nel quartiere occupato di Gerusalemme est.

Secondo Taha Ighbariya la formazione di milizie armate, la repressione governativa e gli attacchi dei coloni in Cisgiordania non faranno che accentuare la pressione sui palestinesi e intensificare la risposta. “Alla luce di questa mentalità radicale di Israele, che considera i suoi cittadini palestinesi come individui pericolosi, il sistema continuerà a metterci con le spalle al muro con maggiori restrizioni e arresti. Quando le persone sono alle strette ovviamente vengono cercate dai gruppi violenti,” avverte.

Motivazioni legate allo Stato Islamico?

I due cugini che hanno provocato la sparatoria di Hadera, Ibrahim Ighbariya e Ayman Ighbariya, sono entrambi sospettati di essere stati in rapporto con l’organizzazione Stato Islamico (ISIS).

Ibrahim venne arrestato nel 2016 per aver tentato di unirsi al gruppo in Siria attraverso la Turchia, mentre nel 2017 Ayman fu incarcerato per tre settimane senza imputazioni perché sospettato di aver violato le leggi sulle armi.

Anche Mohammed Abu al-Kiyan, l’aggressore all’origine dell’attacco all’arma bianca della settimana scorsa, avrebbe avuto rapporti con l’ISIS.

Gli apparenti legami con lo Stato Islamico e la vicinanza degli attacchi sollevano domande riguardo alla possibilità di una nuova minaccia per Israele.

Ameer Makhoul, uno scrittore di Haifa che ha passato dieci anni in un carcere israeliano per il suo attivismo, mette invece in discussione gli eventuali rapporti tra questi attacchi e motivazioni legate allo Stato Islamico.

Avendo passato del tempo in prigione con detenuti incarcerati per presunti rapporti con l’ISIS, che non sono più di 87, Ameer Makhoul afferma che queste persone non credono nella causa della liberazione della Palestina e non gli importa di attaccare Israele.

La loro priorità sarebbe uccidere musulmani considerati degli infedeli per creare uno Stato fondato su opinioni religiose estremiste.

Così, aggiunge, la differenza tra la loro ideologia e quella di altri prigionieri di gruppi come Fatah, Hamas e Jihad Islamica era così netta che i comitati dei prigionieri palestinesi si opponevano nettamente alla loro integrazione all’interno delle loro sezioni.

Invece le autorità penitenziarie israeliane facevano pressioni perché venissero integrati con gli altri prigionieri palestinesi e riservavano loro un trattamento di favore, sostiene Ameer Makhoul.

L’ex-detenuto a volte aveva l’impressione che i ragazzi colpevoli di aver lanciato pietre contro i soldati in Cisgiordania fossero puniti più severamente dei detenuti in rapporto con l’ISIS. “I prigionieri legati all’ISIS erano trattati con indulgenza dal potere costituito […] compresi gli apparati di sicurezza, il pubblico ministero e il sistema giudiziario (israeliano),” afferma.

L’ideologia dell’ISIS è rifiutata dalla società palestinese nel suo complesso, sostiene Ameer Makhoul, che precisa che ciò non deve sviare l’attenzione dalla situazione che i palestinesi sono costretti ad affrontare dentro e fuori Israele in seguito agli attacchi e all’avvicinarsi del mese sacro del Ramadan, che coinciderà con le feste ebraiche, il che potrebbe provocare tensioni a Gerusalemme e altrove.

Nella misura in cui l’incitamento all’odio e la repressione sembrano intensificarsi, i palestinesi devono essere pronti a dare “una risposta popolare forte”, prosegue Ameer Makhoul.

“Non dobbiamo dimenticare che in Israele sono i membri della società palestinese ad essere vittime dell’incitamento alla violenza, di politiche omicide e di una pulizia etnica.”

(traduzione dal francese di Amedeo Rossi)




Il relatore speciale delle Nazioni Unite accusa Israele di apartheid nel suo rapporto al Consiglio per i Diritti Umani

Zainab Iqbal, New York

23 marzo 2022. – Middle East Eye

“Israele ha imposto alla Palestina una condizione di apartheid in un mondo post-apartheid”, afferma Michael Lynk, relatore speciale delle Nazioni Unite sui diritti umani nei territori palestinesi occupati.

Il relatore speciale delle Nazioni Unite sui diritti umani nei territori palestinesi occupati ha presentato un rapporto al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite (UNHRC), concludendo che la situazione in Israele e nei territori occupati si configura come apartheid.

In un rapporto di 19 pagine presentato martedì all’organismo, Michael Lynk afferma che ebrei israeliani e palestinesi vivono “sotto un unico regime che differenzia la sua distribuzione di diritti e benefici sulla base di un’identità nazionale ed etnica e che garantisce la supremazia di un gruppo a detrimento dell’altro”.

“Il sistema politico di governo radicato nel territorio palestinese occupato che conferisce a un gruppo razziale-nazionale-etnico sostanziali diritti, benefici e privilegi mentre sottopone intenzionalmente un altro gruppo a vivere dietro muri, posti di blocco e sotto un governo militare permanente… soddisfa gli standard probatori prevalenti per l’esistenza dell’apartheid”, ha aggiunto.

Lynk ha affermato che, sebbene la situazione in Israele e nei territori palestinesi occupati sia diversa da quella in Sud Africa, si tratta comunque di apartheid.

L’apartheid è un termine legale definito dal diritto internazionale che si riferisce all’oppressione sistematica da parte di un gruppo razziale su un altro.

“Nel regime di ‘apartheid’ israeliano nei territori palestinesi occupati esistono connotati specifici disumani che non venivano praticati nell’Africa meridionale, come autostrade separate, alti muri ed estesi posti di blocco, una popolazione assediata, attacchi missilistici e bombardamenti di carri armati su una popolazione civile, e l’abbandono del benessere sociale dei palestinesi nelle mani della comunità internazionale.

“Sotto gli occhi ben aperti della comunità internazionale, Israele ha imposto alla Palestina una realtà di apartheid in un mondo post-apartheid”.

Lynk dovrebbe rilasciare formalmente il suo rapporto giovedì prima di un dibattito sul punto 7 dell’agenda, il punto permanente dell’UNHRC riservato alle violazioni israeliane dei diritti umani contro palestinesi e altri arabi.

Nel rapporto l’accademico canadese afferma che Israele sta perseguendo una strategia di “frammentazione strategica del territorio palestinese in aree separate di controllo della popolazione, con Gaza, Cisgiordania e Gerusalemme est fisicamente divise l’una dall’altra”.

Israele usa Gaza, ha detto Lynk, come il “deposito informale di una popolazione indesiderata di due milioni di palestinesi”.

Il rilascio di migliaia di permessi di lavoro per i lavoratori palestinesi in Cisgiordania e a Gaza per lavorare in Israele equivale allo “sfruttamento del lavoro di un gruppo razziale”, afferma il rapporto.

Abbiamo bisogno di azione e responsabilità

Il mese scorso Amnesty International ha etichettato Israele come uno Stato di apartheid, diventando l’ultima associazione a unirsi a un elenco di organizzazioni per i diritti umani che hanno usato il termine per descrivere il trattamento riservato da Israele ai palestinesi.

“Le risultanze del relatore speciale sono un’importante e tempestiva integrazione al crescente consenso internazionale sul fatto che le autorità israeliane stanno commettendo un’apartheid contro il popolo palestinese”, ha affermato Saleh Higazi, vicedirettore di Amnesty per il Medio Oriente e il Nord Africa.

“Le organizzazioni palestinesi per i diritti umani da anni chiamano la situazione apartheid e questo rapporto costituisce un momento fondamentale di riconoscimento della realtà vissuta da milioni di palestinesi”.

Nonostante il numero crescente di organizzazioni per i diritti umani che etichettano le politiche israeliane come equivalenti all’apartheid, gli Stati Uniti e gli altri alleati occidentali di Israele si sono astenuti dal fare tale tipo di dichiarazioni.

Beth Miller, principale responsabile degli affari amministrativi di Jewish Voice for Peace-Action [Voce ebraica per le azioni di pace, organizzazione statunitense che sostiene il boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro Israele, ndtr.] ha affermato che il rapporto riprende ciò che le organizzazioni internazionali per i diritti umani stanno affermando da anni, che “Israele sta commettendo il crimine dell’apartheid”.

“Per [il presidente degli Stati Uniti Joe] Biden e il Congresso, il compito è chiaro: porre fine a tutti i finanziamenti militari statunitensi a questo violento regime di apartheid”.

NYC Solidarity with Palestine [Solidarietà di New York con la Palestina, ndtr.], un’organizzazione impegnata ad aprire ampi spazi di resistenza, ha detto a MEE: “Diamo il benvenuto a queste varie organizzazioni internazionali che finalmente dicono e confermano pubblicamente ciò che il popolo palestinese urla da anni con il sangue.

“E, detto questo, l’apartheid è solo un meccanismo e uno strumento della colonizzazione da insediamento e dell’occupazione illegale. Il diritto dei palestinesi all’autodeterminazione impone responsabilità che includono la fine dell’occupazione con ogni mezzo. I doppi standard devono cessare”.

Ahmad Abuznaid, il direttore esecutivo della Campagna statunitense per i diritti dei palestinesi, ha detto a MEE che “mentre sempre più istituzioni internazionali affermano ciò che i palestinesi dicono da anni, speriamo di vedere finalmente cosa farà la comunità internazionale riguardo all’apartheid israeliano.

“Ora abbiamo bisogno di azione e responsabilità.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Rapporto OCHA del periodo 8 – 21 marzo 2022

1). Nel contesto di due operazioni di ricerca-arresto, nel corso delle quali alcuni palestinesi hanno aperto il fuoco o lanciato bottiglie incendiarie, o pietre contro forze israeliane, queste hanno sparato, uccidendo due palestinesi, tra cui un minore, e ferendone altri tre.

[seguono dettagli]. Il 15 marzo, nel Campo profughi di Balata (Nablus), un ragazzo di 16 anni è stato ucciso con arma da fuoco; secondo fonti israeliane, il giovane aveva aperto il fuoco contro le forze israeliane impegnate nella cattura di un palestinese del Campo; nel corso dell’operazione altri due palestinesi sono rimasti feriti. Le prime indagini delle Organizzazioni per i Diritti Umani indicano che il ragazzo non era coinvolto nello scontro a fuoco. Lo stesso giorno, nel Campo profughi di Qalandiya (Gerusalemme), un palestinese 21enne è stato ucciso con arma da fuoco e un altro è rimasto ferito; secondo un funzionario israeliano citato dai media israeliani, da parte palestinese vi erano stati lanci di ordigni esplosivi contro le forze israeliane che avevano fatto irruzione nel Campo per arrestare un altro uomo. Un altro palestinese è rimasto ferito nel Campo profughi di Ad Duhaishe (Betlemme), sempre durante un’operazione di ricerca-arresto. In nessuno dei tre episodi è stato riportato alcun ferimento di israeliani. In totale, le forze israeliane hanno effettuato 95 operazioni di questo tipo, arrestando 143 palestinesi, inclusi dodici minori.

2). Un palestinese di 23 anni è morto per le ferite riportate il 2 marzo vicino a Burqa (Nablus); le forze israeliane l’avevano colpito con arma da fuoco nel corso di una protesta in solidarietà con i prigionieri palestinesi. Ciò porta a 18 il numero totale di palestinesi uccisi dalle forze israeliane in Cisgiordania (compresa Gerusalemme Est) dall’inizio dell’anno; sono inclusi tre palestinesi autori o presunti autori di attacchi contro israeliani.

3). Complessivamente, in Cisgiordania, sono stati feriti dalle forze israeliane 222 palestinesi, inclusi 37 minori, con un incremento del 60% rispetto al precedente periodo di riferimento [seguono dettagli]. La maggior parte dei feriti (190) sono stati registrati vicino a Beita e Beit Dajan (entrambi a Nablus) e Kafr Qaddum (Qalqiliya), in manifestazioni contro gli insediamenti [colonici]. Nella città di Nablus, 20 persone sono rimaste ferite in seguito all’ingresso di coloni israeliani in un sito religioso (La Tomba di Giuseppe), accompagnati da forze israeliane. Secondo fonti della locale Comunità palestinese, le forze israeliane hanno sparato in aria bombe assordanti, innescando scontri con i residenti locali, che hanno lanciato pietre contro le forze israeliane. Altri otto palestinesi, tra cui due minori, sono rimasti feriti durante il lancio di pietre contro forze israeliane in servizio presso un checkpoint collocato tra le aree H1 e H2 della città di Hebron; queste ultime hanno sparato proiettili veri e proiettili di gomma. Altri quattro feriti sono stati segnalati in operazioni di ricerca-arresto (vedi sopra). Del totale di feriti palestinesi, nove sono stati colpiti da proiettili veri, 28 da proiettili di gomma e la maggior parte dei rimanenti sono stati curati per aver inalato gas lacrimogeno.

4). A Gerusalemme sono avvenuti due accoltellamenti ad opera di palestinesi [seguono dettagli]. Il 19 marzo, a Gerusalemme Ovest, un palestinese di Gerusalemme Est ha accoltellato e ferito un civile israeliano ed è stato successivamente colpito e ferito da forze israeliane. Il 20 marzo, nel quartiere di Ras al ‘Amud a Gerusalemme Est, un altro palestinese ha accoltellato e ferito due poliziotti israeliani ed è stato successivamente arrestato.

5). Nella Striscia di Gaza, un ragazzo palestinese di 15 anni è stato ferito dall’esplosione di un residuato bellico trovato a terra. Il ragazzo ha riportato gravi ferite che hanno reso necessaria l’amputazione di una mano.

6). In diverse località della Cisgiordania le forze israeliane hanno continuato a limitare il movimento dei palestinesi [seguono dettagli]. Gli ingressi principali ai villaggi di Burqa e Al Mas’udiya (entrambi a Nablus) sono rimasti bloccati da cumuli di terra e blocchi di cemento; in prossimità di questi due villaggi, il 16 dicembre 2021, un colono israeliano fu ucciso da un colpo di arma da fuoco sparato da palestinesi. Queste misure hanno costretto circa 8.000 palestinesi a ricorrere a lunghe deviazioni, rendendo difficoltoso il loro accesso ai mezzi di sussistenza ed ai servizi. Il 13 e 19 marzo, le forze israeliane hanno bloccato l’ingresso principale del villaggio di Sinjil (Ramallah) e chiuso un cancello stradale posto tra il villaggio di An Nabi Salih (Ramallah) e la strada 60, interrompendo l’accesso diretto di circa 7.000 palestinesi ai mezzi di sussistenza e ai servizi e costringendoli a lunghe deviazioni. Queste chiusure sono presumibilmente collegate al lancio di pietre, da parte palestinese, contro i veicoli di coloni israeliani. Nell’area H2 di Hebron, in seguito al lancio di pietre da parte di palestinesi contro una torre militare presidiata da soldati israeliani, forze israeliane hanno impedito ai pedoni ed ai residenti palestinesi di entrare ed uscire dalla Città Vecchia di Hebron e, per cinque giorni consecutivi, hanno costretto i proprietari di negozi a chiudere per diverse ore.

7). In Area C ed a Gerusalemme Est, adducendo la mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, le autorità israeliane hanno demolito, confiscato o costretto i proprietari a demolire nove abitazioni ed altre strutture palestinesi. Di conseguenza, undici persone sono state sfollate, tra cui sette minori, e sono stati colpiti i mezzi di sussistenza di oltre 70 altre. Otto delle strutture erano in Area C e una a Gerusalemme Est.

8). Coloni israeliani hanno ferito due palestinesi e persone conosciute come coloni israeliani, o ritenute tali, hanno danneggiato proprietà palestinesi in 20 casi [seguono dettagli]. I ferimenti si sono verificati vicino a Kisan (Betlemme), dove coloni hanno aggredito fisicamente e spruzzato liquido al peperoncino su donne palestinesi che pascolavano il bestiame. In quattro episodi verificatisi vicino agli insediamenti israeliani prossimi ad Al Mughayyir (Ramallah), Kafr ad Dik e Yasuf (entrambi a Salfit), circa 155 alberi e alberelli di proprietà palestinese sono stati sradicati o vandalizzati. A Far’ata (Qalqiliya) e Qaryut (Nablus), i pneumatici di venti auto di proprietà palestinese sono stati forati e sui muri di tre case sono state dipinte scritte ingiuriose, secondo quanto riferito, ad opera di coloni di Gilad Farm e Shilo. Quattro episodi accaduti a Nablus, Salfit e Ramallah, includono l’irruzione in una casa e in un terreno agricolo, il furto di attrezzature agricole e il danneggiamento di raccolti. Nell’area H2 di Hebron, coloni hanno lanciato pietre contro pedoni e case palestinesi, danneggiando almeno tre case.

9). Persone conosciute come palestinesi, o ritenute tali, hanno ferito tre israeliani e danneggiato diversi veicoli israeliani. Oltre al civile israeliano che è stato accoltellato a Gerusalemme Ovest (vedi sopra), due coloni israeliani sono rimasti feriti dal lancio di pietre contro veicoli in transito su strade della Cisgiordania, nei governatorati di Hebron e Gerusalemme. In dodici episodi, veicoli israeliani sono stati danneggiati dal lancio di pietre o bottiglie incendiarie.

10). Vicino alla recinzione perimetrale israeliana e al largo della costa di Gaza, in almeno 24 casi, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento, secondo quanto riferito, per far rispettare [ai palestinesi] le restrizioni di accesso [loro imposte da Israele]. Non sono stati segnalati feriti. In due casi, cinque palestinesi di Gaza, compreso un minore, sono stati arrestati dalle forze israeliane mentre, a quanto riferito, tentavano di entrare in Israele attraverso la recinzione. Un palestinese di Gaza è stato arrestato dalle forze israeliane al valico di Erez. In due occasioni, le forze israeliane, [entrate] all’interno di Gaza, hanno spianato terreni prossimi alla recinzione, danneggiando almeno 1,9 ettari di colture.

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nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina:https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it

 



Rifugiati dell’apartheid: perché Israele deve parlare del ritorno dei palestinesi

Yaara Benger Alaluf

17 marzo 2022 – +972 magazine

Il rapporto bomba di Amnesty e la crisi dei rifugiati ucraini sono un’opportunità perché gli israeliani ripensino il rifiuto al ritorno dei palestinesi nella loro patria.

In Israele il dibattito, se c’è stato, sul recente “rapporto sull’apartheid” è consistito nei soliti tre giudizi riguardo a ciò che esso significherebbe: qualcuno lo ha liquidato come un’accusa del sangue antisemita [secondo cui gli ebrei berrebbero sangue umano durante i loro riti, ndtr.]; alcuni lo hanno bollato come un’affermazione di ciò che è ovvio; altri ancora hanno riflettuto sull’eventualità che si tratti di una novità con concrete conseguenze giuridiche. Ciò che nel frattempo è mancato e continua a mancare è una discussione onesta sulle nostre responsabilità come ebrei israeliani, non solo riguardo al passato ma anche al futuro del nostro Paese.

Pubblicato all’inizio di febbraio, il rapporto di Amnesty International è sistematico e approfondito, ma non offre nuove informazioni significative e le sue raccomandazioni sono limitate. Le prove delle violazioni delle leggi internazionali da parte di Israele elencate nel rapporto risulteranno ben poco sorprendenti a qualunque israeliano abbia mai prestato attenzione alle notizie, per non parlare degli attivisti di sinistra. La sua importanza e rilevanza pratica risiede piuttosto nei suoi due meta-argomenti. Il primo è che la variante israeliana dell’apartheid non è limitata ai territori occupati o a una qualunque specifica componente della popolazione palestinese, ma è parte integrante della stessa frammentazione del territorio e della popolazione in unità con differenti status giuridici.

Il secondo meta-argomento è che la negazione del diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi alle terre e case da cui furono espulsi nel 1948 è il meccanismo che sta al cuore di questo principio politico.

La decisione di fare riferimento ai rifugiati palestinesi in un rapporto sulle attuali responsabilità di Israele e sui passi necessari per un futuro di giustizia, uguaglianza e riconciliazione è senza precedenti, e irrompe negli angusti confini del dibattito politico tra gli ebrei israeliani. All’interno di questo discorso il diritto al ritorno è in genere affrontato in termini che hanno la loro origine nella macchina propagandistica israeliana: da “c’era una guerra e loro l’hanno persa” all’affermazione secondo cui il ritorno dei rifugiati palestinesi è sinonimo di fine dell’esistenza degli ebrei in Israele. Leggere il “rapporto sull’apartheid” offre l’opportunità di capire che è vero il contrario: è impedire il ritorno dei rifugiati che costituisce una continua minaccia esistenziale.

1948: mossa iniziale

Il rapporto afferma che la politica di apartheid di Israele è stata messa in atto esplicitamente e coerentemente fin dal primo giorno. Una delle sue principali argomentazioni è che prima della fondazione dello Stato di Israele nel 1948 erano state predisposte tutte le condizioni per una supremazia demografica ebraica e per massimizzare il controllo ebraico su terre e risorse naturali. I numeri precedenti alla guerra del 1948 chiariscono bene questo punto: fino a quell’anno i palestinesi rappresentavano il 70% degli abitanti del Paese, e possedevano circa il 90% della sua terra, mentre gli ebrei erano meno del 30% della popolazione e detenevano meno del 7% della terra. Due iniziative prese dal nuovo Stato gli consentirono di ribaltare completamente questa situazione: la decisione del 1948 di impedire ai rifugiati di tornare e la legge del 1950 sulle Proprietà degli Assenti [1].

Nel maggio 1948, mentre la guerra stava infuriando, venne creata una commissione speciale per esaminare il modo in cui trasformare la fuga dei palestinesi “in un fatto compiuto” [2]. La commissione raccomandò alla dirigenza israeliana di distruggere le località palestinesi, impedire la coltivazione della terra, insediare ebrei nei villaggi spopolati, approvare leggi per congelare la situazione di quel momento e investire nella propaganda [3]. Le raccomandazioni vennero religiosamente messe in pratica: già in un incontro del governo il 16 giugno venne annunciato che Israele non avrebbe consentito il ritorno di alcun rifugiato; unità militari furono inviate a far saltare in aria villaggi o incendiarli (601 villaggi vennero distrutti, in maggioranza nella prima metà del 1949); nuovi immigrati ebrei furono ospitati nelle case disabitate dei palestinesi (350 dei 370 nuovi insediamenti ebraici fondati nel 1948-53 vennero costruiti su terre dei rifugiati); i palestinesi che cercarono di tornare per recuperare alcuni dei loro beni, procurarsi del cibo o riunirsi con la famiglia rimasta indietro furono sommariamente fucilati [4].

Gli impedimenti al ritorno non terminarono con l’armistizio nel 1949. Continuano fino ad ora, in violazione delle leggi internazionali, senza nessuna giustificazione relativa alla sicurezza e spesso persino senza una giustificazione demografica [5]. Inoltre la legge sulle Proprietà degli Assenti autorizzò lo Stato a impossessarsi dei beni di chiunque fosse assente durante il primo censimento del Paese nel novembre 1948, che fosse o meno all’interno dei confini dello Stato. Ciò consentì a Israele di impossessarsi della maggior parte della terra coltivabile del Paese, di decine di migliaia di abitazioni ed edifici commerciali, di veicoli e macchinari agricoli e industriali, di conti bancari, di mobili e tappeti, di circa un milione di animali da allevamento, e via di seguito.

Benché la legge fosse pensata per essere provvisoria, e anche se al Custode delle Proprietà degli Assenti venne vietato di rivendere i beni espropriati, nel corso degli anni furono approvate leggi e norme aggiuntive per consentire a Israele di espropriare terreni palestinesi di proprietà di privati su entrambi i lati della Linea Verde [che separa Israele dalla Cisgiordania, ndtr.] e destinarli a uso militare, ai coloni ebrei o come parchi e strutture riservate, in quasi tutti i casi, a ai cittadini ebrei di Israele e a favorirne il benessere.

Rafforzare il controllo, annientare la resistenza

Da allora la supremazia spaziale e demografica della popolazione ebraica è stata rafforzata e mantenuta dividendo i palestinesi in status giuridici differenti: rifugiati in Paesi non arabi, in Paesi arabi, quelli rimasti all’interno dello Stato di Israele, compresi gli sfollati interni, gli abitanti di Gerusalemme est, gli abitanti dei villaggi beduini “non riconosciuti” nel Naqab/Negev e gli abitanti della Cisgiordania occupata e della Striscia di Gaza assediata. Come rileva Amnesty [6]:

L’esistenza stessa di questi regimi giuridici separati […] è uno dei principali strumenti attraverso i quali Israele frammenta i palestinesi e impone il suo sistema di oppressione e dominazione, e, come notato dalla Commissione Economica e Sociale dell’ONU per l’Asia Occidentale (ESCWA), ‘[…] per eliminare qualunque forma di dissenso contro il sistema che ha creato [7]’.”

Il rapporto enumera le forme di oppressione esercitate sotto ogni regime giuridico, come arresti di massa, torture, furto di terre, massacri, limitazioni negli spostamenti, negazione dell’accesso alle risorse, distruzione della vita familiare e via di seguito. Ciò è già stato fatto in precedenza. Ma la questione più importante è l’avvertimento del rapporto che l’opposizione alle caratteristiche specifiche dell’oppressione senza riferimento al fatto stesso della frammentazione in sé è funzionale al sistema di oppressione. Per esempio, concentrarsi unicamente sui crimini israeliani nei territori occupati nasconde le ulteriori violazioni delle leggi internazionali relative ai rifugiati, occultando nel contempo la discriminazione dei palestinesi che rimangono al di là della Linea Verde e a Gerusalemme est, o quanto meno li rappresenta erroneamente come parte del discorso sui diritti delle minoranze in una società liberale [8].

Gli autori del rapporto affermano che il contesto concettuale dell’apartheid consente una comprensione coerente della metalogica delle varie forme di oppressione: il tentativo di conservare un sistema di controllo, instaurando e conservando nel contempo l’egemonia ebraica. Questo è specificamente il senso di quanto i palestinesi hanno voluto definire “Nakba che continua”. Oltretutto apartheid è un termine radicato anche nelle leggi internazionali, e comporta quindi usualmente delle sanzioni. Il riferimento all’obiettivo del controllo, piuttosto che solo ai metodi, chiarisce anche che il problema non è, e non è mai stato, riducibile a un “gruppo di estremisti”. La responsabilità del problema risiede in tutte le istituzioni statali e parastatali, come l’Organizzazione Sionista Mondiale, in ogni governo dello Stato indipendentemente dall’affiliazione di partito, nel sistema giudiziario, nel Custode delle Proprietà degli Assenti, nel Fondo Nazionale Ebraico.

La chiave del problema

Impedire il ritorno dei rifugiati, dal 1948 al 1967 fino ai nostri giorni, è presentato nel rapporto come un meccanismo importantissimo della versione israeliana dell’apartheid. Il diritto al ritorno è citato più di 50 volte nel rapporto, e ne guida l’analisi giuridica, storica e spaziale. In termini giuridici una conseguenza della negazione del ritorno è che il controllo israeliano non è limitato ai confini israeliani, ma riguarda anche i palestinesi che sono stati sradicati nel corso degli anni, dato che la loro assenza è essenziale per conservare la maggioranza ebraica [9]. Non meno importante è l’implicazione che l’apartheid prevarrà necessariamente finché ai rifugiati verrà impedito di tornare [10].

Storicamente l’espulsione e l’impedimento al ritorno rappresentano la logica esplicita delle iniziative di Israele, persino dopo il 1948. Nell’immediato dopoguerra Israele impose un governo militare sull’85% dei palestinesi che restarono sul suo territorio, nonostante il loro status formale di cittadini. Per non meno di 18 anni Israele negò loro i diritti fondamentali, come quello di proprietà, di libertà di parola e di movimento, confiscando le loro terre e altre proprietà e stabilendo un intricato sistema di monitoraggio e supervisione che limitò la loro possibilità di organizzarsi politicamente e di plasmare il loro futuro. Il rapporto afferma, in base a documenti ufficiali, che il governo militare venne abolito nel 1966 solo dopo che ci fu la sicurezza sufficiente che i rifugiati non erano più in grado di tornare, soprattutto dopo che quasi tutti i villaggi palestinesi vennero distrutti e coperti da alberi [11].

Anche l’occupazione della Cisgiordania iniziò proprio l’anno dopo, la re-imposizione del governo militare sull’altro lato della Linea Verde non può essere compresa separatamente dalla politica israeliana di spopolamento. Nel corso della guerra del 1967 più di 350.000 palestinesi, metà dei quali rifugiati della guerra del 1948, furono cacciati [12]. Alcuni vennero obbligati ad andarsene in convogli diretti verso la Giordania, compresi migliaia provenienti dai villaggi di Imwas, Yalu e Beit Nuba [13]. Altri furono obbligati a fuggire in vario modo, con massicci bombardamenti e demolizioni, come nel campo profughi di Iqbat Jaber, a sud di Gerico, il più grande del Medio Oriente finché il 90% dei suoi abitanti fu deportato in Giordania [14]. Anche ai rifugiati del 1967 vennero negati i diritti garantiti dalle leggi internazionali.

Un’opportunità per la società ebraica

Sono tutti argomenti sostenuti dalla società palestinese per oltre settant’anni, ed è positivo che la comunità internazionale abbia iniziato a dare loro credito, sia in linea di principio che attraverso ricerche e diffusione di informazioni.

Ma cosa dire della società ebraica in Israele? Il rapporto di Amnesty International rappresenta un ulteriore opportunità perché questa società, o almeno quella parte che crede nei principi umanitari e nell’uguaglianza, riconosca la centralità della questione dei rifugiati palestinesi nella storia dell’esistenza sionista di Israele. Tuttavia farlo significherebbe dover abbandonare vari miti persistenti:

Fu una conseguenza non voluta.” Di fatto, fin dagli inizi, la colonizzazione sionista in Israele cercò di acquisire quanto più territorio possibile a unico vantaggio degli ebrei. Anche se non tutti i pensatori e dirigenti politici sionisti erano d’accordo con questa interpretazione del sionismo, questa era l’ideologia che venne effettivamente messa in atto. Ci sono prove che fino a 57 villaggi palestinesi vennero sradicati prima del 1948, così come spiegazioni che minano l’affermazione secondo cui la terra da cui vennero cacciati era stata comprata con mezzi legali.

Hanno cominciato loro”. Il 1948 non fu l’inizio ma il culmine di un processo di spopolamento sistematico. Anche la narrazione secondo cui la dirigenza sionista accettò il Piano di Partizione dell’ONU del 1947, migliaia di ebrei danzarono per le strade di Tel Aviv e gli arabi iniziarono la guerra è propaganda menzognera. Fonti storiche mostrano che la dirigenza sionista non aveva assolutamente alcuna intenzione di accontentarsi del territorio assegnato allo Stato ebraico in base a vari piani di partizione. Sia il primo ministro israeliano David Ben Gurion che altri dirigenti sionisti affermarono in termini inequivocabili che accettare il piano era una mossa diplomatica intesa ad accelerare il ritiro britannico e facilitare l’occupazione di quanto più territorio possibile [15].

Persino i rapporti di forza sul terreno non riflettevano una situazione in cui gli ebrei erano sulla difensiva contro un’offensiva araba, come cercò di dimostrare la narrazione dei “pochi contro molti” o “Davide contro Golia”. Alla fine del 1947 la comunità ebraica in Palestina aveva una forza militare organizzata di circa 40.000 miliziani per affrontare solo 10.000 combattenti palestinesi non addestrati e poco organizzati e volontari da Paesi arabi, la maggior parte dei quali senza esperienza militare. Persino nel maggio 1948, quando la guerra si estese includendo eserciti arabi, Israele aveva il doppio vantaggio di maggiori risorse e miglior armamento [16].

Cosa ci puoi fare? La guerra è una cosa terribile.” Anche solo per le sue dimensioni, la deportazione e la spoliazione dei palestinesi non può essere liquidata come una parte necessaria della lotta. In questa guerra circa 750.000 donne e uomini divennero rifugiati e i loro beni vennero espropriati. Circa metà di essi fu obbligata a fuggire o espulsa prima che gli eserciti arabi si unissero alla guerra [17]. Dal punto di vista giuridico anche la distinzione tra “fuga” e “deportazione” è falsa: i civili tendono a sfuggire alle guerre e ad altri disastri cercando un rifugio temporaneo con l’intenzione di tornare a casa dopo che le ostilità si sono placate, e il diritto internazionale riconosce loro questo diritto. In effetti ciò avvenne durante la guerra del 1948, insieme ad esempi documentati di sradicamento forzato [18]. In entrambi i casi impedire il ritorno è ingiustificabile e assolutamente non correlato alla questione della responsabilità per lo scoppio della guerra.

Le cose vanno così.” La condizione di rifugiati dei palestinesi è spesso associata ad altri casi storici di pulizia etnica che servono a giustificarla. Nessuna deportazione è mai giustificata e i crimini di altri non giustificheranno mai i propri. Anche gli ebrei vennero sradicati e deportati con grande crudeltà e questa è una delle ragioni per cui il mondo riconobbe il loro diritto a uno Stato sovrano. In molti casi (compresi gli attuali discendenti della Spagna medievale e della Germania nazista) gli eredi dei criminali hanno chiesto scusa dopo il fatto, pagato compensazioni, eretto monumenti, sviluppato programmi di studio e consentito a vittime di seconda e terza generazione di ottenere la cittadinanza e rivendicare proprietà. Nel contesto palestinese non è stato avviato nessuno di questi passi e oltretutto l’oppressione continua senza sosta.

Mettiamoci una pietra sopra.” La convinzione che le conseguenze della guerra del 1948 debbano essere separate da tutto quello che era avvenuto prima e avvenne dopo e che Israele può semplicemente “andare avanti” è basata sulla supremazia ebraico-sionista che non ha giustificazioni politiche, giuridiche né morali. Mentre dal 1948 la superiorità demografica ebraica è stata garantita, la politica israeliana di pulizia etnica non si è limitata al periodo bellico [19]. Secondo, un simile approccio cancella completamente i palestinesi: la catastrofe è tutt’altro che finita per i palestinesi, cui viene negato persino il diritto di visitare le rovine dei loro villaggi, alle famiglie separate non è possibile gioire e piangere insieme, a un abitante di Giaffa [in Israele, ndtr.] la cui sorella è assediata a Gaza o a un abitante di Hebron [in Cisigordania, ndtr.] è impedito di sposare la persona amata di Haifa [in Israele, ndtr.].

È giunto il momento di parlare del ritorno

Ciò che afferma il rapporto di Amnesty International, come hanno sempre fatto i palestinesi, è che ogni soluzione che conservi il sistema di diritti separati e non protegga le libertà di tutto il popolo palestinese – nella diaspora, in Israele, in Cisgiordania, a Gerusalemme est e a Gaza – non fornirà una soluzione sostenibile alla continua ingiustizia. “Smantellare questo sistema crudele di apartheid è fondamentale per i milioni di palestinesi che continuano a vivere in Israele e nei territori occupati, così come il ritorno dei rifugiati palestinesi […] in modo che possano godere dei loro diritti umani liberi da discriminazioni” [20]. Lo smantellamento del regime di supremazia ebraica è essenziale anche per milioni di ebrei dentro e fuori Israele – non perché lo dica Amnesty, ma perché fare così porterà a un futuro migliore per tutti noi.

La storia dimostra che le società fondate su una ideologia suprematista ed esclusivista sono necessariamente razziste e militariste. In effetti questa è la direzione verso la quale sta andando la società israeliana. Riconoscere i diritti dei rifugiati, fondati sulle leggi internazionali, è un prerequisito per porre fine al regime di supremazia ebraica e quindi per la riconciliazione, la democrazia e l’uguaglianza. Tale riconoscimento consentirà di stabilire una politica migratoria equa che beneficerà la società, la cultura e l’economia e promuoverà anche la giustizia all’interno della società ebraica in Israele.

È vero, mettere in pratica il diritto al ritorno richiederà che gli ebrei rinuncino ai propri privilegi. Ma qual è il prezzo di conservare uno “Stato ebraico”? Finora, nonostante abbia giustificato la propria legittimazione attraverso le promesse di pluralismo e appelli ai diritti universali con il diritto all’autodeterminazione, questo Stato ha interpretato in modo ottuso e rigido la legge ebraica, creando diseguaglianze ed esclusioni (esemplificate in modo chiarissimo dalla legge sui matrimoni e dalla politica sull’immigrazione) che contraddicono qualunque nozione di liberalismo o universalismo. La definizione dello Stato di Israele come ebraico danneggia in primo luogo i non ebrei, ma estorce un costo considerevole anche a molti ebrei, soprattutto neri, LGBTQ e donne che non possono ottenere il divorzio (agunot). Danneggia la stessa vita degli ebrei, imbrigliandola sia nel progetto sionista che nella legge ortodossa ashkenazita, impedendo quindi uno sviluppo indipendente e spontaneo della tradizione come è avvenuto e ancora avviene nella diaspora. In contrasto con la vita sottoposta a istituzioni su base comunitaria, gli ebrei in Israele sono obbligati a finanziare e ad essere soggetti al monopolio del rabbinato sui servizi religiosi.

Inoltre il costante timore della “minaccia demografica” continua a giustificare la destinazione di risorse alle esigenze militari e alle colonie illegali nei territori occupati invece che alla sanità pubblica, all’edilizia e all’educazione. La necessità di giustificare la costante ansietà e la posizione di difesa impone a sua volta un sistema educativo profondamente razzista e militarista. Il futuro promesso da questo percorso non è quello che voglio io. Non c’è niente di coraggioso nel cercare la sicurezza totale fuori dal costante timore di una presunta minaccia esistenziale. Possiamo e dobbiamo liberarci della concezione secondo cui la liberazione degli ebrei deve avvenire a spese di altri. Dobbiamo iniziare a prenderci la responsabilità del nostro futuro.

Chiunque si impegni per la giustizia e l’uguaglianza, chiunque si opponga al razzismo, chiunque semplicemente non voglia partecipare a un crimine contro l’umanità e chiunque voglia anche solo che le cose vadano meglio qui deve osare riflettere e parlare seriamente del ritorno. Un primo passo positivo sarebbe dare ascolto agli stessi rifugiati e alle organizzazioni della società civile palestinese, e scoprire che il ritorno non significherebbe la deportazione degli ebrei fuori dal Paese [21]. Al-Awda, la Coalizione Palestinese per il Diritto al Ritorno, che è la più grande associazione globale non partitica che promuove la messa in pratica del diritto al ritorno, ha chiaramente evidenziato che “i rifugiati palestinesi nel loro complesso accettano che esercitare il loro diritto al ritorno non sarebbe fondato sulla cacciata dei cittadini ebrei ma sui principi di eguaglianza e sui diritti umani.” Allo stesso modo BADIL, Centro Risorse per la Permanenza dei Palestinesi e il Diritto al Ritorno, spiega:

Ciò che avvenne nel 1948 è storia. Non si torna indietro. Il diritto al ritorno, tuttavia, non significa tornare indietro nel tempo. Il ritorno riguarda molto di più il futuro. Riguarda iniziare realmente a vivere, rispondere al profondo senso di appartenenza alla terra da cui i rifugiati furono strappati decenni fa e riguarda la costruzione di rapporti tra palestinesi ed ebrei basati sulla giustizia e sull’uguaglianza.”

Questa posizione cambierà una volta che sia cambiato il rapporto di potere? Forse. Qualcuno definisce l’omofobia come “la paura che uomini gay ti trattino come tu tratti le donne.” La fobia del ritorno sarebbe la paura che i rifugiati palestinesi ti tratteranno come il sionismo ha trattato loro. Io scelgo di non vivere con la paura, ma ho invece fiducia nelle persone che credono nei diritti umani e nell’uguaglianza. Scelgo di fidarmi dei rifugiati come Isma’il Abu Hashash, cacciato da Iraq al-Manshiyah e che oggi vive in Cisgiordania e dice:

Non dobbiamo ripetere gli errori degli israeliani e condizionare la nostra presenza sulla nostra terra alla non-presenza del popolo che ora vi vive. Gli israeliani, o gli ebrei, pensavano che avrebbero potuto vivere in Palestina solo se non lo avessero potuto fare gli altri. Non è quello che crediamo noi. Vediamo il diritto al ritorno come la richiesta di un diritto individuale e collettivo sulla terra da cui siamo stati espulsi. Non vogliamo dire a loro di andarsene, né vogliamo dividere il loro Paese.”

Si può anche stare a sentire dagli ebrei che appoggiano il ritorno perché essi credono che ciò sarebbe positivo anche per gli ebrei di questo Paese. Si scoprirà che, per quanto la questione del ritorno sia estremamente controversa ed emotiva nella società israeliana, negli anni scorsi si è scritto molto sull’argomento [22]. In seguito possiamo continuare con una discussione più pragmatica. Salman Abu Sitta è un geografo palestinese che ha dedicato la propria vita ad analizzare gli aspetti concreti del ritorno. I suoi studi indicano che, tra le altre cose, la grande maggioranza della terra a cui i rifugiati intendono tornare attualmente è disabitata. Il Documento di Città del Capo, un progetto per il ritorno formulato insieme da Zochrot, un’associazione israeliana che promuove il diritto al ritorno, e Badil, un’organizzazione palestinese per i diritti dei rifugiati, offre un quadro giuridico per la realizzazione del ritorno. Ci sono anche molte informazioni sui rifugiati che nel resto del mondo tornano ai loro Paesi d’origine e sulle sfide e opportunità poste dal ritorno volontario, per esempio nel numero dell’ottobre 2019 di Forced Migration Review [Rivista delle Migrazioni Forzate].

Se c’è qualcosa che gli ebrei israeliani possono imparare dal rapporto di Amnesty è che il tentativo di slegare gli eventi del 1948 dall’esistenza dei palestinesi nel 2022 è artificioso e cinico, e che la richiesta di riconoscerlo non pretende empatia ma riparazione, in quanto la Nakba è un tentativo deliberato e continuo di cancellare il popolo palestinese dalla sua terra, a nome nostro e con la nostra partecipazione. È importante opporsi alla demolizione delle case e accompagnare i pastori palestinesi della Valle del Giordano. È importante chiedere acqua ed elettricità per chi è sottoposto all’occupazione, monitorare la costruzione delle colonie in Cisgiordania e parlare di pace. Tuttavia mettere in pratica il diritto al ritorno dei rifugiati è l’unica iniziativa che riconosca onestamente l’ingiustizia fondamentale che ha creato la relazione di oppressione tra ebrei e palestinesi che continua fino ad oggi. È l’unica iniziativa che risponda alla reale volontà delle vittime che comporti giustizia e riparazione. Spaventa, ma è anche esaltante. È complicato e ci vorrà tempo. È proprio per questo che dobbiamo iniziare a prenderlo sul serio.

_______________________

[1] Ogni riferimento al rapporto di Amnesty è ricavato dalla versione completa in inglese.

[2] Il divieto al ritorno è discusso, tra le altre, nelle pagine 14-15, 61, 64, 72, 75, 81 e 93-94; sull’appropriazione dei beni dei palestinesi attraverso la legge sulle proprietà degli assenti e sulla acquisizione delle terre del 1953 vedi tra le altre pp. 22-23, 114-116, 119-121, 124.

[3] Memorandum di Y. Weitz, E. Sasson e E. Danin a Ben-Gurion, “Retroactive Transfer: A Scheme for Resolving the Arab Question in the State of Israel,” June 5, 1948 [Trasferimento Retroattivo: uno schema per risolvere la questione araba nello Stato di Israele, 5 giugno 1948], citato in Benny Morris, The Birth of the Palestinian Refugee Problem Revisited (Cambridge: Cambridge University Press) [Esilio. Israele e l’esodo palestinese 1947-1949, Rizzoli, 2004], pp. 314-316.

[4] Noga Kadman, “Erased from Space and Consciousness: Israel and the Depopulated Palestinian Villages of 1948” [Cancellati dallo spazio e dalla coscienza: Israele e i villaggi palestinesi spopolati nel 1948] (Bloomington: Indiana University Press, 2015), Introduzione; Oren Yiftachel e Alexandre (Sandy) Kedar, “On Power and Land: The Israeli Land Regime,” [Su potere e terra: il regime territoriale israeliano] Theory and Criticism 16 (2000): p. 77 (in ebraico).

[5] Le considerazioni demografiche non spiegano i passi compiuti per impedire il ritorno di sfollati interni come gli abitanti di Saffuriyya or Kafr Bir’im, la maggioranza dei quali vive ancora sul territorio israeliano.

[6] Pp. 74-81.

[7] P. 17.

[8] Ad es. pp. 62, 75.

[9]  Pp. 62, 81.

[10] Pp. 33, 47, 93-94, 220, 259-260, 276.

[11] Pp. 105-106.

[12] Pp. 41, 76-77, 81.

[13] “Chiesero di tornare al villaggio e dissero che avremmo fatto meglio ad ucciderli […] Non abbiamo consentito loro di andare al villaggio a prendere i loro averi perché l’ordine era che non vedessero come era stato demolito il loro villaggio.” Testimonianza del defunto scrittore israeliano Amos Keinan, che combatté durante la guerra, in “Report on Village Demolition and Refugee Deportation, June 10, 1967,” [Rapporto sulla distruzione di villaggi e la deportazione di rifugiati, 10 giugno 1967] citato in Sedeq 2 (2007): 96-97 (in ebraico).

[14] Nur Masalha, The Politics of Denial: Israel and the Palestinian Refugee Problem [La politica della negazione: Israele e il problema dei rifugiati palestinesi] (London: Pluto Press, 2003), pp. 203-205.

[15] Fin dal marzo 1937 il dirigente sionista e futuro presidente di Israele Chaim Weizmann disse all’alto commissario britannico per la Palestina: “Anche se ogni tanto subiamo delle battute d’arresto, in ultima istanza siamo obbligati a impossessarci di tutto il paese, salvo che il paese sia diviso in due e venga tracciato un limite alla nostra espansione […] Anche se venisse approvato il piano di partizione, siamo obbligati in definitiva a espanderci su tutto il paese […]. Questo non è altro che un accordo per i prossimi 25-30 anni.” Moshe Sharett, Yoman Medini, Vol. 2, p. 67 (in ebraico), citato in Alexander B. Downes, “Targeting Civilians in War” [Prendere di mira i civili in guerra] (Ithaca: Cornell University Press, 2011), p. 187.

[16] Benny Morris, “1948: A History of the First Arab-Israeli War” (New Haven: Yale University Press, 2008) [1948: Israele e Palestina tra guerra e pace, Bur, 2014], pp.  81-93, pp. 197-207.

[17]  Documenti interni dell’intelligence confermano che “l’espulsione di circa il 70% degli arabi durante questo periodo dovrebbe essere attribuito a operazioni militari da parte delle forze ebraiche, mentre gli ordini da parte dei dirigenti arabi hanno influito sullo spostamento solo per il 5%.”

[18] Quelli che seguono sono solo alcuni dei molti esempi. Il soldato ebreo Amnon Neumann testimoniò: “Circondammo il villaggio da varie direzioni, iniziammo a sparare in aria, tutti si misero a urlare e li cacciammo.” Gli ordini operativi del piano D (marzo 1948) esigevano di “ripulire” e “distruggere” villaggi. Agli abitanti di Ramle e Lydda vennero distribuiti volantini che ordinavano loro di andarsene a piedi, e le truppe israeliane spararono sopra le loro teste finché i convogli di rifugiati arrivarono in territorio giordano. A Majdal il trasferimento venne effettuato utilizzando camion militari.

[19] Nel 1950 2.500 palestinesi che erano rimasti nella città di Majdal (oggi Ashkelon) vennero deportati; nel 1956 più di 20.000 beduini palestinesi che erano rimasti nel Negev [Naqab in arabo, ndtr.] furono cacciati, e nel solo 1956 circa 5.000 palestinesi furono espulsi da zone smilitarizzate nel nord di Israele. Come detto, anche la guerra del 1967 ebbe la sua parte di espulsioni, e il fenomeno continua fino ad oggi sia in Israele che in Cisgiordania. Continuano anche ad essere utilizzati vari metodi di emigrazione forzata.

[20] P. 33.

[21] È difficile fare una scelta tra le varie pubblicazioni di palestinesi sul ritorno. Ecco una selezione molto ridotta. Potete leggere alcune brevi citazioni di rifugiati che parlano del ritorno; leggete l’articolo di Abir Kopty “Without Return, Palestine Will Not Be Free” [Senza ritorno la Palestina non sarà libera], del 15.5.2013; vedete il corto di Firas Khouri “Three Returning Bouquets” [Tre mazzi di fiori di ritorno] e ascoltate come alcuni adolescenti descrivono il loro desiderio di tornare; vedete “Internally displaced Palestinians plan their return” [Palestinesi sfollati interni progettano il proprio ritorno]; immaginate, insieme a Umar al-Ghubari e altri, possibili futuri del ritorno e la vita in comune raccontata nel libro “Adwa”, passeggiate nei luoghi immaginati dalla coalizione per il ritorno Al-Awda e da BADIL, Centro Risorse per la Permanenza dei Palestinesi e i Diritti dei Rifugiati.

[22] In inglese: Peter Beinart, A Jewish case for Palestinian refugee return [Una causa ebraica per il ritorno dei rifugiati palestinesi], The Guardian, 18.5.2021; Alma Biblash, Who’s afraid of the right of return? [Chi ha paura del diritto al ritorno?], +972 Magazine, 15.5.2014; Tom Pessah, Yes, the right of return is feasible. Here’s how [Sì, il diritto al ritorno è praticabile. Ecco come], +972 Magazine, 7.11.2017; Moran Barir, I have a dream — to see the Palestinian refugees return, [Ho un sogno: vedere il ritorno dei rifugiati palestinesi], 2012; Henriette Chacar, The Jewish Israelis helping make Palestinian return a reality [Gli ebrei israeliani che contribuiscono a rendere possibile il ritorno dei palestinesi], +972 Magazine, 29.5.2020.

In ebraico: Alma Biblash, It’s Time to Talk about Return as a Practical Option [E’ tempo di parlare del ritorno come un’opzione praticabile], Local Call, 5 maggio 2014; Rachel Beit Arie, We Have Grown Used to Viewing the Return as a Threat Rather than a Hope [Siamo cresciuti abituati a vedere il ritorno dei profughi come una minaccia piuttosto che una speranza], Local Call, 2 dicembre, 2018; Tom Pessah, Time for a Serious Discussion on the Right of Return [E’ tempo di una discussione seria sul diritto al ritorno], Haokets, 5 novembre 2017; Tom Pessah, The Right of Return: Not What You Thought [Il diritto al ritorno: non è quello che pensi], Sicha Mekomit, 18 aprile 2018; Joint Meeting on the Ruins of the Village Mighar [Incontro insieme sulle rovine del villaggio Mighar], Israel Social TV, 7 novembre 2017; una serie di servizi della Israel Social TV sul diritto al ritorno, con interviste, tra gli altri, ad Avi-Ram Tzoreff, Jessica Nevo, Yossef(a) Mekyton e Moran Barir.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Israele: annunciati i funerali per le vittime di accoltellamento di Beersheba

Redazione

23 marzo 2022 – Middle East Eye

Due donne e due uomini sono morti dopo un attacco da parte di un cittadino palestinese di Israele del Naqab, dove è cresciuta la tensione rispetto ai piani di espellere i residenti beduini.

Israele terrà i mercoledì i funerali delle quattro vittime di un accoltellamento e di un attacco con un’auto nella regione meridionale del Naqab (conosciuta in Israele come il Negev).

Le quattro vittime, due donne e due uomini, sono morte martedì dopo una serie di attacchi iniziati fuori da un centro commerciale nella città di Beersheba.

sono stati effettuati da un cittadino palestinese di Israele della vicina città di Hura.

L’uccisione di Doris Yahbas, 49 anni, Menachem Yechezkel, 67 anni, Laura Yitzhak, 43 anni, e del rabbino Moshe Kravitzky, 50 anni, è stato il peggior attacco ai civili israeliani degli ultimi anni.

Il funerale di Yahbas avrebbe dovuto essere celebrato a Gilat, ma, secondo il Jerusalem Post, la famiglia ha chiesto ai media di non riferire sul funerale.

Follia omicida

Il sospettato, identificato come il 34enne Mohammed Abu al-Qian, è stato ucciso a colpi di arma da fuoco da passanti armati dopo otto minuti di una follia omicida che lo ha visto accoltellare e speronare persone in più località.

L’ospedale di Soroka di Beersheba ha riferito che due donne ferite nell’attacco erano entrambe in condizioni stabili.

La tribù beduina di Abu al-Qian – a cui apparteneva l’aggressore – ha “fermamente” condannato l’attacco, dicendo che “non rappresenta i membri della tribù rispettosi della legge che hanno sempre creduto nella convivenza”.

La polizia afferma di aver arrestato, in collaborazione con membri dell’agenzia di sicurezza interna israeliana Shin Bet, due fratelli di Abu al-Qian sospettati di non aver allertato le forze di sicurezza di un attacco imminente. Dovrebbero comparire in tribunale mercoledì.

Organizzazioni ebraiche e palestinesi hanno duramente condannato l’attacco di martedì.

“Questo non è il modo in cui il popolo arabo in generale, e nel Negev in particolare, agisce nella sua giusta lotta contro l’espropriazione e l’oppressione in corso”, ha twittato Aida Touma-Sliman, parlamentare del partito arabo Lista Unita.

“Metto in guardia contro l’istigazione razzista e l’uso di questo crimine per giustificare l’istituzione di milizie razziste che perseguiteranno gli arabi”.

Mercoledì, durante una riunione del Comitato degli interni della Knesset, il politico di estrema destra Itamar Ben-Gvir ha dovuto essere espulso con la forza dopo aver redarguito con urla il politico palestinese Waleed Taha, accusandolo di “istigazione”.

“Il sangue dei residenti del Negev è sulle tue mani”, ha detto Ben-Gvir a Taha.

“Hai incitato il Negev contro Israele. Non hai legittimità e non tacerò su questo”, ha aggiunto.

Alta tensione

La tensione è aumentata nel Naqab a causa dei piani del governo di espellere i beduini palestinesi dalle loro case per attuare una serie di progetti di sviluppo.

L’attacco di martedì arriva una settimana dopo che la polizia israeliana sotto copertura ha ucciso Sanad Salem al-Harbad, un cittadino palestinese di Israele di Rahat, nel sud di Israele.

Il quotidiano Haaretz la scorsa settimana ha riportato che attivisti di estrema destra, tra tensioni crescenti, hanno istituito un’unità civile armata di ranger per “salvare il Negev dalla problematica assenza di sicurezza personale”.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Israele ha chiesto all’ANP di intercedere sui detenuti perché non inizino lo sciopero della fame in difesa dei loro diritti

Redazione di Middle East Monitor

23 Marzo 2022 – Middle East Monitor

Quds Net News [una delle principali agenzie di stampa palestinesi, ndtr.] ha informato che lo Stato di Israele ha ufficialmente chiesto alla Autorità Nazionale Palestinese [ANP] di convincere i detenuti ad annullare lo sciopero della fame il cui inizio è previsto venerdì. Viene riportato che in risposta l’ANP avrebbe detto a Israele di concedere ai detenuti i diritti che spettano loro.

I detenuti hanno annunciato lo sciopero della fame come protesta contro le nuove restrizioni che le autorità israeliane hanno imposto loro.

Secondo un alto funzionario di Hamas, queste restrizioni includono una riduzione delle ore d’aria e dell’accesso alla mensa. Si afferma inoltre che i detenuti siano privati dei diritti fondamentali che includono l’istruzione e la salute.

Nel frattempo il ministro israeliano per la Sicurezza, Omar Bar-Lev, ha chiesto un incontro con il presidente dell’ANP Mahmoud Abbas prima dell’inizio del mese sacro del Ramadan, la settimana prossima. Israele e gli Stati Uniti sono preoccupati di possibili rivolte durante il Ramadan, che quest’anno concide con altre festività religiose.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




‘Non è più un problema’: sempre più porosa la barriera di separazione tra Cisgiordania e Israele

Bethan McKernan e Quique Kierszenbaum a Shuweika, Cisgiordania

21 marzo 2022 – The Guardian

Ci si interroga sui suoi scopi poiché Israele, per motivi economici, chiude un occhio sui molti varchi 

 

Sono le sei del mattino e la macchina dell’espresso borbotta in una nuova e strana attività commerciale.

Tre settimane fa Mohammed ha messo su il suo chiosco per la colazione vicino alla città cisgiordana di Shuweika e per ora l’attività sta andando bene: ogni giorno centinaia di persone ci passano davanti andando al lavoro e, oltre a caffè e sigarette, comprano pane, cetrioli e pomodori.

Due anni fa i soldati israeliani avrebbero sparato ai palestinesi che entravano in questa area larga 200 metri detta “zona di collegamento”, fra la barriera che separa Israele e Cisgiordania e la linea dell’armistizio del 1949. L’esercito pattuglia ancora appena pochi metri di distanza. Ma in una luminosa mattinata di marzo un flusso costante di pendolari passa vicino al nuovo baracchino di Mohammed per infilarsi in una vicina breccia nella recinzione, in maggioranza diretto a lavori illegali nell’edilizia, nelle pulizie e in agricoltura che si trovano in comunità israeliane dall’altra parte.

Non è più un problema,” dice un trentenne. “Sono felice di aver trovato un buon lavoro. Per anni ho fatto soldi in modi molto più pericolosi.”

Riesco a guadagnare $100 al giorno lavorando là,” dice un ragazzo con i capelli ricci che non ha voluto dirci il nome dato che attraversava illegalmente. “Ovvio che ci vado.”

Israele cominciò i lavori al controverso muro di separazione in Cisgiordania vent’anni fa per arginare gli attacchi terroristici dei palestinesi durante la seconda intifada, ma oggi la situazione del progetto, costato vari miliardi di dollari, è più fluida di come sembra.

I palestinesi sono sempre riusciti a entrare in Israele, nonostante muri e le recinzioni. Anche se non ci sono dati, negli ultimi anni dalla Cisgiordania la gente aveva cominciato ad attraversare in numeri crescenti alla ricerca di lavori pagati meglio. Ciò significava partecipare a un gioco mortale al gatto e topo con le Forze di Difesa Israeliane (IDF) [l’esercito israeliano, ndtr.], ma dall’inizio della pandemia la situazione sembra essere più tranquilla.

Dror Etkes [uno dei maggiori esperti israeliani di colonie, ndtr.] documenta per la sua ONG Kerem Navot [organizzazione che controlla e ricerca la politica fondiaria israeliana in Cisgiordania, ndtr.] costruzioni israeliane illegali nei territori palestinesi occupati e passa molto tempo attraversando la Cisgiordania in un vecchio catorcio cinese. Egli stima che al momento ci siano centinaia di brecce nella barriera che un numero sconosciuto di persone usa ogni giorno. Dice che le IDF ogni tanto scavano un nuovo fossato per fermare i veicoli, ma non hanno fatto niente per riparare nessuna di queste recinzioni.

Aggiunge: “Agli israeliani questo muro era stato venduto come una misura di sicurezza necessaria. Per come la vedo io, c’è stato un cambiamento di politica e dai soldati ci si aspetta che chiudano un occhio quando i palestinesi lo oltrepassano”.

Israele sa che deve alleviare la pressione economica in Cisgiordania e che si avvantaggia della manodopera a basso costo. Il che solleva la domanda: se [il muro] è solo una costruzione arbitraria, cosa ci sta a fare qui?”

A oggi è stato completato solo circa il 65% del percorso pianificato della barriera: la costruzione si è bloccata da molto tempo per una combinazione di giochi politici interni, battaglie legali e critiche internazionali. La maggior parte di quella costruita fino ad ora è dentro i confini della Cisgiordania, non in Israele o sulla linea dell’armistizio.

Per proteggere le colonie illegali israeliane alcune sezioni penetrano per 22 km in territorio palestinese, dividendo comunità e facendo sì che i contadini dipendano dai permessi israeliani per accedere alle proprie terre. La maggior parte della zona cuscinetto è abbandonata, coperta di immondizie e usata per discariche illegali.

In posti densamente popolati come Gerusalemme la barriera si presenta come un muro di cemento alto otto metri sormontato da filo spinato e telecamere. Però in zone più rurali è spesso costituita da strade pattugliate dall’esercito tra recinzioni metalliche parallele, talvolta rafforzate da filo spinato, fossati e strisce di sabbia per individuare le orme.

Dopo l’incontro con Mohammed, il Guardian ha visitato cinque altri punti lungo 35 km della barriera che attraversano l’angolo in alto a sinistra della Cisgiordania. Qui sono state praticate delle brecce nella recinzione per facilitare l’accesso al Triangolo, una manciata di cittadine e villaggi a maggioranza arabo-israeliana che confinano con la Linea Verde.

Tutti i varchi sono abbastanza grandi da permettere a un adulto di passare comodamente; stranamente alcuni sono accanto a cancelli chiusi o a checkpoint e telecamere visibili. Alcune persone dicono di avere permessi validi, ma che scelgono di usare i varchi nelle recinzioni perché è più veloce e facile che far la coda ai posti di blocco ufficiali, dove i soldati possono far domande e perquisirli.

In un comunicato le IDF affermano: “Danneggiare la recinzione di sicurezza per creare passaggi che permettono infiltrazioni non sorvegliate in territorio israeliano è una minaccia alla sicurezza e una chiara violazione della legge.

I soldati dell’ IDF sono schierati lungo la recinzione di sicurezza a seconda della valutazione della situazione. Le truppe usano una varietà di mezzi ai sensi delle regole di ingaggio.”

Né il ministero della difesa israeliano, responsabile della manutenzione della barriera di separazione, né il Coordinatore delle Attività del Governo nei Territori (Cogat) che implementa le politiche governative israeliane nelle zone della Cisgiordania sotto il suo controllo, hanno risposto alle domande del Guardian.

Nella zona cuscinetto vicino a Khirbat al-Aqaba una coppia di anziani su una vecchia Corolla aspetta il figlio in arrivo dall’altra parte per prendere sacchi di verdure per il ristorante dove lavora legalmente. Nella città araba di Baqa, divisa in due dopo la creazione di Israele, una signora di mezza età vestita nei suoi abiti migliori si infila con cautela dentro un varco nella recinzione e attraversa su un ponte di pallet un rivoletto fangoso per andare a trovare la sorella che vive sul lato israeliano.

E vicino a Umm al-Fahm, la breccia nella recinzione giù dalla collina dove sembra esserci un checkpoint improvvisato controllato da un gruppo di uomini del posto non responsabili della sicurezza di cittadini israeliani, è abbastanza grande da essere attraversato dalle macchine. Tracce di pneumatici nella sabbia suggeriscono che venga usata proprio a quello scopo.

Pochissimi hanno il coraggio di attraversare quando vedono le IDF pattugliare nelle vicinanze e ci sono ancora pericoli. Nel maggio 2020 dei soldati hanno attaccato alcuni lavoratori che cercavano di attraversare vicino a Faroun, gambizzando otto persone.

Ma la facilità con cui ora la gente usa le brecce nella recinzione e l’atteggiamento disinvolto mostrato da quasi tutti è un cambiamento sorprendente. Un signore anziano che cercava di passare da un lato all’altro di Baqa ha persino litigato con un’unità di pattuglia delle IDF. Invece di arrestarlo gli hanno detto di portare i suoi documenti al checkpoint ufficiale.

Fino almeno al 2019 c’erano meno varchi e di solito si attraversava pagando qualcuno: chi entrava in Israele doveva correre attraverso punti pericolosi, arrampicandosi su muri, sotto filo spinato e dentro tubature di scarico, tutto con il favore delle tenebre.

Il livello di disoccupazione in Cisgiordania ha fluttuato per parecchi anni intorno al 25% e i salari sono molto più bassi che in Israele. Una volta arrivati, molti lavoratori restavano in Israele per una settimana o più, evitando la polizia o chiunque potesse denunciarli, fino a quando non guadagnavano abbastanza da rischiare di nuovo il viaggio per tornare a casa. Anche lavorando senza diritti talvolta in condizioni pericolose valeva comunque la pena rischiare.

La pandemia ha ridotto la possibilità di arrivare in Israele anche a lavoratori asiatici e dell’Europa dell’est impiegati nei servizi e nell’edilizia, e quindi è aumentato l’appetito degli imprenditori israeliani per manodopera palestinese con paghe basse nonostante il rischio di irruzioni, blocchi del lavoro e multe per i datori di lavoro che vengono scoperti.

Un tale ampio flusso di persone pone un’innegabile sfida alla sicurezza. Alcuni dei lavoratori illegali che attraversano si chiedono se la tecnologia israeliana di sorveglianza sia abbastanza sofisticata da sorvegliare persone sospette provenienti da lontano o se alcuni dei palestinesi che fanno gli ambulanti, i guardiani di parcheggi improvvisati e i taxisti e che ora lavorano intorno alle brecce siano informatori dello Shin Bet, il servizio di sicurezza interna israeliano.

Per adesso i più sembrano contenti di approfittare delle opportunità economiche create dalla barriera sempre più porosa. Su un altopiano spazzato dal vento sopra Zemer, un comune in Israele creato dalla fusione di quattro villaggi palestinesi, Mohammed Bakir, suo figlio e parecchi dipendenti cisgiordani con permesso di lavoro stanno spianando con i bulldozer la terra vicino a casa nella zona cuscinetto sperando di coltivarla.

Dopo l’evasione dal carcere di Gilboa lo scorso settembre tutti i varchi sono stati chiusi e i suoi operai non hanno potuto entrare in Israele per parecchi giorni mentre le autorità davano la caccia ai sei evasi. La famiglia sa che lo status quo può cambiare e che potrebbero dover abbandonare il progetto, ma crede che valga comunque la pena.

Dall’alto dell’altopiano fangoso si vedono i bianchi boccioli di mandorli e biancospini volteggiare sull’immondizia e la spazzatura vicino alla recinzione sottostante. La barriera serpeggia a destra e sinistra, uno strano serpente grigio che divide il paesaggio tra un prima e un dopo.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Cosa c’entra l’Ucraina con la Palestina?

Ali Abunimah

18 marzo 2022 – THE ELECTRONIC INTIFADA

Da quando la Russia ha invaso l’Ucraina alla fine del mese scorso, non sono mancati i confronti con la situazione in Palestina.

Per molti dei sostenitori dei diritti dei palestinesi è istintiva l’identificazione con l’Ucraina in quanto Paese sotto attacco che si difende da una forza molto più potente.

Nessuno può restare indifferente di fronte alle scene di civili che vivono l’orrore della guerra e allo sconvolgimento delle vite di milioni di persone quando divengono rifugiati.

Gli attivisti per i diritti dei palestinesi hanno anche notato i parallelismi – e le risposte molto diverse e ipocrite – tra gli appelli al boicottaggio di Russia e Israele, nonché nell’applicazione selettiva del diritto internazionale.

Mentre la Russia è stata praticamente tagliata fuori dal mondo, Israele continua a godere dell’impunità mentre occupa e colonizza la terra dei palestinesi e impone loro un brutale regime di apartheid.

Siamo come voi

Naturalmente, l’identificazione dell’Ucraina con la difficile situazione dei palestinesi è una cosa che i leader ucraini rifiutano con insistenza. Identificano sé stessi con Israele e i loro nemici russi, presumibilmente, con i palestinesi.

A dicembre, ad esempio, il presidente Volodymyr Zelensky ha affermato che Israele è preso “spesso ad esempio dall’Ucraina” e ha affermato che “sia gli ucraini che gli ebrei apprezzano la libertà“.

“Sappiamo cosa vuol dire non avere un [proprio] Stato”, ha aggiunto Zelensky. Sappiamo cosa significa difendere un proprio Stato e la propria terra con le armi in mano, a costo della propria vita”.

Secondo il Jerusalem Post, Zelensky ha anche proclamato “nel difendere la nostra patria dovremmo comportarci come Israele”.

E’ risaputo che lo scorso maggio il leader ucraino ha dipinto Israele come vittima mentre i suoi aerei bombardavano Gaza massacrando dentro le loro case intere famiglie palestinesi.

A febbraio, prima dell’invasione russa, i funzionari ucraini si sono persino lamentati del fatto che Israele trattasse il loro paese “come Gaza” non fornendo loro abbastanza sostegno, il che implica che tali presunti maltrattamenti dovrebbero essere riservati ai palestinesi, non agli ucraini.

I funzionari ucraini hanno insistito su questa identificazione con Israele sin dall’inizio dell’invasione russa.

Penso che il nostro esercito sia uno dei migliori al mondo. Forse dopo l’esercito israeliano”, ha detto a Jerusalem Post [testata quotidiana in lingua inglese, ndtr.] Markiyan Lubkivskyi, un consigliere del ministro della Difesa ucraino. L’esercito è molto forte grazie all’esperienza e il morale è molto elevato, la motivazione è ottima. Siamo come voi”.

Lo stesso giornale ha riportato che Vitali Klitschko, sindaco della capitale ucraina Kiev, “afferma che i suoi modelli su come vincere contro ogni previsione sono Israele – un paese che ha visitato e ammira – e le IDF [esercito israeliano]”.

“Dobbiamo imparare da Israele come difendere il nostro Paese, con ogni cittadino”, ha detto Klitschko.

Intrecciate

Secondo il professore della Columbia University Joseph Massad, da qualunque parte si esamini l’argomento le connessioni esistenti con la questione palestinese sono più profonde.

“La Russia e l’Ucraina hanno entrambe relazioni e vicende che fanno parte della storia della regione che l’Occidente ha finito per chiamare Medio Oriente”, ha detto Massad a Rania Khalek questa settimana nel suo programma BreakThrough News Dispatches [Approfondimento delle notizie, organo d’informazione online no profit e indipendente con sede negli USA ndtr.].

Massad ha osservato che l’Ucraina meridionale e la Crimea erano ex regioni ottomane conquistate dagli zar russi tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo.

La città coloniale ucraina di Odessa sul Mar Nero, un tempo la città ottomana di Haci Bey, fu il luogo in cui nacque all’inizio del XIX secolo il nazionalismo greco anti-musulmano e alla fine dello stesso secolo il sionismo ebraico colonialista, ha detto Massad.

“In effetti, i primi coloni ebrei che vennero a colonizzare la Palestina nel 1880 furono ebrei ucraini dell’insediamento coloniale di Odessa”.

La Crimea è stata persino identificata durante il periodo sovietico come un potenziale sito per una repubblica ebraica autonoma, un piano che venne abbandonato a causa della forte resistenza della popolazione tartara della Crimea.

Nei tempi attuali “Sia l’Ucraina che la Russia hanno politiche che sono intrecciate con il Medio Oriente”, ha osservato Massad.

L’Ucraina, ad esempio, ha fornito il terzo più consistente contingente militare per partecipare nel 2003 all’invasione e all’occupazione illegale dell’Iraq sotto la guida degli Stati Uniti.

“Per quanto riguarda la Russia, ovviamente [il presidente Vladimir] Putin ha anche avuto ottimi rapporti con Israele, allo stesso tempo è intervenuto in Siria contro gli jihadisti nemici del regime e sostenuti dagli americani e dagli Stati del Golfo”, ha detto Massad.

Tuttavia il suo intervento in Siria ha continuato a permettere agli israeliani di bombardare la Siria, ma non gli jihadisti”.

Massad ha anche sollevato la questione degli ebrei ucraini, a cui Israele chiede “di emigrare in Israele in modo da trasformarli in coloni sulla terra dei palestinesi”.

La conversazione di Massad con Khalek fornisce una grande quantità di dettagli e informazioni sulla situazione in Ucraina e sulle risposte occidentali, inclusa un’intensa ondata russofobica che rispecchia i precedenti attacchi di xenofobia che si accompagnano regolarmente alle guerre e interventi all’estero dell’America.

Informazioni che toccano anche il conformismo del pensiero e la censura nelle democrazie liberali occidentali e altri temi che Massad ha recentemente affrontato in un articolo per Middle East Eye.

È una discussione affascinante che puoi guardare nel video in cima a questa pagina.

Ali Abunimah

Co-fondatore di The Electronic Intifada e autore di The Battle for Justice in Palestine [la battaglia per la giustizia in Palestina, ndtr.], ora uscito per Haymarket Books.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)