Quello che gli ebrei israeliani non capiscono di Al-Aqsa

Hanin Majadli

26 aprile 2022 – Haaretz

Chi controlla la montagna governa il paese,” scrisse il poeta nazionalista israeliano Uri Zvi Greenberg. E gli abitanti di Gerusalemme Est rispondono che chi governa Al-Aqsa governa Gerusalemme. Non c’è un posto in Israele più chiaramente palestinese di Gerusalemme Est. Gli arabi in Israele hanno subito un processo di israelizzazione e istitutizionalizzazione, i palestinesi in Cisgiordania sono soggetti al dominio militare e a Gaza vivono come in una prigione.

In effetti gli unici palestinesi senza “israelianità” in tutte le sue forme sono i gerosolomitani orientali. Non solo in termini di consapevolezza, ma nella realtà, nelle loro vite quotidiane che sono rimaste legate, sotto quasi tutti gli aspetti, alla Cisgiordania più che a Gush Dan, l’area metropolitana di Tel Aviv.

Entro le mura della Città Vecchia gli abitanti di Gerusalemme Est si sentono padroni o almeno pari persino ai loro padroni. Qui i palestinesi riescono, in un modo o in un altro a essere liberi dalle catene del dominio israeliano, che sia a causa dello status quo, per l’esplosività del posto, per l’opinione pubblica internazionale o per l’assenza di governo – scegliete voi la risposta giusta. Ecco perché non sono disposti a essere privati delle abitudini essenziali della propria identità comunitaria, religiosa e nazionale, nella propria casa, nella propria città e nella propria moschea.

Recentemente ho sentito parecchie persone, non necessariamente quelle la cui massima priorità è incoraggiare la visita al Monte del Tempio (anzi proprio il contrario), dire che anche se capiscono che il Ramadan è un mese particolarmente sacro e nonostante il proprio sostegno all’idea che il governo dovrebbe impedire agli ebrei di andare ad Al-Aqsa durante tale mese, non comprendono perché debba essere un problema anche quando gli ebrei si recano al Monte del Tempio per pregare. In silenzio, nella parte orientale del complesso.

Secondo loro, dopotutto, è un luogo sacro per entrambe le parti. I palestinesi non devono rinunciare a nulla e gli ebrei non “distruggono la moschea di Al-Aqsa” né “ci costruiscono il [Terzo] Tempio,” e allora dove sta il problema nel permettere anche agli altri di esprimere il proprio legame religioso? Dove sta il problema quando si prega insieme?

Se stiamo già parlando di un legame, allora ecco le domande: “Perché Israele non dovrebbe permettere a tutti i palestinesi di avere la disponibilità dei propri legami?. Dopotutto i palestinesi hanno anche un forte legame con ogni luogo di questo Paese, quindi perché impedire loro di viverci? Perché abbiamo bisogno di una legge razzista sulla cittadinanza che vieta loro di metter su famiglia e vivere ad Haifa o a Be’er Sheva [Biʾr al-Sab in arabo, la più grande città nel deserto del Negev, nel sud del Paese, ndtr.]?”.

Perché? Per il contesto. È sempre “il contesto.” O, detto in altre parole: l’occupazione e la lotta nazionale palestinese. Ecco ciò di cui ha paura Israele, la fonte di restrizioni e preclusioni. Per lo stesso motivo, e come se fosse una risposta a tutto ciò, Al-Aqsa negli ultimi anni è diventata un simbolo nazionale palestinese.

Non è più solo una normale moschea e il legame con essa non è solo più religioso. Rappresenta il simbolo della vittoria nazionale palestinese sull’ultranazionalismo ebraico. Questa vittoria si è ottenuta poiché l’area di Al-Aqsa è l’unico luogo in cui Israele si astiene dall’esercitare il controllo totale e tale situazione è sancita dalla legge. Persino per un regime occupante e oppressivo come quello israeliano la complessità è troppo grande. Il mondo musulmano osserva e minaccia di intervenire.

La determinazione dei gerosolomitani orientali e la loro battaglia contro i manganelli e i lacrimogeni delle forze di polizia sono diventate un simbolo di resistenza effettiva e anche un modo per comunicare un messaggio chiaro: “Noi non vi permetteremo di controllare Al-Aqsa perché è l’ultimo pezzo rimasto sotto il controllo palestinese e nessun palestinese ci rinuncerà.”

E visto che nel mese di Ramadan i palestinesi arrivano da varie località, sia religiosi osservanti che persone che non pregano, musulmani e cristiani (sì, persino loro), sia il Ramadan che Al-Aqsa sono ormai non solo simboli religiosi, ma anche emblemi nazionali. L’anno prossimo nella Palestina ricostruita. [riferimento ironico all’augurio con cui gli ebrei concludono la Pasqua “L’anno prossimo a Gerusalemme, ndt.]

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)