Gli Stati Uniti elimineranno il diritto alla libertà di parola per servire Israele?

Nora Barrows-Friedman

27 giugno 2022-The Electronic Intifada

La scorsa settimana la Corte Suprema degli Stati Uniti ha annullato il diritto delle donne di prendere la decisione autonoma sull’interruzione di gravidanza.

Quello che era stato un diritto costituzionalmente stabilito per 50 anni è stato abrogato con un tratto di penna. Ciò ha fatto seguito a decenni di lavoro incessante da parte di gruppi di destra contro l’aborto, inclusi eminenti legislatori, per erodere i diritti all’assistenza sanitaria e al controllo sul proprio corpo, sulla propria famiglia e sul proprio futuro.

La maggioranza degli americani vede il ribaltamento di Roe vs. Wade come un serio passo indietro per i diritti delle donne e teme che altri diritti possano ora essere in pericolo. In effetti, la stessa corte potrebbe decidere di impedire a consumatori, aziende, pubblicazioni e appaltatori statali di esercitare il loro diritto di impegnarsi in boicottaggi politici, un diritto riconosciuto da decenni da quella istituzione.

Annullando la propria decisione del 2021, il 22 giugno la Corte d’Appello dell’ottavo circuito federale ha stabilito che il boicottaggio di Israele non è protetto dal Primo Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti.

L’American Civil Liberties Union (ACLU) ha confermato che farà appello alla Corte Suprema. Se la Corte Suprema accetterà di esaminare il caso, potrebbe creare un precedente importante per proteggere i boicottaggi come azione politica o, se la corte fosse d’accordo con l’8° circuito, accelerare lo smantellamento del diritto alla libertà di parola. Se la Corte Suprema deciderà di non esaminare il ricorso, la decisione dell’8° Circuito rimarrà valida [e definitiva, ndt].

La sentenza si concentrava su un caso sollevato in Arkansas dall’editore di The Arkansas Times che si era visto porre come condizione per ricevere contratti statali una dichiarazione che il giornale non avrebbe boicottato Israele.

Secondo Palestine Legal, un gruppo che difende gli attivisti per i diritti dei palestinesi dagli attacchi legali, più di 30 Stati degli Stati Uniti hanno approvato misure che condannano o tentano di limitare la campagna di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS) per i diritti dei palestinesi.

Incoraggiati dai gruppi di pressione israeliani e dallo stesso governo israeliano, diversi politici affermano che rifiutarsi di acquistare prodotti israeliani e criticare le violazioni dei diritti umani da parte di Israele – o la sua ideologia di stato sionista – equivale a fanatismo antiebraico.

La legge dell’Arkansas del 2017, che è stata annullata nel 2021, richiedeva allo Stato di creare una lista nera di società che boicottavano Israele e costringeva gli enti pubblici a disinvestire dalle società segnalate nella lista nera.

La parte della legge in questione in questo caso è il requisito che gli appaltatori statali forniscano una certificazione scritta che non boicottano e non boicotteranno Israele.

La Corte d’appello dell’ottavo circuito ha stabilito nel febbraio 2021 che la legge dell’Arkansas era incostituzionale perché si trattava di un tentativo da parte di un ente governativo di impedire un discorso politico.

Ma la scorsa settimana un gruppo più numeroso di giudici della stessa Corte ha annullato la decisione. Tale voltafaccia “ignora la storia dei precedenti e considera la legge statale come una restrizione a una condotta esclusivamente commerciale che non comporta alcun messaggio politico”, ha affermato Palestine Legal.

“Nel sostenere la legge anti-BDS dell’Arkansas la Corte ha rifiutato di affrontare la realtà che queste leggi fanno parte di uno sforzo per proteggere Israele dalle sue responsabilità”, ha aggiunto l’organizzazione. La decisione “è un attacco al nostro diritto di dissentire dallo status quo”.

Pubbliche relazioni” per Israele

Rappresentato dall’ACLU, l’editore Alan Leveritt ha intentato la causa iniziale nel 2019 dopo che l’Università dell’Arkansas-Pulaski Technical College “ha informato l’Arkansas Times che doveva firmare una certificazione che non si sarebbe impegnata in un boicottaggio di Israele se avesse voluto continuare a ricevere contratti pubblicitari” dall’Università, come riportato all’epoca dal quotidiano.

Leveritt ha rifiutato e il giornale ha perso il contratto con l’Università.

Ha detto alla NBC che il giornale non stava “cercando una rissa”.

Ma quando le agenzie statali chiedono ai giornalisti di firmare un impegno politico, Leveritt ha aggiunto: “Non sei più un giornalista. Sei nelle pubbliche relazioni”.

Un giudice federale ha respinto il caso iniziale di Leveritt nel gennaio 2019, stabilendo che i boicottaggi politici non sono protetti dal Primo Emendamento.

Ma l’ACLU ha presentato ricorso, affermando che la legge viola chiaramente le tutele costituzionali “punendo i boicottaggi politici non graditi”.

Lo scorso anno le principali lobby pro Israele hanno criticato la sentenza iniziale della Corte d’appello e successivamente hanno elogiato la recente inversione di tendenza.

Brian Hauss dell’ACLU ha dichiarato: “speriamo e ci aspettiamo che la Corte Suprema metta le cose a posto e riaffermi l’impegno storico della nazione a fornire una solida protezione ai boicottaggi politici”.

Tali boicottaggi hanno svolto un ruolo chiave nel movimento per i diritti civili per porre fine alla supremazia bianca legalmente formalizzata negli Stati Uniti e, più recentemente, sono stati utilizzati con successo per sfidare le leggi discriminatorie in alcuni Stati (degli USA).

Julia Bacha, una regista il cui nuovo documentario, “Boycott”, si concentra sulla lotta contro le misure anti-BDS, ha avvertito che la sentenza dell’8th Circuit Court ha implicazioni di vasta portata per altre azioni politiche.

Ha notato che misure simili che mirano a proibire i boicottaggi delle industrie dei combustibili fossili e delle armi da fuoco sono già state presenti nelle legislature statali.

E ha implorato gli attivisti di ritenere i legislatori democratici ugualmente responsabili per la loro complicità “nell’aprire il vaso di Pandora quando hanno sostenuto in modo schiacciante i progetti di legge anti-BDS”.

Palestine Legal ha affermato che “le cattive decisioni dei tribunali non possono fermare un movimento che si batte per principi di giustizia”.

In mezzo alla proliferazione di leggi anti-boicottaggio “mirate ad altri movimenti per la giustizia sociale, questa decisione costituisce un pericoloso precedente per chiunque sia interessato a cercare un cambiamento sociale, politico o economico”, ha aggiunto l’organizzazione.

Ma, ha spiegato Palestine Legal, “anche mentre queste battaglie si svolgono nelle aule di tribunale e nei parlamenti degli Stati, il fondamentale lavoro organizzativo continua verso il nostro obiettivo finale: libertà e giustizia in Palestina, negli Stati Uniti e altrove.”

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




90 organizzazioni sollecitano la Commissione Indipendente Internazionale di Indagine sulla Palestina dell’ONU a riconoscere e affrontare il colonialismo sionista di insediamento e l’apartheid quali cause alla radice delle continue violazioni di Israele.

Al Haq

28 giugno 2022 – Al-Haq, Defending Human Rights

Il 31 maggio 2022 Al-Haq e 90 organizzazioni palestinesi e internazionali hanno inviato alla Commissione Internazionale Indipendente di Indagine sulla Palestina delle Nazioni Unite (CoI) una richiesta congiunta di esame del colonialismo sionista di insediamento e dell’apartheid come cause alla radice delle perduranti violazioni dei diritti inalienabili del popolo palestinese. La richiesta congiunta è una risposta al mandato unico assegnato alla CoI istituita (dal Consiglio dei Diritti Umani dell’ONU, ndtr.) nel maggio 2021, il primo ente investigativo dell’ONU incaricato di esaminare le cause profonde alla radice della sistematica discriminazione e repressione dell’intera Palestina colonizzata, consentendo così di riconoscere che le violazioni israeliane in Palestina sono radicate nel progetto coloniale di insediamento storico e attuale e di considerare il popolo e il territorio palestinese come un insieme che si autodetermina, invece di un popolo e un territorio frammentati.

Le organizzazioni richiedenti riconoscono che lo specifico mandato della CoI è principalmente relativo alla popolazione palestinese sul campo che nel maggio 2021 si è mobilitata in una lotta collettiva di resistenza popolare. Questa resistenza popolare è una sfida a 73 anni di frammentazione imposta dalla colonizzazione israeliana di insediamento e apartheid con quella che è nota come Intifada/Rivolta dell’Unità.

Prima di analizzare il regime di colonialismo sionista di insediamento e di apartheid come cause alla radice delle perduranti violazioni di Israele, il documento spiega la necessità che sta dietro a questa impostazione, alternativa alla narrativa egemone riguardo alla Palestina, che dipinge ancora la situazione come “conflitto israelo-palestinese”, incentrato ‘solo’ sull’occupazione a partire dal 1967. Adottare l’impostazione basata sul colonialismo di insediamento e sull’apartheid consente di considerare la condizione del popolo palestinese nella sua complessità. Ciò sposta il discorso da un focus sulle cosiddette soluzioni politiche alla lotta per l’autodeterminazione, finalizzata a smantellare il regime israeliano di colonialismo di insediamento, invece di perseguire “modifiche” alle condizioni di vita sotto il dominio del sionismo, o una “uguaglianza liberale”.

Il documento congiunto approfondisce poi la storia del movimento sionista di colonialismo di insediamento, intendendo lo Stato coloniale israeliano come un prodotto di tale movimento. Il documento si occupa della nascita del movimento sionista alla fine del XIX secolo e di come esso abbia adottato insieme le ideologie di autoidentificazione razziale delle persone di fede ebraica e di colonialismo di insediamento, che comporta l’eliminazione della popolazione nativa e l’annessione delle sue terre a beneficio del gruppo razziale colonizzatore costituito ex-novo.

Le organizzazioni sottolineano come il movimento sionista abbia utilizzato un apparato proto-statale e sia stato complice delle potenze imperialiste per “creare una patria in Palestina garantita dal diritto pubblico per il popolo ebraico”. Il documento rileva il ruolo illegittimo della Gran Bretagna nel facilitare la colonizzazione sionista in Palestina, in violazione della Convenzione della Lega delle Nazioni che prevedeva il riconoscimento provvisorio dell’indipendenza del popolo palestinese ed il suo diritto all’autodeterminazione, e in violazione dell’obbligo della potenza mandataria di amministrare il territorio nell’interesse del popolo autoctono palestinese.

Inoltre il documento prende in esame la pianificazione del trasferimento e ricollocazione del popolo palestinese prima della Nakba da parte del movimento sionista di colonialismo di insediamento, analizzando il “Piano Dalet” [piano militare messo a punto dalla dirigenza sionista per espellere i palestinesi dal loro territorio, ndtr.) e la sua attuazione, che portò alla distruzione di almeno 531 villaggi palestinesi e all’espulsione della loro popolazione indigena, cosa che trasformò l’80% dei palestinesi in rifugiati e sfollati interni nel loro stesso Paese.(1) Quindi la creazione dello Stato di Israele sul 77% della Palestina fu il culmine del movimento sionista di colonialismo di insediamento, ma non ne fu la fine. Lo Stato coloniale israeliano adottò l’ideologia sionista del trasferimento e reinsediamento della popolazione palestinese autoctona, instaurò ed istituzionalizzò un regime di dominazione razziale ebraica e di oppressione del popolo palestinese che configura il crimine di apartheid.

Il documento esamina poi il regime di apartheid di Israele, prendendo in considerazione la serie di leggi e di politiche sviluppate da Israele fin dalla sua creazione, in particolare negli ambiti della terra, della pianificazione urbanistica, della nazionalità, residenza e immigrazione, operando una netta separazione tra la popolazione palestinese indigena e gli ebrei israeliani, in modo da legalizzare e legittimare i crimini commessi prima della Nakba e garantire la continuità dei trasferimenti e spoliazioni. Il documento spiega come queste politiche e piani di apartheid proseguano dopo l’occupazione bellica, per mantenere il dominio e la sottomissione dei palestinesi su entrambi i lati della Linea Verde [confini stabiliti dagli accordi di armistizio del 1949 tra Israele e i Paesi arabi, ndtr.).

Viene poi presa in esame la frammentazione strategica del popolo palestinese da parte di Israele, come strumento per consolidare il proprio regime di apartheid mediante il diniego ai rifugiati palestinesi del diritto al ritorno, l’imposizione di restrizioni alla libertà di movimento, alla residenza e all’ingresso e la negazione della vita familiare.

Il documento analizza l’intenzione di Israele di mantenere il proprio regime di apartheid annientando la resistenza palestinese attraverso il governo militare, le uccisioni deliberate, la repressione delle manifestazioni, la detenzione arbitraria, la tortura ed altri abusi e punizioni collettive, come anche tramite campagne diffamatorie contro associazioni e individui difensori dei diritti umani che cercano di sfidare il regime di apartheid.

In conclusione, le organizzazioni denunciano l’impunità di Israele ed il ruolo della comunità internazionale nel rendere possibile la colonizzazione della Palestina. Le organizzazioni apprezzano la CoI come promettente opportunità di riconoscere la situazione nella Palestina colonizzata per ciò che è e di agire in prospettiva della decolonizzazione, di una vera giustizia e di risarcimenti al popolo palestinese. 

    1. Ilan Pappe, The Ethnic Cleansing of Palestine, Oneworld, 2007 [La pulizia etnica in Palestina, Fazi, 2008].

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




La striscia di Gaza: una crisi israeliana, non climatica

Dotan Halevy

28 giugno 2022 – Haaretz

L’Institute for National Security Studies [INSS- Istituto per gli Studi sulla Sicurezza Nazionale, centro di studi indipendente, ma legato all’esercito e diretto dall’ex-generale Amos Yadlin, ndtr.] di Tel Aviv ha pubblicato recentemente un rapporto allarmante sulle catastrofiche conseguenze nella Striscia di Gaza in conseguenza della crisi climatica. Il documento, pubblicato anche da Ynet, [sito di notizie del quotidiano Yedioth Ahronot, ndtr.] solleva preoccupati interrogativi sulle pessime condizioni della popolazione civile palestinese a Gaza e suggerisce varie possibili misure per bloccarne il declino.

Questa è davvero una questione cruciale. Il cambiamento climatico sta rapidamente colpendo il Medio Oriente e richiede analisi e azioni urgenti. Tuttavia l’INSS sembra ritenere che la situazione umanitaria a Gaza sia un dato di fatto, causato da una “combinazione di fattori”, fra cui il conflitto con Israele. Questo è un punto di vista errato che nasconde deliberatamente il fatto che il motivo principale per cui gli abitanti di Gaza sono significativamente più esposti agli effetti della crisi climatica è il blocco israeliano.

Condurre la popolazione civile di Gaza sull’orlo del disastro umanitario è un obiettivo deliberato e quasi dichiarato delle politiche israeliane nei confronti di Gaza. Perciò, indipendentemente da qualsiasi misura fantasiosa si prenda per alleviare la crisi idrica o quella energetica nella Striscia, il governo israeliano deve prima riconoscere che isolare Gaza dalla Cisgiordania e da Israele è immorale e inefficace e deve essere fermato.

Nel mondo in cui viviamo non esistono più le economie autarchiche basate sulle risorse. Eppure con il blocco di Gaza ci si aspetta che un territorio con 2,1 milioni di abitanti sussista con acqua desalinizzata pompata principalmente nel proprio territorio. La scadente qualità dell’acqua a Gaza è presentata dagli israeliani come il risultato di “estrazione eccessiva” dalle falde acquifere locali, nonostante il fatto che non esista una sola regione in Israele, o più precisamente nel mondo, che sia costretta a fornire acqua a milioni di persone con questo metodo.

L’INSS afferma che la fornitura elettrica di Gaza è limitata per mancanza di soldi e combustibile, ma quello che non dice è che Israele usa spesso misure punitive collettive contro la popolazione locale e impedisce l’ingresso al carburante anche quando ci sarebbero i fondi. Ma anche se il carburante fosse abbondante, quasi nessuna delle infrastrutture e degli impianti disponibili per distribuire l’energia sono funzionanti a causa dei recenti bombardamenti israeliani.

Israele sta ritardando l’ingresso di migliaia di pezzi di ricambio necessari al buon funzionamento di sistemi idrici ed elettrici e questo ne compromette la continuità operativa. Secondo l’organizzazione Gisha, [ong israeliana che protegge la libera circolazione dei palestinesi, in particolare di Gaza, ndtr] gli impianti idrici ed elettrici a Gaza hanno bisogno di migliaia di pezzi di ricambio. L’INSS concorda che limitare l’ingresso di parti che Israele classifica come a “doppio uso”, cioè di materiali necessari per la costruzione e lo sviluppo, ma che possono anche avere scopi militari, mina qualsiasi tentativo di ricostruire la rete elettrica. 

In breve, Israele sta deliberatamente condannando gli abitanti di Gaza a gelare d’inverno e a morire di caldo d’estate (immaginate una notte di agosto nelle pianure costiere israeliane senza un condizionatore d’aria o un ventilatore), limitando il pompaggio di acqua e il drenaggio fognario e restringendo a poche ore al giorno tutti i servizi essenziali, inclusi quelli medici.

L’inchiesta afferma, in un certo senso favorevolmente, che a Gaza la fornitura di elettricità si affida sempre di più ai pannelli solari. L’INSS la vede come un’opportunità per incoraggiare la dipendenza da energie rinnovabili. Che cinismo! Magari seguendo il modello della fornitura idrica, la rete elettrica di Gaza sarà limitata solamente allo sfruttamento dei raggi di sole che passano fra le recinzioni lungo i confini.

Potremmo analizzare molti altri esempi: dovremmo preoccuparci dell’aumento della concentrazione di CO2 nelle acque del Mediterraneo e del declino di pesce disponibile da consumare a Gaza come risultato della crisi climatica? Israele comunque espande e limita come meglio crede le zone di pesca di Gaza e impedisce intenzionalmente ai suoi pescatori di guadagnarsi da vivere con la loro unica risorsa naturale direttamente accessibile. Persino le discussioni sul declino della quantità d’acqua piovana possono aspettare. Per prima cosa gli elicotteri israeliani per l’irrorazione di pesticidi dovrebbero smettere di usarli quando distruggono le zone erbose intorno alle aree di confine (“ripulire il terreno”) danneggiando le zone agricole di Gaza adiacenti alle recinzioni perimetrali.

La Striscia di Gaza non è particolarmente esposta ai danni del cambiamento climatico a causa della sua posizione geografica o del suo clima. Non è una regione climaticamente unica e autonoma, ma è al contrario un’enclave politica incastrata entro confini artificiali. Dal 1949, con l’accordo sul cessate il fuoco con l’Egitto, Gaza è stata isolata dalle zone di espansione agricola e dai bacini idrici che la rifornivano d’acqua. Dopo il 1967 è stata utilizzata da Israele come un serbatoio di manodopera a basso costo e un mercato monopolizzato dai prodotti israeliani e dal 2007 con il blocco militare israeliano è stata trasformata in quello che molti considerano “la più grande prigione a cielo aperto nel mondo.” Oggi la tragica situazione umanitaria a Gaza non è un errore, ma una componente delle politiche israeliane. Con o senza la crisi climatica.

Se volessimo stabilire un nesso fra la situazione a Gaza e la crisi climatica sarebbe più preciso pensarlo come una finestra affacciata sul panorama da incubo di un mondo immerso nella rivalità per le risorse e la creazione di enclave ambientali per popolazioni indesiderabili. La Striscia di Gaza è essenzialmente un aquario dimenticato in cui forze esterne onnipotenti determinano l’ammontare, i tempi e le circostanze dell’ingresso di cibo e risorse. A seconda delle intenzioni di questo potere esterno il livello di sussistenza potrebbe precipitare al punto da mettere a rischio la sopravvivenza (un disastro umanitario) o, se invece lo volesse, il benessere sarebbe a disposizione.

In un momento di peggioramento delle condizioni ambientali non è da escludere il timore che Paesi potenti adottino il modello dell’Acquario Gaza, imprigionando popolazioni nemiche, restringendo il loro accesso ad acqua ed energia e nutrendole o affamandole a loro piacimento. Tutto ciò, naturalmente, in base a considerazioni di sicurezza nazionale e alle leggi degli Stati sovrani per proteggere se stessi. La miseria, la fame e la disperazione risultanti possono essere convenientemente spiegate come il risultato del riscaldamento globale.

Molti sostengono che Israele abbia un importante ruolo da giocare nell’implementare riforme globali verso una transizione verso energie pulite ed economie sostenibili. Non perché Israele sia un grande inquinatore di diossido di carbonio, ma perché la sua capacità tecnologica e la sua rilevanza geopolitica ne possono fare un modello e una fonte di soluzioni per altri Paesi. Noi possiamo solo sperare che il modello che gli altri sceglieranno di implementare non sia quello che Israele ha adottato per la Striscia di Gaza.

È buono e giusto considerare seriamente la nostra preparazione per gli scenari da incubo che potrebbero verificarsi a causa della crisi climatica. Ma è persino più decisivo che questo dibattito non nasconda il fatto che le ragioni per cui certe popolazioni sono più esposte di altre sono chiaramente politiche. 

Le soluzioni della crisi a Gaza non saranno trovate con metodi fantasiosi per evitare questo problema, mantenendo allo stesso tempo l’isolamento di Gaza dal resto del mondo, ma riconnettendola al suo contesto geografico ed economico, aprendo prima di tutto i checkpoint al flusso regolare di merci e persone e poi connettendo la Striscia alle reti energetiche e idriche israeliane. Vale la pena di menzionare che, a causa del considerevole controllo israeliano del territorio palestinese, il diritto internazionale e l’etica impongono che si occupi della popolazione civile sotto il suo controllo. 

Che a Israele piaccia o no, 40 anni di occupazione de facto e altri 15 anni di blocco militare di Gaza implicano delle responsabilità. I danni causati durante tutto questo tempo e che stanno ancora continuando non si possono più imputare alla crisi climatica.

Dotan Halevy è un ricercatore post-dottorato della Polonsky Academy presso il Van-Leer Jerusalem Institute.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




La mossa israeliana di accatastare terreni adiacenti ad al-Aqsa provoca timori che intenda impossessarsene

Redazione di MEE

27 giugno 2022 – Middle East Eye

Associazioni per i diritti umani affermano che ci sono voci secondo cui il governo israeliano potrebbe cercare di registrare l’area a sud della moschea di Al-Aqsa come terra dello Stato.

Lunedì alcune associazioni per i diritti umani hanno messo in guardia che la decisione del governo israeliano di iniziare la procedura per la registrazione della proprietà dei terreni adiacenti alla moschea di Al-Aqsa nella Gerusalemme est occupata rischia di consentire un’appropriazione che avrebbe “gravi conseguenze di ampia portata”.

La scorsa settimana il ministero della Giustizia ha iniziato il “procedimento di definizione dell’attribuzione fondiaria” nella zona di Abu Thor così come del sito dei palazzi omayyadi [dinastia araba insediata a Damasco tra il 661 e il 750 d.C., ndt.] adiacenti al muro meridionale della moschea di Al-Aqsa.

L’operazoine sta facendo ricorso a un fondo governativo destinato a “ridurre le diseguaglianze socio-economiche” e a “creare un futuro migliore” per i palestinesi della città.

Tuttavia, secondo un comunicato congiunto delle associazioni israeliane per i diritti umani Ir Amim e Bimkom visionato da Middle East Eye, questo fondo è stato largamente utilizzato per registrare al catasto terreni per le colonie illegali e in ultima istanza porterà a un’ulteriore spoliazione dei palestinesi.

Le ONG con sede a Gerusalemme affermano che ci sono voci secondo cui il governo israeliano starebbe cercando di registrare la zona a sud della Moschea di Al-Aqsa come terra dello Stato.

“(Il procedimento) potrebbe portare a conseguenze disastrose per centinaia di case palestinesi ad Abu Thor, mentre l’altro potrebbe provocare una grave accentuazione delle tensioni a causa della sua ubicazione estremamente sensibile nelle immediate vicinanze di Al-Aqsa,” afferma il comunicato congiunto.

Secondo i media palestinesi lunedì Sheikh Najeh Bakirat, vicedirettore del waqf [ente benefico religioso, ndt.] islamico di Gerusalemme, ha detto che modificare la proprietà dei palazzi omayyadi non è lecito e viola la Convenzione di Ginevra.

Il controllo israeliano su Gerusalemme est, compresa la Città Vecchia, viola una serie di principi delle leggi internazionali che stabiliscono che una potenza occupante non ha la sovranità sui territori occupati e non può apportarvi alcun cambiamento permanente.

A Gerusalemme est quasi il 90% dei terreni non è registrato, in quanto nel 1967, in seguito all’occupazione della città, le autorità israeliane interruppero gli accatastamenti.

Nel 2018 il governo ha iniziato per la prima volta a promuovere “la definizione della procedura della proprietà fondiaria”.

Tuttavia nel 2020, dopo un anno di monitoraggio del procedimento, secondo Ir Amim esso è stato utilizzato come strumento per “impossessarsi di altra terra a Gerusalemme est, portando a un’espansione delle colonie israeliane e ulteriore spoliazione dei palestinesi.”

Espulsione di massa

L’area a sud della moschea di Al-Aqsa è particolarmente sensibile a causa dei continui interventi nella zona del governo israeliano e dei coloni che potrebbero sostituire gli abitanti palestinesi con parchi turistici a tema biblico.

Secondo il Silwan Lands Defence Committee [Commissione per la Difesa della Terra di Silwan] nel quartiere di Silwan, a sud di Al-Aqsa, sono stati emessi contro palestinesi più di 7.820 ordini di demolizione, sia amministrativi che giudiziari, mettendo a rischio di espulsione migliaia di persone.

La zona è anche luogo di lavori archeologici di scavo del governo, che secondo i palestinesi minacciano le fondamenta della moschea di Al-Aqsa. Dalla fine degli anni ’70 il governo israeliano ha portato avanti scavi sotto la Città Vecchia e il quartiere palestinese di Silwan, a sud della moschea di Al-Aqsa, alla ricerca della Città di David, antica di tremila anni. È la presunta capitale di Re David, il biblico padre fondatore della nazione ebraica.

Ad oggi Israele ha investito almeno 40 milioni di shekel (circa 11 milioni di €) nell’iniziativa portata avanti dall’Autorità Israeliana per le Antichità (IAA) e finanziata dall’organizzazione dei coloni Ir David Foundation [Fondazione di Re David], comunemente nota come Elad.

L’associazione dei coloni è anche titolare del parco nazionale della Città di David, di cui ha preso il controllo dopo un accordo raggiunto nel 2002 con l’Autorità Israeliana per la Natura e i Parchi.

Il parco nazionale per la città antica è stato trasformato in una grande attrazione turistica, con centinaia di migliaia di visitatori all’anno.

I palazzi omayyadi (noti agli israeliani come il Parco Archeologico Ophel) sono situati tra la Città di David e le mura meridionali della moschea di Al-Aqsa.

“Ci sono seri timori che lo Stato stia promuovendo la definizione dei titoli di proprietà nel sito dei palazzi omayyadi/Ophel per consentire la presa di possesso israeliana di questo terreno attraverso la registrazione formale come terra dello Stato, favorendo nel contempo gruppi di coloni appoggiati dallo Stato nell’aggressivo tentativo di conquistare il controllo di questi luoghi molto sensibili,” affermano Ir Amim e Bimkom.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Il comitato israeliano per la scarcerazione rigetta l’appello per la liberazione del prigioniero palestinese Ahmed Manasra.

WAFA, PC, Social Media

Martedì 28 giugno 2022 – The Palestine Chronicle

L’agenzia di notizie ufficiale palestinese WAFA ha riferito che lunedì durante seduta della commissione per la scarcerazione anticipata della prigione israeliana di Ramle è stato rigettato l’appello per liberare il ventenne prigioniero palestinese Ahmed Manasra che sta soffrendo per una condizione di salute mentale in progressivo peggioramento.

L’avvocato Khaled Zabarqa, che rappresenta Manasra, ha affermato che il comitato per la scarcerazione anticipata si è rifiutato di discutere l’appello per il rilascio di Manasra, che è stato presentato dal suo collegio difensivo a causa del serio deterioramento delle sue condizioni fisiche e mentali, dichiarando che la pratica è stata considerata in base alla “legge sul terrorismo”.

Manasra, residente nella Gerusalemme Est occupata, aveva 13 anni quando nel 2015 insieme a suo cugino Hassan aggredì degli israeliani a Gerusalemme.

Mentre Manasra venne arrestato, quel giorno suo cugino fu ucciso. Manasra adesso sta scontando una condanna a nove anni e mezzo di prigione, di cui finora ne ha scontati circa sei.

Gli è stato diagnosticato un deterioramento delle condizioni mentali a causa del pestaggio da parte dei coloni israeliani dopo l’attacco e di mesi di interrogatori e torture brutali nelle prigioni israeliane.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Sfidare Golia: come Palestine Action ha cacciato la Elbit

Huda Ammori

28 giugno 2022 – The New Arab

Huda Ammori, cofondatrice di Palestine Action [rete di attivisti filo-palestinesi che usa tattiche di disobbedienza civile contro fabbriche di armi israeliane, ndtr.], descrive l’azione diretta degli attivisti contro la fabbrica di armi Elbit Systems per il suo ruolo nel produrre armi per Israele e di come siano riusciti a estrometterla dal Regno Unito.

Armati di vernice rosso sangue, stencil fatti in casa e una macchina fotografica: eravamo pronti a prendere d’assalto 77 Kingsway, il quartier generale londinese della maggiore industria bellica israeliana, Elbit Systems. Per farci aprire la porta ed entrare nei loro prestigiosi uffici è bastato un sorriso. Siamo entrati: la vernice spruzzata ovunque nell’atrio, gli striscioni appesi, le riprese fatte e tutto finito prima che gli addetti alla sicurezza ci buttassero fuori. Ma prima di andarcene avevamo scritto una promessa sul loro muro: ritorneremo!  

E siamo ritornati.

Per creare un movimento abbastanza forte da far chiudere tutte e dieci le sedi della Elbit in Gran Bretagna dovevamo essere destabilizzanti e costanti. Azioni occasionali non sarebbero servite. Ogni minuto senza una nostra azione era un minuto in cui la Elbit avrebbe commesso un altro omicidio. Per sconfiggerli dovevamo bombardarli.  

Lottavamo contro Golia: una fabbrica di armi fondata nel 1966 con lo scopo specifico di armare le milizie sioniste per attuare la pulizia etnica del popolo palestinese. Oggi il loro modello aziendale si basa sullo sviluppo di armi sperimentali usate contro la popolazione imprigionata a Gaza ed etichettate come “testate in battaglia” e poi spedite verso Israele e altri regimi repressivi.

A luglio 2020 la Gran Bretagna ospitava dieci sedi della Elbit che producevano droni militari, software per artiglieria e acquisizione dati.   

Palestine Action è nata per cacciare dal Paese il commercio di armi israeliane. Le azioni non hanno solo preso di mira le sedi della Elbit, ma abbiamo anche fatto pressione su chi ne agevolava la capacità di operare in Gran Bretagna.

Israele non potrebbe fabbricare in modo autonomo la sua sanguinaria catena produttiva di armi. Per ottenere un prestigioso spazio per i propri uffici nel centro di Londra la Elbit aveva avuto bisogno di un agente immobiliare che chiudesse un occhio sui crimini di guerra israeliani, una carneficina che le ha permesso di fare una paccata di soldi. Ecco perché la multimiliardaria società immobiliare JLL è diventata il punto focale a livello nazionale degli attivisti autonomi. Da York a Brighton le sedi di JLL sono regolarmente state oggetto delle scritte con la vernice rossa di Palestine Action.

Con un bersaglio secondario e una palazzina di uffici nel centro di Londra da prendere sistematicamente di mira, la duplice strategia per cacciare la Elbit da Londra si è velocemente messa in moto.

A poche settimane dal lancio della campagna i ministeri israeliani degli Affari Strategici e della Difesa hanno incontrato il governo britannico per discutere su come “reprimere il nostro movimento”. Come noi, anche loro avevano capito il potere dell’azione diretta. 

È cominciata così una campagna strategica dello Stato per distruggere il nostro movimento nelle fasi iniziali della sua formazione. Passaporti rubati dalla polizia, irruzioni nelle case e una serie di arresti violenti non sono esperienze piacevoli, ma nulla a confronto con quello che succede a chi si trova dalla parte sbagliata delle armi di Elbit.

Ogni ostacolo che affrontavamo era un passo avanti verso la sconfitta del commercio israeliano di armamenti. E ogni volta che lo Stato interveniva, altre persone si offrivano di unirsi alla lotta per far chiudere Elbit. Le tattiche dello Stato hanno avuto l’effetto contrario.  

Palestine Action non faceva che rafforzarsi mentre le sedi della Elbit diventavano sempre più deboli. Il maggiore trafficante di armi israeliano è stato costretto a spendere in sicurezza cifre sempre maggiori, tra l’altro non riuscendo a tenere lontani i nostri attivisti. Le azioni sono diventate più frequenti, più dirompenti e, per la Elbit, considerevolmente più costose.

Con il tempo quello che era partito come un prestigioso edificio nel centro di Londra è diventato un posto squallido, vecchio e fatiscente. Hanno rimosso le sporgenze per impedire alla gente di arrampicarsi, tolto le decorazioni esterne in modo che non fossero abbattute dagli attivisti e assunto un servizio di sicurezza 24 ore su 24 per sorvegliare l’ingresso.

Comunque tutte le loro ulteriori misure per tener lontana Palestine Action sono continuamente fallite. Siamo andati, siamo rimasti e li abbiamo fatti chiudere mille volte.

Nell’aprile 2022 gli attivisti hanno piantato l’ultimo chiodo nella bara del quartier generale londinese di Elbit. Settimana dopo settimana abbiamo danneggiato 77 Kingsway, bloccando gli ingressi, spruzzando l’edificio di vernice rosso sangue e facendo sì che l’opinione pubblica sapesse esattamente chi si nascondeva dietro la porta.

Mentre Elbit era contrariata da tutte le continue azioni al loro quartier generale, la comunità circostante offriva agli attivisti caffè, cibo e costanti messaggi di sostegno. Man mano che cresceva la pressione sulla Elbit e sull’agenzia immobiliare che le aveva affittato la sede, l’unica opzione che restava loro era quella di andarsene.  

E infatti se ne sono andati! Proprio la settimana scorsa è stato annunciato che Elbit Systems ha abbandonato il quartier generale londinese a causa della continua campagna di azione diretta di Palestine Action durante la quale sono state arrestate 60 persone. La notizia è arrivata esattamente 5 mesi dopo la chiusura permanente della fabbrica di armi Elbit-Ferranti a Oldham.

La prova è nei fatti: l’azione diretta funziona. 

Le pressioni sui governi, le petizioni e le tattiche tradizionali delle campagne non sono mai riuscite a bloccare il traffico di armi fra Gran Bretagna e Israele. Ma nessuno riesce a fermare chi si impegna in prima persona per far chiudere le fabbriche di armamenti sulla soglia di casa nostra. 

Huda Ammori è la cofondatrice della rete azione diretta Palestine Action e ha condotto vaste ricerche e campagne contro la complicità britannica con l’apartheid israeliano. 

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autrice e non rappresentano necessariamente quelle di The New Arab, della sua direzione o redazione.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Vita e morte di un quartiere di Gerusalemme.

Lemire V., Au pied du Mur. Vie et mort du quartier maghrébin de Jérusalem (1187-1967), Seuil, Paris, 2022, ‎ 416 pagine.

Recensione di Amedeo Rossi

22 giugno 2022

In questo libro lo storico francese Vincent Lemire ricostruisce la vicenda del quartiere marocchino (o più precisamente maghrebino) di Gerusalemme attraverso i suoi oltre 8 secoli di vita. Va detto subito che questo saggio non rompe solo il “muro del silenzio”, come lo definisce Lemire, riguardo alla vicenda del quartiere maghrebino di Gerusalemme. È anche un saggio estremamente dettagliato e un esempio di uso delle fonti più disparate: lavoro d’archivio in svariati Paesi e in molte lingue (tra cui l’ebraico e l’arabo), materiale fotografico e articoli di giornale, lettere private, fonti orali, controversie giudiziarie e petizioni, oltre a una vastissima bibliografia. Nel libro sono frequentemente presenti immagini a testimonianza di questa ricerca capillare, che ha dato vita a una ricostruzione che mette in rapporto l’oggetto di studio (il quartiere) con le vicende più generali dell’area mediorientale e non solo. A fine anno è annunciata la pubblicazione in inglese. Si spera che presto sia disponibile anche un’edizione italiana.

Nato su iniziativa di Salah al-Din (Saladino), il quartiere era inizialmente destinato ad ospitare i pellegrini che dal Maghreb si recavano alla Mecca. Per questo venne affidato a un waqf (fondazione benefica religiosa), che prese il nome dal mistico sufi Abu Madyan, la cui famiglia era originaria di Tlemcen, in Algeria. Con il tempo alcuni pellegrini si stabilirono nel quartiere e divennero parte della comunità gerosolimitana. La sua posizione centrale, a ridosso della Spianata delle Moschee (Haram al-Sharif, il Monte del Tempio per gli ebrei) lo rese un luogo pienamente integrato nella vita urbana, che condivise quindi la sorte di Gerusalemme, sottoposta nel corso dei secoli alla dominazione araba, ottomana e infine britannica. Cosmopolita come il resto della città, dal libro emerge l’immagine di un quartiere vivace e differenziato sia dal punto di vista sociale che economico.

Fu nel periodo del mandato britannico che iniziò a delinearsi il drammatico destino che lo attendeva. L’impero intendeva favorire l’immigrazione sionista in Palestina. A sua volta i dirigenti del nazionalismo ebraico utilizzarono il messianismo biblico come legittimazione delle proprie pretese di conquista e nel contempo come forza attrattiva per incentivare l’emigrazione nella “Terra promessa”. Il quartiere si trovava a ridosso del cosiddetto Muro del Pianto, i contrafforti occidentali della Spianata delle Moschee che dal XVI secolo erano diventati luogo di preghiera per gli ebrei. Paradossalmente, nota l’autore, “il quartiere maghrebino si trovò nelle immediate vicinanze del propulsore che galvanizzava le identità religiose di Gerusalemme fin dai suoi inizi”.

Nel 1927 una forte esplosione fece tremare il quartiere, con uno scambio di accuse tra le due comunità. Come si è scoperto di recente, in realtà si trattò di un attentato organizzato dalla milizia sionista Haganà per intimidire la popolazione del quartiere in seguito a numerosi incidenti con i fedeli che si recavano al Muro del Pianto. Fu sempre in seguito a uno scontro avvenuto nel quartiere maghrebino tra nazionalisti ebrei che rivendicavano il possesso di quello che secondo loro era il Monte del Tempio e i fedeli musulmani che scoppiò la rivolta araba del 1929. “Il quartiere maghrebino”, scrive Lemire, “era ormai al centro del conflitto, e rimarrà in questa pericolosa posizione fino alla sua distruzione nel giugno 1967.”

La guerra del 1947-49 e la conseguente nascita di Israele rappresentarono un duro colpo per i suoi abitanti. Pur rimanendo sul lato giordano della città, le attività benefiche del waqf Abu Madyan vennero notevolmente ridotte a causa dell’occupazione israeliana dei terreni di Ain Karem, da cui l’ente benefico ricavava buona parte delle risorse necessarie ad aiutare i propri assistiti.

È in questo contesto che compare un altro attore, il colonialismo francese, che negli anni ’50 si erse a difensore dei cittadini originari dei suoi possedimenti nel Maghreb per contrastare le crescenti spinte indipendentiste del nazionalismo arabo. L’intervento francese fu però contraddittorio, anche a causa dei rapporti di collaborazione con Israele, come nel caso della crisi di Suez del 1956 e della lotta contro l’FNL algerino, a cui parteciparono attivamente i servizi di intelligence israeliani. In quegli anni la Francia stava anche contribuendo al programma atomico di Israele. L’indipendenza dell’Algeria pose fine a questa attività diplomatica francese.

La guerra dei Sei giorni e l’occupazione israeliana decretarono la fine del quartiere. Tra il 10 e l’11 giugno (il conflitto era finito proprio il 10) i bulldozer israeliani rasero al suolo quasi tutto il quartiere. Agli abitanti vennero concesse 2 ore per lasciare le proprie case. Nella demolizione morirono, a seconda delle fonti, da una a tre persone. Con un formalismo tipico del modus operandi di Israele, prima dell’operazione venne riunita una commissione composta da tre architetti, uno storico e un archeologo. “L’obiettivo”, scrive Lemire,” è evidentemente di occultare le responsabilità politiche mettendo in primo piano le competenze scientifiche.” La commissione suggerì di preservare il 60% degli edifici. L’intervento di demolizione interesserà invece quasi tutto il quartiere. La responsabilità di non aver seguito il parere degli esperti venne attribuita dall’esercito e dal potere politico locale (Comune di Gerusalemme) e statale all’iniziativa di un gruppo di imprenditori edili. La motivazione ufficiale: si sarebbe trattato di un quartiere di baracche, quindi di un’operazione di risistemazione urbanistica per ragioni di igiene e sicurezza, in quanto gli edifici sarebbero stati pericolanti. La situazione era ben diversa, come dimostrano le testimonianze personali, la documentazione d’archivio anche israeliana e il materiale fotografico che accompagnano la narrazione del libro. Ma l’operazione propagandistica funzionò, persino riguardo alla corretta risistemazione degli abitanti del quartiere, 650 persone, che invece vennero abbandonati a se stessi. Un patrimonio storico plurisecolare di 135 edifici venne distrutto, e al suo posto rimase la spianata che si trova a ridosso del Muro del Pianto.

Ciò che rimase del quartiere, l’isolato noto come Dar Abu Said, venne demolito nel giugno 1969, sostenendo anche in questo caso che si trattava di edifici pericolanti. In questo caso ci fu uno scontro tra il ministero degli Affari religiosi e parte del governo da una parte e dall’altra l’amministrazione comunale, il Dipartimento delle Antichità e il ministero degli Esteri, che si opponevano per varie ragioni all’operazione. Uno solo degli edifici da demolire effettivamente presentava una crepa, definita “utile” dal Menachem Begin, allora ministro senza portafoglio, poi primo ministro di Israele nonché premio Nobel. Ma era stata provocata da lavori di scavo di caterpillar israeliani. Ciò fu sufficiente a giustificare la distruzione. Quella che lo storico chiama “ebrezza messianica” che si era impadronita di Israele dopo la vittoria del 1967 ebbe la meglio.

Nelle conclusioni Lemire afferma che “la funzione dello storico è capire e non giudicare, indagare e stabilire i fatti e non giudicarli sul piano morale né definirli su un piano giudiziario.” E citando il grande storico Marc Bloch insiste: “Quando lo studioso ha osservato e spiegato, il suo compito è finito.” Se ciò può valere per il ricercatore, il lettore non può esimersi dal constatare che la pratica della pulizia etnica ha accompagnato fin dalla sua nascita lo Stato di Israele. Quanto avvenuto al quartiere maghrebino era già toccato in sorte a centinaia di villaggi palestinesi nel 1947-49 (la Nakba), si ripeté durante e dopo la guerra del 1967 (la Naksa) e da allora continua a segnare le vicende dell’occupazione israeliana in Cisgiordania e a Gaza, come allora nella sostanziale indifferenza della comunità internazionale. Questo libro non può che destare nel lettore indignazione e condanna.




L’esercito israeliano comincia le esercitazioni a Masafer Yatta nonostante le proteste.

The New Arab, PC, Social Media

Martedì 21 giugno 2022 – The Palestine Chronicle

L’agenzia The New Arab ha riferito che martedì l’esercito israeliano comincerà le esercitazioni militari a Masafer Yatta, nonostante l’opposizione degli abitanti palestinesi.

Granate con propulsione a razzo, carri armati, mitragliatrici, ruspe e altri tipi di armi e mezzi pesanti saranno usati nelle esercitazioni militari che secondo il quotidiano israeliano Haaretz avranno luogo dalle 12 alle 18 ora locale.

Il giornale ha affermato che le esercitazioni, che continueranno per un mese, saranno le più ampie degli ultimi 20 anni.

Circa 1200 palestinesi di Masafer Yatta, a sud di Hebron (Al-Khalil), rischiano di essere espulsi dalle proprie case per fare spazio ad un’area per esercitazioni dopo una battaglia legale durata decenni che è terminata lo scorso mese davanti all’Alta Corte israeliana.

La sentenza ha aperto la strada ad una delle più ampie deportazioni da quando lo Stato di Israele ha occupato il territorio nella guerra mediorientale del 1967. Gli abitanti palestinesi si stanno rifiutando di abbandonare il territorio, sperando che la loro resistenza e la pressione internazionale impediscano a Israele di portare avanti le espulsioni.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Palestinese ucciso dopo essere stato pugnalato al cuore da un colono israeliano

Shatha Hammad

21 giugno 2022 – Middle East Eye

Ali Hassan Harb, 27 anni, è stato accoltellato al cuore vicino al villaggio palestinese di Iskaka, afferma il Ministero della Salute

Il Ministero della Salute palestinese riferisce che un palestinese è stato ucciso martedì dopo essere stato pugnalato al cuore da un colono israeliano.

Ali Hassan Harb, 27 anni, è stato dichiarato morto quando è arrivato all’ospedale Martyr Yasser Arafat di Salfit, nella Cisgiordania occupata, ha detto il Ministero della Salute.

Lo zio della vittima, Naim Harb, presente sulla scena dell’incidente quando è avvenuto, dichiara a Middle East Eye che la famiglia ha ricevuto una telefonata secondo cui un gruppo di coloni stava attaccando la terra della famiglia, che è adiacente all’insediamento israeliano di Ariel e che stavano distruggendo un capanno di legno che la famiglia vi aveva costruito.

Harb ha aggiunto che la famiglia e un certo numero di abitanti del villaggio – circa 10, tra cui Ali – si sono precipitati su quel terreno per difenderlo.

I coloni se ne sono andati quando li hanno visti avvicinarsi, ma sono tornati pochi istanti dopo accompagnati da membri della sicurezza dell’insediamento, che hanno iniziato a sparare in aria. Con loro è arrivato anche un soldato israeliano.

“Lo scontro all’inizio era leggero. Abbiamo cercato di mantenere le distanze e di non avvicinarci troppo a loro. Abbiamo cercato di controllarci”.

I coloni hanno quindi ripreso i loro attacchi, aggredendo gli uomini palestinesi prima che improvvisamente uno dei coloni si avvicinasse ad Ali e lo pugnalasse direttamente al cuore.

Naim conferma che l’esercito israeliano ha trattenuto Ali per circa mezz’ora e ha impedito alla famiglia di trasportarlo in ospedale, provocandone la morte.

Aggiunge a MEE: “Tutto ciò è successo sotto la protezione dell’esercito israeliano e degli agenti della sicurezza dell’insediamento, che hanno assistito all’assalto dei coloni e non li hanno fermati”, ha detto a MEE.

“I coloni e l’esercito sono una macchina per uccidere diretta contro noi palestinesi”.

Gli uliveti della famiglia Harb, parte dei quali sono stati confiscati, sono adiacenti al recinto dell’insediamento di Ariel. Naim ha sottolineato che la famiglia ha lavorato su quella terra per anni e ancora la gestisce come principale fonte di reddito.

Aggiunge che Ali era un tecnico elettrico che aveva terminato i suoi studi alla Al-Quds University tre anni fa. Aveva un lavoro come tecnico ma lavorava ancora nella terra di famiglia quando aveva tempo.

“Questa è una terra che abbiamo ereditato di nonno in padre. La lavoriamo e la custodiamo costantemente e la difendiamo e la nostra presenza su di essa oggi è il segno dell’appartenenza a questa terra”.

Riafferma che le azioni dei coloni hanno costituito una pericolosa escalation contro i palestinesi di Iskaka: “Quello che speriamo oggi è di unirci come palestinesi contro l’occupazione israeliana e di schierarci con la resistenza e di affrontare i coloni che hanno versato il nostro sangue e rubato le vite dei nostri giovani”.

“Teppisti assetati di sangue.

Hanan Ashrawi, ex membro del comitato esecutivo dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, ha condannato l’omicidio, affermando su Twitter che mentre Harb è stato accoltellato, le guardie armate dell’insediamento israeliano di Ariel hanno sparato ai palestinesi che cercavano di raggiungerlo

Ashrawi ha definito i coloni che hanno accoltellato Harb “teppisti assetati di sangue”.

La violenza dei coloni in Cisgiordania ha visto un aumento “allarmante” dal 2021, secondo gli esperti delle Nazioni Unite.

Nel 2021 sono stati registrati circa 370 attacchi di coloni che hanno causato danni alla proprietà e altri 126 attacchi hanno causato vittime.

Finora quest’anno sono state documentate più di 541 ferite ai palestinesi causate dai coloni. La violenza perpetrata dai coloni include l’uso di munizioni vere, aggressioni fisiche, attacchi incendiari e lo sradicamento degli ulivi.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Il New York Times afferma che “molto probabilmente” forze israeliane hanno sparato a Shireen Abu Akleh.

Redazione di Al Jazeera

20 giugno 2022 – Al Jazeera

Un rapporto del New York Times si aggiunge al crescente numero di indagini che puntano il dito contro Israele per l’uccisione della giornalista di Al Jazeera.

Un’inchiesta del New York Times ha concluso che “molto probabilmente” un soldato israeliano ha colpito a morte la giornalista di Al Jazeera Shireen Abu Akleh, aggiungendosi a un crescente numero di indagini indipendenti che sono arrivati alla conclusione che l’inviata palestinese con cittadinanza americana è stata uccisa da forze israeliane.

Il rapporto del New York Times pubblicato lunedì [20 giugno] afferma che nessun uomo armato palestinese si trovava vicino a Abu Akleh quando è stata uccisa nella Cisgiordania occupata, smentendo la prima versione israeliana che incolpava i palestinesi per l’incidente.

L’indagine si basa sulle immagini video disponibili, su testimonianze dirette e su un’analisi acustica dei proiettili sparati nel momento in cui Abu Akleh è stata uccisa.

Un’inchiesta durata un mese del New York Times ha trovato che il proiettile che ha ucciso Abu Akleh è stato sparato più o meno dal luogo in cui si trovava il convoglio militare israeliano, molto probabilmente da un soldato di un’unità d’élite,” afferma il rapporto.

L’uccisione di Abu Akleh l’11 maggio ha suscitato l’indignazione internazionale e invoca la condanna delle aggressioni contro i giornalisti. La giornalista uccisa informava su avvenimenti e attacchi israeliani nei territori palestinesi occupati da 25 anni ed era diventata un volto familiare in tutto il mondo arabo.

È stata uccisa mentre indossava il giubbotto antiproiettile della stampa che la indicava chiaramente come giornalista, mentre stava per informare su un’incursione israeliana nella città cisgiordana di Jenin.

In precedenza inchieste del Washington Post, dell’Associated Press e dell’organizzazione di specialisti Bellingcat [gruppo di giornalisti investigativi con sede in Olanda, ndt.] erano arrivate alla conclusione che probabilmente Abu Akleh è stata uccisa dalle forze israeliane. Il mese scorso un’inchiesta della CNN [emittente televisiva di notizie statunitense, ndt.] ha affermato che le prove suggeriscono che l’esperta giornalista è stata uccisa in un “attacco mirato delle forze israeliane”.

Anche un’indagine dell’Autorità Nazionale Palestinese ha rilevato che Abu Akleh è stata deliberatamente colpita da forze israeliane.

La scorsa settimana Al Jazeera ha ottenuto un’immagine del proiettile che ha ucciso Abu Akleh estratto dal suo cranio. Secondo esperti di balistica e medici legali la pallottola era in grado di perforare una protezione blindata e viene utilizzata nei fucili M4, in dotazione all’esercito israeliano. Secondo gli esperti il proiettile è stato prodotto negli Stati Uniti.

La rete multimediale Al Jazeera ha accusato le forze israeliane di aver assassinato la giornalista “a sangue freddo”.

Israele, che ha ripetutamente cambiato la sua versione su come Abu Akleh è stata uccisa e la sua posizione riguardo all’indagine, ha respinto tali rapporti.

Alla fine di maggio il ministro degli Esteri israeliano Yair Lapid ha affermato di aver espresso la propria “protesta” al suo collega Antony Blinken riguardo a quella che ha definito “indagine tendenziosa sulla morte (di Abu Akleh) da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese così come la cosiddetta ‘inchiesta’ della CNN.”

Blinken e altri funzionari dell’amministrazione del presidente Joe Biden hanno sollecitato un’indagine trasparente riguardo all’uccisione di Abu Akleh, insistendo che Israele è l’autorità che la deve condurre. Washington ha anche rifiutato il possibile coinvolgimento della Corte Penale Internazionale nel caso.

I sostenitori dei diritti dei palestinesi hanno denunciato la posizione degli USA, sottolineando che Israele non può essere considerato affidabile nell’indagare su sé stesso.

Raramente le morti dei palestinesi suscitano l’attenzione internazionale, e soldati accusati di crimini contro i palestinesi in Cisgiordania raramente vengono incriminati,” afferma il rapporto del New York Times di lunedì.

Nonostante inchieste e prove disponibili puntino il dito contro Israele, questo mese Blinken ha detto chiaramente che i fatti relativi all’ uccisione di Abu Akleh “non sono stati ancora accertati.”

Nelle stesse dichiarazioni il capo della diplomazia USA ha chiesto un’indagine “indipendente”, ma in seguito il Dipartimento di Stato ha detto ad Al Jazeera che “non ci sono stati cambiamenti” nella posizione USA, secondo cui Israele deve essere la parte che conduce l’indagine.

Dopo l’omicidio di Abu Akleh le forze israeliane hanno aggredito i partecipanti al suo funerale, spingendo quelli che portavano il feretro della giornalista uccisa a farlo quasi cadere.

Inizialmente Israele ha affermato che “pare probabile che palestinesi armati” siano stati responsabili dell’uccisione di Abu Akleh.

Dopo l’incidente l’ufficio del primo ministro Naftali Bennett ha reso pubblico un video di palestinesi armati che sparano in un vicolo, suggerendo che erano stati loro ad aver sparato ad Abu Akleh. Ma questa versione è stata rapidamente smentita in quanto gli uomini armati non avevano una linea di tiro verso la giornalista assassinata, uccisa a centinaia di metri di distanza. E il video era stato ripreso ore prima che l’inviata venisse colpita.

Dopo qualche giorno l’esercito israeliano ha ammesso che la giornalista potrebbe essere stata uccisa da fuoco israeliano, ma ha escluso la possibilità che sia stata colpita deliberatamente.

Le autorità israeliane hanno anche cambiato la loro posizione riguardo all’inchiesta. Mentre Israele ha chiesto di visionare il proiettile che ha ucciso la giornalista, all’inizio ha affermato che non ci sarebbe stata un’indagine penale sull’incidente.

Ma in seguito mezzi di comunicazione israeliani hanno citato l’avvocato generale militare, secondo cui l’esercito sta “facendo ogni sforzo” per indagare sull’incidente.

Tuttavia all’inizio del mese il Washington Post ha citato l’affermazione dell’esercito israeliano secondo cui “ha già concluso che non c’è stato un comportamento criminoso” nell’uccisione di Abu Akleh.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)