Gli abitanti di Gerusalemme affrontano un’implacabile guerra economica israeliana

Agenzia di stampa Safa

21 giugno 2022 – Monitor de Oriente

I palestinesi che vivono a Gerusalemme stanno affrontano un’implacabile guerra economica da parte di Israele, consistente in imposte onerose che prendono di mira i commercianti e i negozianti in un contesto di debolezza dei mercati.

Le autorità dell’occupazione israeliana stanno facendo pressioni sui gerosolimitani attraverso l’imposizione di tasse elevate per obbligarli ad andarsene dalla città santa, lasciando negozi e case come bottino alla municipalità israeliana di Gerusalemme.

La tassa israeliana più nota è l’arnona, un’imposta fondiaria locale che ogni abitazione o negozio paga al Comune di Gerusalemme. Nonostante secondo l’agenzia di stampa Safa i palestinesi rappresentino il 35% degli attuali abitanti della città santa e gli ebrei il 65%, la municipalità israeliana di Gerusalemme raccoglie il 33% delle sue entrate totali dagli abitanti palestinesi.

Per i palestinesi di Gerusalemme l’arnona significa che ogni commerciante palestinese deve pagare 100 dollari per ogni m2 di superficie del proprio negozio.

Nel contempo secondo Safa le autorità dell’occupazione israeliana, che impongono imposte esose ai palestinesi, erogano molte sovvenzioni agli ebrei per agevolare la loro presenza nella città santa.

A causa delle numerose chiusure di attività provocate dal COVID-19 e al peggioramento della situazione della sicurezza in città, come anche al peggioramento della situazione economica in tutto il mondo, i commercianti palestinesi si sono visti obbligati a chiudere i propri negozi per lunghi periodi, per cui hanno avuto pochissime entrate, non hanno potuto pagare le tasse e si sono trovati sotto l’assillo del Comune che chiede loro di andarsene.

“La mancanza di sostegno finanziario per i gerosolimitani, soprattutto commercianti e negozianti, complica la crisi di Gerusalemme e ne minaccia la presenza,” dice Safa Ziyad Al Hammouri, direttore del Centro di Studi Sociali ed Economici Al Quds.

Hammouri chiede che si crei un fondo per il sostegno ai gerosolimitani contro la guerra economica che li prende di mira cercando di obbligarli a lasciare la città santa. Evidenzia che nel bilancio dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) la percentuale destinata a Gerusalemme è inferiore all’1%. “Ciò dimostra la concreta marginalizzazione da parte dell’ANP,” afferma Hammouri.

Le statistiche ufficiali riportate da Safa rivelano che a Gerusalemme il 70% è costituito da proprietari di immobili e negozi e da commercianti, sottolineando che l’accumulo di debiti determinerebbe l’esproprio della proprietà da parte del Comune israeliano.

Secondo Safa 250 negozi palestinesi sono stati chiusi dal Comune israeliano per il reiterato mancato pagamento di imposte, oltre che per il blocco commerciale imposto ai gerosolimitani.

Le statistiche israeliane hanno rivelato che la municipalità di Gerusalemme spende solo il 5% del bilancio totale a favore dei palestinesi, nonostante rappresentino oltre il 35% degli abitanti della città.

Per risolvere questo problema gli esperti contattati da Safa hanno affermato che ci dovrebbero essere fondi speciali per sostenere i gerosolimitani, compresi abitanti, commercianti e proprietari di edifici e negozi, in modo che siano in grado di affrontare le complicate misure fiscali israeliane.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Monitor de Oriente.

(traduzione dallo spagnolo di Amedeo Rossi)




15 anni di troppo

Al Mezan Center for Human Rights

14/06/2022 – Al Mezan Center for Human Rights

Una scheda informativa sugli effetti devastanti del blocco israeliano della striscia di Gaza

Centro per i Diritti Umani Al Mezan

Scheda informativa

14 giugno 2007 14 giugno 2022

Al Mezan Center for Human Rights è un’organizzazione per i diritti umani indipendente, apartitica e non governativa fondata nel 1999. Al Mezan si impegna a proteggere e promuovere il rispetto dei diritti umani, con particolare attenzione ai diritti economici, sociali e culturali, sostenere le vittime di violazioni del diritto internazionale attraverso iniziative legali e rafforzare la democrazia, la partecipazione della comunità e dei cittadini e il rispetto dello stato di diritto a Gaza come parte della Palestina occupata.

INTRODUZIONE E CONTESTO

  • Le condizioni di vita dei palestinesi nella Striscia di Gaza sono notevolmente peggiorate: nel 2021 i tassi di povertà e disoccupazione si sono attestati rispettivamente al 53% e al 47%, mentre il tasso di insicurezza alimentare è stato del 64%.Anche il settore dell’istruzione è stato colpito dalla chiusura prolungata della Striscia di Gaza. Tra il 14 giugno 2007 e il 14 giugno 2022 le forze israeliane hanno distrutto 536 scuole e 32 edifici universitari e allo stesso tempo hanno ostacolato la costruzione di nuove strutture educative, causando così il sovraffollamento scolastico. Oggi la dimensione media della classe in una scuola dell’UNRWA è di 41 studenti rispetto ai 39 delle scuole pubbliche. Molte strutture educative rimangono inadeguate per gli studenti con disabilità.
  • La realizzazione dei diritti culturali nella Striscia di Gaza è in peggioramento, principalmente perché le restrizioni imposte da Israele hanno precluso la ricostruzione delle biblioteche e delle istituzioni culturali distrutte durante gli attacchi militari israeliani, tra cui la biblioteca nazionale. L’inasprimento delle restrizioni ha anche aumentato le difficoltà di sviluppo e aggiornamento del patrimonio di libri e periodici dellIl 6 giugno 1967 le autorità israeliane dichiararono la Striscia di Gaza un’area militare chiusa in base a un ordine militare rimasto in vigore anche dopo la firma degli accordi di Oslo [serie di accordi politici ratificati il 13 settembre del 1993 come parte di un processo di pace che mirava a risolvere il conflitto arabo israeliano, ndt.]È significativo che le restrizioni israeliane verso la Striscia di Gaza siano iniziate già negli anni ’90, per mezzo di una serie di misure adottate dalle autorità israeliane, tra cui la riduzione della zona di pesca nelle acque territoriali palestinesi, il divieto per i lavoratori palestinesi di Gaza di lavorare in Israele e l’imposizione di restrizioni al movimento dei palestinesi attraverso il valico di Erez [valico di frontiera con Israele nel nord della Striscia di Gaza, ndt.].

    Con lo scoppio dell’Intifada di Al Aqsa o Seconda Intifada il 28 settembre 2000, e in particolare a partire dal 9 ottobre 2000, le forze israeliane dichiararono e imposero la chiusura della Striscia di Gaza e assediarono le aree residenziali vicino alle colonie israeliane allora presenti, come le aree di al-Mawasi e al-Syafa, chiusero la grande maggioranza dei valichi compromettendo il funzionamento di alcuni altri. Dopo il “disimpegno” israeliano da Gaza del 2005 [in base al piano dell’allora primo ministro israeliano Ariel Sharon, applicato nell’agosto 2005 per rimuovere tutti gli abitanti israeliani dalla Striscia di Gaza e da quattro insediamenti in Cisgiordania settentrionale, ndt.], le autorità israeliane chiusero la sezione merci del valico di Erez e del tutto i valichi di Sufa, Karni e Nahal Oz, che vennero sostituiti dal valico Karem Abu Salem, l’unico attraversamento commerciale di Gaza. Inoltre, prima dell’ottobre 2000, veniva utilizzato il valico di Rafah, controllato dalle autorità israeliane fino al 2005, che operava 24 ore su 24, 7 giorni su 7 e chiudeva solo due giorni all’anno. Tuttavia, da allora, il valico ha funzionato per un numero limitato di ore e per alcuni giorni alla settimana. Ci sono stati anche periodi in cui Rafah è stato chiuso per mesi.

    Quando nel 2007 Hamas divenne l’autorità di governo della Striscia di Gaza le autorità israeliane inasprirono le misure di chiusura preesistenti, raddoppiarono le restrizioni alla libertà di circolazione e alle merci e il 21 giugno 2007 sospesero il codice doganale di Gaza. Inoltre il 18 settembre 2007 il Gabinetto di sicurezza israeliano dichiarò la Striscia di Gaza un'”entità ostile/nemica”, ponendo così ostacoli insormontabili all’accesso da parte dei palestinesi di Gaza alle cause civili nei tribunali israeliani.

    La chiusura e il blocco da parte di Israele della Striscia di Gaza, che costituisce una punizione collettiva, vietata dal diritto umanitario internazionale, è attuata nel contesto dell’occupazione coloniale da parte di Israele dei territori palestinesi occupati (TPO) e del suo sistema di discriminazione razziale, dominio e oppressione contro il popolo palestinese, aspetti che soddisfano la definizione di apartheid secondo il diritto internazionale.

    Durante 15 anni di chiusura e blocco della Striscia di Gaza da parte di Israele la libertà di movimento dei palestinesi è stata gravemente limitata, anche attraverso la creazione di aree militari interdette o zone cuscinetto sulla terra e sulle acque palestinesi note come “aree ad accesso limitato”. Inoltre dal 2007 Israele ha condotto contro la Striscia di Gaza quattro offensive militari su vasta scala, uccidendo in un periodo di 13 anni (2008-21) circa 4.041 palestinesi, di cui 1.005 minori e 461 donne, e distruggendo decine di migliaia di abitazioni, strutture industriali e commerciali e infrastrutture fondamentali per la sopravvivenza della popolazione civile, comprese reti elettriche, idriche, sanitarie e strade, deteriorando ulteriormente le condizioni umanitarie e facendo crescere i tassi di povertà e disoccupazione. Parallelamente, la popolazione di Gaza, che alla fine del 2006 ammontava a 1,5 milioni di palestinesi, ha raggiunto alla fine del 2021 i 2,1 milioni, rendendo la Striscia una delle aree più densamente popolate al mondo.

    Questa scheda informativa, supportata da cifre, presenta risultati e indicatori che mostrano l’entità delle violazioni israeliane nei 15 anni di chiusura e blocco che hanno reso la Striscia di Gaza invivibile per i suoi oltre due milioni di abitanti.

    • Tra il 14 giugno 2007 e il 14 giugno 2022 gli attacchi militari israeliani hanno ucciso 5.418 palestinesi, il 23% dei quali minori e il 9% donne, e ferito migliaia di altri; distrutto 3.118 strutture commerciali, 557 fabbriche, 2.237 veicoli e 2.755 strutture pubbliche; distrutto 12.631 unità abitative e danneggiato parzialmente altre 41.780. Inoltre le autorità israeliane hanno inasprito le restrizioni all’ingresso all’interno della Striscia di Gaza di materiali da costruzione, impedendo così ai palestinesi di ricostruire le loro case distrutte.
    • Le forze israeliane hanno anche impiegato una forza eccessiva e letale contro i minori palestinesi che tentavano di attraversare la recinzione perimetrale e hanno ucciso 15 minorenni, ne hanno ferito sette e arrestato 204.
    • Tra il 14 giugno 2007 e il 14 giugno 2022 le forze israeliane hanno effettuato circa 872 incursioni circoscritte nelle aree adiacenti la recinzione del confine orientale e settentrionale del territorio palestinese, spianando i terreni agricoli e distruggendo i raccolti. Nello stesso periodo, le forze israeliane hanno preso ripetutamente di mira i lavoratori agricoli palestinesi, uccidendone 136. Le forze israeliane hanno spianato e cosparso di pesticidi chimici 33.100 donum [3.310 ettari, ndt.] di terreni agricoli palestinesi.
    • La marina israeliana prende regolarmente di mira i pescatori palestinesi in mare aprendo il fuoco contro di loro, arrestandoli, sequestrando le loro attrezzature, perseguitandoli e ostacolando il loro lavoro. Tra il 14 giugno 2007 e il 14 giugno 2022 Al Mezan ha documentato 2.514 violazioni contro pescatori, che hanno provocato sette morti, 179 feriti e 750 arresti. Inoltre la marina israeliana ha sequestrato 237 pescherecci danneggiandone altri 131 oltre ad un grande quantità di attrezzature per la pesca e beni di prima necessità.
    • La marina israeliana ha ripetutamente ed estesamente impedito ai pescatori palestinesi di navigare nelle acque territoriali palestinesi e ha anche ripetutamente vietato le attività ittiche nella zona di pesca autorizzata.
    • Le autorità israeliane arrestano arbitrariamente i palestinesi che cercano di entrare in Israele attraverso Erez per raggiungere la Cisgiordania, inclusa Gerusalemme est, o per viaggiare all’estero, utilizzando il valico come trappola. Tra il 14 giugno 2007 e il 14 giugno 2022 hanno arbitrariamente arrestato 204 palestinesi, tra cui 48 studenti di scuole superiori, dipendenti iscritti a corsi e scuole di formazione esterne e 85 commercianti.
    • Tra le restrizioni imposte dalle autorità israeliane c’è un sistema di permessi volubile e discriminatorio a cui devono sottostare tutti i palestinesi che desiderano lasciare Gaza via Erez. Una delle categorie più vulnerabili colpite dal regime vessatorio e macchinoso di permessi di Israele sono i pazienti clinici. Tra il 2010 e il febbraio 2022 le autorità israeliane hanno respinto o ritardato il 30% delle richieste di permesso dei pazienti. Inoltre le autorità israeliane hanno arrestato a Erez 43 pazienti palestinesi in possesso di referti medici e 28 dei loro accompagnatori dopo aver concesso loro i permessi di uscita. I dati di Al Mezan mostrano che negli ultimi 15 anni 72 pazienti, tra cui dieci minorenni e 25 donne, sono morti dopo che Israele ha negato o rinviato i loro permessi.
    • A seguito delle restrizioni israeliane imposte alla Striscia di Gaza il volume delle importazioni è drasticamente diminuito. Nel 2005 sono entrati a Gaza 111.480 camion di merci importate, per ridursi rapidamente a 26.838 nel 2008. Nel 2020 sono entrati nella Striscia di Gaza 96.651camion di merci importate, il che può essere spiegato considerando la crescita della popolazione e l’aumento della domanda di servizi.
    • Dopo l’imposizione della chiusura è diminuito anche il volume delle merci esportate. Mentre nel 2005 la Striscia di Gaza ha esportato 9.319 camion di merci, nel 2008 il volume delle esportazioni si è ridotto drasticamente a 33 camion. Nel 2020 la Striscia di Gaza ha esportato 3.118 camion di merci, che corrisponde a circa un terzo della quantità esportata prima della chiusura.
    • Dal momento dell’imposizione delle misure di chiusura le autorità israeliane hanno regolarmente vietato l’ingresso di carburante nell’unica centrale elettrica di Gaza, esacerbando ulteriormente la crisi elettrica esistente e spingendo le persone a ricorrere all’uso di candele, stufe a cherosene e generatori di corrente. Ciò ha causato molti incendi e incidenti dovuti ai generatori che solo nel 2012 hanno causato la morte di 35 persone, tra cui una donna e 28 minorenni, e il ferimento di altre 36, di cui 20 minori e sei donne.
    • Mentre a Gaza il fabbisogno di elettricità è stimato tra 600-660 MW, la fornitura disponibile non supera i 205 MW, il che ha portato negli ultimi 15 anni all’interruzione dell’elettricità ad orari determinati per più di 16 ore al giorno. La crisi della carenza di energia e il divieto da parte di Israele di introduzione di carburante hanno spinto molti comuni della Striscia di Gaza a rilasciare in mare liquami non trattati, causando un inquinamento delle acque. Nel 2021 un test effettuato dall’Autorità per la qualità dell’acqua e dell’ambiente ha mostrato che il 75% dell’acqua di mare lungo la costa di Gaza, che si estende per circa 40 km, è inquinata.
    • Anche gli abitanti di Gaza stanno attraversando una grave crisi per quanto riguarda la mancanza di acqua potabile sicura. Le autorità competenti affermano che il 96,2% dell’acqua estratta dalle falde acquifere di Gaza non soddisfa gli standard di qualità dell’acqua dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, soprattutto in termini di concentrazione di nitrati. Tra il 14 giugno 2007 e il 14 giugno 2022 le forze israeliane hanno attaccato e distrutto o danneggiato 292 pozzi idrici utilizzati sia per uso domestico che per terreni agricoli.
    • Le condizioni di vita dei palestinesi nella Striscia di Gaza sono notevolmente peggiorate: nel 2021 i tassi di povertà e disoccupazione si sono attestati rispettivamente al 53% e al 47%, mentre il tasso di insicurezza alimentare è stato del 64%.

      Anche il settore dell’istruzione è stato colpito dalla chiusura prolungata della Striscia di Gaza. Tra il 14 giugno 2007 e il 14 giugno 2022 le forze israeliane hanno distrutto 536 scuole e 32 edifici universitari e allo stesso tempo hanno ostacolato la costruzione di nuove strutture educative, causando così il sovraffollamento scolastico. Oggi la dimensione media della classe in una scuola dell’UNRWA è di 41 studenti rispetto ai 39 delle scuole pubbliche. Molte strutture educative rimangono inadeguate per gli studenti con disabilità.

      La realizzazione dei diritti culturali nella Striscia di Gaza è in peggioramento, principalmente perché le restrizioni imposte da Israele hanno precluso la ricostruzione delle biblioteche e delle istituzioni culturali distrutte durante gli attacchi militari israeliani, tra cui la biblioteca nazionale. L’inasprimento delle restrizioni ha anche aumentato le difficoltà di sviluppo e aggiornamento del patrimonio di libri e periodici della biblioteca e l’organizzazione di mostre librarie che coinvolgano editori esterni.

    CONCLUSIONI E RACCOMANDAZIONI

Sebbene il governo israeliano pretenda di giustificare la chiusura e le relative restrizioni con il pretesto di “sicurezza”, queste politiche dimostrano l’intenzione di Israele di separare e dividere i palestinesi e riprogrammare la demografia dell’intera popolazione palestinese per affermare il proprio dominio su di loro. In particolare, questa scheda informativa ha tenuto conto delle numerose violazioni del diritto internazionale perpetrate dalle autorità israeliane nel contesto di una continua chiusura e blocco, compreso l’uso eccessivo della forza e ricorrenti attacchi militari a civili e loro abitazioni, con uccisione di migliaia di persone; arresto e detenzione arbitraria di minori, pazienti, pescatori e altre categorie vulnerabili; e l’imposizione deliberata ai palestinesi di Gaza di condizioni di vita inadeguate. Come evidenziato da Al Mezan nel suo rapporto The Gaza Bantustan – Israeli Apartheid in the Gaza Strip[Il Bantustan Gaza – Apartheid israeliano nella Striscia di Gaza, ndt.], questi atti disumani soddisfano la definizione del crimine contro l’umanità dell’apartheid sia ai sensi della Convenzione internazionale del 1973 sulla Repressione e punizione del crimine di apartheid che dello Statuto di Roma del 1998 della Corte Penale Internazionale.

Di conseguenza, in questo triste quindicesimo anniversario, Al Mezan ribadisce il suo appello alla comunità internazionale perché faccia valere i suoi obblighi morali e giuridici nei confronti del popolo palestinese chiedendo con forza ad Israele di revocare immediatamente, completamente e incondizionatamente la sua chiusura e blocco, porre fine a tutte le relative restrizioni illegali imposte sulla circolazione di persone e merci da e verso la Striscia di Gaza e garantire responsabilità e giustizia per violazioni diffuse, gravi e sistematiche, compreso il crimine di apartheid, contro il popolo palestinese.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




I pericoli non dissuadono i bambini dal lavorare nelle discariche di Gaza 

Ola Mousa 

16 giugno 2022The Electronic Intifada

Ogni giorno i bambini rovistano nella discarica di Deir al-Balah.

Fra loro c’è Fadi, undici anni. Va alla discarica nel centro di Gaza ogni giorno, dopo la scuola.

Non abbiamo scelta,” dice Mustafa, suo padre, che lo accompagna per cercare materiali che si possano recuperare e vendere agli impianti di riciclaggio. “Se non lo facessimo, moriremmo di fame.”

Mustafa è un meccanico, ma è disoccupato da sette anni. Entrambi si sono feriti mentre lavoravano alla discarica.

I pericoli di questo lavoro sono risultati evidenti all’inizio di quest’anno.

A gennaio, Osama al-Sirsik, 14 anni, è morto in una discarica a Johr al-Deek, a sud di Gaza City.

Osama ci era andato a lavorare con suo padre, Arafat. Insieme avrebbero raccolto plastica e metalli, particolarmente rame e alluminio, qualsiasi cosa che potessero vendere.

Dobbiamo guadagnarci da vivere”

Era una giornata fredda e piovosa,” dice Arafat. “Ma il brutto tempo non ci ha fermati. Dovevamo guadagnarci da vivere.”

Erano alla discarica da circa due ore quando Arafat si è reso conto che Osama non c’era più. Arafat all’inizio ha pensato che il figlio fosse stato attaccato dai cani.

Il corpo di Osama è stato trovato dopo una lunga ricerca ed è stato accertato che era morto per asfissia traumatica.

Arafat conta sui suoi miseri guadagni derivanti dalla raccolta di materiali riciclabili per sfamare la famiglia. Negli ultimi quattro anni non ha avuto altra fonte di guadagno.

Osama era il più grande dei suoi cinque figli.

La morte del ragazzino ha spinto il comune di Gaza a vietare l’accesso alla discarica ai non addetti ai lavori. Il divieto è stato contestato da varie persone la cui vita dipende dalla raccolta di rifiuti riutilizzabili o riciclabili.

Secondo Marwan al-Ghoul, un impiegato del comune, quasi tutti quelli che raccolgono materiali nella discarica non sono a conoscenza di quanto il loro lavoro possa essere pericoloso.

Stanno solo cercando di sbarcare il lunario,” dice. “Stiamo cercando di trovare urgentemente una soluzione, specialmente perché il lavoro minorile è in aumento.”

Lavorare o morire di fame

Omar, padre di sette figli, si è rifiutato di smettere di raccogliere rifiuti nella discarica. Due dei suoi figli, di 18 e 10 anni, lavorano con lui.

Qualche volta non riesco a dare abbastanza da mangiare alla mia famiglia,” dice.

Omar, un fabbro, è disoccupato da lungo tempo. Con la raccolta di scarti guadagna solo una piccola somma, fino a 9 dollari al giorno.

Quando ho cominciato a fare questo lavoro mi vergognavo,” dice. “Adesso non più. Nessuno può impedirmelo. Le autorità vogliono farci smettere, ma io e molti altri continueremo. Non vorrei farlo, ma non voglio neanche che i miei bambini muoiano di fame.”

Secondo gli ultimi dati disponibili il Palestinian Central Bureau of Statistics [Ufficio centrale palestinese di statistica] ipotizza che meno dell’uno per cento dei minori di Gaza tra i 10 e i 17 anni faccia un lavoro, retribuito o non retribuito.

Ciononostante il Ministero dello Sviluppo Sociale di Gaza crede che il lavoro minorile sia in aumento.

All’inizio dell’anno il ministero ha svolto un’indagine in varie parti di Gaza tra 10.000 famiglie con un reddito inferiore ai 250 dollari.

Secondo l’indagine, fino ad ora inedita, il 60% dei genitori che hanno risposto accetterebbe che i propri figli lavorino, ma solo come ultima risorsa.

Il lavoro minorile a Gaza è conseguenza della povertà, del blocco israeliano e della disoccupazione,” dice Iman Omar, un assistente sociale del ministero. “La maggioranza dei minori che lavorano va comunque a scuola. Lavorano nelle discariche con i padri o i fratelli o vendono materiali.”

Ogni giorno Sharif, 9 anni, raccoglie plastica, lattine vuote e altri metalli per le strade di Gaza. Lavora lui per mantenere la famiglia dato che suo padre è morto,

E voglio risparmiare abbastanza per comprarmi un telefonino,” dice. “Tutti i miei compagni di scuola ne hanno uno e guardano soap e cartoni animati. A casa noi non abbiamo né computer né telefono.”

Un altro che fa un lavoro simile è l’undicenne Husam. Il padre disabile è disoccupato da lungo tempo.

Netturbini e altre persone hanno cercato di impedirgli di raccogliere materiali, ma lui continua.

Carica tutta la plastica e i metalli raccolti nelle discariche e per strada su un carretto che poi il fratello maggiore porta all’impianto di riciclaggio. L’unica precauzione significativa che prende è evitare le discariche vicino agli ospedali per paura delle siringhe.

Husam e il fratello riescono a guadagnare circa 6 dollari al giorno. Lui va a una discarica ogni mattina presto nella speranza di arrivare per primo.

A volte non riesco a raccogliere niente,” dice Husam. “È perché ci sono molti altri bambini e persino adulti che fanno questo tipo di lavoro.”

Ola Mousa è un’artista e scrittrice di Gaza.

(tradotto dall’inglese da Mirella Alessio)




Rapporto OCHA del periodo 31 maggio – 13 giugno 2022

1). In Cisgiordania, in due distinte circostanze, le forze israeliane hanno ucciso una donna ed un ragazzo palestinesi [seguono dettagli].

Il 1° giugno, vicino all’ingresso del Campo profughi di Al Arrub (Hebron), le forze israeliane hanno sparato, uccidendo una donna palestinese 31enne. Secondo fonti militari israeliane, citate dai media israeliani, la donna avrebbe tentato di accoltellare un soldato israeliano; secondo testimoni oculari palestinesi, non c’è stato alcun tentativo di aggressione e le riprese video mostravano che la donna non aveva alcuna arma. In un altro caso, accaduto il 2 giugno nel villaggio di Al Midya (Ramallah), le forze israeliane hanno sparato, uccidendo un ragazzo palestinese di 17 anni. Secondo testimoni oculari e fonti della Comunità locale, il ragazzo stava facendo un picnic con due amici a 50 metri dalla Barriera della Cisgiordania, quando le forze israeliane hanno aperto il fuoco contro i tre ragazzi. Secondo fonti mediche, il ragazzo è stato colpito alla schiena. Secondo fonti militari israeliane citate dai media israeliani, le forze israeliane avrebbero aperto il fuoco dopo che era stata lanciata contro di loro una bottiglia molotov. In entrambe le circostanze non è stato riportato alcun ferito israeliano. Questo caso porta a 13 il numero di minori palestinesi uccisi dalle forze israeliane in Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, dall’inizio del 2022.

2). In Cisgiordania, nel corso di due operazioni di ricerca-arresto, le forze israeliane hanno ucciso due palestinesi e ne hanno feriti altri dieci [seguono dettagli]. Il 2 giugno, dopo l’irruzione di forze israeliane nel Campo profughi di Ad Duheisha (Betlemme) ed i conseguenti scontri con i residenti, un uomo di 30 anni è stato ucciso con arma da fuoco. Le forze israeliane hanno sparato proiettili veri e lacrimogeni contro i residenti che lanciavano pietre; due palestinesi sono stati feriti da proiettili veri e altri due sono stati arrestati. Il 9 giugno, nella città di Halhul (Hebron), un palestinese 27enne è stato ucciso con arma da fuoco, ed altri otto sono rimasti feriti, dopo l’irruzione delle forze israeliane finalizzata alla confisca di più di 1 milione di NIS (circa 300.000 dollari USA) ad un cambiavalute che, secondo quanto riferito, era accusato di trasferire fondi illegalmente. L’episodio ha innescato scontri con i residenti, durante i quali le forze israeliane hanno sparato proiettili veri, proiettili gommati e lacrimogeni contro persone che, secondo quanto riferito, lanciavano pietre; altri quattro palestinesi, tra cui due minori, sono stati feriti da proiettili veri e altri quattro da proiettili gommati. In entrambi gli episodi non è stato riportato alcun ferito israeliano. In totale, durante il periodo di riferimento, le forze israeliane hanno effettuato 177 operazioni di questo tipo ed hanno arrestato 166 palestinesi, inclusi 21 minori.

3). Durante una demolizione “punitiva” avvenuta nella città di Ya’bad (Jenin), due palestinesi sono stati uccisi dalle forze israeliane [seguono dettagli]. Il 1° giugno, le forze israeliane hanno demolito la casa di famiglia di un palestinese che nel marzo 2022, in Israele, aveva sparato uccidendo tre israeliani. La demolizione ha provocato lo sfollamento di tre famiglie (maggiori dettagli di seguito). Durante l’operazione, un palestinese di 26 anni è stato colpito con armi da fuoco, e ucciso, mentre un altro uomo di 37 anni è stato gravemente ferito con proiettili veri e, per le ferite riportate, è deceduto l’11 giugno.

4). In Cisgiordania, complessivamente, sono stati feriti dalle forze israeliane 114 palestinesi, inclusi undici minori [seguono dettagli]. Circa 59 feriti sono stati registrati vicino a Beita e Beit Dajan (entrambi a Nablus) in manifestazioni contro gli insediamenti e altri quattro in due ulteriori manifestazioni ad Al Jwaya e Tarqumiya (tutte a Hebron) contro la confisca israeliana di terre palestinesi in quell’area. In altri quattro episodi, registrati a Silwan a Gerusalemme Est, Halhul (Hebron), Izbat at Tabib (Qalqiliya) e An Nabi Salih (Ramallah), 21 persone sono rimaste ferite dopo che coloni israeliani, accompagnati da forze israeliane, sono entrati nelle Comunità palestinesi, innescando scontri con residenti. In uno di questi episodi, coloni israeliani, accompagnati da forze israeliane, sono entrati ad Halhul (Hebron) per eseguire rituali religiosi vicino alla moschea di An Nabi Younes. Le forze israeliane hanno sparato proiettili veri e proiettili di metallo gommato contro i residenti che lanciavano pietre; otto palestinesi sono rimasti feriti e sono stati segnalati danni alla proprietà. Altri 15 palestinesi sono rimasti feriti durante cinque operazioni di ricerca-arresto condotte a Gerusalemme, Betlemme, Qalqiliya e Hebron. Altri due sono rimasti feriti durante una demolizione “punitiva” a Ya’bad (Jenin), che ha provocato anche la morte di due palestinesi (vedi sopra) e uno durante un episodio di confisca a Jayyus (Qalqiliya). Tre palestinesi, tra cui due minori, sono rimasti feriti dopo che forze israeliane hanno sparato proiettili veri contro palestinesi che lanciavano pietre contro forze dislocate presso un checkpoint stabilito tra le aree H1 e H2 della città di Hebron. I restanti nove feriti sono stati aggrediti fisicamente e feriti da forze israeliane, in tre episodi separati registrati ai checkpoints di Qalqiliya, Tulkarm e Jenin. Di tutti i feriti palestinesi, 16 sono stati colpiti da proiettili veri e 29 da proiettili gommati; la maggior parte dei rimanenti ha richiesto cure mediche per aver inalato gas lacrimogeni.

5). A Gerusalemme Est e nell’Area C della Cisgiordania, adducendo la mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, le autorità israeliane hanno demolito, confiscato o costretto persone a demolire 23 strutture di proprietà palestinese [seguono dettagli]; nove delle strutture erano state fornite come aiuti umanitari finanziati da donatori. Di conseguenza, 52 persone, tra cui 20 minori, sono state sfollate e sono stati colpiti i mezzi di sussistenza di circa altre 60. Circa 18 delle strutture prese di mira si trovavano nell’Area C, di cui nove in aree designate [da Israele] come “zone di tiro” destinate alle esercitazioni militari; qui le Comunità palestinesi sono a rischio di trasferimento forzato. Cinque strutture sono state demolite a Gerusalemme Est, inclusa una casa demolita dai proprietari per evitare di pagare multe.

6). Il 1 giugno, nel villaggio di Ya’bad (Jenin), in Area B, le autorità israeliane hanno demolito, per motivi “punitivi”, due appartamenti, facenti parte di un edificio a più piani [seguono dettagli]. Di conseguenza, una famiglia di cinque persone, compreso un minore, è stata sfollata, mentre è stata colpita un’altra famiglia di sette persone, di cui tre minori. La casa apparteneva alla famiglia del palestinese che, nel marzo 2022, in Israele, sparò uccidendo tre israeliani e che successivamente fu ucciso. Durante la demolizione un palestinese è stato ucciso con armi da fuoco e un altro è morto successivamente per le ferite riportate (vedi sopra). Il 31 maggio le autorità israeliane hanno emesso un ordine di demolizione punitiva contro una struttura residenziale nel villaggio di Rummana (Jenin), appartenente alla famiglia di un palestinese accusato dell’uccisione di tre israeliani, avvenuta in Israele il 5 maggio. L’8 giugno, l’Alta Corte di Giustizia Israeliana ha anche approvato la demolizione “punitiva” delle case di famiglia di due palestinesi sospettati di aver ucciso, nell’aprile 2022, una guardia di un insediamento israeliano. Dall’inizio del 2022, per motivi punitivi sono state demolite sei case, rispetto alle tre di tutto il 2021 e alle sette del 2020. Le demolizioni “punitive” sono una forma di punizione collettiva e, in quanto tali, secondo il diritto internazionale, sono illegali; infatti prendono di mira le famiglie di un autore, o presunto autore, che non sono coinvolte nel presunto atto.

7). In diverse località della Cisgiordania, le forze israeliane hanno limitato il movimento dei palestinesi [seguono dettagli]. Il 2 ed il 10 giugno, le forze israeliane hanno chiuso i cancelli di metallo dei villaggi di Beita (Nablus) e Abud (Ramallah), impedendo a circa 20.000 palestinesi di accedere ai loro mezzi di sussistenza e ai servizi, e costringendoli a lunghe deviazioni; si ritiene che queste chiusure siano collegate al lancio di pietre da parte di palestinesi contro veicoli di coloni israeliani. In diverse occasioni, a causa di lanci di pietre, le forze israeliane hanno impedito a pedoni e residenti palestinesi di entrare e uscire dalla città vecchia di Hebron ed hanno costretto i proprietari di negozi a chiudere per diverse ore nell’arco di due giorni. Inoltre, nell’area H2 della città di Hebron, le autorità israeliane hanno continuato i lavori di costruzione di un ascensore elettrico per facilitare l’ingresso dei fedeli ebrei alla moschea di Ibrahimi [condivisa fra musulmani ed ebrei], ostacolando l’accesso dei palestinesi alla moschea, compresi i dipendenti musulmani della Waqf [Ente responsabile della gestione].

8). Coloni israeliani hanno ferito sette palestinesi e persone conosciute come coloni israeliani, o ritenute tali, hanno danneggiato proprietà palestinesi in 20 casi [seguono dettagli]. Il 31 maggio, a Silwan, Gerusalemme Est, un gruppo di coloni israeliani ha lanciato pietre contro una famiglia palestinese e l’ha aggredita fisicamente, ferendo due persone, tra cui un anziano, e danneggiando il loro veicolo. Il 10 giugno, a Khirbet Zanuta (Hebron), un gruppo di coloni, alla presenza di forze israeliane, ha lanciato pietre contro un palestinese e l’11 giugno, vicino a Mantiqat Shib Al Butum a Hebron, coloni hanno aggredito e ferito fisicamente un pastore palestinese. Altri tre feriti sono stati segnalati dopo che coloni hanno attaccato due manifestazioni palestinesi in svolgimento ad Al Jwaya e Khirbet Bir al ‘Idd (entrambe a Hebron). In nove casi separati, accaduti vicino agli insediamenti israeliani prossimi a Duma (Nablus), Al Khadr (Betlemme) e Turmusayya (Ramallah), circa 255 alberi e alberelli di proprietà palestinese sono stati sradicati o vandalizzati. Gli pneumatici di tre auto di proprietà palestinese sono stati forati e scritte offensive sono state spruzzate su tre veicoli e sui muri di due case, secondo quanto riferito, ad opera di coloni provenienti da insediamenti limitrofi, tra cui Bet El e Bracha. Nove episodi sono stati segnalati a Nablus, Salfit, Ramallah e Hebron, tra cui l’irruzione in una casa, il furto di attrezzature agricole e il danneggiamento di colture, bestiame e cisterne d’acqua. Ad Al Jab’a (Hebron) e Kifl Haris (Salfit) coloni hanno lanciato pietre e bottiglie di vernice contro case e veicoli palestinesi, danneggiando almeno una casa e tre veicoli.

9). Persone conosciute come palestinesi, o ritenute tali, hanno ferito due israeliani e danneggiato 20 veicoli israeliani che percorrevano strade della Cisgiordania, nei governatorati di Hebron, Ramallah, Nablus e Gerusalemme. In altri 19 casi, due coloni israeliani sono stati feriti da pietre lanciate contro i loro veicoli, ed i veicoli danneggiati da pietre o bottiglie incendiarie.

10). Il 7 giugno, nella zona centrale della Striscia di Gaza, un ragazzo palestinese 17enne è rimasto ferito dall’esplosione di un residuato bellico che aveva raccolto e stava maneggiando.

11). Nella Striscia di Gaza, vicino alla recinzione perimetrale israeliana o al largo della costa, in almeno 35 occasioni, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento [verso palestinesi], presumibilmente per far rispettare le restrizioni di accesso [loro imposte da Israele]. Come conseguenza, due pescatori palestinesi sono rimasti feriti e due barche e una struttura abitativa sono state danneggiate. Le forze navali israeliane hanno arrestato quattordici pescatori e sequestrato due barche da pesca. In due occasioni, le forze israeliane hanno anche effettuato operazioni di spianatura e scavo all’interno di Gaza, vicino alla recinzione perimetrale. Hanno arrestato sei palestinesi, inclusi quattro minori, per aver tentato di entrare illegalmente in Israele.

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Ultimi sviluppi (successivi al periodo di riferimento)

All’alba del 17 giugno, nel Campo profughi di Jenin, tre palestinesi sono stati uccisi e almeno altri otto sono rimasti feriti durante un raid militare israeliano.

nota 1:

I Rapporti ONU OCHAoPt vengono pubblicati ogni due settimane in lingua inglese, araba ed ebraica; contengono informa-zioni, corredate di dati statistici e grafici, sugli eventi che riguardano la protezione dei civili nei territori palestinesi occupati.

sono scaricabili dal sito Web di OCHAoPt, alla pagina: https://www.ochaopt.org/reports/protection-of-civilians

L’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, traduce in italiano l’edizione inglese dei Rapporti.

nota 2: Nella versione italiana non sono riprodotti i dati statistici ed i grafici. Le scritte [in corsivo tra parentesi quadre]

sono talvolta aggiunte dai traduttori per meglio esplicitare situazioni e contesti che gli estensori dei Rapporti

a volte sottintendono, considerandoli già noti ai lettori abituali.

nota 3: In caso di discrepanze (tra il testo dei Report e la traduzione italiana), fa testo il Report originale in lingua inglese.

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Associazione per la pace – Via S. Allende, 5 – 10098 Rivoli TO; e-mail: assopacerivoli@yahoo.it




Tre palestinesi uccisi dalle forze israeliane in un raid a Jenin

Redazione di Al Jazeera

17 giugno 2022, Al Jazeera

Altri dieci feriti nell’ultimo mortale raid israeliano nella Cisgiordania occupata.

Tre palestinesi sono stati uccisi e dieci feriti durante l’irruzione delle forze israeliane a Jenin nella Cisgiordania occupata, come ha riferito il Ministero della Salute palestinese.

Circa 30 veicoli militari israeliani hanno fatto irruzione a Jenin nelle prime ore di venerdì e hanno circondato un’auto nell’area di al-Marah, a est della città, sparando ai quattro uomini seduti all’interno. Tre di loro sono stati uccisi e un quarto gravemente ferito.

L’agenzia di stampa palestinese Wafa ha identificato gli uomini uccisi come Baraa Lahlouh (24 anni), Yusuf Salah (23) e Laith Abu Suroor (24).

L’esercito israeliano ha affermato in un breve messaggio in ebraico che stava conducendo un’operazione per localizzare armi in due luoghi diversi e di essere stato attaccato.

“Sono stati accertati spari contro i soldati che hanno sventato i piani dei terroristi di colpirli”, ha sostenuto l’esercito, aggiungendo di aver trovato sul posto delle armi, tra cui due fucili d’assalto M-16 e delle cartucce.

I residenti di Jenin hanno affermato di ritenere che gli israeliani avessero intenzione di demolire la casa di Raed Hazem, che il 7 aprile aveva effettuato un attentato a Tel Aviv uccidendo tre israeliani prima di essere ucciso da un colpo di arma da fuoco.

L’esercito israeliano ha intensificato i raid all’interno e intorno al campo occupato di Jenin, nel tentativo di reprimere la crescente resistenza armata palestinese.

Dilagano i timori di una possibile invasione israeliana su larga scala del campo, dove sono attivi i gruppi armati della Jihad islamica palestinese e dei movimenti di Fatah.

Secondo il Ministero della Salute palestinese, quest’anno più di 60 palestinesi sono stati uccisi dalle forze israeliane, molti dei quali in raid simili.

Da marzo una serie di attacchi palestinesi ha ucciso anche 19 persone in Israele.

La giornalista Shireen Abu Akleh, un’importante giornalista televisiva di Al Jazeera, è stata uccisa dalle forze israeliane il mese scorso a Jenin mentre stava seguendo un’operazione dell’esercito israeliano.

Un’indagine palestinese ha affermato che la giornalista – che quando è stata colpita indossava un giubbotto antiproiettile con sopra la scritta “stampa” e un elmetto da giornalista – è stata uccisa a colpi di arma da fuoco in quello che è stato descritto come un crimine di guerra.

Israele ha fatto marcia indietro rispetto alla iniziale insinuazione secondo cui Abu Akleh potrebbe essere stata uccisa da un uomo armato palestinese, ma ha ora affermato che non porterà avanti alcuna indagine penale.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




La commissione ONU sulla Palestina invita a cercare nuovi metodi per obbligare Israele a rispettare le leggi internazionali

Redazione di MEM

Martedì 14 giugno 2022 – Middle East Monitor

La commissione d’inchiesta internazionale indipendente delle Nazioni Unite sui territori palestinesi occupati ha affermato ieri che la comunità internazionale deve urgentemente esplorare nuovi metodi per garantire che lo Stato di Israele rispetti il diritto internazionale.

L’ex commissaria ONU per i diritti umani Navy Pillay ha inviato al Consiglio per i diritti umani il primo rapporto della commissione sui territori palestinesi occupati e Israele.

Ha affermato che “anche noi siamo fermamente convinti che la continua occupazione del territorio palestinese, includendo Gerusalemme Est e Gaza, i 15 anni di assedio di Gaza e la pluriennale discriminazione all’interno dello Stato di Israele sono tutte collegate e non possono essere considerate separatamente”.

Dato il netto rifiuto da parte dello Stato di Israele di adottare concrete misure per implementare le conclusioni e le raccomandazioni delle precedenti commissioni, la comunità internazionale deve urgentemente esplorare nuove modalità per garantire l’ottemperanza al diritto internazionale.

L’ex giurista sudafricana ha affermato che la comunità internazionale non è riuscita a prendere significative misure per garantire il rispetto del diritto internazionale a parte di Israele obbligarlo a porre fine all’occupazione.

Pillay ha affermato che lo stato di “perpetua occupazione” della Palestina e la duratura discriminazione sia nello Stato di Israele sia in Palestina è la causa fondamentale della continua violenza.

L’ex responsabile della commissione ha affermato che “le minacce di deportazione forzata, le demolizioni, la costruzione ed espansione delle colonie, la violenza dei coloni e l’assedio di Gaza hanno contribuito e continueranno a contribuire a cicli di violenza.”

Ha affermato che la realtà perdurante da decenni porta ad un generale senso di disperazione e alla mancanza di ogni speranza tra i palestinesi in Palestina, Israele e nella diaspora.

Essi sono lasciati senza speranza di un futuro migliore che garantisca loro l’intero spettro dei diritti umani senza discriminazioni,” ha affermato Pillay.

La perdurante situazione di occupazione e discriminazione, ha spiegato, è usata dai palestinesi “che ricoprono incarichi di responsabilità” per giustificare le loro violazioni e irregolarità in violazione del diritto internazionale, incluso il fatto che l’autorità palestinese non sia riuscita a tenere le elezioni legislative e presidenziali.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




La morte della giornalista palestinese mette in evidenza l’inconsistenza delle indagini dell’esercito israeliano

Bethan McKernan

14-giugno-2022 –The Guardian

L’uccisione con armi da fuoco di Shireen Abu Aqleh a maggio solleva nuove preoccupazioni per le inchieste militari sulla morte dei palestinesi.

Nell’agosto 2020 la 23enne Dalia Samoudi è stata uccisa quando un proiettile è entrato dalla finestra della sua casa a Jenin, nella Cisgiordania occupata, durante un raid delle forze di difesa israeliane (IDF) in una casa vicina.

Al Jazeera riferì dell’incidente: i testimoni affermarono che era stata uccisa da un soldato dell’IDF che sparava in direzione di palestinesi che lanciavano pietre. Due anni dopo la rete televisiva avrebbe riferito della morte della sua corrispondente di lunga data, Shireen Abu Aqleh, quasi nello stesso luogo.

Ancora una volta i testimoni hanno affermato che il fuoco mortale proveniva dai soldati israeliani, sebbene questa volta fossero presenti solo giornalisti e personale dell’IDF. Abu Aqleh, 51 anni, che indossava un giubbotto protettivo e un elmetto con la scritta “stampa”, è stata colpita da un colpo di arma da fuoco sotto l’orecchio.

Le cifre [dei militari israeliani messi sotto inchiesta, ndt] mostrano che i meccanismi investigativi dell’esercito non sono adatti allo scopo, ha affermato Dan Owen, un ricercatore di Yesh Din [Volontari per i diritti umani è un’organizzazione israeliana che lavora in Israele e in Cisgiordania, ndtr.].

Ha aggiunto: “Per definizione l’esercito non può fare un lavoro adeguato perché sta indagando su se stesso. Le condanne sono di solito per cose come l’uso illegale della forza o il maneggio errato di un’arma, piuttosto che per omicidio o omicidio colposo, e i soldati possono scontare la loro pena facendo lavori umili per alcuni mesi nelle basi militari”.

“Ogni anno vediamo che l’esercito presenta dati leggermente migliori e c’è una possibilità leggermente più alta che la denuncia di un palestinese porti a un atto d’accusa che verrà elaborato più rapidamente. Ma lo scopo generale di questo sistema non è la giustizia: è respingere le critiche interne e internazionali».

L’IDF afferma che in Cisgiordania le prime indagini operative vengono iniziate in tutti i casi in cui un palestinese viene ucciso, a meno che la morte non sia avvenuta in combattimento. Sulla base di questi risultati, e in conformità con la legge israeliana, l’avvocato militare decide se un’indagine penale è giustificata.

“La morte di un palestinese in [Cisgiordania] in genere susciterà la presunzione di sospetto di attività criminale, il che attiverebbe un’indagine penale immediata… Se non ci sono indagini penali immediate, attendiamo i risultati dell’esame operativo e raccogliamo ulteriori materiali e in seguito rivalutiamo se esiste un ragionevole sospetto di un crimine”, ha affermato un alto funzionario del sistema giuridico israeliano.

Nel caso della cittadina palestinese americana Abu Aqleh l’esercito israeliano ha affermato che poiché la giornalista è stata uccisa in una “situazione di combattimento attivo” non sarebbe stata avviata un’indagine penale immediata, anche se si sarebbe proceduto con un’indagine operativa. Israele ha anche criticato la decisione dell’Autorità Nazionale Palestinese di non collaborare a un’indagine congiunta o di non consegnare prove, come il proiettile che l’ha uccisa.

L’amministrazione Biden e il consiglio di sicurezza dell’Onu hanno chiesto un’indagine trasparente. Alla fine di maggio la morte di Abu Aqleh si è aggiunta a una denuncia legale presentata alla Corte penale internazionale che sostiene che le forze di sicurezza israeliane prendono di mira sistematicamente i giornalisti palestinesi in violazione del diritto umanitario internazionale.

Secondo il Centro palestinese per lo sviluppo e le libertà dei media dal 2000 30 giornalisti sono stati uccisi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza dal fuoco israeliano, ma non sono mai state presentate accuse contro i soldati.

“Non capita spesso di avere un caso di alto profilo come Shireen”, dice Owen. “A meno che un omicidio non sia stato ripreso dalla telecamera senza alcun dubbio su chi l’ha commesso è altamente improbabile che venga indagato… Detto questo, i nostri dati mostrano più e più volte che anche quando l’esercito indaga, ciò non conduce alla giustizia”.

Nonostante conosca le basse probabilità di successo, il marito di Samoudi, Bassam, si rifiuta di rinunciare alle indagini dell’IDF sulla sua morte. Sta ancora sperando in risposte su come e perché sua moglie è morta.

Le prove sono così forti. Ovviamente sono preoccupato per il basso tasso di condanne, ma in questo caso può esserci solo un risultato”, ha detto. “Questa è l’unica opzione che ho, quindi devo usarla.”

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Germania: il vandalismo razzista alla vigilia di Documenta 15 innervosisce gli artisti palestinesi

Hebh Jamal

14 giugno 2022 – Middle East Eye

Atti di vandalismo razzista contro l’esposizione palestinese getta un’ombra sull’imminente evento artistico quinquennale.

La più grande esposizione di arte contemporanea al mondo, Documenta 15, aprirà la prossima settimana in un contesto di polemiche politiche, dopo atti di vandalismo razzisti che hanno preso di mira l’esposizione palestinese, innervosendo gli artisti alla vigilia di questo evento molto atteso che si svolge ogni cinque anni nella città tedesca di Cassel.

A fine maggio individui non identificati hanno fatto irruzione nello spazio espositivo del collettivo artistico palestinese ‘The Question of Funding’ [il problema dei finanziamenti], hanno imbrattato i muri con il contenuto di un estintore ed hanno scritto su decine di superfici “187” (codice utilizzato negli Stati Uniti come minaccia di morte con riferimento al codice penale della California) e “Peralta”.

Gli organizzatori dell’evento ritengono che “Peralta” si riferisca alla politica fascista spagnola Isabelle Peralta, che si è vista negare l’ingresso in Germania a causa delle sue opinioni neonaziste.

Questo attacco era chiaramente mirato, poiché gli assalitori hanno vandalizzato solo i piani che ospitano il collettivo ‘The Question of Funding’ “, ha dichiarato a Middle East Eye Lara Khalidi, artista e operatrice culturale palestinese. “Potrebbe trattarsi di una minaccia di morte e adesso tutti gli artisti hanno molta paura di portare avanti l’esposizione.”

Secondo Lara Khalidi questa minaccia arriva dopo parecchi mesi di campagna di diffamazione e incitamento all’odio sulla stampa tedesca.

Il sostegno al BDS, motivo di repressione

Un’organizzazione locale contro l’antisemitismo, ‘Budnis gegen Antisemitismus Kassel’ [Alleanza contro l’Antisemitismo Kassel], accusa questa quinta edizione di Documenta di coinvolgere degli “attivisti anti-Israele”, di “violare le severe leggi tedesche contro l’antisemitismo” e di sostenere il movimento palestinese Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS).

In Germania un sostegno anche solo formale al BDS può essere motivo di repressione. Nel 2019 il Bundestag (il parlamento tedesco) ha approvato una risoluzione che definisce il movimento BDS antisemita.

Limitando il loro accesso ai fondi e agli spazi pubblici, questa risoluzione offre alle istituzioni statali e all’associazione filo-israeliana tutta la discrezionalità per attaccare le organizzazioni, gli artisti, gli accademici palestinesi e anche semplici individui.

Il commissario tedesco alla lotta contro l’antisemitismo Felix Klein si è unito alle critiche all’esposizione affermando che poiché “nessun artista israeliano è stato invitato, se ne deduce chiaramente che gli artisti israeliani devono essere boicottati.”

Lara Khalidi e alcuni suoi colleghi sono stati accusati di essere simpatizzanti nazisti perché hanno ricoperto posizioni direttive all’interno del centro culturale Khalil Sakakini, un’importante organizzazione senza scopo di lucro culturale e artistica di Ramallah, nella Cisgiordania occupata.

L’organizzazione locale contro l’antisemitismo afferma che Khalil Sakakini, insegnante palestinese progressista, era un antisemita in base a citazioni false e fuori contesto di Wikipedia, mentre Lara Khalidi e altri artisti palestinesi sono accusati di antisemitismo per associazione [a Sakakini, ndt.].

Questa vicenda dimostra chiaramente come la “lotta contro l’antisemitismo” sia diventata un’espressione pratica di xenofobia e razzismo puri e semplici”, spiega a MEE Michael Sappir, giornalista israeliano che vive in Germania.

Se il tipo di affermazioni usate per costruire l’accusa di antisemitismo contro gli artisti – in particolare in rapporto a Sakakini – fosse preso sul serio e considerato in buona fede, molti tedeschi famosi, affiliati ad organizzazioni con legami nazisti sarebbero coinvolti molto più gravemente.

Ma questo tipo di accuse poco chiare è una copertura pratica nel contesto tedesco di lotta ostentata contro l’antisemitismo per dare una patina di legittimità e di importanza agli attacchi contro gli stranieri, e sicuramente in particolare contro i palestinesi.”

Conseguenza dell’autocensura

Il centro culturale Khalil Sakakini in un comunicato deplora che le accuse “trite e ritrite” di antisemitismo siano sempre più utilizzate in Germania nei confronti di chi si esprime contro l’occupazione e l’oppressione dei palestinesi da parte di Israele.

Un’accusa usata come mezzo per ridurre al silenzio i suoi detrattori e come strumento di intimidazione. Questo attacco continuo si è ingigantito, passando dall’incitamento all’odio sui media ad un attacco diretto”, prosegue il comunicato.

Il teorico culturale Sami Khatib ritiene che in Germania il razzismo anti-palestinese “sistematico”si dissimuli sotto una facciata di intervento umanitario.

Questo dipende dal fatto che la comunità internazionale si vede nel ruolo di salvatore per scongiurare ‘il male del passato’ nel presente e nel futuro”, dichiara Sami Khatib.

Anche l’occasione di trovare una corretta definizione di antisemitismo e di discutere apertamente delle accuse degli organizzatori viene posta sotto la lente di ingrandimento.

L’annullamento di una tavola rotonda organizzata da Documenta per affrontare le questioni legate all’antisemitismo, al razzismo e all’islamofobia sarebbe dovuto a una lettera di Josef Schuster, presidente del Consiglio centrale degli ebrei in Germania, inviata a Claudia Roth, Ministra della Cultura e delle Comunicazioni. 

Schuster vi criticava il “pregiudizio evidente” di Documenta, insinuando che la tavola rotonda fosse di parte e non prevedesse interventi a favore di Israele. Questa lettera sottolineava la necessità “di una chiara presa di posizione e di una risoluta azione politica ad ogni livello politico, artistico, culturale e sociale” per combattere l’antisemitismo.

Come conseguenza dell’autocensura dei partecipanti in seguito alle reazioni, questa tavola rotonda è stata annullata. 

L’istituto ha ritenuto che fosse meglio organizzare un dibattito pubblico su ciò che significa antisemitismo. Invece si è stati accusati di essere di parte, anche se la tavola rotonda includeva partecipanti israeliani”, lamenta Lara Khalidi.

Il collettivo di artisti indonesiani Ruangrupa, responsabile di questa quinta edizione di Documenta, ha risposto alle accuse di antisemitismo con una lettera aperta.

Quando ogni critica allo Stato israeliano viene demonizzata e associata all’antisemitismo, bisogna aspettarsi che tale demonizzazione sia contestata. Questa contestazione viene principalmente da chi per primo è colpito dagli attacchi israeliani ai diritti umani”, si legge in questa lettera.

La cultura tedesca che associa l’antisionismo e persino il non-sionismo all’antisemitismo esclude i palestinesi e gli ebrei non sionisti dalla lotta contro l’antisemitismo, li diffama e li riduce al silenzio etichettandoli come antisemiti.”

L’elemento più inquietante in tutto ciò resta tuttavia l’origine di queste voci di antisemitismo.

Artisti ed attivisti sostengono che l’associazione all’origine di tutte queste voci e accuse di fatto non è altro che un blog gestito da una sola persona associata ad un gruppo dissidente di estrema sinistra chiamato Antideutsche (movimento anti-tedesco).

Per gli attivisti i grandi media tedeschi hanno ripreso questa informazione pubblicata dal blog senza nemmeno verificare queste accuse, che secondo loro sono piene di stereotipi razzisti e falsi.

La cosa più triste in tutto questo”, dice Lara Khalidi, “è che queste accuse senza fondamento sono state riprese da media nazionali seri, che hanno rilanciato gli appelli all’annullamento di Documenta se non fosse stato risolto il problema dell’antisemitismo.”

Una posizione forte e chiara”

I media hanno chiuso gli occhi sul fatto che si tratta dell’iniziativa di una sola persona, che posta regolarmente su Facebook dei contenuti islamofobi. Invece hanno ripreso come fatti reali le sue storie inventate, meditabonde e anche immaginarie”, ribadisce Lara Khalidi.

Ormai, a meno di una settimana dall’avvio dell’esposizione artistica tanto attesa, che si svolgerà dal 18 giugno al 25 settembre, gli artisti e gli organizzatori mostrano nervosismo.

Anche se Documenta ha reagito al vandalismo e alle minacce sporgendo denuncia e rafforzando la sicurezza sui luoghi, molti ritengono che la sua reazione e il suo comunicato ufficiale non siano sufficienti.

Il collettivo di artisti ha pubblicato un proprio comunicato definendo questo vandalismo un attacco razzista, mentre il comunicato stampa di Documenta prende semplicemente atto che si tratta di minacce “con motivazioni politiche”, senza menzionare che il bersaglio erano gli artisti palestinesi e senza qualificare questo atto come crimine di odio.

MEE ha sollecitato l’ufficio stampa di Documenta relativamente alla scelta dei termini, ma non ha ricevuto alcuna risposta. 

Il fatto è che, per cominciare, non sono neanche capaci di definire (questo attacco) per quello che è. Il problema riguardo alla maggior parte delle risposte agli attacchi razzisti da parte di Documenta 15, a prescindere dalla loro buona volontà, è che contribuiscono a questa mancanza di chiarezza”, lamenta con MEE Edwin Nasr, operatore culturale e giornalista che vive ad Amsterdam.

Firas Shehadeh, artista palestinese che vive a Vienna, spiega a MEE che il tentativo di Documenta di presentare l’attacco come un incidente isolato “svia l’attenzione dal fatto che si tratta di un attacco razzista.”

Aggiunge che Documenta ha pubblicato questo comunicato solo in seguito alla pressione esercitata dalla solidarietà palestinese e internazionale.

Tuttavia, ha aggiunto, questo comunicato non fa che ripetere il discorso anti-palestinese. “Non hanno nemmeno nominato la vittima – la Palestina o i palestinesi” ribadisce. “Al contrario, questo comunicato serve a nascondere il loro fallimento nel proteggere gli artisti invitati che volevano solamente contribuire al panorama artistico contemporaneo internazionale.”

Documenta è un ente finanziato da fondi pubblici. Secondo Lara Khalidi questo lo rende soggetto all’autocensura, cosa che limita la sua capacità di esprimersi sulla questione per timore di venire privato dei finanziamenti.

Non c’è alcun dubbio che, se si trattasse di un ente del tutto diverso, si definirebbe tutto questo un crimine di odio”, assicura.

Per garantire la sicurezza degli artisti ed attivisti palestinesi e filopalestinesi non vogliamo solo misure di sicurezza e un maggior numero di poliziotti, ma una posizione forte e chiara che lo denunci per quello che è: razzismo antipalestinese.”

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




I palestinesi “sono destinati a vincere”: perché gli israeliani profetizzano la fine del loro Stato

Ramzy Baroud

13 giugno 2022 – Middle East Monitor

Se è vero che il sionismo è un’ideologia politica moderna che ha sfruttato la religione per raggiungere specifici obiettivi coloniali in Palestina, le profezie continuano a essere una componente fondamentale della percezione di Israele di se stesso e del rapporto dello Stato con altri gruppi, in particolare i gruppi messianici cristiani negli Stati Uniti e nel mondo.

Il tema delle profezie religiose e della loro centralità nel pensiero politico israeliano è stato nuovamente messo in luce dopo le osservazioni dell’ex primo ministro israeliano Ehud Barak in una recente intervista al quotidiano in lingua ebraica Yedioth Ahronoth [quotidiano di centro, ndt.]. Barak, percepito come un politico “progressista”, leader un tempo del Partito laburista israeliano, ha espresso il timore che Israele “si disintegrerà” prima dell’80° anniversario della sua fondazione, avvenuta nel 1948.

Barak afferma: “Nel corso della storia ebraica gli ebrei non hanno mai governato per più di ottant’anni, tranne che nel corso dei due regni di Davide [intorno al 1000 a.c., ndt.] e della dinastia degli Asmonei [dal 140 al 63 a.c., anno della conquista romana, ndt.] e in entrambi i periodi il loro crollo iniziò nell’ottavo decennio”.

Basata su un’analisi pseudo-storica, la profezia di Barak sembra fondere i fatti storici con il tipico pensiero messianico israeliano, rievocando le dichiarazioni fatte dall’ex primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu nel 2017.

Come Barak, le considerazioni di Netanyahu vennero proferite sotto forma di paura per il futuro di Israele e l’incombente “minaccia esistenziale”, la pietra angolare dell’hasbara [parola in lingua ebraica che indica gli sforzi di propaganda per diffondere all’estero informazioni positive sullo Stato di Israele e le sue azioni, ndt.] israeliana nel corso degli anni. In una sessione di studi biblici nella sua casa di Gerusalemme, Netanyahu aveva poi ricordato che il regno asmoneo, noto anche come dei Maccabei, sopravvisse solo 80 anni prima di essere conquistato dai romani nel 63 a.c.

Secondo una dichiarazione di uno dei partecipanti citata dal quotidiano israeliano Haaretz, Netanyahu avrebbe detto: ” Lo Stato Asmoneo è durato solo 80 anni e noi dovremmo superarlo“.

Ma, pur prendendo atto della presunta determinazione di Netanyahu di andare oltre quel numero [di anni, ndt.], sembra che egli abbia promesso di garantire che Israele superi gli 80 anni dei Maccabei per sopravvivere per 100 anni. Sono solo 20 anni in più.

La differenza tra le affermazioni di Barak e Netanyahu è abbastanza trascurabile: le opinioni del primo sono presumibilmente “storiche” e quelle del secondo sono bibliche. È tuttavia degno di nota che entrambi i leader, sebbene aderiscano a due diverse correnti politiche, convergano su punti di incontro simili: è in gioco la sopravvivenza di Israele; la minaccia esistenziale è reale e la fine di Israele è solo questione di tempo.

Ma il pessimismo in Israele non è certo confinato ai leader politici, che sono noti per esagerare e manipolare i fatti allo scopo di instillare paura e mobilitare i loro schieramenti politici, in particolare i potenti gruppi elettorali messianici di Israele. Anche se questo è vero, le previsioni sul cupo futuro di Israele non si limitano alle élite politiche del Paese.

In un’intervista ad Haaretz del 2019 Benny Morris, uno degli storici israeliani più conosciuti e rispettati, ha avuto molto da dire sul futuro del suo Paese. A differenza di Barak e Netanyahu, Morris non stava inviando segnali di allarme, ma affermava quello che a lui sembrava un risultato inevitabile dell’evoluzione politica e demografica del Paese.

“Non vedo come ne usciremo”, ha detto Morris, aggiungendo: “Oggi ormai ci sono più arabi che ebrei tra il mare (Mediterraneo) e il (fiume) Giordano. L’intero territorio sta inevitabilmente diventando uno Stato con una maggioranza araba. Israele si definisce ancora uno Stato ebraico, ma una situazione in cui governiamo un popolo sotto occupazione e senza diritti non può persistere nel XXI° secolo”.

Le previsioni di Morris, pur rimanendo fedeli ai miti razziali di una maggioranza ebraica, erano molto più articolate e anche realistiche rispetto a quelle di Barak, Netanyahu e altri. L’uomo che una volta si rammaricò che il fondatore di Israele, David Ben Gurion, non avesse espulso tutta la popolazione nativa della Palestina nel 1947-48, ha affermato con rassegnazione che, nel giro di una generazione, Israele cesserà di esistere nella sua forma attuale.

Particolarmente degna di nota nelle sue affermazioni è l’accurata percezione che “i palestinesi osservano le cose secondo una prospettiva ampia e a lungo termine” e che essi continueranno a “chiedere il ritorno dei rifugiati”. Ma chi sono i “palestinesi” a cui si riferisce Morris? Certamente non l’Autorità Nazionale Palestinese, i cui leader hanno ormai messo da parte il Diritto al Ritorno per i rifugiati palestinesi, e sicuramente non hanno “prospettive ampie e a lungo termine”. I “palestinesi” di Morris sono, ovviamente, lo stesso popolo palestinese, generazioni che hanno servito, e continuano a servire, in prima linea la causa dei diritti palestinesi nonostante tutte le battute d’arresto, le sconfitte e i “compromessi” politici.

In realtà le profezie riguardanti la Palestina e Israele non sono un fenomeno nuovo. La Palestina fu colonizzata dai sionisti con l’aiuto della Gran Bretagna, anche sulla base di quadri di riferimento biblici. Venne popolata da coloni sionisti sulla base di riferimenti biblici riguardanti la restaurazione di antichi regni e il “ritorno” di antichi popoli ad una loro presunta legittima “terra promessa”. Sebbene Israele abbia assunto molti significati diversi nel corso degli anni – a volte percepito come un’utopia ‘socialista’, in altri casi come un rifugio democratico e liberale – è sempre stato ossessionato da significati religiosi, visioni spirituali e inondato da profezie. L’espressione più sinistra di questa verità è il fatto che l’attuale sostegno a Israele da parte di milioni di fondamentalisti cristiani in Occidente è in gran parte guidato da profezie messianiche sulla fine del mondo.

Le ultime previsioni sul futuro incerto di Israele si basano su una logica diversa. Poiché Israele si è sempre definito uno Stato ebraico, il suo futuro è principalmente legato alla sua capacità di mantenere una maggioranza ebraica nella Palestina storica. Per ammissione di Morris e altri questo sogno irrealizzabile sta ora sgretolandosi poiché la “guerra demografica” si sta chiaramente e rapidamente perdendo.

Naturalmente, la convivenza in un unico Stato democratico sarà sempre una possibilità. Purtroppo per gli ideologi sionisti israeliani un tale Stato difficilmente soddisferà le aspettative minime dei fondatori del Paese, poiché non esisterebbe più nella forma di uno Stato ebraico e sionista. Perché si realizzi una coesistenza l’ideologia sionista dovrebbe essere totalmente eliminata.

Barak, Netanyahu e Morris lo stanno bene: Israele non esisterà come ‘Stato ebraico’ ancora per molto. Parlando rigorosamente in termini demografici, Israele non è più uno Stato a maggioranza ebraica. La storia ci ha insegnato che musulmani, cristiani ed ebrei possono coesistere pacificamente e prosperare collettivamente, come hanno fatto in tutto il Medio Oriente e nella penisola iberica per millenni. In effetti, questa è una predizione, persino una profezia, per la quale vale la pena lottare.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Il Museo della Tolleranza di Gerusalemme ha poco a che fare con i musei o la tolleranza

Nir Hasson

12-giugno-2022-Haaretz

In contrasto con il Museum of Tolerance di Los Angeles, il museo di Gerusalemme costruito su un antico cimitero musulmano — non tratterà dell’Olocausto. Il grandioso progetto ospiterà invece convegni, sagre e concerti.

Negli ultimi 18 anni i gerosolimitani sono stati tenuti fuori dall’enorme complesso che si trova tra le strade di Hillel e Menashe Ben Yisrael, nel cuore della città. Solo dopo una serie infinita di lamentele – tra scandali, crisi e liti legali – l’enorme Museo della Tolleranza è stato finalmente completato e si è avuta una graduale risoluzione dell’enigma: qual è il vero scopo del grande edificio bianco?

Il termine “museo” qui è fuorviante. Anche i direttori del sito lo ammettono. Il complesso comprende due piccoli musei, ma costituiscono solo una piccola parte dello spazio assegnato e degli scopi designati per il centro. La maggior parte delle attività previste qui saranno culturali ed educative: spettacoli, convegni, proiezioni di film ed eventi legati al cibo. “Faremo rivivere il centro della città”, promettono i responsabili del museo. Nel frattempo, devono risolvere un’altra controversia con il comune.

La storia del Museo della Tolleranza è iniziata nel lontano 2004, a seguito di un accordo tra l’allora sindaco Ehud Olmert e il rabbino Marvin Hier per l’assegnazione di terreni per un nuovo progetto speciale. Hier è il direttore del Simon Wiesenthal Center e uno dei fondatori del Museum of Tolerance di Los Angeles. Ha ampi legami con donatori: politici e celebrità statunitensi. La visione originale era quella di costruire un museo progettato dal famoso architetto Frank Gehry su un lotto vuoto, tra Independence Park e la colloquialmente chiamata Cats’ Square.

Alla cerimonia di posa della pietra angolare partecipò l’allora governatore della California Arnold Schwarzenegger, che promise che i musei della tolleranza avrebbero promosso l’idea di tolleranza proprio come le palestre promuovono la salute. Ma, nonostante il fascino hollywoodiano, il progetto incontrò problemi sin dall’inizio: la posa delle fondamenta della struttura rivelò che il vecchio parcheggio era stato costruito su una parte dell’antico cimitero musulmano della città, con centinaia di scheletri che spuntavano. Ciò ritardò la costruzione del museo di diversi anni dopo che il Movimento islamico si rivolse all’Alta Corte di giustizia.

La corte alla fine permise la continuazione della costruzione. Gli scheletri furono rimossi con un controverso scavo archeologico e il museo iniziò a prendere forma. Poi arrivò la crisi economica del 2008 che fece sì che il Centro Wiesenthal incontrasse difficoltà finanziarie. Gehry decise di abbandonare il progetto a causa delle controversie finanziarie e venne sostituito dagli architetti israeliani Bracha e Michael Hayutin. Anche loro ebbero dissapori con gli impresari e abbandonarono il progetto, venendo sostituiti dall’architetto Yigal Levi. La costruzione riprese e il grande edificio bianco crebbe verso l’alto.

Il progetto ha subìto un’altra crisi in seguito allo scoppio del coronavirus. Mentre altre società di costruzioni hanno continuato a lavorare nonostante la pandemia, i lavori al museo si sono interrotti per quasi due anni perché veniva costruito senza l’utilizzo di una ditta appaltatrice. Gli impresari hanno acquistato una società di costruzioni israeliana e hanno costruito la struttura utilizzando lavoratori ed esperti provenienti principalmente dalla Cina. Quando è scoppiata la pandemia, i lavoratori erano bloccati in Cina, impossibilitati a tornare in Israele. L’anno scorso i lavori sono ripresi e l’edificio era quasi ultimato.

Nella costruzione del museo sono state utilizzate tecniche innovative e all’avanguardia. Ad esempio, dal Portogallo sono state importate decine di migliaia di pietre che ricoprono l’esterno. Rimangono appese con un sistema di ganci, con scale che sembrano sospese a mezz’aria. I direttori del museo sono orgogliosi dell’alta qualità della finitura, sconosciuta negli edifici pubblici israeliani.

Inoltre vengono utilizzati un intonaco acustico speciale importato dalla Germania, pavimenti laminati importati dagli Stati Uniti, eleganti bagni accessibili, con illuminazione all’ultimo grido, sistemi audio e multimediali all’avanguardia, nonché mobili esclusivi importati dall’Italia e dalla Spagna, finestre intelligenti, porte insonorizzate, un auditorium polifunzionale in grado di adattarsi a diversi scopi, soffitti mobili ed altro ancora. Fonti del Wiesenthal Center non dicono quali siano stati i costi totali fino ad ora, ma sono stimati in oltre mezzo miliardo di shekel (150 milioni di dollari).

Il carattere sfarzoso dell’edificio serve a sottolineare l’incertezza lunga anni sui suoi usi. In contrasto con il Museum of Tolerance di Los Angeles, dedicato principalmente allo studio dell’Olocausto, il museo di Gerusalemme, sulla base delle richieste di Yad Vashem, starà lontano dall’argomento. Con il proseguimento dei lavori i funzionari del municipio si sono resi conto che non si trattava di un normale museo, ma di una combinazione di un centro culturale, una sala congressi, un luogo di intrattenimento e una piazza cittadina.

In un’intervista con Haaretz i direttori del museo rivelano i loro progetti futuri, chiedendo un po’ più di pazienza ai residenti di Gerusalemme, promettendo che la sede diventerà il cuore pulsante della città. “Saremo una casa per tutti, dalla tenda di Abramo all’arca di Noè. Immagina di prelevare il Peres Center for Peace da Jaffa e trasportarlo a Gerusalemme”, afferma Jonathan Riss, il cui titolo è responsabile delle operazioni ma che segue questo progetto da 21 anni. “Il museo farà rivivere il centro della città”, promette.

Secondo il piano strategico preparato da Ayelet Frisch, ex consigliere di Shimon Peres, l’edificio fungerà da centro culturale con annesso luogo di intrattenimento. Nella parte anteriore c’è un giardino che commemora leader e premi Nobel. Dal giardino si accede ad un anfiteatro con una capienza di 1.000 persone.

Tra i sedili e il palco c’è un pavimento in vetro, che ricopre parti di un antico acquedotto scoperto durante i lavori. Sul palco c’è un sistema audiovisivo. L’anfiteatro si trasformerà in un cinema all’aperto, uno spazio per eventi e spettacoli e un’area meeting. All’interno dell’edificio si trova un altro teatro con 400 poltrone importate dall’Italia. Nelle pareti e nel soffitto è presente un sistema di illuminazione che può cambiare l’atmosfera nell’auditorium. L’auditorium, secondo i costruttori, sarà un centro conferenze che ospiterà eventi aziendali e allestimenti di spettacoli. Dietro il palco ci sono stanze per artisti. Altre destinazioni d’uso dell’edificio sono feste enogastronomiche, eventi per bambini e laboratori artistici.

L’edificio ha altri auditorium, aule per conferenze, uno spazio per un negozio di articoli da regalo, un ristorante, tre gigantesche cucine (carne, latticini e pareve [cibo non contenente né carne né latticini e quindi consumabile con uno degli altri due, ndt]), balconi con vista sul cimitero musulmano e sul Parco dell’Indipendenza, una sala di studio religioso con un piano separato per le donne e anche un’area per la polizia, destinata a contrastare possibili beghe provenienti da Cats’ Square. I livelli dell’edificio sono collegati tramite un sistema di scale sospese e un ascensore con una capacità di 80 persone. Le pareti dell’ascensore sono ricoperte da schermi a LED.

I due piani inferiori ospiteranno i due musei, il Museo della Tolleranza per i bambini e un Museo della Tolleranza per gli adulti. Conterranno ologrammi e sistemi multimediali che racconteranno la tolleranza nella società israeliana. Questi due spazi sono quelli più lontani dal completamento. I funzionari del museo affermano che anche se l’edificio verrà aperto presto, ci vorrà un altro anno e mezzo prima che parti del museo vengano aperte al pubblico. Il museo spera che il sito diventi una destinazione per alunni, soldati e poliziotti a Gerusalemme, un punto di riferimento per l’attività economica e culturale locale.

I funzionari del museo respingono le accuse secondo cui lo scopo dell’edificio è gradualmente cambiato nel corso degli anni e che, invece di un museo della tolleranza, Gerusalemme ha acquisito un elegante centro congressi. Dicono che tutti gli usi attualmente previsti fossero nei piani originali presentati quasi 20 anni fa. Ammettono che il nome “museo” è alquanto fuorviante e che i principali usi finali non saranno legati al museo.

Volevamo diventare un luogo che attirasse Paul McCartney a Gerusalemme, un luogo che aprisse una porta culturale nella città. Se non fosse stato per i ritardi causati dalla pandemia e dalla burocrazia l’edificio sarebbe ormai frequentatissimo, con sagre gastronomiche, spettacoli ed eventi adatti a una madre ultraortodossa e a un bambino musulmano”, afferma Frisch.

Il museo respinge un’altra affermazione: che sia legato all’ala destra dello schieramento politico. Otto mesi fa vi si è tenuto il primo evento, una cerimonia che segnava l’istituzione del Friedman Center for Peace. David Friedman era l’ambasciatore degli Stati Uniti in Israele durante l’amministrazione Trump. All’evento c’era un elenco di alti funzionari di quell’amministrazione. Un corrispondente della CNN ha descritto l’evento come “cadere nello specchio di Alice nel Paese delle Meraviglie”, in una realtà alternativa in cui Trump è ancora presidente e Benjamin Netanyahu, che ha partecipato alla cerimonia, è ancora primo ministro.

Il fatto che il museo si sia impegnato ad affrontare la tolleranza nello sport e nei sistemi sanitari e educativi, sebbene apparentemente riluttante ad affrontare i problemi reali di Gerusalemme, come l’occupazione, la discriminazione e le violazioni dei diritti umani, ha contribuito alla sua immagine di istituzione di destra. “Non ignoro il problema arabo”, dice Riss.

Il nostro obiettivo è aiutare le persone a comprendere il disagio degli altri. Non posso intraprendere la missione di cambiare la società israeliana, ma sto cercando di trovare un ponte per il dialogo culturale attraverso film e multimedia”. I direttori del museo promettono che ci sono alcuni progetti in cantiere che contrastano con la loro immagine destrorsa. Chiedono di non pubblicare i nomi delle persone che hanno l’intenzione di partecipare, solo di rilevare che provengono dal lato “liberal” dello schieramento politico americano.

Nel frattempo il museo si è trovato in un altro conflitto con il Municipio di Gerusalemme. Molte persone al comune sono stufe della lentezza del completamento del museo. Dicono che il Centro Wiesenthal ha ottenuto il terreno più desiderabile e costoso della città, ma che rimane chiuso dietro le recinzioni, inaccessibile ai gerosolimitani da troppo tempo. “Il divario tra le loro dichiarazioni e azioni è molto grande”, afferma un alto funzionario della Città.

A causa di questa frustrazione è scoppiato un conflitto su Cats’ Square, di fronte al museo. Il progetto originale prevedeva che questa piazza facesse parte del complesso museale, con un altro auditorium costruito su di essa. Ma questo avrebbe richiesto alla città di trasferire la piazza ai costruttori del museo, cosa che si rifiuta di fare. L’anno scorso il museo si è rivolto al tribunale distrettuale, chiedendo che ordinasse al comune di trasferire il terreno. Mentre continuano i procedimenti legali, la scorsa settimana la città ha approvato una dura mozione contro il museo.

La mozione rivendica la nullità dell’accordo con il museo per il trasferimento della piazza. Il consiglio comunale ha chiesto l’apertura del museo entro quattro mesi. I funzionari della Città ammettono che non possono costringere i costruttori ad aprire, ma hanno affermato che potrebbero rendere loro le cose difficili. Nel frattempo la Città si rifiuta di consentire lo svolgimento di ulteriori eventi nel luogo. Una grande festa per il Giorno dell’Indipendenza che era stata programmata lì è stata cancellata. Di fronte a questi problemi, le imprese non si impegnano a fissare una data di apertura, ma affermano che accadrà entro mesi, non anni.

“Il museo ha infranto una serie di impegni”, afferma la componente del consiglio comunale Laura Wharton (Meretz). “Non solo non hanno rispettato i tempi, hanno cambiato la finalità principale di costruire un museo, per la quale era stato concesso il terreno. I costruttori ora ammettono che l’edificio fungerà da centro congressi, con un possibile uso secondario come museo. Non c’è trasparenza sui contenuti, che fino ad ora rimangono segreti. Lasciando da parte la questione se un cimitero musulmano sia un luogo appropriato per un museo della tolleranza, che dire se un centro città sia adatto per un centro congressi o luogo per eventi sfarzosi?”

Gli impresari sono convinti che il conflitto con il municipio sarà risolto. Elogiano il sindaco Moshe Leon, promettendo che, dopo tutti questi anni, la costruzione dell’edificio è giunta alla fase conclusiva. “Ciò che rende una città una capitale è la sua attività sociale ed economica: questo è ciò che stiamo contribuendo a dare a Gerusalemme e sarà sorprendente”, afferma Riss.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)