Mariam Barghouti
15 agosto 2022 Mondoweiss
Ibrahim Al-Nabulsi ha dimostrato che è possibile riaccendere lo spirito di resistenza di una nuova generazione. Ecco perché Israele lo ha ucciso.
Huda, o Um Eyad, madre di Ibrahim al-Nabulsi, combattente della resistenza ucciso a 18 anni, siede accanto alla sua unica figlia e unica sorella di Ibrahim, Shahd al-Nabulsi, 23 anni.
L’abito blu scuro di Shahd contrasta con il suo pulito velo viola. C’è una macchia sotto le sue mani, sul lato sinistro dell’abito. Leggermente più scura del resto del vestito, sembra fuori luogo. Um Eyad cattura il mio sguardo. «È il sangue di Ibrahim, questa macchia», dice. Proprio il giorno prima, il 9 agosto, Um Eyad ha perso il suo terzogenito, Ibrahim, che non avrebbe più compiuto i 19 anni in ottobre.
Nel pomeriggio, il cimitero Gharbiyyeh di Khallet al-Amoud a Nablus si è appesantito di tre corpi. Ibrahim al-Nabulsi, Hussein Taha e Islam Subuh vi riposano in pace. I tre sono stati uccisi il 9 agosto nella città vecchia di Nablus, nella Cisgiordania settentrionale occupata, in un’operazione militare israeliana in coordinamento con l’intelligence israeliana.
Um Eyad è ora facilmente riconoscibile – i social media palestinesi sono stati inondati dalla sua immagine che fendeva la folla di migliaia per lo più uomini che assistitevano al funerale dei martiri, portando il cadavere del “Leone di Nablus“.
Era un quadro diverso dalle immagini comuni di uomini che trasportano i morti. Non lo faceva perché era il corpo di una nuova icona palestinese – era suo figlio.
Il 10 agosto, all’interno della piccola sala di comunità nel quartiere Khallet Al-Amoud della Città Vecchia di Nablus, le donne sedevano in abiti neri a contrasto con le luminose sciarpe bianche sulle teste. Le spalle coperte da kuffiyeh palestinesi bianche e nere rendevano più facile a coloro che porgevano le condoglianze distinguerle dal resto della folla di donne in lutto.
Il più giovane dei martiri, Hussein Taha, aveva solo 16 anni quando fu ucciso. Sua madre e sua sorella sedevano accanto a Um Eyad, in lacrime e sorrisi stentati nel riconoscere gli ospiti che si radunavano. Anche il maggiore dei martiri, Islam Subuh, 32 anni, è stato ucciso nella battaglia, un evento che segna ora una nuova era della resistenza armata palestinese.
La stanza era piena di madri, mogli e sorelle di martiri palestinesi uccisi dal regime coloniale. Sulla scena continuavano ad arrivare autobus con le famiglie dei martiri di Jenin e altre zone della Cisgiordania. Le giovani donne della piccola città di Khallet al-Amoud si muovevano rapidamente per servire caffè – una tradizione del lutto in Palestina – e acqua per la sete delle persone in lutto col caldo.
“Gli avevo comprato un cappellino”, ha detto a Mondoweiss Shahd, 23 anni, il giorno dopo l’assassinio di suo fratello Ibrahim nel municipio a poche centinaia di metri dalla casa di famiglia. Trattenendo le lacrime, Shahd si dispera di non aver potuto darglielo. Fa un respiro e sussurra una preghiera, “al-hamdulilah [lode a Dio]”, un’espressione di umiltà e gratitudine per il proprio destino, comunemente ripetuta sia nei momenti di difficoltà che di gioia.
“Era così amato nella comunità”, ha detto a Mondoweiss Haifa, la zia di al-Nabulsi, 41 anni. “Era anche così ribelle e tenace. È cresciuto in queste strade, non sono strade facili in cui crescere, specialmente nei primi anni di infanzia”.
Ibrahim è nato nel 2003, nel pieno della Seconda Intifada, quando la città natale di Nablus era costantemente sotto assedio da parte dell’esercito israeliano.
Dalla sua nascita, ogni anno sempre più bambini palestinesi come lui venivano uccisi e arrestati dall’esercito israeliano. Proprio l’anno scorso, il 2021, è stato documentato come il più letale per i bambini palestinesi dal 2014, per via degli attacchi israeliani da parte di coloni e militari.
Incastrato tra le antiche mura
Nella Città Vecchia, ogni angolo reca le tracce di una battaglia che i palestinesi hanno combattuto contro i coloni o l’esercito israeliano. E se no le vecchie mura sono segnate da pietre più recenti, di ristrutturazioni seguite alle parziali distruzioni della città durante le invasioni.
La città vecchia di Nablus è piena di manifesti di palestinesi uccisi, da combattenti della resistenza a bambini trattenuti ai posti di blocco. Poster appena stampati con foto di al-Nabulsi e dei suoi compagni caduti decorano le pareti. Alcuni striscioni sembrano più vecchi dello stesso al-Nabulsi, ma in agosto il quartiere di Faqous nella Città Vecchia si è riempito della storia del “Leone di Nablus” palestinese.
“Fammi una foto, fammi una foto”, dice uno dei bambini, chiamandomi mentre mi dirigo verso il quartiere di Al-Faqous, alla ricerca delle tracce dell’assalto israeliano del 9 agosto.
Il bambino, con il suo cane Luka, posa con gli amici. Mentre il fotografo scatta la foto, noto una collana sul collo del ragazzo, con la foto di un altro ragazzo. La collana somiglia ad altre che avevo visto prima sul collo delle donne nella sala del lutto, immagini di familiari uccisi o imprigionati.
Gli ho chiesto chi era nella foto. «Un mio amico », dice con un sorriso timido.
Subito ho pensato che fosse suo padre, suo fratello o suo zio, perché nella cultura palestinese queste collane non servono semplicemente per commemorazione o esibizione, ma sono autentiche testimonianze della perdita di una persona cara per mano dell’occupazione. Non mi ero resa conto che la foto fosse di un altro ragazzo.
L’amico del ragazzo era Ghaith Yamin, il sedicenne ucciso a Nablus con un colpo di arma da fuoco alla testa mentre si trovava sul tetto di casa sua, vicino alla Tomba di Giacobbe, quando lo scorso 24 maggio l’esercito israeliano ha fatto irruzione nella città.
In qualche modo ho capito l’ostilità di cui parlava Haifa solo poche ore prima ricordando l’infanzia di al-Nabulsi. La continua violenza a cui hanno assistito bambini, giovani e adulti palestinesi di ogni ceto e in modi così diversi si sentiva più cocente mentre il ragazzo cercava di confortare Luka, che si era messa ad abbaiare.
La luna sorta e alta in cielo, la moschea Khudari nella Città Vecchia fa eco alla chiamata alla preghiera maghrebina, “Allahu Akbar [Dio è grande]”. Un mantra islamico che significa umiltà; i vicoli risuonano ricordando che solo Dio è grande e il resto è solo umanità. La luce dorata che baluginava pochi istanti prima è scomparsa e la porta crivellata di proiettili dove sono stati uccisi al-Nabulsi e Subuh diventa invisibile.
Un gruppo di uomini nelle vicinanze segue la mia intrusione. Eppure, se un turista fosse passato vicino non si sarebbe reso conto del delitto perpetrato lì solo due sere prima.
Il cucciolo testardo
Secondo chi l’ha conosciuto, prima di diventare un combattente della resistenza al-Nabulsi era un tipico adolescente, leale e aggressivo allo stesso tempo. Le storie che sua zia raccontava mi hanno ricordato molti uomini, un tempo ragazzi, che ho incontrato nelle città della Palestina. Al-Nabulsi è ricordato da bambino come un “Nimrood”, termine preso a prestito dalla storia biblica di Nimrod per indicare lo spirito di un ribelle che rifiuta di sottomettersi all’autorità.
I vicoli di Al-Faqous e le macerie lasciate dall’esercito israeliano all’interno dell’edificio in cui fu assassinato al-Nabulsi richiamano alla memoria le violente invasioni dell’esercito israeliano nel 2002 a Nablus e Jenin.
All’epoca, la Città Vecchia era obiettivo di una spietata campagna militare di bombardamenti e scontri di strada, che danneggiavano non solo i rifugi, i mezzi di sussistenza e le persone palestinesi, ma distruggevano anche reperti storici in una città fra le più antiche al mondo. È stato anche il momento in cui le autorità e i ministri israeliani hanno impostato la famigerata politica del “fuoco aperto”.
Quasi esattamente due decenni dopo la scena sembra familiare ai residenti. Il sangue di al-Nabulsi, o forse Subuh, è schizzato sui muri all’interno della casa demolita, segnando il luogo della loro ultima resistenza. Se non avessimo avuto le torce sarebbe stato difficile capacitarci dell’entità del crimine. In un angolo di quella che sembra essere stata usata come cucina c’era un unico sacchetto di pane pita e una padella. Tra i detriti anneriti c’era il marrone e giallo brillante di una tavoletta di cioccolato Aero, mai aperta.
La dichiarazione di due decenni fa, quando nei primi anni 2000 il governo israeliano stava decidendo di lanciare un attacco, sembra ancora attuale: “Israele agirà per sconfiggere l’infrastruttura del terrore palestinese in tutte le sue sezioni e componenti; a tal fine, sarà intrapresa una vasta azione fino a quando questo obiettivo non sarà raggiunto”. In quegli anni, intere città erano sottoposte al coprifuoco, e le persone potevano uscire di casa solo per fare la spesa ogni tre o quattro giorni ad un’ora stabilita.
La pandemia mondiale di COVID-19 ha forse dato al mondo un piccolo assaggio di cosa significhi essere costretti a rimanere chiusi in casa per lunghi periodi di tempo, anche se senza la costante minaccia di bombe e morte che incombe su di te da ogni parte. Nell’infanzia di al-Nabulsi, questa non solo era la norma, era anche imposta dai carri armati e dalle truppe paramilitari israeliane che hanno in seguito ammesso di aver commesso crimini di guerra.
Ancora ai nostri giorni i ministri israeliani giustificano quei crimini esaltandone la capacità di scoraggiare l’attività di resistenza. Eppure, più di due decenni dopo, la falsità delle affermazioni di Israele è evidente nella persistenza della resistenza palestinese. Ciò sottolinea che la strategia militare di Israele non solo si è rivelata inefficace, ma fa anche un uso ambiguo della voce “sicurezza nazionale” per nascondere le politiche criminali di pulizia etnica
Ibrahim al-Nabulsi, nato anche lui al culmine della Seconda Intifada palestinese, divenne rapidamente una leggenda nelle strade palestinesi e tra la sua generazione. La resistenza palestinese si è scontrata con carri armati, missili e distruzioni di massa. Circa un mese prima di nascere, al-Nabulsi ancora nel grembo materno, i militari israeliani demolirono un edificio di 7 piani come punizione collettiva usando l’artiglieria pesante sulle case dei civili. Solo tre anni prima, un’immagine di Faris Odeh, il bambino che affrontava un carro armato militare israeliano a Gaza, si diffuse in tutto il mondo, impersonando la battaglia tra il proverbiale David palestinese che affronta un imponente Golia israeliano.
I primi anni dell’infanzia di al-Nabulsi hanno coinciso con i crimini militari israeliani nei campi profughi di Jenin e Nablus tra il 2001 e il 2004. Nonostante la conferma e l’ampia documentazione, i comandanti e i soldati israeliani non sono ancora stati incriminati.
A quel tempo, anche la Cisgiordania stava esplodendo grazie ai combattenti della resistenza armata palestinese. Nel marzo 2002 il regime israeliano lanciò l’Operazione Scudo di Difesa, che ha una sorprendente somiglianza con l’attuale campagna lanciata esattamente 20 anni dopo nel marzo di quest’anno, Operazione Break the Wave. Che comprende l’operazione Breaking Dawn, l’attacco di tre giorni alla Striscia di Gaza in cui sono stati uccisi decine di civili, compresi molti bambini.
Un dispaccio ufficiale dell’esercito israeliano ha definito i “risultati” dell’operazione Scudo di Difesa in termini di arresto di “molti terroristi ricercati” e sequestro di “quantità enormi di armi” da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP). Questo ha segnato il momento in cui la strategia israeliana di sradicare sistematicamente i rifugi della resistenza palestinese ha portato all’emarginazione di gruppi armati come la Brigata dei martiri di Al-Aqsa (l’ala militare di Fatah) all’interno del panorama politico della Cisgiordania. Secondo quanto riferito, Al-Nabulsi era diventato un membro proprio di quella brigata, che, nonostante la campagna di repressione israeliana e la collusione dell’Autorità Nazionale Palestinese nel disarmo, è riuscita a sopravvivere e riorganizzarsi, stabilendo una presenza crescente anche se tenue in luoghi come Jenin e la Città Vecchia di Nablus.
Le parole della madre di al-Nabulsi, Um Eyad, mi risuonano ancora nelle orecchie quando diceva: “Non voglio concedergli nemmeno le mie lacrime. Ibrahim è un martire, al-hamdulilah». Queste parole non sembravano consolare davvero il suo dolore, ma almeno consentivano di collocarlo in una speranza di cambiamento.
Dopo essere scoppiata a gridare in ospedale quando il dottore ha annunciato scusandosi “istash-had [è stato martirizzato]”, Um Eyad ha in seguito detto a una folla di persone in lutto: “Si sbagliano se pensano di aver ucciso Ibrahim. Tutti sono Ibrahim”.
Considerando quelle parole ho pensato alla forza di questa donna, a come ha messo da parte il proprio dolore per dimostrare a tutti il vero significato del sacrificio di Ibrahim. Poi ho detto fra me e me una preghiera: che nessuna madre sia messa nella posizione di trovare in qualche modo la forza di portare come simbolo il nome del figlio ucciso.
Dopo aver raccontato diverse storie di famiglie di martiri e aver assistito al dolore di mia madre quando suo nipote fu ucciso nella Seconda Intifada, ho appreso necessariamente un diverso tipo di dolore. Non è semplicemente la perdita di un figlio, un fratello, un marito, una figlia, una sorella o una moglie: è la brutalità della perdita per mano di un regime criminale. Una volta una madre lo descrisse come qualcosa di simile a un costante bruciore nel petto.
Mai nascosto, Al-Nabulsi era connesso alla sua realtà
“È stato come un film dell’orrore, continuo a ricordare i giorni dell’invasione”, ha detto a Mondoweiss accanto al luogo dell’assassinio S., una vicina. “Era così gentile.”
Ha ricordato quando negli ultimi mesi lo vedeva camminare per la Città Vecchia, sfuggendo a diversi tentativi di omicidio israeliani.
“Continuo a non crederci”, dice Shahd, sorella di al-Nabulsi, mentre la sua piccola Mariam si slancia col magro corpo sulle scale di cemento sotto il vestito blu scuro della madre.
Nel mese prima della sua uccisione la Città Vecchia ha visto al-Nabulsi più della sua stessa famiglia. “Mi dispiace, non verrò con te sul luogo [dell’assassinio]”, mi ha detto il ricercatore palestinese residente nella Città Vecchia di Nablus Bassel Kittaneh, da un tetto di fronte alla moschea più vicina al luogo dove al-Nabulsi è stato ucciso. Ha spiegato scusandosi: “Non sono ancora pronto”.
Giorni dopo l’uccisione di al-Nabulsi, Taha e Subuh, i quartieri della Città Vecchia erano ancora pieni di vita. Nonostante la terribile perdita, c’è stata una rinnovata fiamma di sfida che il suo personaggio ha acceso – una dimostrazione di rispetto per come un giovane quale al-Nabulsi sia stato in grado di compattare la forza di uno degli apparati di sicurezza più potenti del mondo, i Servizi di sicurezza generali (Shin Bet) e l’esercito israeliano, per chiedere il suo assassinio.
Secondo testimoni e residenti della Città Vecchia di Nablus e delle città vicine, al-Nabulsi non si è mai nascosto. Quando lo si vedeva camminare non era necessariamente con orgoglio, ma con una postura che faceva pensare a uno che si assumesse delle responsabilità. Chiunque in Palestina sfogliando TikTok troverà i post di residenti di Nablus che hanno filmato Nabulsi mentre camminava per la Città Vecchia, chiamandolo per nome e scattandosi selfie con lui che sorrideva quasi imbarazzato. Era quasi come se lo stessero salutando, sapendo che prima o poi sarebbe stato martirizzato.
“Era sincero e gentile nei suoi rapporti”, mi ha detto Kittaneh.
Eppure, nonostante la forza e la sfida dimostrate da al-Nabulsi negli scontri, è discutibile che al-Nabulsi costituisse la minaccia che i media e i portavoce militari israeliani hanno fatto credere. Ma ciò che Nabulsi rappresentava – la minaccia di riaccendere lo spirito di resistenza armata in Cisgiordania – era qualcosa che Israele non era disposto a lasciar accadere. In effetti, l’esercito israeliano ha preso di mira i palestinesi sospettati di resistenza armata e li ha assassinati extragiudizialmente come parte dell’operazione ‘Breaking the Wave’.
Funzionari delle Nazioni Unite e organizzazioni per i diritti umani hanno costantemente segnalato la recente intensificazione da parte dell’esercito israeliano delle campagne contro i palestinesi, ricorrendo persino alla pratica illegale della detenzione amministrativa di avvocati per i diritti umani e usando forza letale contro manifestanti palestinesi disarmati.
Il tutto è parte di una strategia di “controllo dell’escalation”, un approccio coercitivo per controllare l’intensificarsi della resistenza in modo da porre l’altra parte in una posizione di svantaggio riducendo la sua capacità di reazione. Anche l’intelligence israeliana e le unità militari hanno dato il via libera e rilanciato la strategia di sparare per uccidere in tutta la Cisgiordania. Ciò è avvenuto mesi prima dell’attacco a Gaza nella prima settimana dell’agosto di quest’anno.
Eppure, nell’assordante sete di annessione e apartheid di Israele, Ibrahim Al-Nabulsi, non ancora 19enne, ha detto addio alla Città Vecchia di Nablus combattendo, armato solo di un fucile.
Secondo i testimoni, Israele ha usato missili a spalla ad alta tecnologia per bombardare il suo rifugio, con fori dei proiettili dappertutto sulla porta di metallo. Un filmato che si dice sia di al-Nabulsi mostra un giovane che spara goffamente con una pistola durante una precedente invasione militare. Senza un addestramento militare formale e con armi obsolete, al-Nabulsi non ha mai avuto una vera possibilità.
Il miracolo è stato che, nonostante l’attacco spietato, in qualche modo al-Nabulsi è uscito vivo dalla devastazione. La morte è stata dichiarata in ospedale circa un’ora dopo.
Il ruggito del leone per la liberazione
L’ascesa di una nuova generazione palestinese di resistenza armata sembra aver creato l’effetto contrario a ciò che l’esercito e il controspionaggio israeliani speravano in termini di “deterrenza”.
“Perfino durante l’ultima ondata di ripresa della resistenza abbiamo visto anche la nascita di nuova vita a Nablus”, ha spiegato Kittaneh a Mondoweiss. “La Città Vecchia sta riacquistando rilievo e il suo antico senso di importanza.”
Kittaneh ha scontato 15 anni con l’accusa di affiliazione alle Brigate Palestinesi Izz el-Din al-Qassam, l’ala militare di Hamas. Fu arrestato lo stesso anno in cui nacque al-Nabulsi. Con la città di Nablus che si stende all’orizzonte alle sue spalle, Kittaneh riflette sulla sua giovinezza. “Ogni generazione reagirà in modo diverso, ma ogni generazione reagirà”, dice a Mondoweiss.
Per garantire il controllo dell’escalation, Israele ha deciso di creare un effetto collettivo di shock e terrore nei palestinesi. Ciò include gli omicidi extragiudiziali di palestinesi come le decine di persone uccise nella prima metà di quest’anno, o l’incarcerazione di bambini di appena 12 anni.
Questa tattica, come ha spiegato la pluripremiata giornalista Naomi Klein, garantisce di infliggere danni emotivi, mentali o fisici in modo progressivo nel tempo, per paralizzare lentamente una popolazione fino all’inerzia. “Lo shock svanisce, ma non quando te lo aspetti, come nel momento preciso della liberazione. . . le esperienze di shock convivono con l’eredità della paura per anni “, ha spiegato Klein in un’intervista.
Le agenzie e i resoconti hanno definito il giovane combattente “comandante supremo” e “militante esperto”, ma al-Nabulsi ha vissuto un’altra vita, quella con i suoi amici e la sua famiglia. “Quando gli chiedevamo perché andasse avanti, rispondeva: ‘Sto facendo rivivere lo spirito di resistenza di un’intera generazione'”, ha detto Shahd a Mondoweiss. Sembra che la resistenza continui ad alimentarsi col riconoscere che non esiste un’infanzia palestinese.
“Quello di cui Israele non ha tenuto conto è che, quando la gente della Città Vecchia ha visto l’esercito israeliano entrare e fare irruzione a Nablus in pieno giorno per arrestare i giovani o assassinarli in quel modo orrendo…” Kittaneh si interrompe mentre dice così, fermandosi un attimo prima di continuare. “La cosa non ha spaventato di più le persone. Al contrario, ha spinto ancora di più i palestinesi verso lo scontro”.
È sempre più evidente che la profondità della sfida di al-Nabulsi e di Subuh deriva dal riconoscimento del fatto che gli è stata rubata l’infanzia, il suo stesso diritto di essere. Mi ricorda le immagini dei bambini che, per quanto piccoli e magri, in qualche modo raccoglievano la forza di affrontare i soldati, rifiutandosi di essere terrorizzati da loro.
Una ninna nanna per la famiglia
Una bambina dorme in grembo alla madre nonostante il caldo di metà pomeriggio a Nablus. Entrano ed escono donne sconosciute che si sporgono sul suo piccolo corpo per rendere omaggio alle tre famiglie che hanno perso i loro figli, uno di soli 16 anni.
“Hayat”, mi dice una donna anziana, indicando la piccola che dorme tra le sue braccia durante il funerale. È la nipote di al-Nabulsi.
«Il suo nome significa vita», dice la donna.
Se al-Nabulsi è celebrato come il “Leone di Nablus”, era anche conosciuto come lo zio giovane e ribelle, critico di tutto ciò che gli era stato detto, impegnato per la sua libertà e la libertà di tutti coloro che lo circondavano, inclusa Hayat .
Pochi giorni dopo la sua morte, la famiglia di Ibrahim si è riunita una sera nella casa di Nablus. La zia di Ibrahim ha continuato a disperarsi per l’assenza del nipote dalle loro vite. “Quando ci sediamo a tavola e la sedia di Ibrahim è vuota sentiamo la sua mancanza”, dice tristemente. “E quando in qualche modo viviamo un momento di gioia, cominciamo tutti a dire ‘se solo Ibrahim fosse con noi.'”
Mariam Barghouti è corrispondente senior dalla Palestina per Mondoweiss.
(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)