Vittoria del BDS: il Sydney festival blocca i finanziamenti da governi stranieri dopo un boicottaggio di massa

The New Arab, PC, SOCIAL

27 settembre 2022 – The Palestine Chronicle

Martedì il direttivo di uno dei più importanti festival culturali australiani ha annunciato la sospensione immediata dei finanziamenti da governi stranieri, un anno dopo che l’evento è stato scosso dalla polemica relativa al finanziamento da parte dell’ambasciata israeliana.

Il direttivo del Sydney festival ha annunciato la decisione dopo “una revisione indipendente sul ruolo di investimenti governativi internazionali” commissionata, secondo quanto ha dichiarato, dal direttivo stesso.

Il Sydney festival oggi ha annunciato una serie di importanti misure per migliorare il processo decisionale riguardo a partenariati e sponsorizzazioni prima di lanciare il programma del Sydney festival 2023”, afferma la dichiarazione.

Questo include un’immediata sospensione degli investimenti provenienti da governi esteri e dai loro enti culturali”.

Il boicottaggio dell’edizione 2022 del Sydney Festival è cominciato lo scorso dicembre e ha avuto luogo dopo la rivelazione che l’evento di tre settimane aveva ricevuto decine di migliaia di dollari di finanziamento dall’ambasciata israeliana in Australia.

Il finanziamento serviva a contribuire a pagare uno spettacolo di danza di un coreografo israeliano.

In seguito alla sponsorizzazione Israele era stato indicato come “partner importante” sul sito web del festival.

Gli attivisti pro-Palestina hanno duramente criticato la gestione del festival per la sua decisione di approvare il finanziamento e hanno fatto appello al boicottaggio dell’evento.

Più di 20 spettacoli si sono ritirati dal festival a causa di questo finanziamento.

L’edizione del 2023 del festival è programmata per gennaio.

Traduzione di Gianluca Ramunno




Casa dolce casa: il mio amaro ritorno in Palestina

Fida Jiryis

27 settembre 2022 – The Guardian

Per tutta la mia vita i miei genitori esuli mi avevano parlato della tragedia della Palestina. Poi, quando avevo circa 20 anni, la mia famiglia ci è ritornata e l’ho vista con i miei occhi

Misi piede nel mio paese per la prima volta a 22 anni. I miei genitori erano palestinesi, ma, nel 1970, andarono in esilio. Dopo esser fuggiti dalla guerra in Libano vivemmo a Cipro.

Ora una nuova era di riconciliazione era arrivata. Circa un anno dopo la firma degli accordi di Oslo nel 1993 fra Israele e l’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) ci fu finalmente permesso di ritornare. Fu emozionante ritornare dopo tanti anni alla nostra casa avita. La nostra grande famiglia in Galilea fu felicissima, specialmente i miei nonni, e fummo sommersi da un’ondata di amore. Ero elettrizzata perché finalmente stavo ritornando. Volevo una patria. Non volevo più sentirmi come una straniera. Era il sogno che si avverava. Gli anni senza una patria erano alle nostre spalle. Ma tornare a casa per tutti noi fu molto più arduo di quanto avessi immaginato.

Per mio padre fu difficile trovare il proprio posto in Israele che era cambiato così drasticamente negli anni in cui era stato via. Era cresciuto in un villaggio rurale in Galilea, ma era andato in esilio per il suo impegno politico e la sua collaborazione in un movimento di resistenza palestinese. Aveva anche pubblicato un libro, Gli arabi in Israele, descrivendo il duro destino dei palestinesi che erano rimasti dopo l’occupazione. A Beirut e poi a Cipro aveva lavorato per l’OLP per diventare uno stretto collaboratore del suo leader, Yasser Arafat. Al nostro ritorno Arafat insistette perché accettasse una carica nell’Autorità Palestinese di nuova fondazione.

Ma mio padre non voleva un incarico burocratico perché sentiva che lo avrebbe condizionato dopo anni di ricerca e produzione saggistica indipendente. Rimase un consulente di Arafat, incontrandosi con lui nel suo ufficio, in hotel o con amici. Il quartier generale dell’OLP era stato spostato dalla Tunisia in Cisgiordania. I palestinesi in Israele erano in gran parte liberi dalla persecuzione che mio padre aveva subito prima di partire quando era stato ripetutamente vessato e arrestato, le case della famiglia saccheggiate e distrutte. Ora però avevano a che fare con un sistema più generalizzato di discriminazione.

Poche settimane dopo il nostro arrivo al villaggio di nostro padre lui portò me e il mio fratello minore a fare un giretto in macchina. Non andammo lontano: dopo poco più di un chilometro entrammo in un paesino. “Questo è Deir el-Qasi,” disse. Sul cartello c’era scritto: “Elqosh”. Nel 1948, dopo la distruzione della Palestina, che noi chiamiamo Nakba o catastrofe, Deir aveva subito la pulizia etnica e il cambio di nome.

Attraversammo stradine tranquille fiancheggiate da case e alberi flessuosi. C’erano dei pollai. Papà fermò la macchina e uscimmo. “Vedete questa?” indicò un’antica struttura in pietra. “Questa è una delle case originarie del villaggio.”

Fissandola fui colpita dalla realtà. Per tutta la mia vita avevo letto e sentito della tragedia della Palestina. Adesso la vedevo.

Non buttarono giù tutte le case,” stava dicendo papà. “Alcune furono risparmiate perché i nuovi arrivati venivano dallo Yemen e a loro piacevano le case arabe. Ce n’è un’altra … ”

La gente di Elqosh allevava le galline, pascolava le mucche e coltivava verdura e frutta. Venivano al nostro villaggio, Fassouta, per piccoli commerci e per andare dal dottore o dal dentista. Dopo essermi stabilita nel villaggio, passavo da quel posto ogni giorno. A loro volta le case di Deir el-Qasi che mio padre ci aveva mostrato mi fissavano. Cosa era peggio, mi chiedevo, avere la propria casa distrutta o che fosse rimasta intatta, ma abitata da altri?

Dall’arrivo dei bulldozer israeliani del villaggio di Suhmata erano rimasti pochi ulivi e alcune pietre sporgenti. La maggior parte dei suoi abitanti era in Libano, ma qualcuno era riuscito a restare e viveva nei paesi vicini. Ho incontrato parecchie famiglie a Fassouta. Di nuovo mi chiesi cosa fosse più penoso: essere stati totalmente tolti di mezzo e lontano o dover attraversare il posto del loro villaggio e vederne le rovine?

In realtà io e la mia famiglia fummo fortunati, una rara “eccezione”. Sebbene gli accordi di pace permetessero il ritorno nel territorio palestinese di parecchie migliaia di appartenenti all’OLP, solo a un numero molto ristretto fu permesso di ritornare alle proprie cittadine o ai villaggi di origine in Israele, e solo se avevano la cittadinanza israeliana prima di andarsene. Mentre riprendeva la tensione tra OLP e Israele solo circa dieci [rifugiati] erano riusciti a ritornare e alcuni portarono con sé le proprie famiglie. Noi non avevamo punti di riferimento, nessuno con cui parlare che avesse vissuto la nostra stessa esperienza.

I palestinesi erano al fondo della scala sociale. La vecchia generazione ricordava gli anni di regime militare [lo stato d’assedio imposto fino al 1966 ai palestinesi rimasti in Israele, ndt.] e oppressione. Erano vissuti sotto una pesante cappa di intimidazioni. Per decenni loro stessi non si erano neppure chiamati palestinesi. Anzi per definirci avevamo un fantastico ossimoro: “arabi israeliani”. Quando menzionavo la Palestina, la gente di Fassouta reagiva con un silenzio sconcertato o con profondo disagio. Anche quando parlavamo della nostra posizione di inferiorità in Israele, loro la vedevano solo dalla prospettiva del lavoro e dei loro problemi più pressanti. Per sopravvivere avevano dovuto far parte del sistema israeliano. Per le generazioni più giovani, nate dopo la creazione di Israele, questo sistema era tutto quello che conoscevano.

Nel villaggio c’era poco lavoro. Fu chiaro che dovevo lasciare la mia famiglia per trovarne uno. Il fratello più giovane di mio padre, George, lavorava per le Pagine Gialle e viveva ad Haifa. Mi trovò un posto da uno dei suoi clienti, una ditta che vendeva software didattici. Lo stipendio era basso, ma dovevo pur cominciare da qualche parte. Haifa era a un’ora e mezza di macchina, ma non potevo permettermene una. Dovevo trasferirmi e trovai una stanza in un appartamento con delle studentesse universitarie di Fassouta che frequentavano il primo anno di studi.

La casa era vecchia e squallida, ma era tutto quello che potevamo permetterci. Dividevo la stanza con una delle ragazze e le altre due occupavano l’altra. Era difficile avere un po’ di privacy ed io ero l’intrusa perché erano tutte cugine e sembravano incerte su come rapportarsi con me. La nostra prima sera là le ho aiutate a pulire l’appartamento e poi abbiamo cenato. Non riuscii a dormire fino a tardi, mi giravo e rigiravo nel letto e non ero sicura che anche la mia compagna di stanza dormisse. Ma mi imbarazzava cercare di parlarle.

Il mattino dopo riuscimmo appena a mangiare qualche fetta di pane tostato prima di uscire. Avevamo i nervi a fior di pelle: per loro era il primo giorno di università e per me di lavoro. Non avevo idea di dove andare, ma loro lessero i cartelli del bus e mi aiutarono. La loro fermata era prima della mia, loro scesero e si girarono sorridendomi e facendomi ciao con la mano. Risposi con un cenno, combattendo il senso di panico.

Guardai davanti e vidi salire sull’autobus due soldati. Strabuzzai gli occhi. Portavano delle armi. Camminarono lungo il corridoio e si sedettero nei due posti vuoti davanti a me. Fissai i fucili che portavano a tracolla sulle spalle. Era la prima volta che vedevo il freddo metallo così da vicino. Deglutivo con fatica. Nessuno girava armato a Cipro. Perché c’erano armi per le strade? Era normale? E se fosse partito un colpo?

Volevo cambiare posto. Guardandomi intorno vidi che tutti i sedili erano occupati. Ce n’era uno proprio al fondo, ma là c’erano ancora più soldati. Tutti chiacchieravano normalmente mentre l’autobus continuava per la sua strada. Io ero l’unica a sudar freddo.

Sembrava anche che io fossi l’unica palestinese. Mi dissi di restare calma. Ero probabilmente non troppo lontana dalla mia fermata. Per quanto cercassi, non riuscivo a scacciare il terrificante pensiero che impazzava nella mia mente: “Sono su un autobus con dei soldati israeliani!”

Dopo dieci minuti riconobbi la zona, suonai velocemente la richiesta di fermata e mi precipitai fuori. In strada respirai profondamente e mi diressi verso il mio ufficio. Ero frastornata, avevo una sensazione surreale, quasi come se fossi in un incubo.

Il primo giorno di lavoro fu complicato. Ero sola, un piccolo sottotetto senza finestre con il soffitto basso e mi avevano incaricata di testare i software. Fu un gran sollievo quando arrivarono le 5, ora di andarmene, ma di nuovo la paura mi attanagliò lo stomaco.

Sull’autobus per casa guardavo fuori dai finestrini mentre avanzavamo lentamente attraverso il traffico dell’ora di punta. Le insegne e i cartelli stradali erano tutti in ebraico. C’erano solo alcuni ristoranti con insegne in arabo. Le conversazioni intorno a me erano in ebraico. Altri soldati salirono, sgomitando per farsi posto nell’autobus affollato. Fu in quel momento che una sensazione di gelo attanagliò il mio cuore. Non ero neIla Palestina dei miei sogni.

Il 14 maggio sperimentai il mio primo anniversario dell’Indipendenza d’Israele. Gli israeliani sventolavano bandiere, facevano feste e barbecue su quella che era la terra palestinese. Il Paese rimase tappezzato di bandiere per settimane, prima e dopo, anche più del solito. C’era veramente bisogno di una bandiera nella piscina di Nahariya, nello sporco caffeuccio vicino alla stazione degli autobus, al terminal degli autobus e ancora, ogni poche centinaia di metri, sul lungomare?

Quel giorno ero così depressa che decisi semplicemente di restare a casa.

Al villaggio la situazione era ancora più deprimente. Oltre la metà dei palestinesi in Israele viveva sotto la soglia di povertà. La maggior parte del budget dello Stato per le infrastrutture e lo sviluppo economico andava alle comunità ebraiche. Noi non avevamo iniziative imprenditoriali, nessuna industria o fabbrica. Molte delle nostre amministrazioni locali erano insolventi e la maggior parte doveva raccogliere fondi per conto proprio per installare infrastrutture essenziali come reti idrauliche e fognarie.

La maggior parte delle famiglie del mio villaggio guadagnava circa la metà di una famiglia ebrea media. Le nostre comunità avevano un’aspettativa di vita più bassa e un numero maggiore di persone soffriva di malattie collegate allo stress, come diabete e ipertensione. E per aggiungere al danno la beffa, il termine ebraico avoda aravit, o “lavoro arabo”, si usava comunemente per definire un lavoro di qualità scadente o fatto alla carlona, nonostante la triste ironia che quasi tutto Israele fosse stato costruito da mani palestinesi.

Non era più facile per chi aveva un’istruzione, il villaggio era pieno di laureati frustrati in attesa di colloqui di lavoro che non arrivavano mai. Uno dei miei cugini si era laureato al Technion, l’Istituto israeliano di tecnologia. Scoprii che c’erano parecchie materie che i palestinesi non potevano studiare con il pretesto della “sicurezza”, come, per esempio, certi campi della fisica, della scienza nucleare e dell’addestramento piloti. Sul lavoro erano completamente esclusi, fra le altre, dalle industrie della difesa e dell’aviazione. Per evitare di non trovare lavoro molti studenti si rivolgevano alle libere professioni, come legge, architettura del paesaggio, odontoiatria e altre professioni mediche in cui potevano aprire i propri studi.

Un weekend andai a Ramallah a trovare Raja e Sawsan, vecchie amiche dell’università. Eravamo strafelici di rincontrarci. “L’unica cosa buona di Oslo,” risero, “è che siamo riuscite a rivederti.”

Le mie amiche erano bloccate in Cisgiordania. Prima degli accordi potevano viaggiare liberamente nel Paese. “Semplicemente ci mettevamo in macchina e partivamo,” mi dissero. “Per Haifa, Gerusalemme, per le spiagge di Giaffa.” Ora c’erano checkpoint israeliani a tutti i varchi per Israele e i palestinesi avevano bisogno di permessi per attraversarli. Inoltre non si poteva usare l’aeroporto di Tel Aviv, a soli trenta minuti. Per viaggiare all’estero si doveva andare in Giordania e partire da Amman, perdendo altro tempo e soldi.

La sovranità palestinese stabilita dagli accordi era una mera facciata. I documenti di identità e i passaporti rilasciati dall’autorità avevano bisogno dell’approvazione israeliana, come se rilasciati dalle forze di occupazione israeliane. Tutti i valichi di frontiera erano controllati da Israele. Peggio, la nuova forza di polizia palestinese era diventata uno strumento per il coordinamento con Israele per la sicurezza, inseguendo e consegnando chi era impegnato nella resistenza. Nessuno avrebbe potuto immaginare uno scenario simile.

Gli oppositori alle nuove disposizioni finivano esclusi dagli impieghi e dai privilegi di far parte dell’Autorità [palestinese] o imprigionati. “Stiamo vivendo in un incubo peggiore di prima,” mi diceva Raja. Gli accordi avevano asservito economicamente, politicamente e in ogni aspetto della vita i palestinesi a Israele. Quando furono firmati gli accordi di Oslo si presupponeva che l’attività di colonizzazione da parte di Israele nel territorio palestinese sarebbero cessate immediatamente e che, tre anni dopo, sarebbero iniziati i negoziati su temi significativi, tra cui rifugiati, colonie e confini, mirando a un totale ritiro di Israele entro cinque anni. Ma Israele aveva già buttato i suoi impegni alle ortiche.

Benjamin Netanyahu, neo eletto primo ministro con il partito di destra Likud, si oppose allo Stato palestinese e al ritiro di Israele dai territori occupati. Il suo governo continuò a occupare terre per espandere illegalmente le colonie ebraiche e costruire strade di collegamento riservate solo agli israeliani. Invece di fermarsi, le attività coloniali israeliane si moltiplicarono.

Gli accordi di Oslo furono presto visti dai palestinesi come forieri né di pace né di libertà e le tensioni sobbollivano tra l’Autorità Palestinese, che era dominata da una fazione politica, Fatah, e dalla sua rivale, Hamas. Israele faceva pressioni su Arafat per tenere a freno il terrorismo, come loro definivano ogni atto di resistenza, ed egli, sebbene con riluttanza, spesso obbediva. Nella nuova situazione le mie amiche erano arrabbiate e insicure. Sapevano come fosse diversa la vita in Israele. I decenni di occupazione avevano danneggiato la loro società, impossibilitata a raggiungere gli stessi livelli di vita.

Mentre i palestinesi ritornavano e cercavano di ricostruire le proprie vite in Cisgiordania e a Gaza, io avevo lo stesso arduo compito di provare a trovare il mio posto in Israele. Fino a quel momento non avevo quasi avuto rapporti con israeliani.

Non parlavo ebraico. Mi dividevo tra il mio villaggio e un appartamento con delle ragazze palestinesi ad Haifa e lavoravo in una ditta palestinese. Quando scendevo a pranzo tutti i negozi di falafel e shawarma erano di palestinesi. Quando salivo sull’autobus o compravo qualcosa al supermarket, e c’erano un autista o una cassiera israeliani, pescavo dei soldi e Ii porgevo senza capire l’ammontare che mi avevano chiesto, guardavo il registratore di cassa per vederlo. Loro mi davano il resto e tutto finiva lì. Vedevo israeliani ovunque, ma avevo un’esistenza completamente separata e parallela rispetto a loro, ero colpita da una sensazione penosa, che da allora non mi ha più abbandonata: ero una straniera nel mio Paese.

Per fortuna, mia cugina Rania abitava ad Haifa, andava all’università e lavorava part-time. Mi chiamava spesso per incontrarci. Qualche volta andavamo fuori, passeggiavamo nel quartiere Hadar [quartiere commerciale della città, ndt.] e compravamo gli abiti o i cosmetici economici che potevamo permetterci con i nostri pochi soldi. La città mi opprimeva. Dopo la Nakba, solo 3.000 dei 70.000 palestinesi erano rimasti ad Haifa. Furono ricacciati in alcuni quartieri dove vivevano in condizioni difficili.

Il governo israeliano decise di cambiare completamente il carattere della città, distruggendo molte delle proprietà palestinesi, impossessandosi di altre per darle agli ebrei, sostituendo i nomi arabi delle strade con quelli ebraici e cancellando il patrimonio culturale palestinese che era stato cosi ricco e vibrante prima della rovina di Haifa. Ovunque andassimo le case sopravvissute mi osservavano come fantasmi di un’altra era.

Il mio unico sollievo era quando andavamo nei centri commerciali, che erano scollegati dalla realtà esterna. Ma anche là tutto era in ebraico. Non c’era nessun cartello in arabo, anche se era la seconda lingua ufficiale dello Stato e molti dei clienti erano palestinesi. I cartelli stradali in arabo nel Paese erano pieni di marchiani errori di ortografia e i nomi ebraici delle città erano trascritti in arabo invece di usare i nomi arabi originali.

All’ingresso di ogni centro commerciale, ufficio governativo o edificio pubblico guardie e metal detector erano la norma. Se si dimenticava una borsa su un autobus o in una stazione ferroviaria o se qualcuno abbandonava il proprio bagaglio per un minuto e si allontanava per andare a prendere qualcosa, diventava un’emergenza. La gente si guardava intorno in preda al panico e, se non si trovava il proprietario, le cose potevano rapidamente precipitare. Alla stazione centrale assistei proprio a una scena simile: suonarono le sirene di allarme, la zona fu evacuata e una squadra di artificeri fu chiamata a disinnescare un oggetto sospetto che si rivelò una borsa con dei vestiti. La sensazione di costante allarme era palpabile, eppure considerata normale.

Dopo aver cambiato 3 lavori in meno di due anni, avevo bisogno di un vero cambiamento. Per tre mesi mi chiusi in casa a studiare ebraico, con un atteggiamento impersonale e ignorando i miei sentimenti. Alla fine di quel periodo sapevo parlare, leggere e scrivere in un ebraico elementare. Cominciai a far domande in ditte di software. Passarono settimane senza una risposta. Poi arrivò una chiama da una grande impresa ad Haifa. La signora mi parlò in ebraico e io ero molto nervosa, ma riuscii a organizzare l’appuntamento per il mio colloquio.

Quel giorno quando trovai il palazzo, passata la sicurezza, mi irrigidii. Fino ad allora non avevo quasi avuto interazioni con israeliani. Quando un cordiale giovanotto mi venne incontro alla porta e mi strinse la mano cominciai a sudare leggermente.

C’erano altre due persone nella stanza. Mi fecero molte domande e per fortuna risposi ad alcune in inglese. Sfogliando il mio CV, mi chiesero, in ulteriori dettagli, del mio lavoro a Cipro. Ero felice e lo presi come un segno di interesse.

Bene, grazie,” il gentile giovane finalmente mi sorrise. “Oh, e un’ultima cosa. Possiamo avere il suo numero dell’esercito?”

Mi sentii sprofondare. “Ehm, non ce l’ho …”

OK,” il sorriso rimase, fisso. “Grazie. Ci metteremo in contatto con lei.”

Terminate le scuole, ogni giovane israeliano/a deve finire il servizio militare. Poi si aprono le porte di prestiti per studiare, lavori e mutui generosi. I palestinesi in Israele sono esonerati e pochi si arruolano. Ma completarlo è un requisito indispensabile per molti lavori e sussidi sociali.

Uscii sconfitta. Avevo fatto ricerche sulla compagnia, mi ero preparata per il colloquio e avevo comprato un vestito nuovo. Mi ero entusiasmata per l’opportunità. Ma nessuno mi chiamò, e neanche altre tre aziende che mi avevano offerto un colloquio. Lottando contro il panico, cominciai a chiedermi cosa fare. Che farmene della laurea che avevo ottenuto con lode in scienze informatiche, i soldi spesi da mio padre per una delle migliori università britanniche? Perché qui era così difficile?

Finalmente riuscii a trovare un buon lavoro come tester in un’azienda di software. Gli uffici erano in un parco tecnologico a Tefen, una zona industriale a circa 20 minuti dal mio villaggio in Galilea. Era perfetto. Finalmente l’insicurezza e lo stress degli ultimi due anni erano alle mie spalle. Mi ci vollero pochi giorni per rendermi contro che, su un personale di 30 persone, io ero l’unica palestinese.

C’era un muro tra me e i miei colleghi che avevano le loro case, i loro lavori, le loro vite: pochi si soffermavano a pensare da dove fosse venuta la terra dove vivevano o lavoravano. Fu questa sensazione frastornante di essere in un enorme cimitero dove tutti gli altri ignoravano le lapidi, che cominciò a divorarmi e che avrebbe finito per spezzare il mio infelice tentativo di integrarmi.

Diventai amica di Lisa, funzionaria alle risorse umane. Era un’amicizia curiosa. Lei era sui 50, io avevo 24 anni, ero più giovane di sua figlia. Ma ci piaceva chiacchierare in inglese. Lisa era ebrea ed era emigrata dalla Gran Bretagna da ragazzina e aveva sposato un israeliano del posto. Spesso si presentava sulla porta del mio ufficio per fare due parole dopo aver preparato il tè nella vicina cucina.

Un giorno Lisa apparve per la nostra solita chiacchierata. Grata, sollevai gli occhi dallo schermo. Ma lei era agitata. “Sono un po’ preoccupata di tornare a casa in macchina in questi giorni,” esclamò.

Perché?” Lisa viveva ad Atzmon, una comunità ebraica in Galilea.

A causa dei recenti disordini. Alcuni arabi gettano pietre lungo la strada.”

Arabi, notai, non palestinesi. Lo Stato aveva faticato a negare la nostra identità e non aveva usato la parola ‘palestinesi’ fino a dopo gli accordi di Oslo e, anche successivamente, solo per riferirsi ai palestinesi in Cisgiordania e a Gaza, non ai suoi cittadini.

Era la prima volta che Lisa parlava di noi. “Disordini?” ripetei.

Alcuni ragazzi arabi hanno lavorato per un po’ ad Atzmon, ma delle persone si sono arrabbiate e li hanno costretti ad andarsene. Ora da alcuni giorni tirano pietre alle nostre auto mentre passiamo. È veramente stressante!”

Perché sono stati licenziati?” chiesi.

Oh, sai … ” sembrava a disagio, agitando una mano. “Alcuni proprio non vogliono che gli arabi lavorino nel kibbutz.”

Oh.” deglutii. Molte comunità ebraiche non permettevano ai palestinesi di lavorarci e la maggior parte nemmeno di viverci. Uno dei miei cugini faceva il tuttofare in un kibbutz, ma erano pochi quelli come lui. La maggior parte di queste comunità aveva una procedura per vagliare le domande tramite una “commissione di ammissione”, la cui decisione era inappellabile. Alcune cominciarono persino a chiedere a chi si presentava di giurare lealtà ai principi sionisti. Alcuni palestinesi erano andati in tribunale a protestare, ma raramente avevano vinto.

Allo stesso modo era impensabile per un ebreo vivere in un villaggio palestinese. Quelli che lo facevano, per mandare un messaggio, di solito non erano benvenuti nelle comunità palestinesi e per lo più evitati dalle loro. Ma di nuovo, erano molto pochi.

Guardai Lisa chiedendomi quale fosse la sua posizione sull’argomento. Ma era così agitata che sembrava ignara dei miei pensieri. “Telefono a mio marito per dirgli di star pronto in caso avessi bisogno di aiuto.”

Annuii. Mi salutò in fretta e se ne andò.

Tornando a casa pensai alle sue parole mentre oltrepassavo una colonia ebraica con le sue file di villette curate, giardini lussureggianti, fontane e ampi marciapiedi.

La differenza tra comunità palestinesi ed israeliane, spesso l’una accanto all’altra, erano così marcate che chiunque poteva distinguerle. Fondi statali per le comunità israeliane garantivano che avrebbero offerto un livello di vita tale da attrarre immigranti. Centinaia di località ebraiche erano state costruite da Israele dalla sua fondazione, ma non fu creato neppure un nuovo villaggio o paesino palestinese e quelli esistenti furono soffocati. In ogni villaggio palestinese che avevo visitato, vidi ghetti trascurati e sovraffollati, strade strette piene di buche, mancanza di spazi attrezzati, nessun parco o spazi pubblici e un’atmosfera pesante, depressa.

I villaggi palestinesi si sono sviluppati per centinaia di anni, prima dell’attuale zonizzazione e dei piani comunali. Le nuove comunità ebraiche sono state costruite in modo pianificato e metodico, le loro case copie esatte una dell’altra, come i quartieri in Occidente. Sembravano cadute dal cielo al posto dei villaggi distruttti. In tutta quella bellezza e ordine io vedevo solo bruttezza perché con la mente ripensavo a come erano state costruite.

Questo è un estratto editato da Stranger in My Own Land: Palestine, Israel and One Family’s Story of Home di Fida Jiryis, pubblicato da Hurst e disponibile dal guardianbookshop.co.uk

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Ebrei di estrema destra irrompono ad Al-Aqsa, palestinesi arrestati e feriti

Redazione

26 settembre 2022-Al jazeera

Ebrei ultranazionalisti entrano con la protezione della polizia israeliana nel luogo santo occupato a Gerusalemme est, vengono imposte restrizioni all’ingresso dei palestinesi.

Centinaia di ebrei ultranazionalisti sono entrati nel complesso della Moschea di Al-Aqsa nella Gerusalemme est occupata – sotto la protezione delle autorità israeliane – per il secondo giorno consecutivo, mentre la polizia israeliana ha attaccato i palestinesi radunati nel complesso e ha impedito ad altri di entrare.

La Mezzaluna Rossa palestinese afferma che almeno tre palestinesi sono stati feriti lunedì dalle forze israeliane, mentre i giornalisti riferiscono che altri 10 sono stati arrestati dentro e intorno al complesso. Le forze israeliane sono state viste usare manganelli per attaccare donne palestinesi e uomini anziani, nonché giornalisti.

I giornalisti palestinesi riferiscono che lunedì 264 israeliani ultranazionalisti sono entrati nel complesso – uno dei luoghi più sacri dell’Islam e un simbolo della nazione palestinese – nella Città Vecchia di Gerusalemme, che Israele ha occupato e annesso illegalmente nel 1967. Domenica ne sono entrati più di 400.

Il numero di ebrei ultranazionalisti – sostenitori del movimento dei coloni israeliani – che sono entrati nel complesso della moschea di Al-Aqsa è aumentato domenica e lunedì in occasione del Rosh Hashanah, o capodanno ebraico, che quest’anno cade tra il 25 e il 27 settembre.

Alcuni di coloro che sono entrati hanno pregato nel sito, nonostante esista un consenso generale tra gli ebrei ortodossi che la preghiera ebraica non sia permessa nel complesso della moschea di Al-Aqsa. La preghiera ebraica nel sito, noto anche come il Monte del Tempio per gli ebrei, è vista come dai palestinesi come una provocazione e come la fine di un’intesa decennale [tra palestinesi e israeliani, ndt.] di non consentire questa pratica.

Ciò ha portato a una tensione crescente con i palestinesi che temono tentativi da parte degli ebrei di estrema destra di impossessarsi del sito. Alcuni ebrei di estrema destra hanno apertamente espresso il desiderio di demolire le strutture musulmane nel complesso di Al-Aqsa per far posto a quello che viene chiamato il Terzo Tempio.

I palestinesi si erano radunati nel complesso nel tentativo di difendere il sito.

Un anziano palestinese, Abubakr al-Shimi, è stato ricoverato in ospedale dopo aver riportato ferite alla testa essendo stato spinto a terra dalla polizia israeliana in un incidente che è stato filmato.

Le forze israeliane hanno respinto il personale medico che tentava di curare al-Shimi.

John Hendren di Al Jazeera, riferendo dalla Gerusalemme est occupata, afferma che le violenze sono avvenute “in modo pianificato” e “con tutta evidenza non necessarie”.

Anche membri della stampa sono stati attaccati: il capo dell’ufficio dell’Agenzia turca Anadolu a Gerusalemme, Anas Janli, è stato gettato a terra in durante un alterco con la polizia.

Le forze israeliane hanno iniziato a limitare l’ingresso dei palestinesi nel complesso dopo le preghiere musulmane dell’alba alle 6 del mattino (03:00 GMT). L’ingresso di ebrei ultranazionalisti è iniziato circa un’ora dopo ed è proseguito nel pomeriggio, fino alle 14:00 circa (11:00 GMT).

Ai palestinesi di età inferiore ai 40 anni è stato vietato l’ingresso nella moschea, mentre a decine si sono radunati alla Porta delle Catene (Bab al-Silsila) e alla Porta del Leone (Bab al-Asbat) dove hanno pregato e protestato.

L’Autorità Palestinese (ANP) ha condannato quello che ha definito “l’attacco” al complesso della moschea.

Il portavoce della presidenza dell’Autorità Nazionale Palestinese, Nabil Abu Rudeineh, ha affermato che “l’attacco alla moschea di Al-Aqsa da parte dell’occupazione e dei suoi coloni rientra nel quadro dell’escalation israeliana contro il nostro popolo, la sua terra e i suoi luoghi santi” e ha avvertito che la “continuazione di queste pratiche porterà a un’esplosione della situazione con il crescere della tensione e della violenza”.

Abu Rudeineh ritiene il governo israeliano “totalmente responsabile di questa pericolosa escalation e delle sue ripercussioni”.

Altrove, nella città di Hebron occupata nel sud della Cisgiordania, i palestinesi hanno dovuto affrontare ulteriori restrizioni legate al capodanno ebraico.

Walid al-Omari di Al Jazeera riferisce che la famosa moschea Al-Ibrahimi [di Abramo, ndt.] della città, divisa tra palestinesi e coloni ebrei, è stata completamente chiusa ai palestinesi durante Rosh Hashanah: la quarta chiusura della moschea quest’anno.

La moschea è conosciuta dagli ebrei come la “Tomba dei Patriarchi”.

L’anno scorso, le crescenti tensioni per l’espulsione delle famiglie palestinesi dalle loro case a Gerusalemme sono state il catalizzatore di diffuse proteste palestinesi in Israele e nei territori palestinesi occupati.

I raid alla moschea di Al-Aqsa da parte delle forze di sicurezza israeliane durante il mese sacro del Ramadan hanno ulteriormente acuito le tensioni e quattro giorni dopo è iniziato l’assalto israeliano a Gaza durato 11 giorni.

Hendren di Al Jazeera afferma che nei prossimi giorni ci si aspetta un aumento delle scorte armate di ebrei ultranazionalisti [nel complesso di Al-Aqasa, ndt.] dato che “questi sono i giorni santi nel calendario ebraico”.

“La prossima settimana c’è Yom Kippur, il giorno più sacro nel calendario ebraico, il giorno dell’espiazione, quindi possiamo aspettarci più visite alla moschea [di Al-Aqsa]”, ha detto Hendren.

(traduzione dall’inglese di Giuseppe Ponsetti)




I disordini di Nablus mettono in questione il futuro dell’ANP

Ramzi Baroud

26 settembre 2022 – Arab News

L’arresto la scorsa settimana da parte della polizia dell’Autorità Nazionale Palestinese di due attivisti palestinesi, tra cui un importante militante, Musab Shtayyeh, non ha rappresentato la prima volta in cui il noto Servizio di Sicurezza Preventiva ha arrestato un palestinese ricercato da Israele.

Questo servizio è strettamente legato a continui arresti e torture di attivisti contrari all’occupazione israeliana. In passato molti palestinesi, il più recente dei quali è stato Nizar Banat, torturato a morte lo scorso giugno, sono morti in conseguenza della violenza del Servizio di Sicurezza Preventiva. L’uccisione di Banat ha provocato una rivolta popolare contro l’ANP in tutta la Palestina.

Per anni varie associazioni palestinesi e internazionali per i diritti umani hanno criticato, molto spesso all’interno degli stessi rapporti sui diritti umani critici contro l’occupazione militare israeliana della Palestina, le pratiche violente dell’ANP contro i palestinesi dissenzienti. Anche il governo di Hamas a Gaza ha ricevuto una giusta dose di critiche.

Nel suo “Rapporto sul mondo 2022”, pubblicato in gennaio, Human Rights Watch ha affermato che “l’Autorità Nazionale Palestinese…arresta e tortura sistematicamente e arbitrariamente i dissidenti.” Questa non è la prima volta né sarà l’ultima in cui un’associazione per i diritti umani solleva una simile accusa. Il rapporto tra la violenza israeliana e quella palestinese contro i dissidenti politici e gli attivisti è chiaro alla maggioranza dei palestinesi.

A un certo punto alcuni palestinesi possono aver creduto che il ruolo dell’ANP fosse di fungere da transizione tra il loro progetto di liberazione nazionale e la piena indipendenza e sovranità sul terreno. Tuttavia circa 30 anni dopo la formazione dell’ANP questa idea si è dimostrata una pia illusione. Non solo l’ANP non è riuscita a ottenere il desiderato Stato palestinese, ma si è trasformata in un apparato totalmente corrotto la cui esistenza è funzionale principalmente a una piccola classe di politici e uomini d’affari palestinesi – e, nel caso della Palestina, si tratta sempre dello stesso gruppo.

Oltre alla corruzione dell’ANP e alla conseguente violenza, ciò che continua a irritare molti palestinesi è che col tempo l’autorità è diventata un’altra incarnazione dell’occupazione israeliana, che riduce la libertà di espressione dei palestinesi e procede ad arresti per conto dell’esercito israeliano. Tristemente molti di quanti vengono arrestati dall’esercito israeliano in Cisgiordania sono stati arrestati anche dagli scagnozzi dell’ANP.

Le scene di violenti disordini a Nablus in seguito all’arresto di Shtayyeh hanno ricordato rivolte contro le forze di occupazione israeliane nella città del nord della Cisgiordania e altrove nella Palestina occupata. A differenza di precedenti scontri tra palestinesi e polizia dell’ANP – ad esempio in seguito all’uccisione di Banat -, questa volta la violenza è stata generalizzata ed ha coinvolto manifestanti delle organizzazioni politiche palestinesi, compresa la fazione di Fatah, che è al governo.

Il governo dell’ANP, forse inconsapevole del massiccio cambiamento psicologico collettivo avvenuto in Palestina negli ultimi anni, ha cercato disperatamente di contenere la violenza. Conseguentemente il comitato che rappresenta l’unità delle fazioni palestinesi a Nablus ha dichiarato di aver raggiunto una “tregua” con le forze di sicurezza dell’ANP in città. Il comitato, che include importanti personalità palestinesi, ha detto all’Associated Press e ad altri media che l’accordo esclude ogni futuro arresto di palestinesi a Nablus, a meno che siano implicati nella violazione delle leggi palestinesi, non di quelle israeliane. Questa clausola di per sé implica la tacita ammissione da parte dell’ANP che gli arresti di Shtayyeh e Ameed Tbaileh siano stati motivati dalle priorità israeliane e non da quelle palestinesi.

Ma perché l’ANP dovrebbe cedere così in fretta alle pressioni provenienti dalla piazza palestinese? La risposta riguarda il cambiamento del clima politico in Palestina.

In primo luogo, per anni il risentimento nei confronti dell’ANP è andato aumentando. Un sondaggio dopo l’altro ha indicato la scarsa considerazione che la maggior parte dei palestinesi ha nei confronti dei propri dirigenti, del presidente dell’ANP Mahmoud Abbas e in particolare del “coordinamento per la sicurezza” con Israele.

In secondo luogo, la tortura e la morte del dissidente politico Banat lo scorso anno hanno tolto di mezzo qualunque forma di sopportazione dei palestinesi nei confronti della loro dirigenza, in quanto hanno dimostrato loro che l’ANP non è un alleato ma una minaccia.

Terzo, la cosiddetta Intifada dell’Unità del maggio 2021 ha rinfrancato molti segmenti della società palestinese nei Territori Occupati. Per la prima volta da anni ora i palestinesi si sentono uniti intorno a un unico slogan e non sono più ostaggio della conformazione della politica e delle fazioni. Una nuova generazione di giovani palestinesi ha avviato un dialogo ben al di là di Abbas, dell’ANP e della loro sconfinata e inefficace retorica politica.

Quarto, la lotta armata in Cisgiordania è cresciuta in modo talmente rapido che questo mese [settembre, ndt.] il capo di stato maggiore dell’esercito israeliano Aviv Kochavi ha affermato che da marzo circa 1.500 palestinesi sono stati arrestati in Cisgiordania e che sarebbero stati sventati centinaia di attacchi contro l’esercito israeliano.

Di fatto stanno crescendo le prove di un’Intifada armata nelle regioni di Jenin e Nablus. Ciò che è particolarmente interessante e preoccupante dal punto di vista di Israele e dell’ANP riguardo alla natura del fenomeno della nascente lotta armata è che essa è in buona parte guidata dall’ala militare del partito Fatah al governo, in collaborazione diretta con Hamas e altre fazioni armate islamiste e nazionaliste.

Per esempio, lo scorso mese l’esercito israeliano ha assassinato, insieme ad altri due, Ibrahim Al-Nabulsi, un importante comandante militare di Fatah. Come reazione, non solo l’ANP ha fatto molto poco per impedire alla macchina militare israeliana di condurre ulteriori assassinii di questo tipo, ma sei mesi dopo ha arrestato Shtayyeh, un compagno di lotta molto vicino ad Al-Nabulsi. Cosa interessante, Shtayyeh non è un membro di Fatah, ma un comandante di Al-Qassam, l’ala militare di Hamas. Benché Fatah e Hamas siano considerati rivali politici accaniti, in Cisgiordania le loro divergenze politiche non sembrano essere rilevanti per i gruppi armati.

Sfortunatamente è probabile che ne segua un’ulteriore violenza, per varie ragioni: la determinazione israeliana a stroncare ogni Intifada armata in Cisgiordania prima che si diffonda in tutti i Territori Occupati, l’imminente transizione al comando dell’ANP a causa dell’età avanzata di Abbas e la crescente unità tra i palestinesi riguardo alla questione della resistenza.

Mentre la risposta israeliana a tutto ciò può facilmente essere dedotta dal suo retaggio di violenza, la futura linea di azione dell’ANP probabilmente determinerà i suoi rapporti da una parte con Israele e i suoi sostenitori occidentali e dall’altra con il popolo palestinese. Da quale parte si schiererà l’ANP?

Ramzy Baroud scrive di Medio Oriente da più di 20 anni. È un editorialista di fama internazionale, consulente dei media, autore di vari libri e fondatore del sito PalestineChronicle.com.

Avvertenza: gli autori di questa sezione sono responsabili delle opinioni da loro espresse, che non riflettono necessariamente il punto di vista di Arab News.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Rapporto OCHA del periodo 13 – 26 settembre

La versione in italiano dei rapporti ONU OCHA OPT è stata curata negli ultimi 10 anni dall’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, ma purtroppo questo prezioso lavoro si è ora interrotto per la scomparsa di Ezio Romanelli che con costanza e competenza provvedeva alla loro pubblicazione. Nella speranza che altri raccolgano stabilmente questa importante eredità, AssoPacePalestina si offre di colmare intanto questa lacuna.

Tre palestinesi, tra cui un minore, e un ufficiale israeliano sono stati uccisi a Jenin.

Il 14 settembre, due uomini palestinesi hanno avuto uno scambio di fuoco con i soldati israeliani di stanza al checkpoint di Jalama (Jenin), vicino al confine settentrionale della Cisgiordania con Israele. Come risultato, entrambi i palestinesi (22 e 23 anni), uno dei quali lavorava nei servizi di sicurezza palestinesi, e un ufficiale israeliano sono stati uccisi. Il giorno successivo, le forze israeliane hanno fatto irruzione a Kafr Dan (Jenin), da dove provenivano gli attentatori, e hanno preso le misure delle case delle due famiglie, a quanto pare in preparazione della loro demolizione punitiva. Durante l’incursione, le forze israeliane hanno sparato munizioni vere e bombole di gas lacrimogeno contro i residenti che lanciavano pietre. Un ragazzo di 17 anni è stato colpito e ucciso, e altri tre sono stati feriti con munizioni vere. Un altro palestinese è stato arrestato. Il 15 settembre, le autorità israeliane hanno chiuso per quattro giorni i checkpoint Jalama e Salem, al confine tra la Cisgiordania e Israele, vicino a Jenin, e hanno impedito ai residenti a Kafr Dan (Jenin), anche se titolari di un permesso, di entrare in Israele attraverso qualsiasi checkpoint fino al 29 settembre. Ai parenti dei responsabili è ancora vietato l’uso dei checkpoint fino a nuovo avviso.

Le forze israeliane hanno sparato e ucciso un uomo palestinese e ne hanno feriti altri tre a Nablus. Il 25 settembre, durante un’operazione militare nella città di Nablus, le forze israeliane hanno aperto il fuoco contro un uomo palestinese in moto, che secondo le autorità israeliane era armato, uccidendolo. Alla fine del periodo di riferimento di questo rapporto, il suo corpo è ancora trattenuto dalle autorità israeliane. Successivamente, si è verificato uno scambio di fuoco tra Palestinesi armati e forze israeliane e tre Palestinesi armati sono stati feriti con munizioni vere.

Due palestinesi sono stati colpiti e uccisi durante due loro attacchi, o presunti tali, in Cisgiordania e in Israele. Il 24 settembre, un uomo palestinese di 36 anni ha, secondo quanto riportato, speronato con il suo veicolo un’auto della polizia israeliana parcheggiata sul ciglio della strada vicino all’insediamento di Gilad Farm (Nablus), prima di essere colpito e ucciso da un soldato israeliano. Secondo i media israeliani, un agente di polizia israeliano è rimasto ferito. Mentre le autorità israeliane hanno affermato che lo speronamento è stato intenzionale, i testimoni oculari e le prime indagini di un’organizzazione per i diritti umani suggeriscono che si è trattato di un incidente e che la vittima ha perso il controllo del suo veicolo. Il 22 settembre, un uomo palestinese di 23 anni, proveniente dall’area di At Tur, a Gerusalemme Est, ha aggredito fisicamente, tentato di accoltellare e spruzzato dello spray al peperoncino contro gli israeliani seduti nei veicoli che si erano fermati ad un semaforo, su un tratto della Strada 443 che corre all’interno di Israele, vicino al confine con la Cisgiordania, ferendone otto, secondo i media israeliani. L’uomo palestinese è stato colpito e ucciso da un agente della Polizia di Frontiera fuori servizio. Alla fine del periodo di riferimento di questo rapporto, entrambi i corpi dei palestinesi sono ancora trattenuti dalle autorità israeliane. Dall’inizio dell’anno, dodici Palestinesi sono stati colpiti e uccisi dalle forze israeliane durante attacchi palestinesi o tentati/presunti attacchi contro israeliani in Cisgiordania e Israele.

Un passante palestinese è stato colpito e ucciso e altri due sono stati feriti dalle forze di sicurezza palestinesi a Nablus. Il 19 settembre, le forze di sicurezza palestinesi hanno condotto un’operazione a Nablus per arrestare un uomo palestinese dichiarato ‘ricercato’ dalle autorità israeliane. Successivamente, si è verificato uno scambio di fuoco tra le forze di sicurezza palestinesi e le fazioni armate palestinesi, che chiedevano il rilascio dell’uomo. Nel corso dell’incidente si sono verificati lanci di pietre e incendio di pneumatici. Un palestinese, a quanto pare un passante, è stato colpito e ucciso con uno sparo e altri due sono stati feriti.

In totale, 175 palestinesi, tra cui almeno 29 minori, sono stati feriti dalle forze israeliane in tutta la Cisgiordania, di cui 17 sono stati colpiti da munizioni vere. 115 dei feriti sono stati registrati nei pressi di Beita e Beit Dajan (entrambi a Nablus), Kafr Qaddum (Qalqilya) e At Tuwani (Hebron) durante le proteste contro gli insediamenti. Altri 23 palestinesi sono stati feriti in una manifestazione vicino a Qusra (Nablus), dove protestavano contro la chiusura dal 13 settembre dell’ingresso principale del villaggio con cumuli di terra da parte delle forze israeliane. A Huwwara (Nablus), tre palestinesi sono stati feriti quando i coloni israeliani, accompagnati dalle forze israeliane, hanno aggredito fisicamente i residenti e lanciato pietre contro i veicoli e i negozi della comunità. Secondo fonti palestinesi, le forze israeliane hanno sparato bombe sonore, candelotti di gas lacrimogeno e proiettili di gomma contro i residenti che lanciavano pietre (maggiori dettagli di seguito). Altre 28 persone sono state ferite in sette operazioni di perquisizione e arresto e in operazioni militari a Kafr Dan (Jenin), Husan (Betlemme), Beit Ummar, At Tuwani (entrambi a Hebron) e nella città di Nablus. In due incidenti, le forze israeliane hanno sparato munizioni vere contro Palestinesi che cercavano di raggiungere i loro cantieri di lavoro in Israele, passando attraverso aperture informali nella Barriera vicino a Tulkarm e Ramallah; uno è stato ferito dalle munizioni vere e altri 15 sono stati arrestati. Dall’inizio dell’anno, tre lavoratori palestinesi sono stati colpiti e uccisi e altri 30 sono stati feriti dalle forze israeliane mentre cercavano di attraversare le aperture informali della Barriera. In un altro incidente, a seguito dell’attacco palestinese sulla strada 443 il 22 settembre (vedi sopra), le forze israeliane hanno fatto irruzione nella zona di At Tur a Gerusalemme Est, da dove proveniva l’autore dell’attacco. Decine di poliziotti sono stati dispiegati, bloccando la circolazione dei residenti e innescando scontri con le forze israeliane. Come risultato, cinque palestinesi sono stati feriti con proiettili di gomma.

Il 26 settembre, sono stati registrati ferimenti e arresti di palestinesi a Haram al Sharif/Monte del Tempio, nella Città Vecchia di Gerusalemme. Quel giorno, coloni e altri israeliani hanno avuto accesso al complesso per il Capodanno ebraico. Le autorità israeliane hanno schierato migliaia di poliziotti e installato barriere metalliche all’interno e intorno alla Città Vecchia, limitando l’accesso dei palestinesi, anche ad Haram al Sharif/Monte del Tempio. Le forze israeliane hanno sparato proiettili di gomma, granate stordenti e candelotti di gas lacrimogeno contro i palestinesi nella Moschea Al Qibli e hanno chiuso i suoi cancelli con catene di ferro per diverse ore, impedendo ai fedeli di lasciare la struttura. Secondo le autorità israeliane, i palestinesi hanno lanciato pietre e petardi. Almeno due uomini palestinesi sono stati feriti e cinque palestinesi sono stati aggrediti fisicamente e arrestati dalle forze israeliane.

Le autorità israeliane hanno demolito o confiscato 45 strutture di proprietà palestinese nell’Area C della Cisgiordania, adducendo la mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele; quattro delle strutture erano state fornite come aiuti umanitari finanziati da donatori. In conseguenza di ciò, 21 persone, tra cui 13 minori, sono state sfollate e sono stati colpiti i mezzi di sostentamento di circa 270 altre persone. Tutte le strutture si trovavano nell’Area C, comprese 13 strutture sequestrate senza preavviso, il che ha impedito ai proprietari di opporsi in anticipo. Questo rappresenta un aumento significativo di tali sequestri rispetto alla media bisettimanale dall’inizio dell’anno (quattro). A Ras ‘Atiya (Qalqiliya) e Kur (Tulkarm), le autorità israeliane hanno sigillato due pozzi, situati nell’Area B, senza preavviso. I pozzi erano l’unica fonte di irrigazione per circa 400 ettari di terreno coltivato e venivano utilizzati anche per l’acqua potabile; la loro chiusura colpisce più di 8.000 palestinesi in tre villaggi circostanti.

Durante il periodo di riferimento, le forze israeliane hanno condotto 120 operazioni di perquisizione e arresto e hanno arrestato 216 Palestinesi, tra cui almeno dieci minori, in tutta la Cisgiordania. Il governatorato di Hebron ha registrato il maggior numero di operazioni (34) e di arresti (66). Nel corso di sette operazioni di ricerca e arresto e di operazioni militari, le forze israeliane hanno sparato munizioni vere contro i Palestinesi che hanno lanciato pietre e, in alcuni casi, hanno aperto il fuoco contro le forze israeliane, causando 28 feriti palestinesi, di cui 13 da munizioni vive.

I coloni israeliani hanno ferito otto Palestinesi, e persone conosciute o ritenute essere coloni israeliani hanno danneggiato proprietà palestinesi in 11 casi. Il 19 e il 22 settembre, coloni israeliani hanno aggredito fisicamente e spruzzato pepe su otto palestinesi a Huwwara e al checkpoint di Za’atara (entrambi a Nablus). Complessivamente, 60 alberi di proprietà palestinese sono stati sradicati o vandalizzati nei pressi degli insediamenti israeliani vicino a Qaryut e Deir Sharaf (entrambi a Nablus) e Qawawis (Hebron). In otto incidenti, nell’area H2 della città di Hebron, vicino a Khirbet Bir al ‘Idd (Hebron), a Silat adh Dhahr (Jenin), a Burqa e Burin (entrambi a Nablus), a Sinjil e ad Al Mu’arrajat East (entrambi a Ramallah), almeno nove auto di proprietà palestinese sono state vandalizzate; il lancio di pietre avrebbe danneggiato tre strutture di sostentamento palestinesi.

Un colono israeliano è stato ferito e sono stati causati danni a una sinagoga e a un veicolo con targa israeliana quando persone ritenute palestinesi hanno aperto il fuoco verso l’insediamento israeliano di Carmel (Hebron) e contro veicoli israeliani che viaggiavano a Huwwara (Nablus). In altri sette incidenti, persone conosciute o ritenute palestinesi hanno lanciato pietre contro veicoli israeliani che viaggiavano sulle strade della Cisgiordania; di conseguenza, sei israeliani sono stati feriti e almeno sette veicoli sono stati danneggiati, secondo le fonti israeliane.

Dal 26 al 28 settembre, la centrale elettrica di Gaza ha chiuso una delle sue tre turbine operative a causa di una carenza di carburante dovuta alla chiusura del confine tra Israele e Gaza per le festività ebraiche. La produzione di energia, che dipende dal carburante in arrivo da Israele, si è ridotta da 70 a 50 megawatt. Le interruzioni programmate di elettricità sono aumentate da 12 a 16 ore al giorno, ostacolando la fornitura dei servizi di base.

Anche nella Striscia di Gaza, in almeno 39 occasioni, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento vicino alla recinzione perimetrale di Israele o al largo della costa, presumibilmente per far rispettare le restrizioni di accesso ad aree all’interno di Gaza. Secondo quanto riferito, la maggior parte degli incidenti ha costretto agricoltori o pescatori ad allontanarsi dalle loro aree di lavoro. Un uomo palestinese è stato arrestato mentre tentava di entrare in Israele attraverso la recinzione perimetrale vicino a Beit Lahiya. Quattro pescatori palestinesi sono stati arrestati e le loro barche sono state confiscate dalle forze navali israeliane al largo della costa di Gaza, vicino a Deir Al Balah. In quattro occasioni, le forze israeliane hanno effettuato un livellamento del terreno vicino alla recinzione perimetrale nell’area di Rafah.

Ultimi sviluppi (al di fuori del periodo di riferimento)

– Il 28 settembre, quattro palestinesi sono stati uccisi e decine di altri sono rimasti feriti in un’operazione militare israeliana che ha comportato uno scambio di fuoco con i palestinesi.

– Il 29 settembre, un bambino palestinese di 7 anni è morto durante un’attività svolta dalle forze israeliane a Tuqu’ (Betlemme); l’ONU ha chiesto un’indagine

(Maggiori dettagli su entrambi gli incidenti saranno forniti nel prossimo rapporto)

Questo rapporto contiene le informazioni disponibili al momento della pubblicazione. Dati più aggiornati e ulteriori suddivisioni sono disponibili su ochaopt.org/data.

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Chi volesse ricevere ogni due settimane via email una copia del Rapporto in italiano (oppure cancellarsi dalla mailing list) può richiederlo a: donatocioli@gmail.com




“Ingegneria razziale” dietro alle nuove restrizioni di Israele in Cisgiordania

Maureen Clare Murphy

26 settembre 2022 – The Electronic Intifada

Quando verranno imposte il mese prossimo, le nuove restrizioni del Ministero della Difesa israeliano all’ingresso degli stranieri nella Cisgiordania occupata violeranno i diritti fondamentali dei palestinesi, inclusa la vita famigliare.

Secondo una rete di associazioni palestinesi per i diritti umani, la procedura di 97 pagine è funzionale all’ “ingegneria razziale” della popolazione della Cisgiordania, “all’interno dello schema del regime di apartheid, che costituisce un crimine contro l’umanità”.

Queste associazioni affermano che le restrizioni limitano la libertà di movimento dei palestinesi, la possibilità di ricevere assistenza umanitaria e per lo sviluppo e di ospitare medici specialisti e altri esperti.

Queste misure colpiscono i diritti sovrani del popolo palestinese, compreso il diritto ad ospitare studiosi, artisti, atleti, studenti, turisti e volontari.”

Le associazioni chiedono all’Unione Europea di fare pressione su Israele perché “sospenda le crescenti restrizioni”. Chiedono anche che si istituisca da parte del Consiglio ONU sui Diritti Umani una missione permanente di accertamento dei fatti “per indagare su questa misura come grave violazione che rientra nella categoria della discriminazione razziale”.

Le nuove restrizioni, pubblicate all’inizio di questo mese, entreranno in vigore il 20 ottobre. Non si applicheranno agli stranieri in visita a Gerusalemme est occupata, che Israele ha annesso illegalmente ed è governata dalla legislazione civile dello Stato [di Israele].

Gli stranieri che intendono visitare la Cisgiordania, esclusa Gerusalemme est, devono farlo attraverso il confine del ponte di Allenby con la Giordania, invece che dall’aeroporto internazionale di Israele vicino Tel Aviv.

Secondo la rete delle associazioni per i diritti, coloro che intendono lavorare o studiare in Cisgiordania “devono richiedere il visto d’ingresso 45, 60 o fino a 153 giorni prima dell’arrivo e anche consegnare un dettagliato questionario relativo al loro CV (in sintesi) e a qualunque legame familiare o coniugale in Cisgiordania”.

Una precedente bozza delle restrizioni avrebbe richiesto agli stranieri di comunicare all’esercito israeliano se fossero fidanzati, sposati o conviventi con una persona palestinese.

Secondo le associazioni palestinesi per i diritti, “questa previsione scandalosa è stata in seguito rimossa dietro pressioni internazionali”.

Tuttavia le procedure modificate prevedono ancora che ogni rinnovo del visto a chi sia in possesso di visto per lavoro o per altro speciale motivo debba essere accompagnato dalla comunicazione, se è così, riguardo all’ avere un rapporto di coppia con una persona palestinese registrata all’anagrafe in Cisgiordania”.

Draconiane”

Le nuove procedure draconiane per l’ingresso e la residenza degli stranieri in Cisgiordania comprometteranno la libertà accademica delle università palestinesi e danneggeranno l’economia e la società locale”, secondo HaMoked, un’associazione israeliana per i diritti umani che ha avviato un’azione legale contro la precedente bozza di restrizioni.

Secondo HaMoked, “le visite brevi in Cisgiordania sono limitate ai parenti di primo grado dei palestinesi, agli uomini d’affari, agli investitori e ai giornalisti accreditati.

La procedura non consente le visite di altri familiari o amici in Cisgiordania, né quelle di turisti, pellegrini o a carattere culturale.”

Chiunque voglia entrare in Cisgiordania per lavorare, fare volontariato, insegnare o studiare, o chi è coniuge straniero di un palestinese, deve pagare cauzioni dal costo proibitivo” fino a 20.000 dollari, aggiunge HaMoked.

Queste direttive si applicano al personale e ai volontari delle agenzie dell’ONU e delle organizzazioni internazionali. Perciò esse impediscono “il flusso dell’assistenza umanitaria e allo sviluppo…necessaria per far fronte alle terribili condizioni di vita create dalle azioni discriminatorie di Israele”, affermano le associazioni palestinesi per i diritti.

Le nuove restrizioni distruggeranno la vita familiare di migliaia di palestinesi.

Secondo HaMoked, esse stabiliscono che Israele ha l’autorità di approvare le richieste di coniugi stranieri di risiedere in Cisgiordania e affermano che tali richieste sono “soggette a valutazioni politiche del governo israeliano.”

Israele ha congelato per oltre due decenni il processo di ricongiungimento familiare, costringendo migliaia di persone, soprattutto i coniugi stranieri di palestinesi, a vivere in Cisgiordania senza uno status legale.

Le nuove norme renderanno impossibile a uno straniero sposato con un palestinese ottenere un visto per lavoro o per studio.

Inoltre ai sensi della procedura tutti i visti verranno valutati alla luce del ‘rischio di radicamento in Cisgiordania’”, afferma HaMoked.

Con le nuove restrizioni il Ministero della Difesa di Tel Aviv ha anche l’autorità di valutare i titoli accademici dei docenti presso istituzioni della Cisgiordania.

I visti a studenti e docenti possono essere rinnovati per un massimo di 27 mesi e non c’è possibilità di garantire la titolarità della cattedra per i docenti stranieri.

Le nuove restrizioni non si applicano agli stranieri che si recano nelle colonie israeliane in Cisgiordania. Secondo HaMoked chiunque voglia studiare o insegnare all’università di Ariel nella colonia per la quale viene nominato “continuerà ad essere sottoposto alle norme molto più permissive stabilite dal Ministero dell’Interno di Israele”.

Il ministero della Difesa inoltre “stabilirà i criteri economici per l’ingresso degli uomini d’affari e degli investitori e deciderà quali professioni e progetti ‘sono importanti per la regione’”, afferma l’associazione per i diritti.

Gli stranieri possono fare volontariato presso le istituzioni palestinesi per soli 12 mesi e poi dovranno rimanere all’estero per un anno prima di poter rientrare in Cisgiordania.

Discriminatorie”

In base alle nuove restrizioni i cittadini di Giordania, Egitto, Marocco, Bahrein e Sud Sudan sono esclusi dall’ingresso in Cisgiordania, nonostante i rapporti diplomatici di questi Paesi con Israele.

Ai fini di questa procedura questa esclusione discriminatoria si applica anche a chi ha doppia nazionalità: per esempio, chi possiede sia un passaporto USA che uno giordano verrà trattato come giordano”, afferma HaMoked.

I cittadini di questi Stati devono passare attraverso “un processo separato limitato a casi eccezionali ed umanitari”.

Questa politica potrebbe causare frustrazione a Washington riguardo al trattamento discriminatorio da parte di Israele dei palestinesi americani che cercano di entrare in Israele e in Cisgiordania.

L’amministrazione Biden ha cercato di assicurarsi l’accondiscendenza israeliana con il Programma ‘US Visa Waiver’ [esonero USA dai visti], e l’ambasciatore Tom Nides a giugno ha affermato di aver lavorato “24 ore al giorno dal mio arrivo per aiutare Israele a soddisfare tutti i requisiti” per entrare nel programma.

Il programma richiede reciprocità di trattamento per i cittadini USA ad ogni passaggio di confine.

Le associazioni palestinesi per i diritti umani sottolineano che le nuove restrizioni all’ingresso in Cisgiordania coincidono con “un’escalation senza precedenti in tutto il territorio palestinese occupato, compresi trasferimenti forzati su entrambi i lati della Linea Verde”.

Le misure repressive di Israele hanno lo scopo di indebolire “le potenzialità della società palestinese, la sua resilienza e sopravvivenza e le organizzazioni della società civile”, affermano.

L’anno scorso tre delle organizzazioni firmatarie – Al-Haq, Addameer e Defense for Children International-Palestine – sono state dichiarate organizzazioni terroriste dal Ministero della Difesa israeliano ed in agosto i loro uffici in Cisgiordania sono stati assaltati dall’esercito e ne è stata ordinata la chiusura.

Maureen Clare Murphy è caporedattrice di The Electronic Intifada.

(traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Un contratto pubblico svela come Israele faccia uso delle foreste per accaparrarsi la terra dei cittadini beduini

Meron Rapoport

22 settembre 2022 – +972 Magazine

Un accordo tra la Israel Land Authority e il Jewish National Fund utilizza un linguaggio militare per giustificare la piantumazione di alberi come arma contro gli “invasori”.

Fin dalla sua fondazione lo Stato di Israele ha utilizzato la piantumazione di alberi come mezzo per nascondere il passato o aprire la strada al futuro. Mentre a prima vista la piantumazione di alberi sembra un intervento innocuo, persino vantaggioso da realizzare, in Israele è tutta un’altra storia.

Storicamente lo Stato ha fatto uso della piantumazione degli alberi nel 1948, durante la Nakba [l’espulsione di centinaia di migliaia di palestinesi dalle loro terre e la distruzione di centinaia di villaggi, ndt.], col proposito di occultare i villaggi palestinesi che distruggeva dopo aver espulso gli abitanti. Ma la pratica persiste tutt’oggi come strumento per le ulteriori espropriazioni dei cittadini palestinesi di Israele. In nessun luogo ciò è tanto evidente come nel Naqab/Negev, dove la lotta di Israele contro i cittadini beduini per l’accaparramento della terra sta prendendo la forma di un’operazione militare.

Nuovi documenti scoperti da Local Call [sito online indipendente di documentazione socio-politica in lingua ebraica di cui +972 Magazine è la versione in inglese, ndt.] rivelano fino a che punto le autorità israeliane trattano i propri cittadini come nemici. Sulla base di un contratto tra la Israel Land Authority (ILA), che gestisce terreni di proprietà statale, e il Jewish National Fund-Keren Kayemeth LeIsrael (JNF-KKL), un’organizzazione para-governativa che possiede il 13% della terra in Israele ed è responsabile dei progetti di piantumazione di alberi in tutto il Paese, la polizia israeliana ha incaricato il JNF di piantare boschi nei territori che lo Stato vuole “proteggere” dai beduini per “prevenire occupazioni di terre e intrusioni“.

Secondo il contratto i piani devono essere tenuti “segreti fino alla loro attuazione”, mentre gli abitanti beduini che si oppongono alla piantumazione su terreni di cui rivendicano la proprietà sono definiti una “popolazione criminale (e) ostile“.

Il documento attesta che il imboschimento sarà effettuato dal JNF come appaltatore dell’ILA, e il terreno su cui verranno piantati gli alberi non gli è assegnato. Il valore del contratto è di 15 milioni di shekel [4,41 milioni di euro, ndt.] per il 2022 e di 20,5 milioni di shekel [6 milioni di euro, ndt.] per il 2023. In particolare l’accordo è stato esentato da un appalto pubblico; le istituzioni governative in Israele dovrebbero ricorrere a tali gare d’appalto per tutti i contratti, a meno che non venga presa una decisione contraria espressamente motivata.

Mentre i precedenti contratti di rimboschimento tra l’ILA e il JNF venivano giustificati sulla base delle competenze di quest’ultimo nel piantare boschi, quest’anno assume un particolare rilievo il linguaggio militare. Il nuovo accordo afferma esplicitamente che l’imboschimento si è dimostrato efficace nel prevenire “occupazioni” e che gli alberelli hanno lo scopo di facilitare una “efficace conquista” della terra.

Inoltre, l’accordo stabilisce che la sede di imboschimento venga determinata dopo che gli ispettori dell’ILA, dell’Autorità per i parchi naturali e del JNF abbiano individuato delle “aree ‘critiche’… [in cui] si verifichino ripetute massicce occupazioni caratterizzate da coltivazioni e costruzioni illegali .

Il linguaggio militare potrebbe essere una risposta alle forti proteste condotte a gennaio da abitanti beduini nel villaggio di Sa’wa al-Atrash dopo che le autorità israeliane hanno tentato di realizzare piani di imboschimento sulla loro terra.

“Questo documento mostra come lo Stato stia deliberatamente agendo di nascosto“, ha affermato l’avvocato Myssana Morany di Adalah, un centro legale impegnato nella salvaguardia dei diritti dei cittadini palestinesi di Israele. Il contratto, aggiunge Morany, mostra che per lo Stato e la polizia la piantumazione è diventata un’armacontro la comunità beduina.

Una popolazione criminale’

L’accordo non specifica dove avverrà il nuovo imboschimento, ma dai dati in possesso di Adalah, oltre a quelli ottenuti in seguito ad una precedente istanza presentata dalla Società per la Protezione della Natura in Israele, risulta che più della metà dei progetti di imboschimento realizzati negli ultimi due decenni a scopo di accaparramento di terre hanno avuto luogo nel Naqab. Il documento non fa nessun riferimento al fatto che in molti casi la piantumazione viene effettuata in territori che non sono registrati a nome dello Stato, dal momento che gli abitanti beduini ne hanno rivendicato la proprietà.

All’inizio di quest’anno il JNF ha cercato di piantare alberi vicino alle case del villaggio di Sa’wa al-Atrash, in un terreno su cui decine di anni fa la famiglia al-Atrash ha presentato una richiesta di proprietà e che ha coltivato fino al momento della piantumazione da parte del JNF. A seguito di vaste proteste, violenze della polizia e l’arresto di decine di abitanti, la piantumazione è stata interrotta. Nella circostanza il ministro dell’edilizia abitativa Ze’ev Elkin ha liquidato gli scontri come un “evento di routine”.

Per motivare la necessità dell’individuazione del JNF come partner specifico, il contratto afferma che l’ILA “ha allegato alla sua domanda una lettera del capo dell’Unità delle forze speciali della polizia israeliana e del comandante dell’Unità Yoav ([un’unità di polizia paramilitare incaricata di far rispettare l’ordine all’interno della comunità beduina) che chiariva la necessità e la garanzia dell’esecuzione dell’ imboschimento a scopo di tutela del territorio, ed in particolare la necessità che tali operazioni fossero svolte da un ente pubblico [ovvero il JNF], avvantaggiato dall’avere come compito specifico quello di discutere con una comunità criminale che tenti di contrastare un imboschimento. Non è chiaro con quale autorità la polizia ritenesse di poter stabilire quale agenzia avrebbe dovuto eseguire la piantumazione di alberi.

“Con questa raccomandazione la polizia ha superato il limite”, dice Hussein al-Rifa’a, un attivista sociale coinvolto nella lotta a Sa’wa al-Atrash e in precedenza a capo del Consiglio regionale dei villaggi non riconosciuti nel Naqab. “È un organismo di controllo, non un ente di consulenza, ma nel Naqab tutto è possibile”.

“Questo è un abuso di autorità (della polizia)”, gli fa eco Dafna Saporta, coordinatrice del team del Negev presso l’ONG di pianificazione Bimkom, impegnata contro i metodi di imboschimento dell’ILA e del JNF-KKL. “Che competenza può avere la polizia sull’utilizzo della terra?”

“Siamo di fronte a una valanga di provocazioni e i media ne sono consapevolmente complici”, continua al-Rifa’a. I beduini non sono criminali. Vogliono delle soluzioni, da 70 anni. Come in tutte le popolazioni ignorate dallo Stato, c’è una piccola percentuale di eventi negativi: una persona commette un’azione illegale e l’intera comunità viene etichettata come criminale’”.

E’ tutto nelle stesse mani’

A chiarimento del perché il contratto del JNF è stato esentato dalla gara di appalto anche se si tratta di un ente pubblico, l’accordo afferma che “alcune delle persone che hanno cercato di impedire l’imboschimento (avevano) danneggiato beni e vite umane”, aggiungendo che “un appaltatore privato motivato da considerazioni esclusivamente economiche sarebbe scoraggiato dal lavorare con una comunità ostile”. Il JNF invece è “spinto dalla convinzione… la determinazione dei dipendenti JNF-KKL e il loro impegno nel compito di proteggere la terra è saldo e comprovato alla luce delle esperienze passate“.

Lo spirito militare del progetto di imboschimento “allo scopo di proteggere il territorio” raggiunge il suo apice nella sezione 7.3.3 del documento: ” Nel lavoro con JNF-KKL”, si legge, “i piani dello Stato sono tenuti segreti fino alla loro attuazione. Questa questione è di grande importanza poiché rivelare le operazioni in una fase precedente potrebbe ostacolare l’intervento e mettere in pericolo le forze che operano sul campo”.

In una sentenza del 2001 l’Alta Corte israeliana ha stabilito che la forestazione dovrebbe essere considerata come qualsiasi altro atto di pianificazione e deve quindi essere presentata ai comitati di pianificazione competenti, dove possono essere sollevate obiezioni. Tuttavia, l’ILA afferma che si tratta di “imboschimento agricolo” e non richiede approvazione, aggirando così i comitati di pianificazione. Bimkom, così come altre organizzazioni, ha respinto con forza questa interpretazione.

Nel 2015 la Società per la protezione della natura in Israele ha presentato all’Alta Corte un’istanza contro i piani di rimboschimento nel Naqab per il fatto che provocano gravi danni alla natura e aggirano illegalmente le legittime procedure di pianificazione.

Successivamente è stato istituito il “Comitato Scoop” (dal nome di un alto funzionario dell’ILA) per esaminare i casi designati come “imboschimento agricolo”. Ma le discussioni interne di questo comitato, i cui membri sono per più della metà rappresentanti dell’ILA, del JNF e dell’Autorità per i parchi naturali, non sono pubblicamente consultabili. Un’altra istanza presentata dalla Società per la protezione della natura in Israele contro i piani di imboschimento è stata respinta.

A febbraio Adalah ha presentato all’ILA una richiesta sulla base della libertà di accesso alle informazioni per ottenere i protocolli del comitato e altro materiale relativo al suo lavoro. “Abbiamo ricevuto scarsissimo materiale”, riferisce Morany. L’ILA ci ha detto che alcuni dei documenti sono nelle mani del JNF, a cui si sarebbe rivolta, ma il JNF non li avrebbe forniti. Mi hanno suggerito di contattare il JNF”.

Rivolgersi al JNF è inutile, dice Morany, perché tecnicamente non è un ente governativo e quindi non è obbligato a rispondere alle richieste fatte in base alla libertà di accesso alle informazioni. Ma, alla luce del documento in cui lo Stato ammette apertamente di utilizzare il JNF per mantenere la segretezza dei suoi piani di imboschimento, ora è chiaro, sottolinea Morany, che tutto si trova nelle stesse mani. Lo Stato trasferisce al JNF attività che esso legalmente non può fare”.

“Dobbiamo salvarci da questa valanga di provocazioni

Secondo Saporta si può presumere che, se fossero arrivati ai comitati di pianificazione, i piani di imboschimento avrebbero incontrato delle difficoltà. L’imboschimento è in corso su territori che lo Stato ha definito, nell’ambito del Piano Metropolitano Be’er Sheva, un ‘paesaggio rurale agricolo misto’, cioè, aree destinate all’insediamento e all’espansione dei villaggi beduini. L’imboschimento contravviene a questo piano”, afferma.

Come a Sa’wa, gran parte della forestazione avviene in aree molto vicine alle case degli abitanti beduini, il che non è un caso. In uno dei protocolli del Comitato Scoop che Adalah ha ricevuto, Ilan Yeshuron, il direttore della regione meridionale della divisione per la protezione del territorio dell’ILA, afferma che lo scopo della forestazione è, tra le altre cose, prevenire l’espansione degli insediamenti illegali [beduini] nella zona. Ci stiamo avvicinando a una distanza di qualche decina di metri dai centri abitati, non di più“.

Poiché l’ILA e il JNF non forniscono dati sui loro progetti di imboschimento, è difficile conoscere esattamente la portata dei loro piani, ma si stima che riguardino decine di migliaia di dunam [10 dunam: 1 ettaro, ndt.]. Secondo Adalah ci sono rivendicazioni di proprietà su una parte significativa delle aree imboschite, il che significa che, contrariamente a quanto descritto nel documento ILA-JNF, lo Stato non è il proprietario.

“Dicono che l’obiettivo sia prevenire le occupazioni di terre, ma determinare chi sta occupando indebitamente o meno è una questione giuridica”, afferma Morany. Stanno creando dei fatti compiuti. Non c’è un’indagine legale, manca la trasparenza e qualsiasi procedura di pianificazione”.

L’ILA afferma che il progetto è solo temporaneo e che in seguito, se si modifica la situazione giuridica, gli alberi potranno essere sradicati. Ma questo non rassicura Morany. “È un bluff”, spiega. La piantumazione di alberi impedisce alle persone con diritti di proprietà di utilizzare la terra. Stanno cambiando la situazione e aggirando i processi di regolarizzazione”.

Il tribunale non aiuterà (l’ILA); queste sono terre private beduine, dice Al-Rifa’a, riferendosi principalmente alla valle di Be’er Sheva, dove si trova una grande quota dei villaggi non riconosciuti e dove è stata effettuata gran parte dell’imboschimento. Dal punto di vista legale la proprietà della terra non è stata contestata. La popolazione non è stata trasferita da un’altra parte del Naqab, ma è rimasta lì sin dalla fondazione di Israele”.

Continua: Lo Stato ha cercato di impossessarsi di quest’area in tutti i modi e non c’è riuscito, quindi ora vogliono usare il JNF e la polizia per impossessarsi della terra. Siamo in una brutta situazione, ma dobbiamo sopravvivere a questa valanga di provocazioni”.

Nella sua risposta alla richiesta di commento di Local Call, l’ILA ha dichiarato: “Le operazioni di piantumazione per proteggere e preservare la terra nel Negev sono state effettuate dallo Stato per circa 30 anni nell’ambito della costante opera di protezione delle terre dello Stato e nell’ambito dei doveri dell’ILA stabiliti dalla legge. Si tratta di opere agricole temporanee e reversibili, il cui scopo è quello di preservare il terreno in modo che sia disponibile per qualsiasi uso stabilito dai soggetti autorizzati”.

Continua: L’esperienza pluriennale mostra che la piantumazione di alberi è altamente efficace nel prevenire occupazioni e costruzioni illegali, oltre a gravi danni ambientali dovuti allo scarico di rifiuti e alle discariche illegali, a conservare le acque di deflusso, ecc. Queste piantumazioni protettive vengono svolte in coordinamento con tutti gli organi statali competenti, a seguito di una chiara decisione dell’Alta Corte in materia”.

Riguardo al ruolo delle forze di sicurezza interna nei progetti, l’ILA aggiunge: La polizia è un organismo che assiste l’ILA nello svolgimento delle azioni esecutive in conformità con i poteri di legge e non è affatto coinvolta nella gestione della terra, con tutto ciò che questo implica”.

Nella propria dichiarazione a Local Call la polizia israeliana ha affermato che il suo ruolo è quello di assistere e proteggere le autorità civili nello svolgimento dei loro compiti in seguito a loro specifica richiesta di assistenza. Sottolineiamo che la polizia non interferisce in tutto ciò che riguarda la gestione del territorio, compresi i diritti alla terra, per tutti gli aspetti che ne derivano.

La lettera in questione si riferisce alle difficoltà che gli organismi preposti devono affrontare nell’applicazione della legge, ai rischi connessi e ai vantaggi di lavorare con un ente pubblico alla luce delle circostanze sopra menzionate. Le dichiarazioni sui vantaggi della forestazione come strumento per prendere possesso della terra sono basate su un ruolo professionale e vasta esperienza della polizia israeliana nell’assistenza agli organi esecutivi“.

Meron Rapoport è un redattore di Local Call

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Apartheid in Palestina. Origini e prospettive della questione palestinese,

Gabriel Traetta. Apartheid in Palestina.Origini e prospettive della questione palestinese DeriveApprodi, Roma 2022

Recensione di Amedeo Rossi

25 settembre2022

Il libro rappresenta una denuncia della situazione che nel corso dei decenni è andata progressivamente deteriorandosi in Medio Oriente. Nelle due autorevoli prefazioni Luisa Morgantini e Wasim Dahmash evidenziano uno dei pregi di questo libro: “Chiamare le cose con il proprio nome”, come afferma Dahmash, cioè “colonialismo d’insediamento, apartheid, occupazione militare”, come enumera Morgantini. Inoltre, aggiungono, la peculiarità di questo libro è il riferimento puntuale al contesto internazionale. L’autore ne tratta con cognizione di causa, avendo collaborato con l’UNRWA, l’agenzia delle Nazioni Unite specificamente dedicata ai profughi palestinesi. E il fulcro di questo lavoro è proprio la contraddizione tra dichiarazioni di principio, denunce e risoluzioni ONU e la sostanziale inanità, quando non connivenza e sostegno, della comunità internazionale nei confronti di Israele a rappresentare.

La tragedia di cui i palestinesi sono vittime è maturata soprattutto a partire dal Mandato britannico e dalla dichiarazione Balfour, che impegnava l’impero a favorire la costituzione di un “focolare ebraico” in Palestina. Fin da allora alla popolazione autoctona è stato riservato un ruolo marginale, ignorandone il diritto all’autodeterminazione e liquidandola come “popolazione non ebraica” da tutelare solo dal punto di vista religioso e sociale. È singolare che i sostenitori di Israele citino questa dichiarazione come una delle fonti di legittimazione di Israele, nonostante si tratti di un documento di chiaro stampo colonialista. E d’altra parte il colonialismo di insediamento è una delle caratteristiche che definiscono l’impresa sionista.

Il secondo momento cruciale su cui si sofferma Traetta è rappresentato dalla risoluzione 181 dell’ONU che nel 1947 stabilì la spartizione della Palestina tra uno Stato ebraico e un altro arabo, ignorando la situazione demografica sul terreno e le legittime aspirazioni del popolo palestinese. Si tratta, scrive l’autore, “dell’unico caso nella storia delle Nazioni Unite e del diritto internazionale in cui è stato conferito a un movimento politico-coloniale il diritto di fondare uno Stato e per di più a evidente discapito del popolo indigeno.” Ciò fu possibile grazie alla maggiore capacità del gruppo dirigente sionista rispetto alla controparte araba di muoversi nel contesto internazionale e trovare quindi legittimazione alle proprie pretese non solo in Occidente, ma anche nel blocco socialista. Infatti, pur nell’imminenza della Guerra fredda, la risoluzione 181 venne votata sia dagli Stati Uniti che dal blocco socialista in via di formazione. Da allora lo Stato ebraico ha continuato a violare impunemente le disposizioni delle Nazioni Unite, a cominciare proprio dalla stessa risoluzione 181. I territori occupati andavano ben oltre quelli destinati al cosiddetto Stato ebraico, ma vennero annessi senza conseguenze. La capitale venne spostata da Tel Aviv a Gerusalemme ovest, che era invece destinata ad essere un territorio gestito dalla comunità internazionale. Infine, Israele si rifiutò di consentire il ritorno delle centinaia di migliaia di profughi palestinesi, nonostante nell’atto di adesione all’ONU accettasse di riaccoglierli.

Dal problema dei profughi nacque nel dicembre 1949 la United Nation Relief and Works Agency for Palestinian Refugees in the Near East (l’UNRWA), incaricata di fornire una serie di servizi ai profughi palestinesi. Logicamente a questa agenzia Traetta dedica particolare attenzione, in quanto essa sintetizza tutte le contraddizioni e le incongruenze della comunità internazionale rispetto al conflitto israelo-palestinese. Egli evidenzia che l’UNRWA non ha un mandato specifico: “Non esiste infatti una dichiarazione esplicativa del termine unica ed esaustiva, ma vari documenti e risoluzioni ONU contengono elementi che, se correlati, forniscono la descrizione dell’istituto del mandato.” Il risultato è che “le risoluzioni sulle quali poggiano i mandati utilizzano prevalentemente […] una terminologia che lascia spazio all’arbitrio e non prevede l’esecutività della richiesta.”

Questa voluta ambiguità si manifestò anche nel 1967, quando circa altri 350.000 palestinesi vennero cacciati dalla Cisgiordania e da Gaza. L’ulteriore pressione sull’UNRWA ne accrebbe il ruolo dal punto di vista quantitativo, ma Israele scaricò sui finanziatori internazionali dell’agenzia il costo della sua espansione territoriale.

Nel 2000 l’UNRWA aveva 30.000 dipendenti, al 95% palestinesi (rappresentando quindi una fonte di lavoro imprescindibile per i rifugiati) e forniva ai suoi beneficiari servizi nei campi della salute, dell’istruzione, della formazione, dei servizi sociali, ecc. Tuttavia queste attività sono soggette alla disponibilità di fondi, a loro volta subordinati alle erogazioni da parte dei Paesi donatori, che per ragioni di politica internazionale possono decidere di ridurre o negare gli stanziamenti. È quanto ha fatto l’amministrazione Trump, che ha contribuito alla campagna di discredito e il boicottaggio promosso da Israele per eliminare alla radice la questione dei profughi palestinesi.

Nella seconda parte del libro Traetta parla delle radici colonialiste dello Stato di Israele e delle sue innumerevoli violazioni delle leggi internazionali, della Convenzione di Ginevra e delle risoluzioni ONU. Ricorda che dal 2008 Israele nega impunemente al relatore speciale ONU l’accesso sia al suo territorio che a quelli occupati. Non c’è quindi da stupirsi che oltre il 50% delle risoluzioni di denuncia per violazioni dei diritti umani, sia da parte del Consiglio ONU per i diritti umani che dell’Assemblea generale riguardino Israele.

Una serie di pratiche e di politiche discriminatorie in atto già dalla fondazione dello Stato nel 1948 hanno dato vita a sistema di apartheid istituzionalizzato sia nei territori occupati che sul territorio israeliano. Lo hanno affermato nel 2021 rapporti dell’ONU, di ong internazionali come Amnesty International e Human Rights Watch e israeliane come B’Tselem, ma i palestinesi lo denunciano da decenni. Ancora più grave è la situazione a Gaza, sottoposta dal 2007 a un assedio asfissiante che sta distruggendo l’economia, l’ambiente e la vita stessa di 2 milioni di persone. I periodici attacchi israeliani hanno provocato migliaia di vittime e preso di mira le infrastrutture fondamentali per la sopravvivenza della popolazione, compresi i servizi dell’UNRWA. Nel 2019, durante la Grande Marcia del Ritorno, i cecchini israeliani hanno fatto strage dei manifestanti. A questo proposito Traetta cita il rapporto del relatore speciale ONU, secondo il quale, nonostante la comunità internazionale sia pienamente consapevole di quanto sta avvenendo in Palestina, essa si dimostra “riluttante ad agire in merito a tali prove schiaccianti e a utilizzare gli abbondanti strumenti politici e legali a sua disposizione per porre fine all’ingiustizia.”

Proprio tra il 2018 e il 2020, afferma l’autore, ci sono stati tre cambiamenti epocali che hanno riconosciuto come legittime le violazioni operate da Israele: lo spostamento dell’ambasciata USA a Gerusalemme, la legge sullo Stato-Nazione ebraico e infine l’Accordo del secolo proposto dall’amministrazione Trump, che ha escluso la partecipazione dei palestinesi persino dalla definizione dei suddetti “accordi”. Questi avvenimenti non solo rafforzano il progetto sionista, ma fanno a pezzi le leggi internazionali e ogni norma che pretenda di regolare i rapporti tra gli Stati e i popoli. Come afferma in chiusura Traetta, “la questione palestinese ricorda al mondo intero, ogni giorno, quanto l’ordinamento internazionale contemporaneo sia una farsa: nel nome del diritto internazionale, i cinque membri permanenti possono utilizzare secondo le proprie esigenze nazionali il potere vastissimo conferito loro dal Consiglio di sicurezza ma al tempo stesso, tramite il diritto di veto, sono immuni dalla possibilità di esserne oggetto.”

Come dimostra questo libro, la questione palestinese non riguarda solo un’area relativamente marginale del mondo, ma i diritti di tutti, e non è un problema di carattere umanitario, ma è eminentemente politico.




In vista delle elezioni italiane Israele non si tocca

Elisa Brunelli 

23 settembre 2022 –  Mondoweiss

In nome di interessi energetici e militari, i partiti politici italiani sia di destra che di sinistra censurano la solidarietà con la Palestina.

“Credi di più nell’esistenza di Israele o degli alieni?”

Era solo un tweet di Raffaele La Regina, giovane candidato del Partito Democratico italiano.

Il tweet è stato pubblicato la prima volta nel 2020, passato in gran parte inosservato, fino a quando Il Giornale, il quotidiano di destra di proprietà della famiglia Berlusconi, lo ha ripescato il mese scorso. Ha innescato una tempesta di polemiche nel discorso politico italiano in vista delle imminenti elezioni generali, previste per il 25 settembre.

Proprio dalle fazioni italiane di destra sono nate le maggiori reazioni di condanna, persino dalle fila di Fratelli d’Italia, che solo pochi giorni dopo è stato coinvolto in una polemica quando uno dei suoi candidati, già su posizioni neofasciste, ha fatto una battuta sull’Olocausto.

Anche il Partito Democratico ha incolpato il suo candidato per il tweet. Il 20 agosto La Regina, 29 anni, è stato costretto a scusarsi in una conferenza stampa per aver scritto anni prima dei tweet in cui denunciava l’occupazione illegale e violenta di Gerusalemme durante la Guerra dei Sei Giorni ed esprimeva solidarietà al popolo palestinese.

«Erano parole sbagliate. Non ho mai messo in discussione Israele come Stato e il suo diritto ad esistere”, ha detto sotto lo sguardo severo di Enrico Letta, ex presidente del Consiglio e segretario nazionale.

Nonostante le scuse, gli attacchi della destra non sono cessati e il Pd ha preferito chiedere a La Regina di abbandonare la corsa alle elezioni.

L’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini è andato oltre, dimostrando di seguire ancora le orme di Donald Trump: “Quando sarò al governo, riconoscerò Gerusalemme come capitale e vi sposterò l’ambasciata da Tel Aviv”, ha promesso in un’ intervista con Israel HaYom.

Il segretario della Lega, insieme a Silvio Berlusconi, fa parte della coalizione di destra, data fin dall’inizio come vincitrice di queste elezioni e ora guidata da Giorgia Meloni. Tuttavia la leader di Fratelli d’Italia mostra più cautela e ambiguità nelle sue dichiarazioni, soprattutto per quanto riguarda un possibile trasferimento dell’ambasciata italiana a Gerusalemme.

Giorgia Meloni ormai da molti mesi compie un’operazione di pulizia e prende le distanze dagli elementi più compromettenti del suo partito, nato dalle ceneri del Movimento Sociale Italiano, partito fondato da un ufficiale fascista e collaboratore dei nazisti, Giorgio Almirante.

Da un lato Meloni non può permettersi di scontentare il suo tradizionale elettorato razzista e nostalgico del nazismo, ma dall’altro, dopo diversi anni trascorsi all’opposizione, ha bisogno ora di affermarsi come interlocutrice credibile a livello nazionale e internazionale — e cambiare il suo atteggiamento nei confronti di Israele e della sua politica sarà un passaggio importante per raggiungere quello scopo.

Sulla posizione di Meloni basti vedere come è cambiata la sua reazione ai massacri di civili nella Striscia di Gaza. Nel 2014, durante l’Operazione Margine di Protezione, Meloni pubblicava sui canali social: “Un’altra strage di bambini a Gaza. Nessuna causa è giusta quando versa il sangue di innocenti”.

Il tono utilizzato nelle dichiarazioni pubbliche durante l’aggressione del 2021 è stato significativamente diverso. Fu allora che per la Meloni si prospettò la possibilità di governare, essa stessa prodotto dell’ennesima crisi del precedente esecutivo. “Il lancio dei razzi di Hamas contro Gerusalemme, Ashkelon e altre città è un attacco alla sicurezza di Israele che deve essere condannato senza se e senza ma”, scrisse Meloni, cambiando tono.

Dopo aver ignorato l’ultimo massacro di agosto, ha finalmente dichiarato in una dettagliata intervista su Israel HaYom: “Israele rappresenta l’unica democrazia a tutti gli effetti nell’intero Medio Oriente e difendiamo senza riserve il suo diritto di esistere e vivere in sicurezza. Credo che l’esistenza dello Stato di Israele sia vitale e Fratelli d’Italia farà ogni sforzo per investire in una maggiore cooperazione tra i nostri Paesi”.

La benedizione di Israele

L’aggressione della Russia contro l’Ucraina e la necessità dei paesi europei di ridurre la dipendenza dalle importazioni di gas da Mosca sono solo gli ultimi motivi per cui chi governa, o si prepara a governare in Italia, ha tanto bisogno di compiacere Israele, facendo di qualsiasi forma di solidarietà con i palestinesi un tabù.

Nel tentativo di sostituire le forniture di gas russe, Bruxelles ha trovato nuovi alleati in Israele ed Egitto con la firma dell’ultimo memorandum d’intesa. Anche la missione di giugno del premier Mario Draghi aveva questo obiettivo. All’ordine del giorno c’è anche l’ipotesi di completare il gasdotto EastMed, progetto da sei miliardi di euro annunciato nel 2020 con un accordo firmato tra Cipro, Grecia e Israele per la realizzazione di un gasdotto di 1.900 chilometri che potrebbe arrivare in Italia tramite il gasdotto Poseidon [il tratto Grecia-Italia di EastMed, ndt.]

L’Italia ha bisogno di diversificare le proprie fonti energetiche e, nello stesso tempo, Israele ha bisogno di accreditarsi sui mercati internazionali. Questo è quanto mi ha fatto notare il giornalista e scrittore Antonio Mazzeo quando l’ho intervistato per questo articolo: “In questo momento, Italia ed Europa guardano a Israele non solo perché fiutano buoni affari, ma soprattutto per il ruolo di gendarme che ha nel Mediterraneo orientale, fondamentale per il controllo degli approvvigionamenti energetici”.

Gli interessi reciproci da entrambe le sponde del Mediterraneo non si limitano alla crisi energetica, ma hanno origine molto prima.

L’Italia, in particolare, ha seguito Israele da vicino sin dalla sua creazione, e nel mercato delle armi sono state costruite le basi di un partenariato grondante sangue e denaro.

Il primo carico di armi italiano risale al 1947, e ha contribuito alla guerra che diede inizio all’occupazione dei territori palestinesi: “Da allora, più Israele bombarda, più affari fa l’Italia”, ha detto Mazzeo. “Nessun governo ha mai fatto problema per accordi da milioni di dollari con uno Stato belligerante: non solo tra Gaza e la Cisgiordania, ma in vere e proprie operazioni di guerra in Libano, Siria e Iran”.

Nonostante una legge italiana del 1990 vieti la vendita di armi a Stati responsabili di violazioni dei diritti umani, Leonardo e Fincantieri, i due colossi nazionali della produzione militare, continuano a firmare accordi multimiliardari con paesi colpevoli di crimini di sangue: in questo corso, Israele ha il privilegio di una propria corsia preferenziale.

Ignorando le decine di condanne ONU contro Israele, tutti i governi italiani uno dopo l’altro hanno continuato a rafforzare questa fatale collaborazione.

Il 23 luglio, pochi giorni prima dell’ultima aggressione a Gaza, quattro cacciabombardieri F-35 dell’Aeronautica Militare Italiana sono stati inviati nel deserto del Negev per prendere parte all’esercitazione “Lightning Shield” con il 122° Squadrone Nachshon, una delle unità più avanzate e specializzate di guerra elettronica nel mondo e già impiegate da Israele durante gli attacchi in Siria.

Anche i caccia M-346, con i quali sono attualmente addestrati i piloti dell’Aeronautica Militare israeliana, sono prodotti da Leonardo Spa, che fornisce anche le forze armate turche dei micidiali elicotteri T129 Atak utilizzati per le stragi nei villaggi del Kurdistan e per gli attacchi alle postazioni delle milizie YPG e YPJ [sigle di Unità di Protezione Popolare maschile e femminile, presenti nelle regioni a maggioranza curda nel nord della Siria, ndt.]

Non bisogna dimenticare che gli F35 venduti a Israele da Leonardo possono trasportare testate nucleari: solo pochi mesi fa Israele ha simulato un attacco nucleare in Iran con i nostri F35”, ricorda Mazzeo.

E poi l’Italia investe ingenti risorse nelle tecnologie satellitari prodotte da Israele. “Prima di formalizzare le sue dimissioni, il governo Draghi ha anche concluso un accordo con le industrie militari israeliane”, ha rilevato Mazzeo. “L’accordo prevedeva l’acquisto di due sofisticati aerei da guerra in un quadro di intelligence per un valore di circa 550 milioni di dollari, gravando le generazioni future con debiti di guerra”.  

Le importazioni e le esportazioni di armi, tuttavia, non sono solo affari, ma autentiche scelte politiche: nel 2021 l’Unione Europea ha registrato un record storico di esportazioni effettive di quasi 4,8 miliardi di euro e il più alto numero di missioni internazionali mai raggiunto, pari a 44 (5 in più rispetto all’anno precedente), tutte in posizioni strategiche di interesse energetico o militare.

Non solo cliente

Israele, oltre ad essere un cliente importante, rappresenta un modello da seguire. Già nel 2011 potenti radar a microonde prodotti negli stabilimenti dell’occupazione sono stati installati all’interno di parchi e riserve naturali del sud Italia per contrastare gli sbarchi di migranti. La direzione è la stessa delle agenzie europee FRONTEX ed European Maritime Safety Agency. Il Comitato Nazionale BDS ha riferito come i droni militari utilizzati durante i massacri di Gaza vengano ora utilizzati per rilevare e attaccare i migranti.

Un ulteriore passo è stato fatto lo scorso giugno. Leonardo ha acquisito RADA Electronic Industries Ltd, la società israeliana leader nella fornitura di software e radar militari ad alta tecnologia. La società italiana ha annunciato che la sua controllata statunitense, Leonardo DRS [Drug Reduction System, sistema di riduzione della resistenza aerodinamica per aumentare la velocità, ndt.] e RADA hanno stipulato un accordo definitivo per creare una società per azioni di nuova fusione, in cambio dell’assegnazione agli attuali proprietari di RADA di circa il 19,5% di Leonardo DRS.

Si direbbe quindi che la macchina da guerra israeliana sia penetrata con successo in un apparato militare e politico straniero. Allo stesso tempo l’Italia mantiene importanti relazioni con Stati come Iran, Qatar, Turchia e Pakistan.

Il pretesto finale è isolare Putin per la sua condotta criminale, ma in questo modo l’Italia continua a rafforzare le relazioni con Paesi con enormi contraddizioni sul rispetto dei diritti umani.

Allo stesso tempo, la stessa Italia continua a perseguire politiche estrattive controverse nel continente africano attraverso la sua società per azioni Eni, che ha devastato il delta del Niger, o attraverso la sua recente missione militare in Mozambico a difesa degli interessi energetici, solo per citarne alcuni.

L’Italia fa affari anche con i propri nemici. Ma dopotutto, anche questo fa parte del modello israeliano.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Nel discorso di Lapid all’ONU l’unica notizia è che non c’è niente di nuovo

Editoriale

23 settembre 2022 – Haaretz

Il discorso del primo ministro Yair Lapid giovedì all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite non contiene nessuna novità. La sua affermazione più impegnativa è stata che un “accordo con i palestinesi basato sui due Stati per due popoli è la cosa giusta per la sicurezza di Israele, per la sua economia e per il futuro dei nostri figli.” Ciò è vero, e importante da ricordare. Ma non è la prima volta che è stato detto dal podio dell’ONU. Anche l’ex-primo ministro Benjamin Netanyahu l’ha detto, benché egli non abbia mosso un dito per raggiungere tale risultato.

Lapid è il primo ministro ad interim di un Paese di destra, che parla nel mezzo della quinta campagna elettorale in tre anni, nel contesto di una grave crisi politica e l’ascesa del kahanismo [suprematismo ebraico ispirato al pensiero del rabbino Meir Kahane, ndt.]. Di conseguenza non c’era alcuna ragione per aspettarsi niente di più che generiche dichiarazioni di intenti. Tuttavia, persino nelle circostanze che verosimilmente non gli hanno lasciato la possibilità di accompagnare le sue parole con un appello per avviare negoziati diplomatici, vale la pena soffermarsi sul fatto che il suo discorso non era rivolto a nessuno in particolare. Chi si aspettava di sentire Lapid tendere la mano al presidente palestinese Mahmoud Abbas è rimasto deluso.

Deponete le vostre armi e non ci saranno limiti,” ha affermato, come se l’Autorità Nazionale Palestinese non avesse mai abbandonato la lotta armata. “Deponete le armi, lasciate che i nostri figli che sono prigionieri – Hadar e Oron [due soldati israeliani uccisi durante l’operazione militare contro Gaza del 2014, ndt.], che la loro memoria sia benedetta; Avera e Hisham [due cittadini israeliani detenuti da Hamas a Gaza, ndt.], che sono ancora vivi – tornino a casa e costruiremo la vostra economia insieme. Possiamo costruire insieme il vostro futuro, sia a Gaza che in Cisgiordania.” Chiunque non sia esperto del conflitto potrebbe aver concluso da questi riferimenti che il conflitto sia incentrato solo sulla Striscia di Gaza – che non ci sia nessuna Autorità Nazionale Palestinese, che non ci sia nessun coordinamento per la sicurezza con essa e che i rappresentanti del popolo palestinese siano Hamas e la Jihad islamica.

Lapid non ha offerto qualcosa di diverso da Netanyahu neppure riguardo alla minaccia iraniana. “L’unico modo per evitare che l’Iran abbia un’arma nucleare è mettere sul tavolo una credibile minaccia militare,” ha affermato. “E dopo, solo dopo, negoziare un accordo più lungo e più forte con loro.” Oltretutto, ha aggiunto, “deve essere messo in chiaro all’Iran che, se prosegue con il suo programma nucleare, il mondo non risponderà con le parole, ma con la forza militare.”

Il primo ministro in alternanza [con Lapid, ndt.] Naftali Bennett ha rotto il suo lungo silenzio mercoledì per attaccare la presunta intenzione di Lapid di annunciare il proprio appoggio a portare avanti la soluzione a due Stati. Ma Bennett può stare tranquillo: Lapid non ha fatto niente per minacciare l’impegno del cosiddetto governo del cambiamento a non cambiare assolutamente niente.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)