Decine di soldati sono entrati in un villaggio palestinese nel cuore della notte per un “Tour Selichot”

Amira Hass

21 settembre 2022 – Haaretz

I soldati hanno assistito ad una conferenza tenuta da un civile in un sito archeologico di a-Tuwani, dove i coloni affermano che un tempo sorgesse una sinagoga. Nelle ultime notti le IDF hanno fatto ripetute irruzioni nel villaggio, per cui all’arrivo dei soldati molti erano svegli.

Da 20 a 30 soldati del genio militare, accompagnati da una forza di polizia di frontiera, sono entrati nel cuore della notte nel villaggio di al-Tuwani, nelle colline meridionali di Hebron, per effettuare una visita presso uno scavo archeologico all’interno di un’area residenziale come parte di un “tour selichot[visita rituale accompagnata da preghiere, ndtr.].

I soldati sono giunti al villaggio intorno all’una della notte tra mercoledì e giovedì della scorsa settimana, sono rimasti per circa 90 minuti e hanno assistito alla conferenza di un archeologo civile, accompagnato da un uomo e una donna in abiti civili. I selichot sono preghiere ebraiche per il perdono recitate tradizionalmente durante il mese precedente al Rosh Hashanah [capodanno civile ebraico, ndt.].

Di recente l’esercito ha spesso fatto delle irruzioni notturne nel villaggio, per cui all’arrivo dei soldati molti abitanti erano svegli non volendo essere sorpresi dalle irruzioni dei soldati nelle loro case, come ha affermato un abitante. All’interno delle case che circondano gli scavi la tensione era particolarmente alta. Un poliziotto di frontiera ha impedito agli attivisti israeliani e americani, che si oppongono all’occupazione e soggiornano permanentemente ad al-Tuwani, di avvicinarsi al luogo della conferenza.

I partecipanti erano ufficiali di stato maggiore e sottufficiali del battaglione regolare del genio di stanza presso le colline a sud di Hebron che, come riportato lunedì su Haaretz, dovevano prendere parte al tour selichot di preghiera durante un’esercitazione di diversi giorni del battaglione. A tal fine hanno tenuto i loro soldati disarmati, schierati allo scoperto nella Cisgiordania meridionale, con la presenza di un solo giovane ufficiale armato. Mentre i soldati dormivano sono stati rubati loro effetti personali ed equipaggiamento protettivo.

In uno scavo condotto ad a-Tuwani circa 11 anni fa, durante il processo di approvazione urbanistica riguardante il villaggio, sono state scoperte le rovine di un edificio pubblico. Nonostante l’assenza di iscrizioni o del simbolo della menorah [lampada ad olio a sette bracci che veniva accesa all’interno delle sinagoghe, ndt.] un’ipotesi sostiene che si tratti di una sinagoga del I o II secolo d.C. Secondo l’archeologo Yonathan Mizrachi altri resti archeologici nel villaggio testimoniano la presenza di un insediamento del periodo bizantino e del primo periodo musulmano.

Lo scorso mese, durante Tisha BAv [giorno di lutto e digiuno nel calendario religioso, ndt.], decine di israeliani hanno pregato in mezzo alla zona di scavo, che si trova nel cuore della zona abitata dai palestinesi. L’esercito ha bloccato gli ingressi al villaggio dalle 3:30 del mattino e i soldati sono saliti sui tetti per proteggere i fedeli ebrei, giunti ​​circa due ore dopo. Per diversi anni i coloni hanno cercato di etichettare il luogo come sacro per gli ebrei e gli abitanti del villaggio temono che ciò faccia parte di un piano per sfrattarli e impossessarsi delle terre del villaggio.

Le forze di difesa israeliane hanno risposto che si è trattato di un tour pianificato condotto sotto la guida di un archeologo in un’antica sinagoga situata nell’area C [in base agli accordi di Oslo sotto totale ma temporaneo controllo israeliano, ndt.], all’interno del villaggio di a-Tuwani nell’area regionale di Yehuda. Il tour è stato condotto a scopo didattico e si è concluso senza attriti con gli abitanti del villaggio”.

Due giorni prima della lezione notturna l’abitante del villaggio Hafez al-Hureini, un uomo sulla cinquantina, è stato arrestato, dopo aver difeso se stesso e altri da cinque israeliani, alcuni dei quali mascherati, i quali, giunti nella sua terra dal vicino avamposto coloniale di Havat Maon, armati di bastoni e un fucile, li avevano attaccati e avevano sparato in aria. Uno degli assalitori ha riportato una grave ferita alla testa e nell’incidente al-Hureini ha subito la frattura di entrambe le braccia. L’ episodio è stato ripreso per intero in un video, ma da allora la detenzione di al-Hureini è stata prolungata più volte, mentre gli israeliani coinvolti nell’aggressione non sono stati finora né arrestati né convocati per essere interrogati.

La notte in cui al-Hureini è stato arrestato l’esercito ha fatto irruzione due volte nel villaggio. Durante la prima incursione sono stati anche effettuati intensi lanci di granate assordanti e gas lacrimogeni nelle case. Nel corso del secondo raid alla periferia del villaggio 10 uomini sono stati arrestati e interrogati per diverse ore.

Secondo il sito web della rivista +972 [rivista indipendente e senza scopo di lucro gestita da un gruppo di giornalisti palestinesi e israeliani, ndt.] un ufficiale del servizio di sicurezza Shin Bet [agenzia di intelligence per gli affari interni dello Stato di Israele, ndt.] ha minacciato di “colpire il villaggio con il pugno di ferro” e li ha avvertiti di non invitare nel villaggio attivisti di sinistra o il ricercatore di B’tselem [ONG israeliana che raccoglie e diffonde dati sulla violazione dei diritti umani nei territori occupati, ndt.], in quanto “sono fonte di guai”. (Lo Shin Bet non ha risposto alle richieste di commento sulla questione da parte di +972 Magazine).

Il villaggio di a-Tuwani sopporta da oltre 20 anni intimidazioni, attacchi violenti e tentativi di acquisizione delle terre dei suoi abitanti da parte di israeliani che abitano o visitano l’avamposto coloniale di Havat Maon. La persistenza di questi abusi è la ragione per cui, su ordine del Comitato della Knesset [parlamento israeliano, ndt.] per il benessere dei minori, negli ultimi 18 anni le IDF sono obbligate ad accompagnare i bambini dei villaggi di Tuba e Mughayer al Abeed alla scuola di a-Tuwani. La scorsa settimana, in seguito al fatto violento, le IDF hanno annullato la scorta militare e i bambini sono stati costretti a rimanere a casa e a saltare le lezioni per due giorni.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Cisgiordania: l’arresto di palestinesi ricercati da Israele scatena scontri con un morto

Shatha Hammad

20 settembre 2022 – Middle East Eye

Ucciso un palestinese durante un conflitto armato tra forze di sicurezza dell’Autorità Palestinese e manifestanti

All’alba di martedì sono scoppiati scontri armati tra forze di sicurezza palestinesi e manifestanti dopo che, la sera prima, l’Autorità Palestinese (AP) aveva arrestato in un’imboscata a Nablus, nella Cisgiordania occupata, un importante dirigente di Hamas ricercato da Israele. 

Gli scontri sono continuati per tutta la mattinata e si sono conclusi con un morto, il palestinese Firas Yaish, 53 anni, e un ferito grave.

Poco prima della mezzanotte in un’imboscata in Faisal Street, a Nablus est, le forze dell’AP hanno arrestato Musab Shtayyeh che era stato il bersaglio di parecchi tentativi di assassinio da parte di Israele. Nello stesso attacco hanno anche arrestato Ameed Tabileh, un combattente palestinese vicino al Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina [storico gruppo marxista della resistenza armata palestinese, N.d.T.], anch’egli ricercato da Israele.

Shtayyeh aveva avuto stretti rapporti con Ibrahim Nabulsi, leader delle Brigate dei Martiri al-Aqsa, ala militare di Fatah, che era stato ucciso dalle forze israeliane ad agosto.

La famiglia di Shtayyeh ha chiesto il suo immediato rilascio e respinto le informazioni dell’AP secondo cui sarebbe stato consegnato alle forze di sicurezza. 

In un comunicato la famiglia ha detto: “Noi riteniamo le forze di sicurezza pienamente responsabili della vita del nostro figlio ed eroe, Musab Shtayyeh, degli eventi successivi e degli attacchi contro il nostro popolo,” e ha chiesto di vedere Shtayyeh per controllare le sue condizioni dopo le percosse ricevute durante l’arresto.

Hamas, da lungo tempo rivale di Fatah, primo partito dell’AP, ha condannato l’arresto di Shtayyeh definendolo un “rapimento… un delitto nazionale ” e una “macchia” sull’immagine dell’AP. 

A vantaggio di Israele

Centinaia di palestinesi radunatesi in cortei provenienti dai campi profughi della città, tra cui quelli di Balata, al-Ain e Askar, hanno chiesto il rilascio immediato dei detenuti. I manifestanti hanno bloccato le strade incendiando pneumatici e tirando pietre contro i veicoli blindati dell’AP. 

Nel frattempo palestinesi armati hanno partecipato a scontri contro le forze di sicurezza durati tutta la mattina durante i quali è stato ucciso Yaish.

Uomini armati hanno anche sparato verso il quartier generale distrettuale dell’AP in protesta contro le politiche dell’Autorità.

Talal Dweikat, portavoce dei servizi di sicurezza dell’Autorità Palestinese, ha confermato con un comunicato la morte di Yaish aggiungendo che “si sta attendendo il referto medico” sulle circostanze del decesso.

Dweikat ha dichiarato che Yaish è stato ucciso “in una zona dove non era presente il personale della sicurezza”.

In informazioni non confermate alcuni testimoni oculari hanno detto che Yaish è stato ucciso dalla polizia dell’AP. 

Sono stati feriti anche quattro manifestanti palestinesi, tra cui Anas Abdel-Fattah, studente presso l’università al-Najah ed ex detenuto nelle carceri israeliane che, colpito allo stomaco, è in condizioni critiche. 

Khaled Mansour, leader dei Comitati di Resistenza Popolare [organizzazione armata che riunisce miliziani di varie formazioni palestinesi, N.d.T.], ha dichiarato a Middle East Eye: “Noi speravamo che la rabbia popolare si sarebbe scatenata contro l’occupazione israeliana, e ci eravamo impegnati affinché avvenisse, ma quello che le azioni dell’AP hanno fatto ha distrutto tutti i nostri sforzi.”.

Non ci saremmo mai aspettati gli eventi di cui siamo stati testimoni a Nablus dalla scorsa notte. Sono il risultato degli errori e delle prevaricazioni dell’AP e devono essere revocate,” ha aggiunto Mansour.

La calma non ritornerà fino a che l’Autorità non smetterà di incarcerare e perseguitare le persone ricercate da Israele.”

Mansour ritiene l’AP responsabile anche delle vittime.

“L’Autorità arresta i palestinesi e li insegue adempiendo ai suoi obblighi con Israele. Ma Israele viola tutti i trattati con i palestinesi e non ne rispetta nessuno,” ha detto. 

L’unico a trarre beneficio dagli eventi di oggi a Nablus è Israele e siamo noi, il popolo palestinese e la nostra resistenza, a perdere in seguito a questi sventurati eventi.”

Le ragioni’ dell’AP

L’AP non ha dato un resoconto chiaro dei disordini, ma nella sua dichiarazione Dweikat ha detto che Shtayyeh e Tabileh sono in carcere “per le ragioni della sicurezza dell’establishment che verranno rivelate successivamente”.

I detenuti “non correranno alcun pericolo” e “alle organizzazioni per i diritti umani sarà permesso di far loro visita immediatamente”, ha aggiunto.

La dichiarazione tenta di avere un tono tranquillizzante, ma definisce le proteste contro l’AP manipolate da “interessi stranieri”.

“In questo momento dovremmo serrare i ranghi e non farci trascinare in progetti dannosi,” ha detto Dweikat.

Il gruppo armato di Nablus Fossa del leone [gruppo armato palestinese da poco creato e la cui connotazione politica è ancora ignota, N.d.T.], fondato dopo l’assassinio di Nabulsi [combattente diciannovenne ucciso il 7 agosto], in varie dichiarazioni ha invocato l’escalation contro l’AP per l’arresto di Shtayyeh e la persecuzione da parte dell’Autorità di palestinesi sulla lista dei ricercati da Israele.

Il gruppo ha minacciato che alle forze di sicurezza dell’AP non verrà permesso di entrare a Nablus se Shtayyeh non verrà rilasciato.

Noi abbiamo mandato un messaggio urgente ai servizi di sicurezza: i figli della ‘Fossa del leone’, e tutte le altre fazioni politiche palestinesi a Nablus, non accetteranno che il più importante ricercato dell’occupazione (israeliana) sia detenuto nelle carceri dell’AP,” precisa il gruppo.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Sempre più israeliani accettano la legittimità della resistenza palestinese

Dr Adnan Abu Amer

20 settembre 2022 – Middle East Monitor

Mentre gli atti di resistenza nella Cisgiordania occupata si intensificano, l’esercito occupante israeliano continua la mobilitazione contro “attacchi terroristici” palestinesi. Tuttavia adesso ci sono voci in Israele che rifiutano una simile definizione: dicono che si sta conducendo una guerriglia. La differenza è chiara, ma non è ancora così ovvia per molti in Israele.

La guerriglia che i palestinesi conducono contro i soldati israeliani nei territori occupati gode di un certo grado di legittimazione nell’ambito della ricerca, della letteratura e del diritto internazionale”, hanno affermato molti opinionisti, articoli e dichiarazioni di politici, accademici ed esperti giuridici. “La guerriglia richiede maggior coraggio, perché in questo caso i palestinesi prendono le armi contro soldati israeliani addestrati e perché lottare contro soldati armati risiedendo nei territori occupati è la chiara definizione di guerriglia.”

Sharon Luzon è lettore alla Hebrew Open University, specializzato in questioni militari e di sicurezza, relazioni internazionali e scienze politiche. La sua spiegazione della resistenza palestinese è che: “Finché l’esercito israeliano rimane in Cisgiordania, che ha controllato per 55 anni, la terra è occupata e questi soldati mantengono l’occupazione. I palestinesi li combattono, perciò sono dei combattenti; questa è la loro definizione, oltre al termine ‘combattenti per la libertà’. Anche i coloni che risiedono nei Territori Palestinesi Occupati sono lì per scopi militari, cosa che fa di loro obbiettivi legittimi per i militanti palestinesi, specialmente quando (i coloni) sono adulti armati.”

Nonostante la mobilitazione dell’estrema destra in Israele e nonostante che i politici diano maggior potere all’esercito di occupazione per reprimere i palestinesi in risposta ai recenti attacchi di guerriglia, ci sono però alcune voci israeliane che sono fuori dal coro e rifiutano l’oppressione. Rifiutano di definire attacchi terroristici le azioni di resistenza condotte da militanti palestinesi contro i soldati occupanti e i coloni illegali.

Per esempio, il parlamentare Ofer Cassif non esita ad affermare che “i palestinesi che sparano ai soldati israeliani non sono terroristi, ma guerriglieri, simili ai rivoluzionari che combatterono l’occupazione nazista in Europa durante la seconda guerra mondiale.”

Questo suggerisce che gli israeliani e i loro sostenitori che definiscono “terroristi” i militanti palestinesi cercano di demonizzarli e disumanizzarli allo scopo di alimentare il conflitto. Il cosiddetto “terrorismo” palestinese ci spinge a ripensare a ciò che fecero i “terroristi ebrei” quando ammazzarono i soldati britannici e misero una bomba al mercato arabo di Haifa nel 1938; e quando fecero saltare in aria l’hotel David a Gerusalemme ed uccisero 90 dipendenti britannici e arabi del luogo, per la maggior parte civili, nel 1946; e compirono molte altre orrende azioni. Quello era terrorismo nel vero senso della parola.

E’ vero che israeliani come Luzon e Cassif si oppongono alla violenza, sostengono la lotta nonviolenta contro l’occupazione e non vogliono che nessuno venga ucciso. Al tempo stesso però ritengono che “ogni uomo armato ha il diritto di provocare danni ad una forza militare occupante, in base alle definizioni internazionalmente riconosciute e a quelle delle Nazioni Unite. Queste definizioni affermano che il popolo occupato ha il diritto di usare armi contro l’occupazione, perciò non può essere definito terrorista, in quanto il vero terrorismo è l’occupazione stessa.”

E’ difficile parlare del sorgere di una coscienza collettiva israeliana riguardo alla legittimità della resistenza palestinese. Tuttavia questa tendenza è in crescita da quando un personaggio come il drammaturgo e conduttore televisivo israeliano Yaron London disse, al culmine dell’Intifada di Al Aqsa (2000-2005) e delle azioni di guerriglia che la connotarono, che “le azioni ostili condotte dai palestinesi contro gli israeliani vanno considerate parte della guerra nazionale di liberazione, non terrorismo.”

Inoltre il professore di chimica all’università ebraica nella Gerusalemme occupata, Amiram Goldblum, ha accusato i coloni israeliani di essere terroristi. Il progetto coloniale israeliano, ha detto, è all’origine dell’industria terroristica e questo vero terrorismo iniziò 55 anni fa, nel 1967, quando ebbe inizio il progetto coloniale. Esso ha trasformato ogni abitazione costruita da Israele nei territori palestinesi occupati in una minaccia all’esistenza del popolo di Palestina. Il terrorismo non è solo sparare o usare armi, ma consiste anche nella presenza di coloni che vivono nelle case costruite sulla terra palestinese.”

Goldblum ha aggiunto che “Israele pratica terrorismo di Stato contro i palestinesi e chiunque non protesti contro il terrorismo dello Stato israeliano è complice in un modo o nell’altro.” Nel frattempo, ogni sforzo che possa fermare il terrorismo di Stato è utile ed apprezzabile. Ha sottolineato che alcuni settori della destra israeliana sono considerati neo-nazisti, definendo “ragazzi di Hitler” i membri del movimento di destra “Im Tirtzu”.

Mentre le agenzie di sicurezza, l’esercito e l’amministrazione civile di Israele continuano a controllare le vite dei palestinesi su tutte le terre occupate, gli insediamenti coloniali mirano a controllare la terra tra il Mar Mediterraneo e il fiume Giordano senza la presenza dei suoi originari abitanti. Cercano di sfumare i confini tra queste aree e l’occupazione stessa.

Lo schema di controllo sui palestinesi non è un fatto collaterale, ma il nucleo principale del lavoro instancabile di Israele”, ha detto Menachem Klein, lettore all’università Bar Ilan e consulente della delegazione israeliana nei negoziati con l’OLP. “Israele ha sviluppato propri meccanismi per controllare i palestinesi. E’ arrivato al punto di produrre dispositivi di identificazione biometrica, computer avanzati che scansionano testi sui social media e sui telefoni cellulari e processano grandi quantità di dati, oltre allo spionaggio mediante applicazioni come Pegasus. Tutto è finalizzato a controllare i palestinesi.”

Le sue parole comportano una chiara e inequivocabile ammissione che la descrizione delle autorità israeliane dei guerriglieri palestinesi come “terroristi e sabotatori” non convince tutti gli israeliani; che vi è un numero crescente di coloro che sono convinti che la Cisgiordania sia una terra occupata; e che prendere di mira i soldati israeliani in quei luoghi sia un atto di legittima resistenza, conforme al diritto internazionale. Questi israeliani possono mostrare esteriormente di accettare la narrazione dell’esercito, ma nel profondo sono perfettamente coscienti che i palestinesi sono dei combattenti per la libertà in una lotta contro i soldati di un’occupazione illegale e reietta.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Nuove prove emergono della deliberata intenzione di Israele di uccidere Shireen Abu Akleh, e la famiglia presenta una denuncia alla Corte Penale Internazionale

DAVID KATTENBURG

  20 settembre 2022 ,Mondoweiss

Una nuova analisi forense dimostra che Shireen Abu Akleh è stata “deliberatamente e ripetutamente presa di mira” da un cecchino militare israeliano che prendeva “la mira con precisione e cura”.

Shireen Abu Akleh è stata “deliberatamente e ripetutamente presa di mira” da un cecchino militare israeliano lo scorso maggio mentre effettuava un reportage su un raid dell’esercito israeliano all’ingresso del campo profughi di Jenin, un cecchino che prendeva una”mira precisa e accurata”.

Questo è uno dei risultati inediti di un’indagine congiunta della britannica Forensic Architecture [gruppo di ricerca multidisciplinare che utilizza tecniche e tecnologie architettoniche per indagare su casi di violenza di Stato e violazioni dei diritti umani, guidato dall’arch. Eyal Weizman, ndt.] e del Dipartimento di Monitoraggio e Documentazione dell’organizzazione palestinese per i diritti umani Al Haq, presentata questa mattina alla Corte penale internazionale nella capitale olandese L’Aia.

Questi risultati, basati in parte su filmati inediti girati sulla scena da un cameraman di Al Jazeera, sono stati esposti a un piccolo gruppo di giornalisti a seguito della presentazione di una denuncia alla CPI da parte degli avvocati della famiglia di Abu Akleh e di due giornalisti palestinesi che erano accanto a lei quel giorno.

L’attacco dei cecchini israeliani ha comportato tre distinte sequenze di spari, per un totale di sedici colpi destinati a Shireen, ai suoi colleghi e a un civile che cercava di fornire assistenza medica”, ha rivelato l’Unità Investigativa Forensic Architecture-Al Haq (FAI).

“Tutti i colpi sono stati sparati col fucile a spalla ed erano destinati a uccidere”.

Forensic Architecture, con sede presso la Goldsmiths University di Londra, è specializzata nella “ricostruzione spaziale di siti e scene di violenza di Stato”. La sua analisi della morte di Abu Akleh – descritta come un “omicidio mirato” – si basa su più video registrati da palestinesi insieme ad altre prove.

Secondo il rapporto FAI, letto da un documento scritto, “non c’erano altre persone presenti lì tra [Abu Akleh e i suoi colleghi] e il convoglio di veicoli militari al momento dell’incidente”, “nessun colpo … proveniva dalle vicinanze dei giornalisti” e “gli unici colpi sparati nei tre minuti precedenti la sparatoria di Shireen provenivano dalla posizione delle forze di occupazione israeliana”.

Il rapporto FAI di questa mattina rivela anche che, mentre tentava di fornire aiuto alla veterana giornalista di Al Jazeera, “un civile sulla scena veniva colpito da colpi di arma da fuoco ogni volta che tentava di avvicinarlesi” e “di conseguenza [le forze di occupazione israeliane] hanno deliberatamente negato assistenza medica a Shireen dopo averle sparato”.

L’analisi del campo visivo che simula ciò che il cecchino dell’IDF avrebbe visto “mostra che i giornalisti erano chiaramente identificabili come tali”, conclude la FAI.

“I colpi sono stati sparati solo quando i giornalisti e poi un civile sono entrati nel campo visivo dell’assassino delle forze di occupazione israeliane”.

Appello alla Corte Penale Internazionale

Nessuno di questi dettagli forensi è contenuto nella denuncia consegnata alla Corte Penale Internazionale questa mattina. Invece il testo di oggi, presentato da una coppia di avvocati della società britannica Doughty Chambers [gruppo di avvocati di fama internazionale con una reputazione di eccellenza, ndt.], riassume i resoconti dei testimoni oculari e fornisce argomenti legali per intraprendere un’indagine completa sull’omicidio di Abu Akleh.

“Esistono motivi ragionevoli per sospettare che siano stati commessi crimini di guerra”, nel contesto di un più ampio “attacco sistematico” ai giornalisti palestinesi da parte delle forze di occupazione israeliane, affermano le dichiarazioni depositate oggi alla CPI.

La denuncia di 25 pagine è stata consegnata a un membro dello staff della CPI che non si è identificato al team legale, gli avvocati di Doughty Chambers Jennifer Robinson e Tatyana Eatwell. Non erano presenti né il procuratore capo Karim Khan né il vice procuratore Nazhat Shameen Khan (che non sono parenti).

La denuncia di oggi è stata presentata a nome del fratello di Shireen Abu Akleh, il cinquantanovenne Anton Abu Akleh, e di due colleghi di Shireen: il giornalista palestinese Ali Samoudi, colpito alla spalla quel giorno mentre si trovava vicino ad Abu Akleh, e Shatha Hanaysha, una reporter ventinovenne per il sito web di notizie Ultra Palestine e collaboratrice di Mondoweiss, anch’ella vicino ad Abu Akleh quando il cecchino israeliano l’ha uccisa sparandole.

Samoudi, Hanaysha e la famiglia di Abu Akleh sono sostenuti dal Sindacato dei Giornalisti Palestinesi, dal Centro Internazionale di Giustizia per i Palestinesi e dalla Federazione Internazionale dei Giornalisti.

Tatyana Eatwell ha detto a Mondoweiss che gli avvocati sperano di essere ricevuti presso l’Ufficio del procuratore della CPI nelle “prossime settimane” per presentare prove forensi e testimonianze che portino al perseguimento dei responsabili della morte di Shireen Abu Akleh e di altri giornalisti palestinesi,.

“Stiamo offrendo loro la nostra collaborazione, al fine di assisterli in questa indagine”.

“Questo caso, e gli altri casi di giornalisti uccisi o mutilati dalle forze israeliane, rientrano esattamente nella giurisdizione della Corte e richiedono un’indagine da parte della Corte Penale Internazionale”, ha detto Tatyana Eatwell ai giornalisti riuniti alla CPI questa mattina.

“Non c’è quasi nessuna prospettiva di una qualche indagine penale su questi fatti da parte delle autorità nazionali”.

Una denuncia più ampia redatta dal team di Doughty Street Chambers, consegnata alla CPI il 16 aprile – tre settimane prima dell’uccisione di Abu Akleh – chiedeva alla CPI di indagare sul “prendere sistematicamente di mira, mutilare e uccidere giornalisti e distruggere le infrastrutture dei media in Palestina”.

Nella denuncia di aprile erano citati quattro giornalisti palestinesi. Yaser Murtaja e Ahmed Abu Hussein sono stati colpiti da cecchini israeliani nell’aprile 2018 mentre seguivano le proteste della Grande Marcia del Ritorno a Gaza. Entrambi sono morti per le ferite riportate. Nedal Eshtayeh e Muath Amarneh hanno perso la vista mentre documentavano le proteste rispettivamente nel 2015 e alla fine del 2019. Tutti e quattro quando sono stati colpiti indossavano giubbotti stampa.

La denuncia di aprile e quella odierna sono state depositate ai sensi dell’articolo 15 dello Statuto di Roma, che incarica il procuratore capo della CPI di avviare indagini di propria iniziativa (motu proprio) se esiste una base ragionevole per farlo. In teoria, il permesso ufficiale a procedere deve poi essere concesso dalla Camera Istruttoria della Corte.

L’ufficio del procuratore capo Karim Khan ha ammesso di aver ricevuto la denuncia di aprile, ma non ha specificato se la denuncia sarà o meno seguita da indagine, ha detto a Mondoweiss Tatyana Eatwell.

Ciò detto, entrambe le denunce sono attinenti alla più ampia indagine sulla Palestina annunciata all’inizio di marzo 2021 dall’allora procuratore capo Fatou Bensouda.

Nelle parole di Bensouda, l’indagine sulla Palestina – una delle diciassette “situazioni” attualmente oggetto di indagine da parte della CPI – interessa “tutti i fatti e le prove rilevanti per valutare se vi sia responsabilità penale individuale ai sensi dello Statuto [di Roma]”.

“L’accusa potrà ampliare o modificare l’indagine”, aveva scritto Bensouda, “solo se i casi individuati per l’accusa sono sufficientemente collegati alla situazione. In particolare, la situazione in Palestina è tale che si suppone continuino a essere commessi crimini”.

Le indagini della CPI mirano a identificare “i presunti colpevoli più efferati o quelli che si presume siano i maggiori responsabili dell’esecuzione dei crimini”.

Una cultura dell’impunità

Israele non ha identificato il cecchino israeliano che ha sparato a Shireen Abu Akleh e ferito Ali Samoudi l’11 maggio, né la loro unità o il comandante.

In seguito all’annuncio da parte del governo degli Stati Uniti dell’esame del proiettile che ha ucciso Shireen Abu Akleh, il team legale di Doughty Street ha chiesto di poter accedere a questi e ad altri risultati. Richieste simili sono state presentate al governo di Israele e all’Autorità Nazionale Palestinese. Nessuna informazione è stata fornita.

Nel suo rapporto del febbraio 2019 al Consiglio per i Diritti Umani, la Commissione Internazionale Indipendente d’Inchiesta sulle proteste nei Territori Palestinesi Occupati ha concluso che ci siano “ragionevoli motivi per ritenere che i cecchini israeliani avessero sparato intenzionalmente ai giornalisti, nonostante avessero chiaramente visto che erano contrassegnati come tali”.

“C’è tutta una cultura di impunità per questi atti all’interno delle forze di sicurezza israeliane. Ed è proprio per questo che è molto importante che la Corte Penale Internazionale, in quanto autorità internazionale indipendente, indaghi su questi casi”, ha detto Tatyana Eatwell a Mondoweiss poco dopo la denunzia di aprile alla CPI sua e del collega avvocato Jennifer Robinson.

Le vittime hanno diritto a questo; è ciò che stanno chiedendo, un’indagine”.

Anton Abu Akleh, il fratello maggiore di Shireen, ha parlato questa mattina con i giornalisti davanti alla sede della CPI.

“L’amministrazione Biden non è finora riuscita ad avviare un’indagine, nonostante le richieste di oltre ottanta membri del Congresso degli Stati Uniti”, ha detto Abu Akleh.

Oltre ad essere cittadina statunitense, Shireen era anche fiera di essere palestinese ed è stata uccisa a sangue freddo da un soldato israeliano. Sembra che il motivo per cui il suo caso non è diventato una priorità per il governo degli Stati Uniti è per via di chi era e da chi è stata uccisa. Non c’è mistero su cosa sia successo a Shireen. Fatta eccezione per il nome e l’identità del suo assassino… Abbiamo bisogno di un’indagine degli Stati Uniti e della CPI per far sì che Israele ne risponda… la nostra famiglia non dovrebbe dover aspettare nemmeno un giorno in più per avere giustizia”.

David Kattenburg è insegnante universitario di scienze e giornalista radiofonico/web e vive a Breda, nel Brabante settentrionale, Paesi Bassi.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




A Gerusalemme le scuole palestinesi scioperano contro i libri di testo imposti da Israele

Zena Al Tahhan

19 settembre 2022 – Al Jazeera

Centinaia di scuole palestinesi scioperano per protestare contro i tentativi israeliani di imporre i libri di testo israeliani.

Gerusalemme est occupata – Le scuole palestinesi nella Gerusalemme est occupata stanno facendo uno sciopero di protesta contro i tentativi del Comune israeliano di Gerusalemme di censurare e modificare i libri di testo palestinesi e di imporre a lezione un programma israeliano.

Lunedì mattina centinaia di scuole hanno chiuso i battenti come ultimo di una serie di recenti iniziative organizzate durante le scorse settimane dai genitori, che hanno incluso proteste e il rifiuto di insegnare sui libri di testo imposti da Israele.

Domenica, in un comunicato stampa congiunto, il comitato unitario dei genitori e del Forze Nazionali e Islamiche Palestinesi di Gerusalemme ha invocato uno sciopero generale e ha chiesto alle istituzioni internazionali un intervento per proteggere l’educazione palestinese.

Giornalisti e abitanti hanno condiviso decine di immagini di classi vuote e scuole chiuse il lunedì mattina.

Ziad al-Shamali, 56 anni, rappresentante del comitato unitario dei genitori, ha detto ad Al Jazeera che se i tentativi di Israele avranno successo, “controllerà l’educazione del 90% dei nostri studenti a Gerusalemme.”

Secondo al-Shamali a Gerusalemme ci sono più di 280 scuole palestinesi, con circa 115.000 studenti dall’asilo alle superiori. Egli sostiene che circa il 90-95% delle scuole sta scioperando.

Al-Shamali afferma che dall’inizio dell’anno Israele sta cercando di imporre una “versione distorta del programma dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP)” alle scuole private palestinesi.

“Lo stanno facendo con il pretesto che concedono l’accreditamento alle scuole private e che le finanziano,” dice al-Shamali, che vive nel quartiere di al-Tur nella Gerusalemme est occupata.

Le scuole per palestinesi che si trovano in città, gestite dal Comune, hanno già iniziato a insegnare la versione modificata del programma dell’ANP, prosegue, mentre le nuove scuole costruite dall’amministrazione comunale sono state obbligate ad adottare il programma israeliano.

“Ciò che sta preoccupando i genitori è che sono stati messi alle strette tra i programmi palestinesi modificati e quelli israeliani,” dice al-Shamali.

“È in corso un’israelizzazione dell’educazione palestinese,” continua, in corso dagli ultimi 10-12 anni, ma si è intensificata negli ultimi 3 anni.

“Ora stanno aggiungendo i loro contenuti come “Yossi è il vicino di Mohammed,” riguardo alle colonie, alla coesistenza,” dice al-Shamali. “Hanno giocato con i libri di testo in arabo, con la religione, la storia e ogni altro riferimento nazionale.”

Domenica notte sulle reti sociali sono stati condivisi video di abitanti che esponevano poster che dicevano “sciopero generale – sì al programma palestinese, no al programma modificato.”

In luglio le autorità israeliane hanno revocato l’accreditamento permanente a sei scuole palestinesi a Gerusalemme, sostenendo che i loro libri di testo incitano alla violenza contro lo Stato e l’esercito israeliani. Hanno avuto il permesso di restare aperte per un anno se il programma scolastico viene modificato.

La metà orientale di Gerusalemme venne occupata militarmente da Israele nel 1967 e annessa illegalmente. Circa 350.000 palestinesi attualmente vivono nella Gerusalemme est occupata, e 220.000 israeliani risiedono tra loro nelle colonie illegali.

Oggi l’86% della Gerusalemme est occupata è sotto il diretto controllo di Israele e dei coloni.

L’annessione di Gerusalemme Est non è riconosciuta da alcun Paese del mondo, salvo gli Stati Uniti, in quanto viola le leggi internazionali che stabiliscono che una potenza occupante non ha sovranità sui territori che occupa.

Nel 2009 l’amministrazione comunale di Gerusalemme ha adottato un piano generale “per guidare e delineare lo sviluppo della città nei prossimi decenni.” L’idea, come affermato nel progetto, è di creare una maggioranza demografica ebraica in modo che gli ebrei israeliani rappresentino il 70% della città e i palestinesi solo il 30%. Questo rapporto è stato in seguito modificato a 60% contro 40%.

Al-Shamali afferma che il comitato dei genitori sta progettando di continuare a protestare o intensificare le iniziative se le sue richieste non saranno accolte o se le autorità israeliane inizieranno a imporre con la forza i libri di testo modificati.

“È probabile che continueremo con lo sciopero e lo inaspriremo,” afferma. “Continueremo anche con le nostre proteste davanti alle scuole e chiederemo alle istituzioni internazionali di intervenire.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Una ditta israeliana taglia l’acqua in modo illegale a un villaggio beduino non riconosciuto.

Nati Yefet

19 settembre 2022 – Haaretz

La ditta Meimei Hanegev ha lasciato senz’acqua 50 famiglie della comunità di Rahma nel sud di Israele che non avevano pagato le bollette dell’acqua – ha ripreso la fornitura dopo l’intervento di Haaretz.

Una società che fornisce acqua a una parte della regione meridionale israeliana del Negev ha interrotto il servizio a decine di residenti di un villaggio beduino per non aver pagato puntualmente le bollette.

Secondo la legge l’approvvigionamento idrico non può essere interrotto per mancato pagamento se non in circostanze estreme e solo con l’approvazione di un comitato consultivo dell’Autorità idrica governativa. Dopo che Haaretz ha iniziato a indagare sulla questione il servizio è stato ripristinato.

Il provvedimento ha riguardato circa 50 membri della famiglia allargata di Awawdeh Kalab a Rahma, un villaggio beduino a est di Yeruham. Il villaggio è stato costruito senza l’autorizzazione del governo e rimane non autorizzato.

Venerdì pomeriggio è stato interrotto agli abitanti il servizio idrico perché Kalab era in arretrato di 1.900 shekel ($ 550). Afferma di essere andato a un ufficio postale il giorno prima a Yeruham per pagare 1.500 shekel di arretrato per ridurre il saldo a 400 shekel, ma di essere stato informato che l’ufficio postale non poteva accettare il pagamento a causa di un problema tecnico.

“Non ho l’intero importo ora, ma non ho intenzione di eluderlo e pagherò”, Kalab sostiene riguardo al debito. “Ho quattro bambini piccoli. Ho animali: cani, gatti, capre, cammelli, asini. Ho un cavallo. Dipendono tutti dall’acqua e pago [per l’acqua] da tre anni, quindi perché per 400 shekel mi tagliano fuori?” Kalab si lamenta anche del fatto che la disconnessione è avvenuta poco prima del fine settimana, quando gli uffici della compagnia idrica sono chiusi.

“Perché interrompono per la seconda volta la fornitura di venerdì, quando non c’è nessuno con cui parlare fino a domenica?” chiede. La fornitura d’ acqua gli è stata interrotta due volte nelle ultime settimane, afferma, una volta per due giorni e poi di nuovo per cinque giorni, fino a quando Haaretz non ha chiesto informazioni sul caso.

A seguito di una sentenza del 2004 dell’Alta Corte di Giustizia i servizi idrici possono interrompere le forniture solo in circostanze eccezionali. Nel 2015 sono state definite normative che stabiliscono le procedure che le ditte devono seguire prima di poter tagliare il servizio per mancato pagamento.

Oltre a una raccomandazione del comitato consultivo dell’Autorità idrica, [queste procedure, ndt] richiedono l’approvazione del direttore dell’Autorità idrica. In ogni caso, tali procedure sono limitate ai casi in cui sono presenti una serie di circostanze, tra cui la mancata collaborazione del debitore, il fallimento degli sforzi per riscuotere il debito e la prova della capacità del debitore di pagare. Il servizio può essere interrotto solo in relazione a debiti di almeno 1.000 shekel.

Il presidente del comitato consultivo dell’Autorità idrica sin dalla sua costituzione, il prof. Yossi Korazim, ha detto ad Haaretz che dal 2018 il comitato si è riunito solo due volte, l’ultima più di un anno fa e da allora l’Autorità idrica non ha ricevuto richieste. Nella sua risposta a questo articolo, l’autorità sostiene che il comitato si è riunito raramente a causa del numero limitato di richieste ricevute. Aggiunge di non essere a conoscenza dei casi riportati in questo articolo.

Sulla base delle informazioni fornite ad Haaretz dalle famiglie interessate a Rahma, le disconnessioni non hanno soddisfatto i requisiti dei regolamenti.

Anche Hamad Kalab, padre di sei figli che lavora come autista di trattori, ha scoperto venerdì che la sua fornitura d’acqua era stata interrotta. Ha mostrato ad Haaretz una ricevuta del martedì precedente che indicava di aver saldato un debito di 1.400 shekel con Meimei Hanegev. Tuttavia afferma di essere stato successivamente lasciato senza approvvigionamento idrico per tre giorni. “Questa è la terza volta che mi hanno tagliato l’acqua negli ultimi tre mesi.”

Meimei Hanegev nega di aver scollegato l’acqua a Hamad Kalab e conferma che aveva “pagato il suo debito e non c’era motivo di disconnetterlo”. Per quanto riguarda Awadeh Kalab, la società afferma di avere un conto in sospeso per quattro mesi di 2.250 shekel “e che tutti gli avvisi e le richieste per saldare il suo debito sono rimasti senza risposta”. Nella sua risposta ad Haaretz, la società afferma che intende presentare una richiesta all’Autorità idrica per interrompere il suo servizio.

La ditta sostiene di fornire acqua a 1.320 famiglie in villaggi beduini non riconosciuti “e nel corso degli anni non ha disconnesso i consumatori per i debiti idrici. I nostri ispettori dell’acqua sono incaricati di rispettare, servire, assistere e aiutare il pubblico dei consumatori, ed è quello che facciamo”.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)

 

 




I palestinesi del Cile celebrano la cancellazione da parte di Boric della cerimonia delle credenziali dell’ambasciatore israeliano e si aspettano altro ancora

Eman Abusidu

17 settembre 2022 – Middle East Monitor

Giovedì mattina il trentaseienne Gabriel Boric, il più giovane presidente cileno che sia mai stato eletto, ha rifiutato di ricevere il nuovo ambasciatore israeliano in Cile, Gil Artzyeli, che è stato convocato presso il palazzo presidenziale cileno per presentare le sue credenziali.

La notizia è stata riferita dal giornale cileno Ex-Ante, tuttavia il governo cileno ha negato il fatto, dichiarando che la presentazione dei documenti diplomatici è stata semplicemente rimandata: “Non è stato sospeso, ma gli è stato chiesto di rimandare fino alla seconda settimana di ottobre”. Ex-Ante ha confermato che la decisione è stata presa in considerazione: “a causa dell’uccisione di minori da parte dello Stato di Israele nella recente escalation in Cisgiordania e la crescente attività militare israeliana contro i palestinesi”.

In risposta ad una domanda da parte di Ex-ante, il ministero degli Esteri cileno ha dichiarato: “La presentazione delle credenziali dello Stato di Israele è stata riprogrammata per la seconda settimana di ottobre perchè oggi è un giorno molto sensibile a causa dell’uccisione di un ragazzo nella Cisgiordania”. Artzyeli afferma che il ministero degli Esteri cileno si è scusato con lui e con il governo israeliano per il rinvio [della cerimonia, ndt.].

Il rifiuto di Boric di ricevere il nuovo ambasciatore israeliano è stato accolto calorosamente dalla comunità palestinese in Cile. La comunità palestinese si è precipitata a complimentarsi per la decisione di Boric mediante una dichiarazione firmata dal suo presidente, Maurice Khamis Massu. La dichiarazione afferma: “La comunità palestinese del Cile apprezza molto la decisione del presidente Gabriel Boric Font di rimandare la cerimonia di accettazione delle credenziali diplomatiche del nuovo ambasciatore israeliano, perché l’esercito di occupazione israeliano ha ucciso l’adolescente Oday Salah, abitante di Kafr Dan a Jenin, nei territori palestinesi occupati.”

Massu ha anche ringraziato il presidente per il suo continuo appoggio a favore della Palestina: “Crediamo fermamente che fino a quando il mondo continuerà a trattare Israele e i suoi diplomatici come se niente fosse, la situazione dei palestinesi non migliorerà. Israele commette sistematicamente crimini di guerra, crimini contro l’umanità, violazioni dei diritti umani e sottomette la popolazione palestinese ad un regime di apartheid.




Rapporto OCHA 30 agosto – 12 settembre 2022

La versione in italiano dei rapporti ONU OCHA OPT è stata curata negli ultimi 10 anni dall’Associazione per la pace – gruppo di Rivoli, ma purtroppo questo prezioso lavoro si è ora interrotto per la scomparsa di Ezio Romanelli che con costanza e competenza provvedeva alla loro pubblicazione. Nella speranza che altri raccolgano stabilmente questa importante eredità, AssoPacePalestina si offre di colmare intanto questa lacuna.**

Le forze israeliane hanno sparato e ucciso tre uomini palestinesi in tre operazioni di ricerca e arresto in Cisgiordania.

L’1 e il 7 settembre, le forze israeliane hanno fatto irruzione ad Al Bireh (Ramallah) e nel campo profughi di Al Far’a (Tubas) e hanno sparato munizioni vere e proiettili di metallo gommati contro i residenti che lanciavano pietre e bombe Molotov; un palestinese di 21 e uno di 26 anni sono stati uccisi nella sparatoria e altri tre sono stati arrestati. Il 5 settembre, le forze israeliane hanno assediato un edificio residenziale a Qabatiya (Jenin), e hanno chiesto ai residenti dell’edificio di consegnarsi. È stato segnalato uno scambio di fuoco con i palestinesi. Le forze israeliane hanno sparato munizioni vere e lacrimogeni contro i residenti che lanciavano pietre e bombe Molotov. Un palestinese di 19 anni è stato ucciso. Complessivamente, le forze israeliane hanno condotto 125 operazioni di ricerca e arresto e hanno arrestato 240 palestinesi, tra cui 13 minori, in tutta la Cisgiordania. Il governatorato di Gerusalemme ha registrato il maggior numero di operazioni (29) e il governatorato di Hebron ha registrato il maggior numero di arresti (48). Durante sette di queste operazioni, le forze israeliane hanno sparato munizioni vere contro i Palestinesi che lanciavano pietre e, in alcuni casi, avevano aperto il fuoco contro le forze israeliane, con il bilancio finale di 61 feriti palestinesi, di cui 13 da proiettili veri.

Due Palestinesi, tra cui un minore, sono stati colpiti e uccisi mentre, secondo quanto riferito, accoltellavano o tentavano di colpire con un martello le forze israeliane a Hebron e Ramallah. Il 2 settembre, un palestinese di 19 anni ha accoltellato e ferito un soldato israeliano nei pressi della Beit Einun Junction a Hebron ed è stato ucciso dalle forze israeliane. L’8 settembre, un ragazzo palestinese di 17 anni ha tentato di accoltellare e colpire un soldato israeliano con un martello vicino al checkpoint Beit El/DCO a Ramallah ed è stato poi colpito e ucciso dalle forze israeliane. Alla fine del periodo di riferimento di questo report, entrambi i corpi sono ancora trattenuti dalle forze israeliane. Dall’inizio dell’anno, otto palestinesi sono stati colpiti e uccisi dalle forze israeliane durante attacchi palestinesi o tentati/pretesi attacchi contro israeliani in Cisgiordania. Inoltre, il 4 settembre, i palestinesi hanno aperto il fuoco contro un autobus che trasportava soldati israeliani nella Valle del Giordano, ferendone sei oltre all’autista. Sono seguiti scambi di fuoco e l’auto dei sospetti ha preso fuoco. Due dei sospetti sono stati feriti e arrestati.

Due palestinesi sono stati uccisi e altri 16 sono stati feriti dalle forze israeliane durante una demolizione punitiva nella città di Jenin. Il 6 settembre, le forze israeliane hanno utilizzato degli esplosivi per demolire la casa della famiglia di un palestinese che aveva sparato e ucciso tre israeliani e ne aveva feriti nove in Israele nell’aprile 2022. Durante l’operazione, le forze israeliane hanno sparato proiettili veri e bombole di gas lacrimogeno e i palestinesi hanno sparato proiettili veri, lanciato pietre e bombe Molotov. Un palestinese di 19 anni, che avrebbe filmato l’incidente, è stato colpito e ucciso, e altri 16 sono stati feriti, tra cui un uomo di 25 anni che è stato ferito da munizioni vere ed è deceduto in seguito alle ferite l’11 settembre.

In totale, 315 palestinesi, tra cui almeno 37 minori, sono stati feriti dalle forze israeliane in tutta la Cisgiordania. 121 dei feriti sono stati registrati nei pressi di Beita e Beit Dajan (entrambi a Nablus) e Kafr Qaddum (Qalqilya), durante le proteste contro gli insediamenti. Altri cinque palestinesi sono stati feriti in una manifestazione vicino al checkpoint di Al Jib (Gerusalemme), durante le proteste di solidarietà e le manifestazioni settimanali che si svolgono nel villaggio di An Nabi Samwil (maggiori dettagli di seguito). In cinque incidenti separati, ad At Tuwani (Hebron), Kisan (Betlemme), Sinjil (Ramallah) e Nablus, 112 persone sono state ferite dopo che i coloni israeliani, accompagnati dalle forze israeliane, hanno attaccato le comunità palestinesi. Secondo fonti palestinesi, le forze israeliane hanno sparato bombe sonore, lacrimogeni e proiettili di gomma contro i residenti che lanciavano pietre. Altre 16 persone sono rimaste ferite nello scambio di fuoco avvenuto a Jenin durante una demolizione punitiva (maggiori dettagli di seguito). Inoltre, 61 Palestinesi sono stati feriti durante le operazioni militari, tra cui 45 feriti riportati il 30 agosto, quando le forze israeliane hanno fatto irruzione nel villaggio di Rujeib (Nablus) e hanno assediato un edificio residenziale, e secondo quanto riferito hanno lanciato missili a spalla e hanno scambiato fuoco con i Palestinesi all’interno, che successivamente si sono consegnati; le forze israeliane hanno sparato gas lacrimogeni e munizioni vere contro i Palestinesi che lanciavano pietre. Secondo le autorità israeliane, gli arrestati sono sospettati di aver sparato contro un veicolo di sicurezza in un insediamento il 26 agosto (maggiori dettagli di seguito). Dei 350 palestinesi feriti, 25 erano stati colpiti da munizioni vere.

Le autorità israeliane hanno demolito, confiscato o costretto a demolire 44 strutture di proprietà palestinese a Gerusalemme Est e nell’Area C della Cisgiordania, adducendo la mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele. Di conseguenza, 29 persone, tra cui dieci minori, sono state sfollate, mettendo in pericolo i mezzi di sostentamento di circa 140 altre persone. Circa 35 delle strutture si trovavano nell’Area C, tra cui 19 strutture sequestrate senza preavviso, il che ha impedito ai proprietari di opporsi in anticipo. Questo rappresenta un aumento significativo di tali sequestri rispetto alla media bisettimanale dall’inizio dell’anno (quattro). Altre nove strutture sono state demolite a Gerusalemme Est, tra cui cinque distrutte dai proprietari in seguito all’emissione di ordini di demolizione, per evitare di pagare multe se la struttura viene demolita dalle autorità israeliane.

Il 6 settembre, le autorità israeliane hanno demolito un appartamento residenziale non abitato in un edificio multipiano nella città di Jenin, nell’Area A, a scopo punitivo. L’abitazione apparteneva alla famiglia di un palestinese che ha sparato e ucciso tre israeliani in Israele nell’aprile 2022 e che è stato successivamente ucciso. Durante l’operazione, un uomo palestinese è stato colpito e ucciso e un altro è poi morto per le ferite riportate (vedi sopra). Altre due case hanno subito danni a causa dell’esplosione, colpendo due nuclei familiari palestinesi composti da 12 persone, tra cui otto minori. Dall’inizio del 2022, undici case sono state demolite a scopo punitivo, rispetto alle tre di tutto il 2021 e alle sette del 2020. Le demolizioni punitive sono una forma di punizione collettiva, illegale secondo il diritto internazionale, in quanto prendono di mira le famiglie di un colpevole, o presunto tale, che non sono coinvolte nell’atto contestato.

Per due giorni consecutivi, le forze israeliane hanno condotto esercitazioni militari vicino alle 13 comunità di pastori palestinesi di Masafer Yatta, nel sud di Hebron. Quest’area è stata designata dalle autorità israeliane come ‘zona di tiro’ e dichiarata chiusa per l’addestramento militare israeliano. L’addestramento è continuato fino al 15 settembre, limitando l’accesso dei palestinesi ai servizi di base e mettendo a rischio la loro sicurezza. Inoltre, in diverse occasioni dall’inizio dell’anno scolastico, le autorità israeliane hanno interrotto l’accesso di insegnanti e studenti alle quattro scuole di Masafer Yatta, attraverso posti di blocco fissi e volanti. Tutte le scuole della zona sono a rischio di demolizione da parte delle autorità israeliane. Il 30 agosto, le forze israeliane hanno fermato uno scuolabus che trasportava gli alunni alla scuola di Al Fakhiet, costringendo almeno 30 minori a percorrere una lunga distanza a piedi per raggiungere la scuola. Il giorno seguente, nove insegnanti della scuola Jinba che erano arrivati nell’area da Yatta, sono stati fermati dalle forze israeliane ad un checkpoint volante e costretti a proseguire a piedi. Oltre 1.000 palestinesi, tra cui 560 minori, vivono a Masafer Yatta a rischio di trasferimento forzato.

Le forze israeliane hanno limitato il movimento dei palestinesi in varie località della Cisgiordania. Il 31 agosto, le forze israeliane hanno bloccato con cumuli di terra una strada agricola a Deir Istiya (Salfit), ostacolando l’accesso di circa 400 agricoltori palestinesi alle loro terre. In altri cinque incidenti, il 4, 7, 9 e 10 settembre, le forze israeliane hanno bloccato con cumuli di terra e chiuso i cancelli metallici di Khirbet Atuf (Tubas), Qarawat Bani Hassan (Salfit), An Nabi Salih e Deir Nidham (entrambi a Ramallah) e Azzun (Qalqiliya), ostacolando l’accesso di circa 18.000 palestinesi ai mezzi di sussistenza e ai servizi e costringendoli a lunghe deviazioni. Si ritiene che queste chiusure siano legate al lancio di pietre da parte dei palestinesi e all’attacco con armi da fuoco contro un autobus israeliano (vedi sopra). In diverse occasioni, le forze israeliane hanno inasprito le restrizioni di movimento e di accesso imposte ai residenti palestinesi della comunità dislocata di An Nabi Samwil, situata interamente nell’area C all’interno del lato di Gerusalemme della barriera, e dove i residenti vivono con la continua minaccia di demolizioni, violenza dei coloni e restrizioni di movimento e di accesso. I residenti dell’area hanno organizzato manifestazioni settimanali contro le nuove politiche di accesso, durante le quali sono stati arrestati tre palestinesi.

I coloni israeliani hanno ferito 21 palestinesi e persone conosciute come coloni israeliani o ritenute tali hanno danneggiato proprietà palestinesi in 27 casi. L’8, il 9 e il 12 settembre, i coloni israeliani hanno sparato, aggredito fisicamente e spruzzato spray di pepe contro gli agricoltori palestinesi che coltivavano le loro terre a Sinjil (Ramallah), At Tuwani (Hebron) e Khallet al Louza (Betlemme). In seguito a questo, 21 Palestinesi sono stati feriti, tra cui almeno due con munizioni vere. Complessivamente, 126 alberi di proprietà palestinese sono stati sradicati o vandalizzati nei pressi degli insediamenti israeliani vicino a Haris (Salfit), Qaryut (Nablus) e Deir Ibzi’ e Sinjil (entrambi a Ramallah). In sette incidenti, nell’area H2 della città di Hebron, così come a Huwwara, Burin, Tell, Beita e Madama (tutti a Nablus), nove auto di proprietà palestinese sono state vandalizzate e il lancio di pietre ha danneggiato tre case palestinesi. Altri nove incidenti ad Al Mazra’a al Qibliya, Al Mughayyir e Deir Nidham (tutti a Ramallah), An Naqura, Beit Dajan, Einabus e Burqa (tutti a Nablus) hanno provocato danni alle colture, al bestiame, alle attrezzature agricole, ai serbatoi d’acqua e alle strutture legate ai mezzi di sussistenza. Il 31 agosto, coloni israeliani, a quanto pare provenienti da Yitzhar, hanno preso d’assalto la scuola di Urif (Nablus) mentre si svolgevano le lezioni e hanno lanciato pietre, costringendo l’amministrazione scolastica a sospendere le attività e ad evacuare gli studenti per metterli al sicuro; 250 studenti sono stati colpiti e sono stati riportati danni alla scuola. Secondo il consiglio del villaggio e i testimoni oculari, le Forze israeliane erano presenti nell’area durante l’attacco, ma non sono intervenute per fermare i coloni. Successivamente, le Forze israeliane hanno sparato lacrimogeni contro i Palestinesi che avevano lanciato pietre contro i coloni per protestare contro l’attacco.

Due coloni israeliani sono stati feriti dopo che i Palestinesi hanno aperto il fuoco contro il loro veicolo vicino al sito della Tomba di Giuseppe nella città di Nablus. In altri tre incidenti, persone conosciute come palestinesi o ritenute tali hanno lanciato pietre contro veicoli israeliani che viaggiavano sulle strade della Cisgiordania. Di conseguenza, tre veicoli sono stati danneggiati, secondo le fonti israeliane.

Nella Striscia di Gaza, tre palestinesi, tra cui un minore di 9 e uno di 12 anni, sono stati feriti dalla detonazione di un ordigno inesploso, per aver manomesso una munizione trovata mentre raccoglievano rottami a est di Khan Yunis.

Sempre nella Striscia di Gaza, in almeno 42 occasioni, le forze israeliane hanno aperto il fuoco di avvertimento vicino alla recinzione perimetrale di Israele o al largo della costa, presumibilmente per far rispettare le restrizioni di accesso alle aree all’interno di Gaza. Secondo quanto riferito, la maggior parte degli incidenti ha costretto agricoltori o pescatori ad allontanarsi dalle loro aree di lavoro. Due minori palestinesi sono stati arrestati dalle forze israeliane mentre tentavano di attraversare la recinzione a est di Rafah. In almeno sette occasioni, i bulldozer militari israeliani hanno spianato terreni all’interno di Gaza, vicino alla recinzione perimetrale a est di Rafah.

Ultimi sviluppi (successivi al periodo di riferimento)

Il 14 settembre, le forze israeliane hanno avuto uno scambio di fuoco con due palestinesi al checkpoint Jalama a Jenin. Un ufficiale israeliano e i due palestinesi sono stati uccisi. Il giorno successivo, le forze israeliane hanno condotto un’operazione di ricerca e arresto a Kafr Dan (Jenin), dove hanno sparato e ucciso un bambino palestinese. Maggiori dettagli saranno forniti nel prossimo rapporto.

Questo rapporto contiene le informazioni disponibili al momento della pubblicazione. I dati più aggiornati e ulteriori suddivisioni sono disponibili su ochaopt.org/data.

Traduzione a cura di AssoPacePalestina

**Chi volesse ricevere ogni due settimane via email una copia del Rapporto in italiano può richiederlo a: donatocioli@gmail.com




Israeliani, prendete atto: la resistenza armata all’occupazione è legale, non è terrorismo

Orly Noy

13 settembre 2022 – Middle East Eye

Nonostante ciò che afferma il diritto internazionale, l’opinione pubblica israeliana ha interiorizzato la nozione secondo cui, per definizione, non esiste una legittima lotta palestinese per la liberazione nazionale.

È improbabile che più di una manciata di ebrei in Israele sappia riferire correttamente quante incursioni abbia effettuato l’esercito israeliano la settimana scorsa in città palestinesi della Cisgiordania, quanti arresti abbia compiuto, o quante persone abbia ucciso.

Al tempo stesso è improbabile che vi sia stata più di una manciata di israeliani che non fosse a conoscenza della sparatoria su un autobus di soldati nella Valle del Giordano, avvenuta domenica 4 settembre.

Spari di palestinesi contro soldati israeliani –invece che israeliani che sparano a palestinesi – non è solo un inquietante episodio di “un uomo che morde un cane”, che ribalta l’ordine consueto richiedendo di essere raccontato dettagliatamente; in tutti quei reportage l’evento è stato definito come attacco terroristico ed i palestinesi armati come terroristi.

Non una parola sul fatto che gli spari erano rivolti contro un esercito occupante e sono avvenuti in una terra occupata.

I media israeliani hanno un ruolo chiave nel formare l’opinione pubblica al servizio della macchina di propaganda del potere, mantenendo l’opinione pubblica israeliana nella totale ignoranza dei fatti più importanti.

L’opinione pubblica israeliana, in generale, ha completamente interiorizzato la nozione secondo cui, per definizione, non esiste una lotta palestinese per la liberazione nazionale che sia legittima.

Analogamente alla radicale rimozione dalla coscienza israeliana della linea dell’armistizio del 1949, conosciuta anche come Linea Verde – al punto che la sola menzione della sua esistenza da parte della municipalità di Tel Aviv provoca minacce del Ministero dell’Educazione – anche la costante etichettatura di ogni lotta palestinese come terrorismo occulta l’importante distinzione ai sensi del diritto internazionale tra un’azione che prende di mira dei combattenti ed una diretta contro civili.

Un diritto legittimo

Il fatto è che il diritto internazionale riconosce il diritto legittimo di un popolo di lottare per la propria libertà e per la “liberazione dal controllo coloniale, dall’apartheid e dall’occupazione straniera con tutti i mezzi disponibili, compresa la lotta armata”, come confermato, per esempio, dalla Risoluzione dell’Assemblea Generale dell’ONU del 1990.

L’uso della forza per ottenere la liberazione è legittimo. Il modo in cui viene usata la forza è disciplinato dalle leggi di guerra, il cui scopo principale è proteggere i civili non coinvolti da entrambe le parti.

I colpi sparati nella Valle del Giordano non erano diretti contro civili e non possono essere considerati un’azione terroristica. Sono stati un atto di resistenza contro un potere occupante, in una terra occupata.

Il regime israeliano e i suoi ossequiosi portavoce, i media israeliani, trattano ogni azione contro le forze di occupazione in una terra occupata esattamente come se fossero azioni contro civili nel cuore di Tel Aviv: atti terroristici perpetrati da terroristi.

Questa equiparazione non solo nega un fondamento legale o morale all’azione; è anche contraria agli interessi dei cittadini di Israele.

Le leggi di guerra pertinenti sono finalizzate anzitutto e soprattutto a proteggere i civili che non partecipano al ciclo di violenza e a circoscrivere tale violenza a chi effettivamente combatte.

Tuttavia Israele non riconosce la categoria di combattenti palestinesi: dal punto di vista israeliano ogni forma di resistenza, anche nonviolenta, alla sua occupazione ed oppressione costituisce un pericolo alla sicurezza che è facilmente riconosciuto come terrorismo, come quando recentemente Israele ha dichiarato che le sei più importanti ONG palestinesi sono organizzazioni terroristiche.

Questa è una doppia distorsione da parte di Israele. Se da un lato tratta tutte le azioni palestinesi, anche quelle dirette contro soldati, come atti di terrorismo, dall’altra Israele descrive ogni azione israeliana contro i palestinesi come legittima, anche quando quei palestinesi sono civili.

Tipica brutalità

Come esempio particolarmente vergognoso di questa politica, considerate le conclusioni finali pubblicate dall’esercito israeliano riguardo all’uccisione di Shireen Abu Akleh. L’esercito ha inizialmente sostenuto che Abu Akleh è stata uccisa da colpi d’arma da fuoco palestinesi, una palese menzogna che è stata smascherata da una serie di organi di stampa che hanno esaminato minuziosamente le prove. La versione riveduta che l’esercito ha pubblicato in seguito è anch’essa lontana dall’essere coerente con le prove.

Il Procuratore Generale dell’esercito ha annunciato che non sarebbe stata aperta alcuna inchiesta, nonostante l’agghiacciante ammissione che Abu Akleh, che indossava un giubbotto che la identificava chiaramente come giornalista, è stata colpita a morte da un soldato che usava un fucile di precisione con mirino telescopico – che ingrandisce il bersaglio di quattro volte.

Altrettanto deprecabile la risposta israeliana alla richiesta americana davvero modesta di “riconsiderare” le procedure dell’esercito in Cisgiordania riguardo a quando è consentito aprire il fuoco.

Non che l’esercito smetta di assassinare persone innocenti, Dio non voglia, né che interrompa le incessanti irruzioni nelle città della Cisgiordania, gli arresti di massa, i prelevamenti notturni dei bambini dai loro letti – soltanto che si sforzi un po’ di più, se non è troppo difficile, di evitare altri casi simili.

I potenti Stati Uniti preferiscono non trovarsi coinvolti in casi del genere perché può succedere che la vittima abbia cittadinanza americana, come nel caso di Abu Akleh.

Israele, che ha risposto con la solita brutalità, non è disposto neppure all’atto formale di accettare a parole questa modesta richiesta. Il Primo Ministro Yair Lapid si è affrettato a dire agli americani che “nessuno ci imporrà le regole di ingaggio”.

Con lo stesso spirito il Ministro della Difesa Benny Gantz ha affermato: “Il capo di stato maggiore, e lui solo, decide e continuerà a decidere le politiche di ingaggio.”

In altri termini, Israele mette sull’avviso gli americani, in realtà il mondo intero: nessuno dirà mai a Israele quanti, chi, quando, dove o come uccideremo. E la questione è chiusa, fino alla prossima volta.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye

Orly Noy è la direttrice di B’Tselem – Centro israeliano di Informazione per i Diritti Umani nei territori occupati.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Sabra e Shatila: una lezione di vasta portata

Ramzy Baroud

12 settembre 2022 – Middle East Monitor

Il quarantesimo anniversario del massacro di Sabra e Shatila cade il 16 settembre. Circa 3.000 profughi palestinesi furono uccisi dalle milizie falangiste libanesi che agivano sotto il comando dell’esercito israeliano.

Sono passati quattro decenni, eppure i sopravvissuti dell’eccidio o i parenti delle vittime non hanno ottenuto giustizia. Da allora molti sono morti e altri invecchiano, con le cicatrici di ferite fisiche e psicologiche, sperando che, forse, durante il corso della vita, vedranno i carnefici dietro le sbarre.

In ogni caso molti dei comandanti israeliani e falangisti che ordinarono l’invasione del Libano e orchestrarono o eseguirono gli efferati massacri nei due campi di profughi palestinesi nel 1982 sono già morti. Ariel Sharon che, un anno dopo, fu accusato per la sua “responsabilità indiretta” nel macabro omicidio di massa e stupri dalla Commissione ufficiale israeliana Kahan, in seguito fece carriera e divenne il primo ministro di Israele nel 2001. Morì nel 2014.

Anche prima della strage a Sabra e Shatila, il nome di Sharon era sempre stato sinonimo di eccidi e distruzioni su larga scala. Nel 1953 fu la cosiddetta “Operazione Shoshana” nel villaggio di Qibya, nella Cisgiordania palestinese, [quando a capo dell’Unità 101 fece saltare 45 abitazioni uccidendo 69 persone, ndt.] che guadagnò a Sharon la sua infamante reputazione. Se in seguito all’occupazione israeliana di Gaza nel 1967 il generale israeliano divenne noto come “il bulldozer”, dopo Sabra e Shatila diventò “il macellaio”.

Anche il primo ministro israeliano dell’epoca, Menachem Begin, è morto. Non mostrò mai rimorso per l’uccisione di oltre 17.000 libanesi, palestinesi e siriani durante l’invasione israeliana del Libano nel 1982. La sua reazione d’indifferenza verso i delitti nei campi profughi nei quartieri occidentali di Beirut incarna l’atteggiamento israeliano verso tutte le uccisioni di massa e tutti i massacri compiuti contro i palestinesi negli ultimi 75 anni: “I goyim uccidono i goyim,” [gentili, non ebrei, ndt.] disse “e danno la colpa agli ebrei.”

Testimoni che arrivarono a Sabra e Shatila dopo i giorni del massacro descrivono una realtà che richiede una profonda riflessione, non solo fra palestinesi, arabi e specialmente israeliani, ma da parte dell’intera umanità.

La giornalista americana Janet Lee Stevens, scomparsa nel 1983, descrisse ciò a cui aveva assistito: “Ho visto donne morte nelle loro case con le gonne sollevate fino alla cinta e le gambe spalancate, decine di ragazzi a cui avevano sparato dopo averli messi in fila davanti al muro di un vicoletto, bambini con le gole tagliate, una donna incinta con l’addome martoriato, gli occhi spalancati, la faccia annerita in un silenzioso urlo d’orrore, innumerevoli bimbi e neonati accoltellati o squartati buttati su mucchi di immondizia.”

La dottoressa Swee Chai Ang era appena arrivata in Libano come chirurga volontaria, assegnata alla Società della Mezzaluna Rossa [la Croce Rossa nei Paesi musulmani, ndt.] nell’ospedale di Gaza a Sabra e Shatila. Il suo libro, From Beirut to Jerusalem: A Woman Surgeon with the Palestinians [Da Beirut a Gerusalemme: una chirurga tra i palestinesi] ,resta una delle letture più critiche sull’argomento.

In un recente articolo la dottoressa Swee ha scritto che alla pubblicazione delle fotografie dei “cumuli di cadaveri nelle stradine del campo”, era seguito uno sdegno internazionale, ma di breve durata: “Le famiglie delle vittime e i sopravvissuti furono rapidamente lasciati soli a tirare avanti con le proprie vite e rivivere il ricordo di quella doppia tragedia del massacro e delle precedenti dieci settimane di bombardamenti intensivi da terra, aria e mare e il blocco di Beirut durante l’invasione.”

Le perdite libanesi e palestinesi nella guerra israeliana furono devastanti in termini di numeri. Comunque la guerra cambiò per sempre anche il Libano e, in seguito all’esilio forzato di migliaia di palestinesi, oltre a tutti i leader dell’OLP, le comunità palestinesi nel Paese rimasero politicamente vulnerabili, socialmente svantaggiate ed economicamente isolate.

La storia di Sabra e Shatila non è stata solo un capitolo nero di un’era passata, ma un’ininterrotta crisi morale che continua a definire le relazioni di Israele con i palestinesi, mettendo in luce la trappola demografica e politica in cui vivono numerose comunità palestinesi in Medio Oriente e accentuando l’ipocrisia della comunità internazionale, dominata dall’Occidente che sembra preoccuparsi solo di alcuni tipi di vittime, ma non di altri.

Nel caso dei palestinesi le vittime sono spesso ritratte dai governi e dai media occidentali come aggressori. Anche durante la spaventosa guerra israeliana contro il Libano 40 anni fa alcuni leader occidentali ripetevano l’abusato mantra che “Israele ha il diritto di difendersi.” È questo incrollabile sostegno a Israele che ha reso l’occupazione israeliana, l’apartheid e l’assedio di Cisgiordania e Gaza politicamente possibili e finanziariamente sostenibili, anzi redditizi.

Se non fosse per il supporto militare, finanziario e politico americano e occidentale Israele sarebbe in grado di invadere e massacrare a piacimento? La risposta è un netto “no”. A coloro che mettono in dubbio questa conclusione basterebbe solo considerare il tentativo, nel 2002, dei sopravvissuti dei massacri dei campi profughi libanesi di considerare responsabile Ariel Sharon. Hanno portato la loro causa in Belgio, sfruttando una legge belga che permetteva [di avviare] un’azione penale contro sospettati di crimini di guerra internazionali. Dopo varie contrattazioni, ritardi e intensa pressione da parte del governo USA, il tribunale belga archiviò del tutto il caso. Alla fine Bruxelles cambiò le proprie leggi per garantire che queste crisi diplomatiche con Washington e Tel Aviv non si ripetessero.

Comunque per i palestinesi il caso non sarà mai chiuso. Kifah Sobhi Afifi’, nel suo saggio “Avenging Sabra and Shatila” [Vendicare Sabra e Shatila], ha descritto l’attacco congiunto falangista-israeliano contro il suo campo profughi quando aveva solo 12 anni.

“Quindi siamo scappati, cercando di stare il più vicino possibile ai muri del campo,” ha scritto. “È stato in quel momento che ho visto le montagne di cadaveri tutto intorno a noi. Bambini, donne e uomini, mutilati o che gemevano dal dolore mentre spiravano. Ovunque volavano le pallottole. Intorno a me la gente cadeva, abbattuta. Ho visto un padre che con il corpo cercava di proteggere i propri figli. Tutti furono comunque uccisi.”

Kifah ha perso parecchi familiari. Anni dopo si unì a un gruppo della resistenza palestinese e, dopo un raid sul confine libanese-israeliano, fu arrestata e torturata in Israele.

I massacri israeliani intendono porre termine alla resistenza palestinese ma senza volerlo la alimentano. Mentre Israele continua ad agire impunemente, anche i palestinesi continuano a resistere. Questa non è solo la lezione di Sabra e Shatila, ma anche la più ampia lezione su vasta scala dell’occupazione israeliana della Palestina.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la linea editoriale del Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)