Le forze israeliane arrestano il direttore del Freedom Theatre di Jenin

Sheren Falah Saab

12 settembre 2022 Haaretz

Il Ministro della Cultura palestinese condanna l’arresto di Bilal al-Saadi al posto di blocco di Za’atara: “Fa parte della politica di abusi e oppressione che l’occupazione esercita quotidianamente”

Il direttore del consiglio di amministrazione del Freedom Theatre di Jenin è stato arrestato domenica dalle forze israeliane mentre attraversava un posto di blocco militare in Cisgiordania, come ha riferito l’agenzia di stampa palestinese Wafa. La direzione della sicurezza israeliana ha confermato che Bilal al-Saadi è stato effettivamente arrestato, “ma in questo momento non possiamo fornire ulteriori dettagli “.

Secondo una dichiarazione rilasciata dai rappresentanti del teatro, al-Saadi stava attraversando il posto di blocco militare di Za’atara tra Ramallah e Nablus insieme al produttore del teatro, Mustafa Sheta. “Entrambi stavano tornando da un incontro con il Ministro della Cultura a Ramallah. Il Freedom Theatre è in contatto con associazioni per i diritti umani che sono state messe al corrente della situazione. Stiamo cercando ulteriori informazioni e consigli e poi daremo indicazioni alle persone su come fare campagna per il rilascio di Bilal”.

Il fratello di Bilal, Yasser al-Saadi, ha confermato questi dettagli in una conversazione con il quotidiano palestinese Al Quds. Dopo che al posto di blocco le forze israeliane hanno controllato la carta d’identità di Bilal, ha detto, “lo hanno arrestato e portato via”.

Il Ministro della Cultura palestinese Atef Abu Saif ha rilasciato una dichiarazione in cui condanna l’arresto di al-Saadi. “Questo arresto fa parte della politica di abuso e oppressione che l’occupazione esercita quotidianamente contro i figli e le figlie del nostro popolo. Esercita ogni forma di oppressione e ostacolo delle istituzioni culturali palestinesi”.

Ha detto anche che al-Saadi ha contribuito a fondare il Freedom Theatre e ne è una figura chiave. “Lui e i suoi collaboratori non hanno mai smesso di immaginare un futuro nelle difficili condizioni del campo profughi e hanno contribuito a consolidare la narrativa nazionale e la denuncia dei crimini dell’occupazione”.

Al-Saadi, 48 anni, residente nel campo profughi di Jenin, ha lavorato come consigliere nel consiglio di amministrazione del teatro sin dall’inizio. È anche membro del Palestine Performing Arts Network [Sistema delle arti dello spettacolo in Palestina], che promuove collaborazioni nel campo della danza, della musica e del teatro. Un post sulla pagina Facebook del teatro riporta che Al-Saadi “crede nel ruolo dell’arte e della cultura nel portare avanti la lotta nazionale palestinese contro l’occupazione israeliana. Per lui il teatro è una voce importante nel far sentire in tutto il mondo un messaggio contro l’ingiustizia della situazione palestinese”. Nel 2011 al-Saadi era stato arrestato dall’esercito israeliano in seguito all’assassinio dell’attore arabo-ebreo Juliano Mer-Khamis, socio fondatore del teatro e suo direttore artistico.

Il Freedom Theatre è stato fondato nel 1990 da Arna Mer-Khamis, madre di Juliano. Nel 2002, al culmine della seconda Intifada, il teatro era stato chiuso e demolito dall’esercito israeliano. Nel 2006 è stato riaperto da Juliano Mer-Khamis, insieme all’ex militante Zakaria Zubeidi. Il teatro è stato istituito per insegnare ai bambini e agli adolescenti palestinesi a recitare e per aiutarli a esprimersi attraverso l’arte. Juliano Mer-Khamis ha anche istituito un consiglio internazionale per sostenere l’attività del teatro, che vanta membri di spicco come la filosofa Judith Butler e lo scrittore Elias Khoury. Prima dell’omicidio di Mer-Khamis, il teatro era stato ripetutamente vandalizzato dagli islamisti e c’erano stati due tentativi di incendiarlo; l’assassinio di Juliano rimane irrisolto.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Tribunale israeliano prolunga per la quinta volta l’arresto di una giornalista palestinese con due figli

Redazione di PNN

12 settembre 2022 – Palestine News Network

Secondo fonti locali, oggi un tribunale israeliano ha esteso per la quinta volta la detenzione di una giornalista palestinese residente a Gerusalemme est occupata e madre di due bambini.

Dopo due udienze, oggi la corte ha esteso fino a domenica prossima la detenzione della giornalista palestinese Lama Ghosheh.

Secondo il Palestinian Prisoner’s Society (PPS) [organizzazione che si occupa delle condizioni dei detenuti, n.d.t.] Ghosheh è stata portata ammanettata all’udienza e si è lamentata delle difficili condizioni della sua detenzione in isolamento nella prigione israeliana di Hasharon. È stato riportato che la giornalista ha pianto e ha implorato di essere rilasciata per riunirsi ai suoi bambini.

Lama Ghosheh, di 32 anni, sposata, madre di due bambini di due e cinque anni, laureata alla università di Birzeit, è stata posta agli arresti domiciliari nella sua casa di Sheikh Jarrah a Gerusalemme Est occupata il 4 di questo mese, quando il suo cellulare e il suo computer sono stati sequestrati.

Si ritiene che la sua detenzione sia collegata al suo lavoro di giornalista e alla difesa delle case di Sheikh Jarrah contro l’occupazione da parte dei coloni israeliani.

Il numero di giornalisti attualmente detenuti nelle prigioni israeliane è salito a 17, con tre giornaliste donne, ha affermato il PPS.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Quanto è divertente assassinare vestito con un’uniforme delle IDF

Rogel Alpher

12 settembre 2022 – Haaretz

Il nome del colonnello Avinoam Emunah è finito sulle prime pagine dei giornali da quando ha annunciato di lasciare le Forze di Difesa Israeliane (IDF) perché non ha ottenuto la promozione che pretendeva. É stato come se il suo cognome (emunah significa fede in ebraico) gli fosse stato dato da un drammaturgo incline a un simbolismo eccessivamente plateale. Emunah è un ufficiale a cui non manca certo la fede. Venne lodato dai sostenitori dell’ex-primo ministro Netanyahu come dai coloni quando attribuì i suoi successi sul campo di battaglia durante l’operazione Margine Protettivo [sanguinoso attacco militare israeliano contro Gaza nel 2014, ndt.] a “miracoli” che hanno testimoniato l’esistenza di un potere superiore. Alla fine del conflitto il battaglione sotto il suo comando fu premiato con una medaglia.

I sostenitori dell’ex-primo ministro Netanyahu credono che la promozione di Emunah al posto di capo di stato maggiore sia stata bloccata da una congiura della sinistra, che aborre le sue opinioni di destra e la sua fervente fede religiosa (non solo ha prestato servizio di guardia alla Grotta di Macpelà [la Tomba dei Patriarchi, che si trova a Hebron e per i musulmani è la moschea di Ibrahim, ndt.], egli è stato fotografato mentre vi pregava) che non si è mai preoccupato di nascondere.

Per dimostrare alla Nazione proprio che razza di comandante ha perso, sulle reti sociali sono stati caricati video che ospitano Emunah. In uno di essi, filmato il giorno in cui entrò a Gaza durante Margine protettivo, si vede Emunah che si rivolge alle truppe. Con uno strano sorriso stampato sul volto disse loro: “Questa notte sarà molto meno piacevole essere un arabo,” e gli venne risposto con risate, fischi, acclamazioni e applausi. “La maggior parte delle volte li vedrete scappare,” assicurò ai suoi soldati e, come se stesse evocando una visione disse loro: “Uccideteli mentre scappano!”

Non si trattava di un invito. Era un ordine da parte di un ufficiale che doveva essere ubbidito. I suoi soldati lo applaudirono di nuovo. Sì, signore, li uccideranno mentre stanno scappando. “Sorridete, ragazzi!” ordinò Emunah. “Dovreste godervela,” raccomandò. “Provateci,” disse, muovendo enfaticamente un dito. “Cercate di spassarvela.”

È divertente assassinare con un’uniforme delle IDF. Sì, assassinare. Cercate di divertirvi. Fatelo con un sorriso sulla faccia. La guerra è combattuta per la fede, un atto che eleva l’anima e rallegra il cuore. Lasciatelo dire a Itzik Saidian [soldato israeliano che nell’aprile 2021 si è dato fuoco davanti al ministero della Difesa israliano, ndt.] e ai molti soldati che hanno lasciato il campo di battaglia affetti da un profondo trauma psicologico, feriti e segnati in un modo o nell’altro a vita. La guerra è l’inferno. Ma, come dimostrano i suoi ordini, per Amunah si tratta di una battuta di caccia.

La verità è che poche cose sono più orripilanti della guerra, e di conseguenza deve essere eliminata. Il Terzo Reich fu una di queste, ma il motto di Emunah è sorridi, uccidi, divertiti mentre stai facendo la guerra.

Ma la guerra viene condotta in base a leggi internazionali, che richiedono un certo livello di decenza, umanità e rispetto. Senza di essi l’omicidio smette di essere legittimato e non diventa altro che omicidio. Queste leggi stabiliscono esplicitamente che il momento in cui un soldato getta le armi e si arrende, non può essere ucciso. È proibito braccarlo senza una ragione. Qualunque violazione di queste regole che definiscono la condotta corretta è considerata un crimine di guerra.

“Uccideteli mentre scappano!” ordina di commettere un omicidio. Chi dovresti uccidere? Arabi. Chiunque siano, senza distinzione. Come disse Emunah: “Questa notte sarà molto meno piacevole essere un arabo.” Tutti gli arabi. E riguardo ai soldati israeliani che scappano? Anche loro possono essere colpiti alle spalle?

In un articolo che Emunah pubblicò nel 2015 sulla rivista dell’esercito Maarachot, intitolato “Leadership del comando sul campo di battaglia,” definì la triade “sorridi -uccidi – divertiti” come “parole per spronare” le truppe. E cosa succede se muoiono dei soldati? “Il comandante deve mettere in chiaro che un prezzo così alto è giustificato, che è così che deve essere” e che “abbiamo il privilegio di partecipare a questa importante missione.” Non è sufficientemente bello morire per il proprio Paese. Dovrebbe essere divertente uccidere per il tuo Paese e, se muori per il tuo Paese, fallo con il sorriso sul volto.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Kafka a Gaza: come Israele ha trasformato un operatore umanitario palestinese in un “terrorista”

Antony Loewenstein

8 settembre 2022 – +972 Magazine

Nel processo di sei anni contro Mohammed Halabi tutte le prove erano “segrete” o non plausibili. Ciò non ha impedito a Israele di condannarlo a 12 anni di prigione.

Dopo uno dei processi più lunghi nella storia israeliana, che ha compreso più di 160 udienze in sei anni, il 30 agosto un tribunale israeliano ha condannato l’operatore umanitario palestinese Mohammed Halabi a 12 anni di prigione con l’accusa di aver dirottato denaro verso Hamas. A giugno Halabi, che era a capo dell’ufficio di Gaza dell’organizzazione umanitaria cristiana World Vision, è stato dichiarato colpevole dal tribunale distrettuale di Be’er Sheva di aver deviato 50 milioni di dollari dei fondi dell’organizzazione alle autorità di Hamas che governano la Striscia di Gaza bloccata.

Durante il processo kafkiano, condotto in quasi totale segretezza dal momento dell’arresto di Halabi nel giugno 2016, e condannato da diverse delle principali organizzazioni mondiali per i diritti umani, il palestinese di 45 anni ha sempre proclamato la sua innocenza. È stato separato dai suoi cinque figli e dalla sua famiglia a Gaza dal momento in cui si è rifiutato di capitolare alle richieste di Israele di ammettere la sua colpevolezza e accettare un patteggiamento fraudolento.

World Vision, che ha sostenuto Halabi durante tutto il processo, ha continuato a difendere il proprio collaboratore dopo la condanna. “Non abbiamo verificato nulla che ci faccia mettere in dubbio le nostre conclusioni che Mohammed sia innocente da tutte le accuse”, ha scritto in una dichiarazione ufficiale.

Omar Shakir, direttore di Human Rights Watch per Israele e Palestina, è stato più diretto, definendo la sentenza un “grave errore giudiziario”. Ha condannato Israele per aver “trattenuto Halabi per sei anni sulla base di prove segrete confutate da numerose indagini” aggiungendo: “Il caso Halabi mostra come Israele usi il suo sistema giudiziario per fornire una patina di legalità al fine di mascherare il suo orrendo sistema di apartheid nei confronti di milioni di palestinesi. “

Il caso di Halabi è l’ultimo esempio di un sistema giudiziario israeliano truccato ed impegnato in una discriminazione contro palestinesi e non ebrei. Ma la sua storia fornisce più di un semplice spaccato dell’occupazione israeliana. Oltre al silenzio assordante degli alleati di Israele che pretendono di sostenere la democrazia, la sentenza di Halabi è un paradigma di quanto lontano si possa spingere Israele nel suo assalto alla società civile palestinese.

Parlando da Gaza alla rivista +972 dopo la sentenza il padre di Mohammed, Khalil, ha detto che “continuerà a lottare prima nei tribunali [distrettuali] israeliani e poi appellandosi [alla Corte suprema israeliana]” per ottenere giustizia. “Dopodiché [si rivolgerà] ai tribunali dei Paesi europei e in America”, fino a quando Israele non avanzerà le sue scuse per aver arrestato Mohammed, aggiunge.

Khalil, che ha lavorato per anni presso l’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e il lavoro (UNRWA) a Gaza, ha affermato che i figli di Mohammed comprendono che il loro padre è innocente. Ho sollevato loro il morale fornendo delle spiegazioni. Dico sempre loro che nel procedimento contro il padre la giustizia prevarrà. Il mondo è con lui così come gli israeliani che amano la giustizia e la pace”.

Una totale mancanza di prove

Israele ha arrestato Halabi al valico di Erez tra Israele e la Striscia di Gaza assediata nel giugno 2016 e per settimane non si è saputo niente di lui. Due mesi dopo, Israele ha annunciato che Halabi avrebbe confessato di aver dirottato 50 milioni di dollari nelle casse di Hamas, mentre l’allora primo ministro Benjamin Netanyahu ha fatto riferimento all’arresto senza menzionare il nome di Halabi.

Organizzazioni umanitarie internazionali e Paesi donatori come la Germania e l’Australia hanno interrotto immediatamente tutti gli aiuti in denaro alla sede di World Vision a Gaza, lasciando migliaia di palestinesi in uno stato di incertezza sugli aiuti e centinaia senza lavoro. Da allora World Vision non è più stata in grado di operare a Gaza.

World Vision ha intrapreso una costosa verifica del suo lavoro a Gaza per determinare se mancasse del denaro. La società di revisione Deloitte e lo studio legale statunitense DLA Piper non hanno trovato prove di illeciti, azioni illegali e nessuna prova credibile che Halabi lavorasse per Hamas (in effetti, la sua famiglia era nota per l’opposizione al gruppo). L’organizzazione umanitaria ha anche affermato che il suo intero budget decennale per Gaza era di 22,5 milioni di dollari, ridicolizzando l’affermazione che El-Halabi avrebbe rubato 50 milioni di dollari.

L’Australia, uno dei principali finanziatori dei programmi di World Vision a Gaza, ha immediatamente condotto la propria indagine sulle gravi accuse di Israele. Anch’esso non ha trovato nulla.

L’allora capo di World Vision Australia, il ministro battista Tim Costello, ha detto a +972 che l’intero caso era un “insulto ai contribuenti australiani, alla nostra integrità. Il bilancio degli aiuti australiani è stato sottoposto ad un’indagine e tuttavia nessun denaro dei contribuenti è scomparso. Ci deve essere una risposta ufficiale del governo australiano, anche se a porte chiuse e in privato, per condannare la sentenza [contro Halabi]”.

Fino al momento in cui scrivo, il governo australiano è rimasto in silenzio, anche se tre senatori verdi del parlamento federale hanno condannato la sentenza. L’Australia è da molti anni uno degli alleati più fedeli di Israele.

È una decisione chiaramente ideologica”, dice Costello a +972. Israele vuole dire: siamo una democrazia con uguaglianza davanti alla legge, ma i palestinesi non godono di questa uguaglianza. Lascia che la giustizia scorra come un fiume” [ “Let justice roll on like a river” è una famosa frase, tratta dalla Bibbia, che Martin Luther King pronunciò nel 1963 a Washington, ndt.].

Confessione sotto costrizione

Halabi afferma di essere stato torturato dalle autorità israeliane durante la detenzione nel 2016, e di aver ricevuto tra l’altro un pugno alla testa che gli ha lasciato persistenti problemi di udito. È stato sottoposto forzatamente a prolungate posizioni di stress, privato del cibo e del sonno e rinchiuso in una cella con un informatore palestinese, un sedicente membro di Hamas. Tali tattiche coercitive non sono insolite: Israele ha una lunga storia di torture nei confronti dei palestinesi sotto custodia per costringerli a una falsa confessione e ad accettare un patteggiamento con una pena ridotta.

Dopo essere rimasto intrappolato per giorni in una stanza con quell’uomo Halabi ha detto al suo avvocato palestinese, Maher Hanna, che non poteva più sopportare quel trattamento. Halabi ha ammesso tutto ciò che volevano gli inquisitori dopo essere stato sottoposto a una coercizione intollerabile, ha detto Hanna. Diversi relatori speciali delle Nazioni Unite hanno ritenuto che la detenzione e l’interrogatorio di Halabi “potrebbero essere equiparati a tortura”.

Nel frattempo Halabi non credeva che nessun tribunale israeliano credibile avrebbe preso sul serio il processo, e così ha ritrattato la sua confessione. Ma per sei lunghi anni ha dovuto sopportare interminabili ritardi, mancanza di prove in aula e un sistema giudiziario israeliano che ha rifiutato di consentire l’audizione di testimoni credibili.

Per l’accusa israeliana il semplice fatto che i numeri non tornassero – che Halabi non avesse mai avuto accesso a nessun quantitativo di denaro che si avvicinasse a 50 milioni di dollari – era irrilevante. Avevano quella che sostenevano fosse un’ammissione da parte dell’operatore umanitario durante la sua detenzione, e questo era sufficiente. Niente di tutto questo è mai stato sottoposto a verifica in un tribunale equo e pubblico; al contrario, l’accusa è stata autorizzata a presentare tutte le sue cosiddette “prove segrete” nel corso di udienze a porte chiuse.

Durante questo processo-farsa la maggior parte della comunità internazionale è rimasta in silenzio o ha affermato di non poter intervenire fino alla sua conclusione, una posizione che andava a pennello per Israele.

Dopo la sentenza di fine agosto, ad esempio, il consolato britannico a Gerusalemme si è limitato a twittare di essere “preoccupato”, mentre la delegazione dell’Unione europea presso i palestinesi ha twittato che “si rammarica dell’esito“. L’UE è il principale partner commerciale di Israele, una solida relazione che sta crescendo nonostante la preoccupazione pubblica per i tentativi di Israele di schiacciare importanti organizzazioni della società civile palestinese, molte delle quali ricevono fondi da governi europei.

“Un moderno processo Dreyfus”

Il nocciolo della questione, come la scorsa settimana ha rilevato l’avvocato Maher Hanna a +972, è stata la riluttanza di Halabi ad ammettere un crimine che non ha commesso. Durante un’udienza del marzo 2017 un giudice del tribunale distrettuale israeliano lo ha incoraggiato a patteggiare perché avrebbe avuto “poche possibilità” di non essere ritenuto colpevole. “Ha letto i numeri e le statistiche”, ha continuato il giudice, alludendo ai tassi di condanna dei tribunali militari. “Sa come vengono gestite queste situazioni.”

“All’inizio gli sono stati offerti tre anni, poi quattro, poi sei e infine otto”, spiega Hanna da Gerusalemme. Ma Halabi ha rifiutato di accettare ognuna di queste offerte, e di conseguenza è stato condannato a 12 anni di carcere.

Nonostante la sentenza l’accusa ha minacciato di ricorrere in appello per ottenere una sentenza più severa. “È difficile capire il cambio di posizione dell’accusa”, dice Hanna. “Era disposta ad accontentarsi di una condanna a tre anni in caso di confessione, ma non ad accettare una condanna a 12 anni quando l’imputato si è dichiarato innocente per lo stesso presunto reato“.

Hanna aggiunge: “L’accusa, e anche la corte, ritengono importante trasmettere un messaggio a tutti i detenuti e prigionieri palestinesi secondo cui chiunque non accetti una pena detentiva in un patteggiamento e costringa il tribunale ad ascoltare la propria difesa sarà severamente punito”.

In un’indagine del 2019 per la rivista +972 Magazine ho dettagliato la serie dei motivi per cui il processo non è riuscito a soddisfare nemmeno i più elementari standard internazionali di equità. Lo stesso Halabi mi ha detto nello stesso anno che credeva che l’intero caso contro di lui fosse una battuta di pesca per tentare di accentuare l’assedio contro gli abitanti di Gaza. Non stavano attaccando soltanto me, ma l’intero sistema di aiuti umanitari a Gaza, di cui ero solo una parte”.

Hanna è rimasto scioccato dalla sentenza della corte e sconvolto dal fatto che i giudici abbiano respinto la maggior parte delle rimostranze di Mohammed. Hanno puntualmente ignorato tutte le incongruenze presenti nel caso come se quelle rimostranze non fossero state presentate. Sono rimasti molto sorpresi quando hanno ascoltato le rimostranze durante le argomentazioni per la condanna e hanno ammesso la possibilità di aver sbagliato, ma per loro “è necessario mantenere una coerenza”.

Israele sta attualmente conducendo una guerra più estesa contro la società civile palestinese, con la determinazione di chiudere le ONG principali e neutralizzare la loro autorevolezza nella battaglia davanti all’opinione pubblica globale. Come per il caso Halabi, in cui non esistono prove per dimostrare la sua colpevolezza, il governo israeliano spera che le sue false accuse di terrorismo contro le principali ONG palestinesi le metteranno a tacere e le dissuaderanno.

Intanto Hanna continua a nutrire delle speranze per Halabi. “A questo punto ci aspettiamo che la Corte Suprema annulli una simile sentenza”, afferma. “Questo è un moderno processo Dreyfus e lo Stato di Israele non può permettersi di portare una macchia del genere nel suo sistema giudiziario”.

Antony Loewenstein è un giornalista indipendente, autore di best seller, regista e co-fondatore di Declassified Australia [Rivista australiana progressista di giornalismo investigativo, ndt.]. Ha scritto per The Guardian, The New York Times, The New York Review of Books e molte altre testate. I suoi libri includono Pills, Powder and Smoke: Inside The Bloody War On Drugs, Disaster Capitalism: Making A Killing Out Of Catastrophe e My Israel Question. I suoi documentari includono Disaster Capitalism e i film inglesi di Al Jazeera: West Africa’s opioid crisis e Under the Cover of Covid. Ha lavorato a Gerusalemme Est dal 2016 al 2020. Il suo prossimo libro, in uscita nel 2023, è The Palestine Laboratory: How Israel Exports the Technology of Occupation Around the World.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Un esperto di antisemitismo sostiene che i progressisti “hanno il diritto di escludere i sionisti”

Nasim Ahmed

7 settembre 2022-Middle East Monitor

 

Un importante esperto di antisemitismo ha affermato che i gruppi dei campus universitari “hanno il diritto di escludere i sionisti”. Scrivendo sul Times of Israel, Kenneth Stern ha affermato che, sebbene possa essere “offensivo” e controproducente, il diritto dei gruppi progressisti di escludere i sostenitori dello stato di occupazione deve essere rispettato. Stern è un avvocato statunitense che ha avuto un ruolo chiave nella stesura della controversa definizione di antisemitismo dell’International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA).

Il suo intervento fa seguito al crescente dibattito sull’esclusione degli studenti sionisti dagli spazi progressisti. Fondato sugli ideali etno-nazionalisti del sionismo, Israele è visto da lungo tempo nei circoli progressisti come un paese razzista che sostiene il colonialismo di insediamento e la pulizia etnica. Questo punto di vista si è progressivamente diffuso negli ultimi tempi dopo che importanti gruppi per i diritti umani hanno accusato Israele di commettere il crimine di apartheid.

Con il sionismo sempre più visto come un’ideologia razzista e imperialista, i gruppi che sostengono l’uguaglianza, i diritti umani, i diritti delle minoranze e i valori progressisti in generale, escludono sempre più spesso i sostenitori di Israele dai loro spazi. Ciò è accaduto nonostante le affermazioni che il sionismo e l’affinità elettiva con lo stato dell’apartheid siano parti intrinseche dell’identità ebraica. I critici, tuttavia, hanno a lungo messo in discussione questa argomentazione e hanno respinto l’affermazione che un’ideologia politica dovrebbe essere trattata come una “categoria da proteggere [dalle discriminazioni, ndt.]” allo stesso modo del genere, della religione e della razza.

La recente polemica sulla definizione dell’IHRA è in gran parte una richiesta da parte di gruppi filo-israeliani di un consenso più ampio nel sostenere la loro affermazione che il sionismo e il sostegno allo Stato di Israele siano accettati come una categoria del genere. È una forma di difesa eccezionalista che viene respinta in blocco quando altri gruppi nella società fanno richieste simili. Ad esempio, l’ideologia politica dell'”islamismo” o il desiderio di creare uno “Stato islamico” non solo sono violentemente contrastati e condannati, ma anche qualsiasi musulmano che insista affinché le proprie opinioni politiche e la propria religione ricevano una protezione speciale viene prontamente e giustamente respinto.

Un esempio simile sarebbe se il governo indiano del BJP di estrema destra sotto il primo ministro Narendra Modi e i sostenitori di Hindutva [forma predominante di nazionalismo indù, ndt.] affermassero che è razzista e anti-indù mettere in discussione la loro richiesta di creare uno Stato esclusivamente indù. Come sta diventando sempre più chiaro, nella loro ricerca di rimodellare l’India come Stato indù, gli estremisti Hindutva si sono messi in rotta di collisione con la costituzione laica del Paese. L’istanza che l’India sia l’unico stato indù al mondo non dovrebbe fare la differenza, ma l’obiettivo è comunque la riforma dell’India come Stato etno-religioso che offre diritti e privilegi speciali agli indù all’interno di un sistema di cittadinanza a più livelli [di diritti, ndt] Lo stato modello che questi indù aspirano a replicare è Israele. Il parallelo tra le due ideologie è un potente esempio dello status speciale concesso al sionismo.

A Israele e ai suoi sostenitori viene concesso un privilegio che non è esteso a nessun’altra comunità politica. Gli enti pubblici e le istituzioni private in tutto il mondo occidentale non solo hanno acconsentito alla loro richiesta, ma hanno anche adottato la presunta “definizione funzionale” di antisemitismo prodotta dall’IHRA che confonde le legittime critiche a Israele e al sionismo con il razzismo antiebraico.

Stern non compara il sionismo a ideologie simili nel resto del mondo, ma insiste nel trattare Israele e la sua ideologia fondante allo stesso modo di qualsiasi altra ideologia politica e dei suoi seguaci. Il diritto di criticare liberamente senza essere etichettato come razzista dovrebbe essere salvaguardato, sostiene. Ammette che il sionismo stesso è termine controverso ma, tuttavia, i sentimenti su ciò che il sionismo significa personalmente per alcuni ebrei non dovrebbero essere una scusa per reprimere la libertà di parola etichettando le persone come “antisemiti” per aver criticato l’ideologia fondatrice di Israele.

Commentando le diverse percezioni del sionismo e le ragioni per cui i progressisti escludono i sostenitori di Israele, Stern ha detto: “Alcuni studenti progressisti possono interpretare il sionismo come un termine per il trattamento riservato da Israele ai palestinesi; altri possono comprendere il sionismo come la maggior parte degli studenti ebrei: il diritto degli ebrei all’autodeterminazione nella loro patria storica”.

Ha spiegato che un numero significativo e crescente di ebrei è “agnostico” riguardo al sionismo o è antisionista, il che sembra suggerire che il sionismo e l’affinità con Israele non sono così rilevanti per l’identità ebraica come affermano i gruppi filo-israeliani.

“Gli studenti antisionisti possono pensare che lasciare che un sionista lavori tra loro equivalga a non considerare se qualcuno sia nazista”, ha detto Stern, “proprio come alcune organizzazioni ebraiche potrebbero ritenere che ammettere ebrei che sostengono il Boicottaggio/Disinvestimento/Sanzioni (Il movimento BDS) contro Israele sia sottovalutarne l’antisemitismo”. Stern non è d’accordo con entrambe le posizioni ma gli studenti del campus devono poter scegliere la loro politica.”

Alle prese con la questione centrale del pezzo sul Times of Israel — se sia antisemita escludere i sionisti dagli spazi progressisti — Stern difende il diritto dei gruppi progressisti ad essere selettivi. “Se un gruppo decide che per essere un membro bisogna avere una visione particolare di Israele e del sionismo, il diritto a prendere tale decisione deve essere rispettato. Chi non è ammesso, anche se l’esclusione fa male, può trovare altri modi per esprimersi, anche creando nuovi gruppi e coalizioni”.

Stern ha criticato il modo in cui la definizione IHRA di antisemitismo è stata utilizzata da gruppi filo-israeliani contro i critici dello Stato di apartheid. Il suo ultimo intervento è un’altra difesa della libertà di associazione e di parola contro ciò che molti dicono essere una repressione delle voci pro-palestinesi e contro i pericoli di sovrapporre antisionismo ad antisemitismo.

“I gruppi ebraici hanno usato la definizione come arma per affermare che le espressioni antisioniste sono intrinsecamente antisemite e devono essere soppresse”, aveva scritto Stern sul Times of Israel due anni fa. Le preoccupazioni da lui sollevate rafforzano l’affermazione che la lotta contro l’antisemitismo, come sostiene il commentatore ebreo americano Peter Beinart, ha “perso la strada”.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la linea editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Il capo di stato maggiore delle IDF afferma che sono stati arrestati 1.500 palestinesi

Redazione di MEMO

6 settembre 2022 – Middle Est Monitor

Media locali hanno riferito che il capo di stato maggiore delle forze armate israeliane Aviv Kohavi ha dichiarato che circa 1500 ricercati palestinesi sono stati arrestati nella Cisgiordania occupata e centinaia di attacchi sono stati sventati finora come parte dell’operazione ‘Rompere l’onda’, che è stata iniziata alla fine di marzo.

Durante una riunione militare Kohavi ha aggiunto che l’incremento delle operazioni ha origine nella inefficacia dei meccanismi di sicurezza della Autorità Nazionale Palestinese (ANP) che causa la mancanza di controllo in certe aree della Cisgiordania.

Come sempre, anche di fronte a questo cambiamento della situazione, il nostro compito è proteggere i cittadini di Israele e la nostra missione è di contrastare il terrorismo. Raggiungeremo ogni città, quartiere, vicolo, casa o scantinato per quello scopo. La nostra attività continuerà e siamo preparati ad intensificarla secondo le necessità”, è stato citato dal Times of Israel.

La nostra attività continuerà e siamo preparati ad incremementarla in base alle necessità” ha aggiunto.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Le mutevoli narrazioni di Israele riguardo all’uccisione di Shireen Abu Akleh

Redazione di Al Jazeera

6 settembre 2022 – Al Jazeera

Dopo aver cambiato varie volte la sua versione, Israele ora ha concluso che è “molto probabile” che uno dei suoi soldati abbia ucciso Shireen Abu Akleh.

La versione del governo e dell’esercito israeliani sull’uccisione l’11 maggio scorso di Shireen Abu Akleh, la nota giornalista palestinese di Al Jazeera, è cambiata varie volte nei mesi scorsi.

Testimoni, tra cui giornalisti di Al Jazeera, hanno subito detto che le forze israeliane erano responsabili della sparatoria a Jenin, un’affermazione confermata da numerose indagini da parte di mezzi di comunicazione, organizzazioni per i diritti umani e delle Nazioni Unite.

Eppure Israele ha cercato di eludere ogni responsabilità, finché lunedì ha annunciato che un’indagine militare ha definito “molto probabile” che uno dei suoi soldati abbia sparato il proiettile che ha ucciso Abu Akleh. Tuttavia l’esercito ha escluso ulteriori indagini, affermando di non aver riscontrato alcun sospetto di un reato penalmente perseguibile.

Questa posizione segna un cambiamento rispetto alle precedenti narrazioni israeliane riguardo all’omicidio, come dicono le molte e diverse versioni date su quanto avvenuto.

Ecco la cronologia della mutevole narrazione di Israele.

Sono stati i palestinesi”

Subito dopo l’uccisione di Abu Akleh il ministero degli Esteri israeliano e il primo ministro Naftali Bennett hanno puntato il dito contro i combattenti palestinesi come i “probabili” responsabili.

“Secondo le informazioni che abbiamo raccolto sembra probabile che palestinesi armati che in quel momento stavano sparando all’impazzata siano stati responsabili della sfortunata morte della giornalista,” ha twittato Bennett.

Per sostenere queste affermazioni l’ufficio del primo ministro ha persino twittato un video di palestinesi armati che sparavano nel campo profughi. Il video è stato smentito dopo poche ore dall’associazione israeliana per i diritti umani B’Tselem che ha affermato che gli uomini armati si trovavano in tutt’altro posto del campo e che nessun combattente palestinese si trovava nei pressi del luogo in cui Abu Akleh e i suoi colleghi si erano riuniti.

Poi Israele ha offerto di condurre un’indagine congiunta sull’omicidio con l’Autorità Nazionale Palestinese, che quest’ultima ha nettamente rifiutato.

Basta accusare Israele”

Il giorno seguente, il 12 maggio, il governo ha reso pubblico un comunicato in cui denunciava “affrettate” accuse secondo cui un suo soldato sarebbe stato responsabile dell’uccisione come “menzognere e irresponsabili”.

Potrebbe essere stato Israele”

Il 13 maggio Israele ha affermato che, dopo le sue prime indagini sulla sparatoria, era possibile che il proiettile che ha ucciso Abu Akleh fosse stato sparato da un soldato israeliano che aveva aperto il fuoco contro un palestinese armato che si trovava vicino a lei.

“Il palestinese armato ha sparato molteplici raffiche di arma da fuoco contro il soldato delle IDF [Forzedi Difesa Israeliane, l’esercito israeliano, ndt.] e c’è la possibilità che Abu Akleh, che si trovava vicino al palestinese armato alle sue spalle, sia stata colpita dal fuoco sparato dal soldato verso il palestinese armato,” ha sostenuto un comunicato dell’esercito.

I colleghi di Abu Akleh che si trovavano con lei, così come molteplici indagini, hanno ripetutamente sottolineato che al momento della sua uccisione non c’erano nei pressi combattenti palestinesi.

Abbiamo l’arma che potrebbe aver ucciso Abu Akleh”

Il 19 maggio l’esercito israeliano ha affermato di aver identificato il fucile di un soldato che “potrebbe aver ucciso” Abu Akleh, ma ha detto di non esserne sicuro finché i palestinesi non avessero consegnato il proiettile perché venisse analizzato.

Una fonte ufficiale israeliana ha affermato: “Abbiamo in nostro possesso l’arma (dell’esercito israeliano) che potrebbe essere coinvolta nello scambio a fuoco vicino a Shireen”, ma ha sottolineato che non era chiaro da dove sia provenuto lo sparo.

È molto probabile” che sia stato Israele

Il 5 settembre Israele ha annunciato i risultati della sua inchiesta militare e ha affermato che è “molto probabile” che Abu Akleh sia stata “colpita accidentalmente” dal fuoco dell’esercito israeliano. Tuttavia non verrà avviata alcuna indagine penale.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Dopo 12 anni in cui mi è stato insegnato a odiare, oggi andrò in prigione per dire “No”

Naveh Shabtai Levine 

6 settembre 2022, Haaretz

Lo Stato di Israele gestisce un sistema di apartheid. Gli studi di organizzazioni per i diritti umani come Amnesty International pubblicati negli ultimi anni che l’hanno accertato sono solo la conferma finale di una situazione che è chiara già da anni. Dall’occupazione dei territori nel 1967, sotto il dominio israeliano si è consolidato un intrinseco regime di discriminazione che antepone un gruppo etnico rispetto a un altro.

Nella società israeliana ebraica, quella dalla parte giusta dell’apartheid, c’è un alto livello di libertà di espressione e libertà di stampa. E nonostante ciò, l’opposizione all’apartheid all’interno della società è un fenomeno marginale, quasi impercettibile. Nell’attuale campagna elettorale, ad esempio, nessuno dei partiti della “sinistra sionista” sta ponendo al centro della sua campagna la scottante questione del controllo israeliano sui palestinesi. Al contrario, tutti cercano di sfuggire alla questione dell’apartheid come dal fuoco.

Perché l’opposizione pubblica è così scarsa? Perché in Israele non c’è un grande e influente numero di ebrei che dice “basta”. Com’è possibile che una società tecnologicamente avanzata, ben istruita e ricca non abbia espresso quasi alcuna opposizione a quello che è chiaramente un crimine orribile? Uno dei motivi principali è l’indottrinamento di cui ci nutrono da bambini e adolescenti. Avendo appena concluso 12 anni di studio posso dire che mattina, mezzogiorno e sera il sistema scolastico ci alimenta di ultranazionalismo, militarismo e violenza.

Nelle lezioni di storia ci insegnano che il popolo ebraico emigrò in Terra d’Israele e iniziò a costruire uno Stato in una “terra vuota”, grazie ai pionieri che prosciugarono le paludi e costruirono i kibbutz. In mezzo a questa terra vuota si presentarono all’improvviso degli arabi, ai quali per ragioni incomprensibili non piaceva la nostra presenza qui. Diventano violenti e intraprendono gli “eventi” (gli scontri tra ebrei e arabi nel periodo pre-statale).

Un’opportunità mancata

La storia del terrorismo palestinese inizia così. Non ci parlano dell’aggressività dei coloni ebrei, non ci insegnano l’equilibrio di potere tra gli immigrati europei che ricevevano un enorme sostegno economico dal resto del mondo e il popolo palestinese composto per la maggior parte da contadini poveri e tenaci in una remota parte dell’Impero Ottomano. Non ci dicono che l’idea del “lavoro ebraico” è un mezzo per opprimere i lavoratori arabi. E poi, quando ci insegnano che i palestinesi erano contrari al Piano di Partizione, l’unica conclusione logica è che i palestinesi siano cattivi.

Già allora – lo Stato di Israele non era ancora stato fondato e gli arabi non hanno perso l’occasione di perdere un’occasione.

Alle cerimonie del Memorial Day [dal 1963 giorno ufficiale della memoria dedicato ai soldati caduti e alle vittime del terrorismo, ndt.] ci insegnano che ogni soldato morto a causa del sanguinoso ciclo dell’occupazione israeliana è un eroe che “con la sua morte ci ha chiesto di vivere”. Ci insegnano che tutti coloro che sono caduti in battaglia lo hanno fatto per il bene del Paese, piuttosto che a causa sua e della sua politica. Nelle lezioni di educazione civica ci insegnano che lo Stato di Israele è un Paese ebraico e democratico – proprio così, semplice ed evidente, come un assioma chiaro ed eterno.

La militarizzazione raggiunge l’apice al liceo: i soldati visitano le scuole, abbiamo ore di discussioni preparatorie sull’esercito, la scuola ci prepara a essere buoni soldati. Non si accontentano solo della teoria, ci forniscono anche un’esperienza pratica con il Gadna, un programma che prepara gli studenti delle scuole superiori al servizio militare. Ci mandano in Polonia per conoscere l’Olocausto, ma lì dobbiamo alzare la bandiera israeliana “per rafforzare il senso del dovere per la continuazione della vita ebraica e l’esistenza sovrana dello Stato di Israele”. Ci insegnano nelle scuole una situazione fittizia e unilaterale secondo cui il popolo palestinese è una nazione di terroristi che ci odia senza motivo, mentre noi stiamo solo cercando di difendere la nostra casa.

C’è qualcuno che, con grande difficoltà, riesce a superare tutto questo, a volte con l’aiuto dei genitori, a volte in maniera autonoma. Sono riuscito a vedere la realtà dietro la propaganda con l’aiuto di mia madre, che mi ha portato a Sheikh Jarrah a Gerusalemme per manifestare contro le ingiustizie dello Stato ebraico. I miei amici ed io oggi rifiuteremo di arruolarci, e probabilmente passeremo del tempo in prigione perché vogliamo dire ai nostri compagni di scuola, ai giovani israeliani, che c’è una verità completamente diversa dietro la dieta di ultranazionalismo di cui siamo stati nutriti. E per chiunque stia iniziando l’anno scolastico, ho solo un suggerimento: tapparsi bene le orecchie.

L’autore è un obbiettore renitente alla leva per motivi politici.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




La Cisgiordania sta per esplodere e Israele fa poco per impedirlo

Amos Harel

4 settembre 2022 – Haaretz

L’accordo nucleare iraniano e la disputa marittima con il Libano proseguono, ma i funzionari della difesa israeliana sono più preoccupati per quello che sta succedendo in Cisgiordania

Quasi tutte le frequenti riunioni sulla sicurezza di Israele si concentrano sul nuovo accordo nucleare fra le potenze mondiali e l’Iran. La disputa sul confine marittimo tra Israele e Libano sta ancora infuriando, accompagnata da minacce violente da parte di Hezbollah. Ma, nelle ultime settimane, in tutti i colloqui con i funzionari della difesa in cima alla lista delle potenziali zone di escalation c’è il contesto palestinese, e in particolare la Cisgiordania.

Questa estate, agli inizi di agosto, nella Striscia di Gaza ci sono stati scontri durati tre giorni. La miccia che li ha accesi è stata l’arresto in Cisgiordania da parte israeliana del comandante del Jihad islamico palestinese. Come le precedenti, l’operazione a Gaza ha evidenziato la limitata capacità delle organizzazioni palestinesi nella Striscia di danneggiare Israele. Il muro costruito da Israele intorno al territorio ne limita notevolmente la penetrazione attraverso i tunnel e lo scudo antimissile Iron Dome [Cupola di Ferro] intercetta la maggior parte dei missili lanciati da Gaza. Hamas ha rivendicato il suo principale successo l’anno scorso durante l’operazione israeliana Guardiano delle Mura quando l’organizzazione ha incoraggiato le violenze sul Monte del Tempio a Gerusalemme e nelle città entro i confini israeliani antecedenti il 1967 dove la popolazione è mista, arabo-ebraica.

Maggiore è il rischio potenziale in Cisgiordania, come si è visto nella seconda intifada e, successivamente, in periodi più brevi, con attacchi di “lupi solitari” per circa sei mesi dall’autunno 2014 e, più recentemente, per circa due mesi questa primavera. La sfida principale, come anche dimostrato quest’anno, è l’impossibilità di impedire completamente ai potenziali terroristi di entrare in Israele dalla Cisgiordania attraverso brecce in alcuni punti nel muro o nella recinzione di separazione. Il risultato: sparatorie e accoltellamenti in Israele e la conseguente maggiore tensione con combattenti palestinesi quando le Forze di Difesa Israeliane [IDF, l’esercito israeliano, ndt.] rispondono con arresti in Cisgiordania.

La più recente ondata di attacchi terroristi è stata fermata a maggio, ma rimpiazzata da aspri e frequenti scontri nel nord della Cisgiordania, nelle zone di Jenin e Nablus. Gli scontri a fuoco durante le operazioni di arresto sono aumentati di dozzine di punti percentuali, come anche i tentativi di attacchi in zone remote contro campi militari e zone civili in Cisgiordania.

Qui abbiamo elencato più di una volta le ragioni: un declino della capacità dell’Autorità Palestinese (ANP) di controllare gli eventi, l’ingresso di organizzazioni locali nel vuoto creatosi, l’esitazione dei meccanismi di sicurezza palestinesi nell’affrontarli e la passività israeliana, espressa anche nella totale paralisi del processo diplomatico (e nella taccagneria quando si tratta di gesti economici). Il timore che questa miscela esplosiva diventi ancora più infiammabile, invischiando Israele e i palestinesi in un altro lungo periodo di escalation, una terza intifada o una versione leggermente più contenuta, emerge in conversazioni con alti funzionari nella sicurezza: il servizio di sicurezza Shin Bet, l’intelligence militare, il Comando Centrale dell’ IDF e l’ufficio del coordinatore delle attività governative nei Territori.

In tutti questi dialoghi si descrive un lento ma quasi certo sprofondare verso il conflitto. L’ANP raramente manda le sue forze di sicurezza nei campi profughi, nei centri delle città e in certi villaggi della Cisgiordania settentrionale. Hamas infiamma la tensione, ma non la controlla. In assenza di attività del meccanismo di sicurezza dell’ANP, l’IDF incrementa le proprie. Nel passato questo metodo è stato descritto come un’efficace “falciatura”: numerosi arresti multipli portano a indagini che a loro volta producono intelligence e altri arresti e gradualmente riducono la portata del terrorismo.

Ma ora si teme che si sia creato un circolo vizioso: la maggior parte degli arresti prende di mira non i veterani fra gli attivisti, ma giovani militanti che hanno sparato contro le forze israeliane. E ogni altra morte di palestinesi durante le azioni dell’IDF intensifica il desiderio di vendetta e trascina altri giovani nel circolo vizioso delle tensioni. L’esercito stima che circa 200 combattenti palestinesi siano stati coinvolti negli scontri recenti, solo a Nablus. Questi sono numeri mai visti in Cisgiordania da anni, probabilmente fin dall’operazione Scudo Difensivo nel 2002, il punto di svolta della seconda intifada. 

Un’altra profonda differenza è la grande quantità di armi presenti oggi in Cisgiordania. Al culmine dell’intifada anche le forze di sicurezza dell’ANP avevano preso parte agli scontri. Fino ad ora questo non è successo, ma le armi automatiche sono molto più comuni nelle strade palestinesi, disponibili a ogni cellula locale. Questo è il risultato di anni di contrabbando dalla Giordania e di furti nel territorio israeliano e dalle basi dell’IDF. In qualche modo il fenomeno è simile a quello che è successo nelle comunità arabe in Israele, dove le pistole sono usate principalmente a scopi criminali, non ideologici. Un funzionario della difesa ha detto ad Haaretz: “Nel corso degli anni la crescita del numero delle armi ricorda quella dei telefonini”.

Le agenzie israeliane di intelligence non possono prevedere se e quando il punto di non ritorno trascinerà la Cisgiordania verso una drammatica escalation. Un allarme strategico lanciato dall’intelligence militare circa sei anni fa è finito nel nulla, ma in questo periodo c’è stato un significativo aumento della frustrazione in Cisgiordania e delle critiche nei confronti del presidente palestinese Mahmoud Abbas, sulla cui successione è in atto uno scontro aperto.

In questo contesto si deve anche citare il Monte del Tempio. L’operazione Guardiano delle Mura è stata scatenata quando i leader di Hamas a Gaza hanno lanciato razzi in risposta agli scontri all’interno del complesso [la Spianata delle Moschee, ndt.] durante il mese di Ramadan, quando i sentimenti religiosi si accendono e ogni divergenza locale sulla moschea Al-Aqsa è vista come una questione di vita o morte. Passato un anno le dispute intorno al sito hanno minacciato di innescare un’altra serie di violenze che poi sono scoppiate ad agosto, ma per altre ragioni.

Il Ramadan arriverà anche il prossimo anno, ma quello che sta succedendo nel frattempo è l’erosione continua dello status quo nel complesso [della Spianata delle Moschee, ndt.] a favore della parte ebraica, in un modo che irrita i musulmani. Ha a che fare con l’erosione della proibizione religiosa ebraica sulle loro visite al sito, accompagnata dalla volontà del governo e della polizia di permettere troppi visitatori. I cambiamenti richiedono un aumento della coordinazione fra Israele, Giordania e il Waqf, l’istituzione religiosa che gestisce il complesso di Al-Aqsa, per rivedere i vecchi accordi la cui storia e le esatte disposizioni sono note a pochi. Abdullah, il re di Giordania, esprime regolarmente la sua collera per la condotta israeliana, ma successivi governi israeliani hanno fatto ben poco a questo proposito. Hanno invece lasciato che i rabbini e le organizzazioni di ebrei che frequentemente visitano il luogo dettino nuove regole inaccettabili per la Giordania e i palestinesi. Come nel passato ciò potrebbe avere risultati drammatici per l’area.

Più sicurezza

Tutto quello qui descritto è ben noto ai leader politici di Israele. Ma guardare sempre alla destra, a quello che dirà il capo dell’opposizione Benjamin Netanyahu, rende difficile per il governo a interim di muoversi per sostenere l’ANP e ancor più riprendere i negoziati di pace.

Sembra che influiscano sulla situazione anche la gara e le rivalità tra il primo ministro Yair Lapid e il ministro della Difesa Benny Gantz (l’unico politico che mantiene ancor contatti diretti e regolari con i leader dell’ANP). Il timore di essere visti come troppo di sinistra paralizza i membri del cosiddetto governo del cambiamento. E bisogna ammettere che persino gli esperti nei vari ministeri del governo, che espongono le loro preoccupazioni in discussioni riservate, non fanno molto per lanciare l’allarme pubblicamente. La luce rossa è accesa: è probabile che a un certo punto ci sarà un’esplosione.

C’è un’altra cosa da tener presente: quando scoppiò la seconda intifada nel settembre 2000, in Cisgiordania vivevano circa 200.000 israeliani. Oggi (secondo l’ufficio centrale di statistica) sono circa 450.000 escludendo i circa 300.000 che stanno nei quartieri di Gerusalemme al di là della Linea Verde [il confine tra Israele e Cisgiordania prima dell’occupazione nel 1967, ndt.]. Come per i palestinesi, una larga parte di loro non ha vissuto di persona la seconda intifada. Il maggiore rischio per la sicurezza a cui sono abituati sono le pietre tirate contro le macchine in autostrada, non gli scontri a fuoco. Nel corso degli anni le colonie in Cisgiordania si sono allargate e in pratica hanno annesso enormi estensioni di terreno come avamposti delle colonie. Un nuovo conflitto in Cisgiordania dovrà garantire la protezione di aree popolate più ampie e la sicurezza costante a molti più israeliani.

Uno strano consenso

Cinquant’anni fa proprio in questo mese il giornalista americano David Halberstam pubblicò “The Best and the Brightest,” [I migliori e i più intelligenti], un classico che documentava il ruolo degli USA nella guerra del Vietnam. Halberstam ha descritto come l’America fosse sprofondata in un conflitto sanguinoso e futile proprio con due presidenti, John Kennedy e Lyndon Johnson, che apparentemente erano circondati dai migliori consulenti.

Potrebbe benissimo essere che il conflitto israelo-palestinese sia più complesso. Inoltre si svolge non a 13.000 chilometri di distanza da casa, ma anzi nel quartiere dall’altra parte della strada. Eppure non è difficile notare alcune somiglianze, a cominciare dall’insistenza con cui si ignora tutto quello che i palestinesi comunicano e segnalano, come se Israele agisse in un vuoto. Questa è l’origine dello strano consenso che è prevalso qui in anni recenti, per cui in Israele, in assenza di un accordo politico sulla soluzione auspicata, sarebbe possibile continuare a gestire il conflitto per sempre, senza subire alcune conseguenze. Questa sembra un’illusione che, alla fine, svanirà davanti alla realtà.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)

 




Pur migliorate, le restrizioni israeliane sui viaggi in Cisgiordania impongono ancora ai visitatori di segnalare relazioni con i palestinesi

Yumna Patel

5 settembre 2022 – Mondoweiss

Sottoposto a pressioni, Israele ha rivisto un elenco di restrizioni draconiane nei confronti degli stranieri in Cisgiordania, ma sempre con la stessa finalità: l’isolamento della società palestinese.

In seguito a pressioni da parte delle autorità politiche statunitensi e europee il governo israeliano ha sottoposto a revisione un elenco di restrizioni draconiane all’ingresso di stranieri nella Cisgiordania occupata, sebbene le organizzazioni per i diritti umani affermino che i regolamenti continuano ad avere la stessa finalità: ingegneria demografica e isolamento nei riguardi della società palestinese

Le restrizioni emendate sono state rese pubbliche domenica sera dal COGAT – l’organismo militare israeliano responsabile dell’attuazione della legge israeliana nei Territori palestinesi occupati – con un documento di 90 pagine dal titolo “Procedure per l’ingresso e il soggiorno degli stranieri nell’area di Giudea e Samaria”, riferendosi al nome biblico usato da Israele per la Cisgiordania.

Le nuove “procedure” del COGAT erano state pubblicate all’inizio di quest’anno, dando luogo ad un’estesa condanna, e inizialmente avrebbero dovuto entrare in vigore a maggio, ma sono state rinviate più volte a causa del ricorso legale dell’organizzazione israeliana per i diritti umani Hamoked.

Le restrizioni emendate pubblicate domenica hanno fatto retromarcia su alcune delle norme più ampiamente criticate, come una precedente disposizione in base alla quale gli stranieri che intrattengano rapporti sentimentali con palestinesi debbano informare le autorità israeliane entro 30 giorni dall’inizio di tale relazione.

Nel nuovo documento è stata anche rimossa una clausola iniziale secondo cui i coniugi stranieri di palestinesi sposati da 27 mesi devono lasciare la Cisgiordania, abbandonando il coniuge e i figli, e trascorrere sei mesi fuori dal territorio per unafase di riflessione”.

È stato inoltre eliminato un limite precedentemente stabilito al numero di studenti e insegnanti stranieri che possono iscriversi alle istituzioni accademiche palestinesi, sebbene siano rimaste le pesanti restrizioni all’ingresso in Cisgiordania nei confronti di studenti e insegnanti stranieri, nonché uomini d’affari stranieri e palestinesi con doppia cittadinanza provenienti dall’estero e in visita nel territorio.

Le nuove regole entreranno in vigore il 20 ottobre e, pare in seguito a pressioni da parte di funzionari statunitensi, saranno sottoposte ad un “periodo di prova” di due anni durante il quale sarà ancora possibile apportare modifiche al regolamento.

Hamoked, l’organizzazione israeliana che ha presentato un ricorso in tribunale contro la normativa, ha affermato che le attuali modifiche costituiscono per lo più dei “cambiamenti estetici”.

“Sono state rimossi dal regolamento alcuni degli aspetti più scandalosi, ma il problema di fondo rimane”, ha sostenuto Hamoked su Twitter.

Israele impedirà a migliaia di famiglie di vivere insieme per ragioni palesemente politiche; l‘esercito israeliano si prende il diritto di gestire anche nei dettagli la società palestinese, interferendo anche con la libertà accademica delle università palestinesi”, afferma l’organizzazione, aggiungendo che continuerà la sua sfida giudiziaria contro il regolamento.

Il significato della revision

Sebbene dal nuovo documento siano state eliminate alcune clausole, come il termine di 30 giorni per notificare al governo una relazione intima con un palestinese, molte delle restrizioni sono rimaste in vigore.

Nella sua nuova versione la normativa ribadisce che se uno straniero inizia una relazione con un palestinese, “il funzionario del COGAT incaricato deve ottenere tale informazione nell’ambito della richiesta di rinnovo o prolungamento del permesso di soggiorno preesistente“.

Inoltre i coniugi dei palestinesi hanno ancora diritto solo a permessi di breve durata che vengono rinnovati – o negati – a discrezione del funzionario COGAT incaricato. Il COGAT si riserva inoltre il diritto di richiedere un deposito fino a 70.000 shekel (~20.000 euro) per garantire che il coniuge straniero lasci il territorio nel caso o nel momento in cui il permesso venga a scadere o venga negato.

In linea con la prassi preesistente, le nuove regole stabiliscono che anche i coniugi stranieri di palestinesi titolari di un documento d’identità della Cisgiordania saranno relegati in Cisgiordania, saranno tenuti a viaggiare attraverso il ponte King Hussein (Allenby) attraverso la Giordania e non potranno viaggiare utilizzando l’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv, a meno che non ricevano un permesso speciale.

Le stesse regole si applicano ai titolari di passaporto straniero che desiderano visitare la famiglia in Cisgiordania.

Come in base alle disposizioni iniziali, i palestinesi-americani e gli altri palestinesi di nazionalità straniera che desiderino recarsi nella Cisgiordania occupata per visitare la famiglia dovranno comunque richiedere al COGAT un’autorizzazione anticipata e saranno tenuti a rivelare le informazioni personali sui parenti che hanno in programma di visitare, insieme ai dati su qualsiasi terreno di cui siano in possesso o che stiano per ereditare all’interno della regione.

Le nuove normative sembrano offrire una misura positiva per i coniugi stranieri, a cui sarebbe concesso di richiedere permessi a lungo termine rinnovabili (27 mesi), che includono più visite dentro e fuori il territorio, cosa attualmente proibita.

Ma anche queste nuove opzioni richiederanno lunghe procedure per le richieste che, coinvolgendo l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), saranno comunque soggette all’approvazione finale da parte di Israele.

Nel complesso, le norme conferiscono ancora al COGAT il potere discrezionale di determinare chi sarà autorizzato a entrare e soggiornare in Cisgiordania, inclusi lavoratori stranieri, volontari, uomini d’affari, amici e familiari di palestinesi, studenti e insegnanti.

Nessuno dei regolamenti COGAT si applica agli stranieri che visitano gli insediamenti illegali ebraico-israeliani in Cisgiordania per motivi di viaggio, studio, lavoro o per avere una relazione intima con un ebreo israeliano.

A giugno Ahmed Abofoul, un avvocato dell’organizzazione palestinese per i diritti umani Al-Haq, ha discusso con Mondoweiss della normativa, descrivendola come “apartheid in atto”.

È una forma di dominazione molto pericolosa e palese“, afferma Abofoul, aggiungendo che “Israele si rende conto che le visite di stranieri nei territori occupati mettono in evidenza [davanti al mondo] le politiche di apartheid di Israele, questa solidarietà con i palestinesi sta danneggiando Israele sul palcoscenico internazionale, e gli israeliani non vogliono che ciò accada”.

L’ambasciatore degli Stati Uniti esprime “preoccupazione”

Dopo mesi di relativo silenzio da parte dell’amministrazione Biden sulla nuova normativa, domenica l’ambasciatore degli Stati Uniti in Israele Tom Nides ha rilasciato una dichiarazione in cui ha espresso alcune sue “preoccupazioni” sui protocolli resi pubblici.

“Da febbraio l’ambasciata degli Stati Uniti a Gerusalemme, l’Ufficio per gli affari palestinesi degli Stati Uniti e io ci siamo decisamente confrontati con il governo di Israele su questi progetti normativi – e continueremo a farlo nei 45 giorni precedenti l’attuazione e durante il periodo di due anni di prova”, ha dichiarato Nides.

Continuo a nutrire preoccupazioni per i protocolli resi pubblici, in particolare per quanto riguarda il ruolo del COGAT nel determinare se le persone invitate dalle istituzioni accademiche palestinesi siano qualificate per entrare in Cisgiordania e il potenziale impatto negativo sull’unità familiare.

È importante garantire che tutta questa normativa sia progettata in coordinamento con le principali parti interessate, inclusa l’Autorità Nazionale Palestinese. Mi aspetto che durante il periodo di prova il governo di Israele apporti gli adeguamenti necessari per garantire la trasparenza e il trattamento giusto ed equo di tutti i cittadini statunitensi e degli altri cittadini stranieri che viaggiano in Cisgiordania”, afferma Nides.

Nides non ha rilevato che Israele non ha potere sovrano sulla Cisgiordania e sui suoi abitanti, poiché il territorio è sotto l’occupazione militare israeliana, un’occupazione ampiamente considerata illegale dalla comunità internazionale.

Il governo israeliano ha perseguito per lungo tempo un programma di esenzione dal visto con gli Stati Uniti, che consentirebbe ai cittadini israeliani di recarsi negli Stati Uniti per soggiorni di breve durata senza dover richiedere un visto in ingresso.

Nell’ambito di un programma di esenzione dal visto Israele dovrebbe garantire che i cittadini americani, compresi i palestinesi-americani, ricevano ai confini israeliani un trattamento giusto e paritario, regola che le autorità israeliane sono state a lungo accusate di violare apertamente.

Il Times of Israel [quotidiano israeliano online in lingua inglese, ndt.] ha citato in forma anonima un alto funzionario dell’ambasciata statunitense che avrebbe affermato che i colloqui in corso con Israele su un programma di esenzione dal visto sono due “percorsi paralleli ma separati” rispetto alle restrizioni COGAT.

Queste norme che il COGAT si accinge a promulgare avranno un effetto sui cittadini americani, così come di altri Paesi. Li esamineremo da vicino e continueremo il confronto con il COGAT e altri settori del governo israeliano mentre ci muoviamo lungo il sentiero verso la reciprocità dei visti”, afferma il funzionario.

Il Times of Israel continua citando le parole del funzionario: “I requisiti di reciprocità dell’esenzione dal visto, quando arriveremo a quel punto, sostituiranno alcune di queste norme COGAT che abbiamo qui elencato”, mentre i funzionari statunitensi sarebbero [impegnati] “in una discussione complessa e delicata” con il governo israeliano, anche sulla questione dell'”estensione dei privilegi reciproci a tutti i cittadini statunitensi, compresi i palestinesi-americani”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)