Human Rights Watch
23 gennaio 2023 – Human Rights Watch
Le direttive di Israele vietano di fare visite, studiare, lavorare
Gerusalemme – Le nuove direttive israeliane per l’ingresso degli stranieri in Cisgiordania rischiano di isolare ulteriormente i palestinesi dai propri cari e dall’intera società civile, ha dichiarato oggi Human Rights Watch. Le disposizioni, entrate in vigore a ottobre 2022 e modificate a dicembre 2022, delineano dettagliate procedure per l’ingresso e il soggiorno di stranieri in Cisgiordania, procedure diverse da quelle per l’ingresso in Israele.
Le autorità israeliane hanno da tempo reso difficile per gli stranieri insegnare, studiare, fare volontariato, lavorare o vivere in Cisgiordania. Le nuove direttive codificano e inaspriscono le precedenti restrizioni, rischiando di rendere ancor più difficile per i palestinesi in Cisgiordania, che già subiscono pesanti limitazioni al movimento imposte da Israele, vivere con i familiari che non hanno una carta di identità cisgiordana e collaborare con studenti, accademici, studiosi ed altri stranieri.
“Rendendo più difficile alle persone soggiornare in Cisgiordania, Israele sta compiendo un nuovo passo verso la trasformazione della Cisgiordania in un’altra Gaza, dove due milioni di palestinesi vivono da oltre 15 anni isolati dal resto del mondo”, ha detto Eric Goldstein, vicedirettore per il Medio Oriente di Human Rights Watch. “Questa politica è finalizzata a indebolire i legami sociali, culturali e intellettuali che i palestinesi hanno cercato di mantenere con il mondo esterno.”
Tra il luglio e il dicembre 2022 Human Rights Watch ha intervistato 13 persone che hanno descritto nei dettagli le difficoltà che hanno incontrato per anni per entrare o soggiornare in Cisgiordania e le loro preoccupazioni riguardo al modo in cui le nuove direttive li danneggeranno. Human Rights Watch ha anche intervistato gli avvocati israeliani che hanno rappresentato chi sfidava le restrizioni. Tra queste persone intervistate vi è uno psicologo americano docente in un’università palestinese, un’inglese madre di due figli che tenta di vivere con suo marito e la sua famiglia palestinese e un palestinese che ha vissuto la maggior parte della sua vita in Cisgiordania ma non ha una carta di identità.
Inoltre a luglio 2022 le autorità israeliane hanno negato a Omar Shakir, direttore di Human Rights Watch per Israele e Palestina, un permesso per entrare in Cisgiordania per una settimana per condurre attività di ricerca e patrocinio, appellandosi all’ampia autorità dell’esercito riguardo agli ingressi. La Corte Distrettuale di Gerusalemme ha confermato il divieto a novembre, in seguito ad un ricorso presentato da Shakir e da Human Right Watch.
Il documento di 61 pagine denominato “Procedura per l’ingresso e il soggiorno degli stranieri in Giudea e Samaria (intendendosi la Cisgiordania)” ha sostituito un documento di procedura di tre pagine redatto nel dicembre 2006. Esso definisce la politica e le procedure dell’esercito israeliano relativamente agli stranieri che cercano di entrare solamente in Cisgiordania, con esclusione di Gerusalemme est, o di estendere il soggiorno per una visita o per “uno scopo specifico”, per esempio studio, insegnamento, volontariato o lavoro. Le direttive sono diverse da quelle per l’ingresso in Israele che vengono normalmente applicate all’aeroporto Ben Gurion e in altri luoghi di ingresso. Chi possiede un permesso per la Cisgiordania ma non ha un visto di ingresso israeliano non è legalmente autorizzato ad entrare in Israele, né nella Gerusalemme est occupata.
Mentre spesso la gente visita la Cisgiordania con normali visti turistici israeliani, agli stranieri in possesso di questi visti non è permesso insegnare, studiare, fare volontariato, lavorare o vivere in Cisgiordania. Le autorità israeliane spesso rifiutano normali visti di ingresso per questi motivi o altri in cui si riconosca o si sospetti una collaborazione con attività filopalestinesi. Il permesso è l’unico modo per molti di soggiornare in Cisgiordania.
Le direttive sulla Cisgiordania consentono che siano rilasciati permessi solo a limitate categorie di visitatori. Alcuni di coloro che possono ottenere i permessi, come i parenti stretti di palestinesi, possono ottenere un’autorizzazione fino a 3 mesi dall’arrivo al ponte di Allenby/Re Hussein tra la Giordania e la Cisgiordania, in attesa di approvazione delle autorità israeliane in loco. Altri, compresi accademici, studenti, volontari e studiosi, devono richiedere dall’estero un permesso per la Cisgiordania, valido fino a un anno, ed ottenerlo prima del viaggio. Le precedenti disposizioni raccomandavano, ma non richiedevano, un accordo preventivo, anche se spesso le autorità israeliane nella pratica richiedevano un’approvazione preventiva. Altri visitatori, quali turisti o chi cerca di far visita alla famiglia allargata o ad amici o di partecipare ad una conferenza, non possono ottenere un permesso per la Cisgiordania.
Col pretesto del “rischio” che gli stranieri “si radichino”, le direttive precludono anche a tutti gli stranieri, tranne le mogli di palestinesi, tutte le vie per rimanere a lungo in Cisgiordania.
Le direttive concedono alle autorità militari israeliane ampia discrezionalità, consentendo che “considerazioni di politica generale” influenzino il processo decisionale e sottolineando che “l’applicazione di questa procedura dovrà essere condizionata alla situazione di sicurezza e alla politica israeliana in vigore, che viene rivista e modificata di volta in volta.”
Nel maggio 2022 l’esercito israeliano ha detto al Jerusalem Post che le disposizioni renderanno l’ingresso in Cisgiordania “più agevole”, probabilmente dettagliando la procedura, e perciò “porteranno beneficio a tutti gli abitanti dell’area.”
Tuttavia tutti coloro che Human Rights Watch ha intervistato hanno parlato di enormi ostacoli burocratici per restare legalmente in Cisgiordania e dell’impatto delle restrizioni sulle proprie vite. Una donna d’affari americana sposata con un palestinese, che era vissuta in Cisgiordania per un decennio e ha chiesto di restare anonima per paura di rappresaglie, ha detto di aver dovuto abbandonare il suo bambino e restare all’estero per diverse settimane nel 2019 dopo che le era stato negato il visto. Ha raccontato che lo stress e la sofferenza la avevano portata a “scoppiare in lacrime davanti alla scuola di mio figlio quando lo ho lasciato senza sapere se lo avrei ancora visto.” Il suo visto è stato ripristinato solo dopo l’intervento di diplomatici.
Se gli Stati hanno ampia discrezionalità riguardo all’ingresso nel proprio territorio sovrano, il diritto umanitario internazionale richiede però alle potenze occupanti di agire nel superiore interesse della popolazione occupata o di mantenere la sicurezza o l’ordine pubblico. Non vi sono evidenti giustificazioni basate sulla sicurezza, l’ordine pubblico o il superiore interesse dei palestinesi per il modo in cui le autorità israeliane pongono significative restrizioni ai volontari, agli accademici o agli studenti per entrare in Cisgiordania o ai familiari di palestinesi per rimanervi a lungo, afferma Human Rights Watch.
Limitando eccessivamente la possibilità delle famiglie di vivere insieme e bloccando l’ingresso di accademici, studenti e operatori di Ong che contribuirebbero alla vita sociale, culturale ed intellettuale in Cisgiordania, le restrizioni di Israele entrano in conflitto con il suo compito, che aumenta durante una prolungata occupazione, di agevolare la vita civile della popolazione occupata.
Questo comporta necessariamente vivere con la propria famiglia. Sia il diritto umanitario internazionale che le leggi sui diritti umani sottolineano l’importanza del diritto alla vita e all’unità della famiglia, incluso il diritto di vivere insieme. Significa anche facilitare il lavoro e l’attività delle università palestinesi, delle organizzazioni e degli affari della società civile e mantenere un rapporto costante con il resto del mondo.
I doveri di Israele in quanto potenza occupante gli impongono di facilitare l’ingresso degli stranieri in Cisgiordania in modo ordinato. Previa una valutazione individuale di sicurezza e in assenza di obblighi di legge, le autorità israeliane dovrebbero come minimo concedere permessi di durata ragionevole agli stranieri che contribuirebbero alla vita della Cisgiordania, compresi i familiari di palestinesi e coloro che lavorano con la società civile palestinese, nonché la residenza ai parenti stretti.
Le restrizioni di Israele incrementano la sofferenza già imposta ai palestinesi in Cisgiordania attraverso il diniego su vasta scala dei diritti di residenza, le ampie restrizioni di movimento e gli attacchi alla società civile palestinese. Questa politica spiana maggiormente la strada alla frammentazione dei palestinesi in differenti aree e aggrava il controllo israeliano sulla loro vita. La severa repressione delle autorità israeliane sui palestinesi, attuata in conformità ad una politica di mantenimento del dominio degli ebrei israeliani sui palestinesi, configura i crimini contro l’umanità di apartheid e persecuzione, come hanno rilevato Human Rights Watch e importanti organizzazioni per i diritti umani israeliane, palestinesi e internazionali.
“Un esercito occupante non ha alcun diritto di decidere quali docenti siano qualificati per insegnare nelle università palestinesi, di impedire ai difensori dei diritti umani di interagire con la popolazione occupata o di separare crudelmente le famiglie”, dice Goldstein. “Gli Stati americani ed europei dovrebbero far pressione sulle autorità israeliane perché rendano più facile, non più difficile per le persone, compresi i propri stessi cittadini, costruire rapporti significativi con le comunità della Cisgiordania.”
Richiedere permessi e proroghe per la Cisgiordania
Le disposizioni per l’ingresso in Cisgiordania sono state originariamente pubblicate nel febbraio 2022 e modificate a settembre e poi ancora a dicembre 2022. Esse identificano alcune categorie di persone, compresi accademici, studenti, volontari e “studiosi e consulenti in singole discipline e personale direttivo” che sono tenute a richiedere anticipatamente a Israele, direttamente all’esercito, presso un’ambasciata israeliana all’estero o attraverso l’Autorità Nazionale Palestinese, i permessi (per entrare in Cisgiordania) a scopi specifici.”
La procedura per ottenere un permesso implica fornire informazioni personali importanti alle autorità israeliane. Diverse persone che hanno passato del tempo in Cisgiordania hanno detto che questa procedura scoraggia del tutto le persone a presentare richiesta, dato il numero record di dinieghi di ingresso da parte delle autorità israeliane a coloro che sono impegnati nel sostegno ai palestinesi. Come risultato, e alla luce della difficoltà di ottenere permessi per la Cisgiordania, alcuni programmi della Cisgiordania hanno a lungo consigliato i partecipanti internazionali di richiedere un visto turistico israeliano invece di un permesso per la Cisgiordania e di evitare di dichiarare il motivo della loro visita in modo da aumentare le possibilità di entrare.
Tra gli stranieri che possono ottenere il permesso di visitatori all’arrivo in Cisgiordania vi sono la moglie, il figlio o il parente di primo grado di un palestinese in Cisgiordania, uomini d’affari o investitori, giornalisti accreditati dalle autorità israeliane o coloro che presentano “situazioni eccezionali” e con “speciali situazioni umanitarie” che non hanno avuto precedenti problemi collegati al visto.
Le direttive limitano a tre mesi i permessi di visita di breve durata ottenuti al ponte di Allenby. I permessi possono essere rinnovati “per motivi eccezionali per un massimo di altri 3 mesi.” Ogni ulteriore proroga “necessita l’approvazione del funzionario autorizzato del COGAT sulla base di speciali considerazioni che vanno documentate.”
“I permessi per scopi specifici” ottenuti precedentemente all’arrivo durano un anno e le proroghe hanno copertura di 27 mesi, e chiunque voglia fermarsi più a lungo deve lasciare la Cisgiordania e fare nuovamente richiesta dall’estero. Le direttive pongono agli accademici e studiosi stranieri un limite massimo di cinque anni complessivi in Cisgiordania, una restrizione che non era scritta nelle direttive precedenti. Chi intende fermarsi più a lungo può fare richiesta di nuovo ingresso dopo nove mesi di lontananza, ma le direttive autorizzano proroghe addizionali fino ad altri cinque anni solo “in casi eccezionali e per motivi speciali.”
I palestinesi in Cisgiordania possono fare richiesta a Israele attraverso un procedimento separato di ricongiungimento familiare tramite l’Autorità Nazionale Palestinese per ottenere carte di identità palestinesi rilasciate per le loro mogli e altri parenti in “circostanze eccezionali”, che consentirebbero loro di rimanere a lungo termine. Le autorità israeliane hanno esaminato 35.000 richieste alla fine degli anni 2000 e parecchie migliaia nel 2021 e 2022 come gesto nei confronti della ANP, ma a parte questo hanno di fatto congelato il processo.
Le direttive delineano una procedura per rilasciare permessi di un anno rinnovabili per le mogli straniere di palestinesi che hanno in corso una richiesta di ricongiungimento familiare che l’ANP ha inviato a Israele. Tuttavia stabiliscono che non saranno approvate richieste che non siano conformi alla complessiva “politica dei vertici politici”.
Le direttive danno alle autorità il potere di rivalutare le qualifiche accademiche dei docenti o ricercatori presso le università palestinesi, compresa la verifica che chi non è in possesso di diploma PhD abbia “competenze speciali”, e quali professioni siano sufficientemente “richieste o necessarie” a garantire di poter concedere a stranieri di lavorare al loro interno.
Un amministratore dell’università di Betlemme ha detto che il 70% del corpo docente in uno dei programmi della scuola viene dall’estero e l’amministrazione teme che le regole renderanno ancor più difficile assumere e trattenere i docenti. Un portavoce dell’università di Birzeit ha detto che tra il 2017 e il 2022 hanno perso otto membri del corpo docenti a causa delle restrizioni all’ingresso in Cisgiordania, il che hanno detto aver loro causato la perdita di eccezionali competenze ed aver inficiato la qualità dell’educazione fornita dalla scuola.
Un professore, Roger Heacock, nel 2018 ha lasciato la Cisgiordania con la sua famiglia dopo 35 anni, 33 dei quali spesi nell’insegnamento della storia a Birzeit, quando le autorità israeliane non hanno risposto in tempo alla sua richiesta di rinnovo del permesso, abbandonando gli studenti laureati cui sovrintendeva. Ha detto che quell’esperienza “ci ha spezzato il cuore. Non l’ho superata.”
Le direttive non si applicano agli stranieri che vogliono visitare Gerusalemme est occupata da Israele o le colonie israeliane in Cisgiordania, che sono illegali ai sensi del diritto umanitario internazionale. Per entrare in quelle aree devono ottenere un visto d’ingresso israeliano.
Le direttive non si applicano neanche a coloro che hanno nazionalità, sono nati o “hanno documenti” di Giordania, Egitto, Marocco, Bahrein e Sud Sudan, come neanche ai cittadini di Stati che non hanno relazioni diplomatiche con Israele. Queste persone devono fare richiesta ad Israele tramite l’Autorità Nazionale Palestinese sulla scorta di una separata “Procedura di rilascio di permessi per visite di stranieri all’Autorità Palestinese”, che stabilisce che i permessi devono essere rilasciati solo in “casi eccezionali e umanitari”. Un’avvocata israeliana, Leora Bechor, ha descritto questi permessi come “quasi impossibili” da ottenere. Non esiste valida ragione per rendere più difficile entrare in Cisgiordania soprattutto ai cittadini della Giordania, che sono per la maggior parte palestinesi, rispetto ai cittadini di altri Stati, dichiara Human Rights Watch.
Casi individuali
“Ayman”
Nato in Europa a metà degli anni ’90 da padre palestinese della Cisgiordania e madre europea, “Ayman” ha vissuto in Cisgiordania la maggior parte della sua vita. Ha chiesto che il suo vero nome non fosse rivelato per paura di ritorsioni. Racconta che suo padre lasciò la Cisgiordania negli anni ’70 per evitare l’arresto per le sue attività politiche, e fu costretto ad abbandonare i suoi documenti di identità. Fece rientro nel 1997, quando Ayman era bambino, insieme ad altri autorizzati a tornare all’indomani degli accordi di Oslo, ma le autorità israeliane non gli restituirono immediatamente la sua carta d’identità. Ogni membro della famiglia di Ayman ha richiesto carte d’identità palestinesi, ma solo suo padre ne ha ricevuta una all’inizio del 2022, a seguito di una domanda di ricongiungimento familiare presentata dal nonno di Ayman nel 2009.
Senza una carta d’identità palestinese, per il suo status giuridico Ayman fa affidamento sui visti rilasciati sul suo passaporto europeo in Cisgiordania, anche se la sua famiglia vive lì da generazioni e lui ha vissuto lì la maggior parte della sua vita. Ha detto che “la Palestina per me è casa”, poiché “la mia infanzia, la scuola, i compagni di classe, gli amici, la famiglia allargata, i parenti e i miei ricordi sono tutti qui” eppure “risulto trovarmi in Palestina come turista, come cittadino europeo”.
Da bambino, dice Ayman, ha ricevuto i visti grazie al lavoro di sua madre in un programma affiliato a un’ambasciata straniera. Nel 2015, tuttavia, afferma che le autorità israeliane rifiutarono di rinnovargli il visto, sulla base del fatto che lui, a 20 anni, non poteva più rivendicare la dipendenza da sua madre. Poco dopo partì per studiare all’estero per un semestre. Tornò nel dicembre 2015 e dice di essere riuscito a ottenere diversi visti di breve durata che gli hanno permesso di rimanere in Cisgiordania nel 2016 e gran parte del 2017 in modo da completare gli studi universitari.
Nel settembre 2017 ha conseguito la laurea in Europa e si è recato in Cisgiordania tre volte come turista. Afferma di non aver potuto visitare la sua famiglia per due anni, tra marzo 2020 e febbraio 2022, a causa soprattutto di una normativa israeliana rivolta a limitare l’ingresso di stranieri in Cisgiordania a fronte della pandemia di Covid-19.
Ayman è preoccupato per il fatto che le nuove linee guida sugli ingressi gli rendono praticamente impossibile vivere in Cisgiordania creandogli persino delle difficoltà a visitarla, anche attraverso il limite di soggiorni di tre mesi salvo circostanze eccezionali e l’imposizione obbligatoria di periodi durante i quali deve partire e stare lontano dalla Cisgiordania. Per quanto le linee guida consentano l’ingresso a coloro che, come Ayman, stiano andando a trovare parenti di primo grado, si preoccupa di cosa potrebbe accadere quando suo padre, l’unico membro della sua famiglia con un documento d’identità palestinese, morirà. “Potrei perdere il diritto di ingresso, dal momento che non avrò più un parente di primo grado, e con queste norme non potrò nemmeno entrare come turista”, dice Ayman.
“Margaret”
“Margaret”, una cittadina britannica di 46 anni che ha chiesto di non rivelare la sua reale identità per paura di ritorsioni, vive a Ramallah con il marito palestinese, che ha un documento di identità della Cisgiordania, e i loro due figli, di 9 e 6 anni. Dice di vivere in Cisgiordania dal 1998 e di aver sposato suo marito nel 2005. Poco dopo, racconta Margaret, le autorità israeliane le hanno negato l’ingresso, nel quadro di una politica sistematica dell’epoca che, secondo il quotidiano israeliano Haaretz, ha colpito migliaia di coniugi stranieri.
Margaret è riuscita a tornare nove mesi dopo e da allora è rimasta pressoché stabilmente in Cisgiordania. Riferisce di aver richiesto nel 2006 un documento d’identità palestinese nell’ambito del percorso di ricongiungimento familiare, ma di non averlo ricevuto. Invece ha usufruito di visti per soggiorni di breve durata, originariamente di un anno ma più recentemente di sei mesi, dovendo periodicamente lasciare la Cisgiordania per mantenere il suo status. Con tali visti il lavoro non è consentito, ma Margaret ha comunque lavorato senza mai rivelarlo alle autorità israeliane.
Quando nell’agosto 2021 le autorità israeliane hanno informato Margaret che doveva lasciare la Cisgiordania entro gennaio 2022, per rientrarvi per mantenere il suo status, temeva che le procedure aggiuntive imposte dalle autorità israeliane durante la pandemia di Covid-19 potessero bloccare la sua possibilità di tornare in famiglia. In particolare, le autorità israeliane richiedevano agli stranieri che entravano in Cisgiordania di coordinare con loro i loro piani, una prassi che, Margaret aveva sentito, per altre persone aveva richiesto tre o quattro mesi. Margaret dice che sentiva di non poter sopportare di stare lontana dai suoi figli così a lungo durante l’anno scolastico.
L’Autorità nazionale palestinese aveva annunciato alla fine del 2021 che le autorità israeliane avevano dato il via libera al rilascio di migliaia di documenti d’identità per le persone bloccate in situazioni come la sua. Nella speranza di essere tra coloro che avrebbero ricevuto un documento d’identità o in caso contrario di poter risolvere la questione con l’aiuto di un avvocato, ha preso la difficile decisione di sospendere il visto.
Margaret non ha mai ricevuto un documento d’identità e quindi è priva di status giuridico. Di conseguenza, afferma che dal gennaio 2022 “non lascio Ramallah. Non posso correre rischi”.
Susan Power
Susan Power, una cittadina irlandese di 43 anni, conduce ricerca e patrocinio legale per al-Haq, una delle principali organizzazioni palestinesi per i diritti umani. Power è entrata a far parte di al-Haq, il cui quartier generale è a Ramallah in Cisgiordania, nel 2013. Con un dottorato di ricerca incentrato sulla legge dell’occupazione, Power ha una competenza unica che ben si adatta al lavoro di al-Haq, che da più di 40 anni è incentrato sulla documentazione delle violazioni dei diritti umani derivanti dalla prolungata occupazione israeliana.
Power afferma che per entrare in Cisgiordania ha fatto ricorso ai visti per visitatori, che è stata in grado di prorogare. Ha detto che per ottenere il visto doveva mostrare un contratto di lavoro, anche se il visto non le dà il permesso di lavorare. Descrive il pesante iter che deve regolarmente affrontare per entrare, compreso il dover pagare a volte obbligazioni fino a 30.000 NIS (7.796 euro) per garantire che se ne andrà alla scadenza del visto. Dice che ogni volta si preoccupa che non le venga consentito l’ingresso e, quando si trova in Cisgiordania con un visto valido, generalmente rifiuta di viaggiare per visitare famiglie, partecipare a riunioni o per qualsiasi altro scopo al di fuori delle emergenze.
Le nuove linee guida renderanno le cose ancora più difficili, dice Power, richiedendole di coordinare i suoi piani e ottenere un visto in anticipo dall’ambasciata israeliana nel suo paese d’origine. Teme che nell’ambito di questo iter non le venga concesso un visto, data l’assenza nelle linee guida di disposizioni esplicite riguardanti il lavoro delle organizzazioni per i diritti umani e il limite di cinque anni per gli stranieri che vivono in Cisgiordania. Le autorità israeliane hanno anche messo al bando al-Haq, dichiarandola nel 2021 una “associazione illegale” ai sensi della legge militare applicabile in Cisgiordania e una “organizzazione terroristica” ai sensi della legge israeliana.
Queste restrizioni rendono più difficile per le organizzazioni della società civile palestinese attrarre e assumere esperti stranieri come Power. Anche se gli esperti sono in grado di entrare in Cisgiordania, “un’organizzazione non può funzionare o operare senza sapere se i suoi lavoratori potranno tornare” ogni qualvolta se ne vanno, afferma Power.
Power ha lasciato la Cisgiordania a dicembre, prima della scadenza del suo visto alla fine dell’anno. Dice di aver paura che non le sia permesso di tornare.
“Laura”
“Laura”, una cittadina statunitense di 57 anni che ha chiesto di non rivelare il suo vero nome per paura di ritorsioni, ha visitato per la prima volta la Cisgiordania nel 2012. È una psicologa clinica e ha detto che per due anni è tornata periodicamente per partecipare a conferenze e lavorare come consulente a breve termine, ottenendo il visto per visitatori all’arrivo all’aeroporto Ben Gurion. Nell’estate del 2014 ha deciso di trasferirsi con il figlio di 10 anni in Cisgiordania per lavorare a tempo pieno con bambini a rischio e insegnare in un’università. Ha ottenuto un visto sulla base del suo contratto con l’università, anche se il visto le proibisce formalmente di lavorare, e ha vissuto in Cisgiordania, rinnovando il visto ogni anno, per i successivi quattro anni.
Riferisce che mantenere il suo status giuridico é stato stressante, anche per la necessità di aspettare per mesi i documenti suoi o di suo figlio. “L’incertezza, niente di chiaro, la burocrazia e la sensazione di mancanza di sicurezza durante il tempo di attesa, dopo aver fatto tutte le scartoffie, passato tutto al dettaglio”, dice.
Nell’autunno del 2017 Laura ha chiesto il prolungamento del visto, ma le autorità israeliane non hanno risposto per mesi e nell’aprile 2018 le hanno restituito il passaporto senza una decisione o un nuovo visto. Senza status giuridico, ha deciso nel maggio 2018, alla fine dell’anno scolastico di suo figlio, di lasciare la Cisgiordania. Afferma che all’Allenby Crossing le forze israeliane le hanno detto che non poteva tornare e l’hanno rimproverata pubblicamente per essersi trattenuta oltre la scadenza del visto. “Mi hanno detto che avevo rovinato le possibilità di mio figlio di tornare qui e gli avevo rovinato la vita”, dice.
È tornata negli Stati Uniti e ha assunto un avvocato israeliano per aiutarla a ottenere il permesso di vivere di nuovo in Cisgiordania. Dice che “ho scelto di lottare per il mio visto perché la Cisgiordania è la nostra casa e la nostra vita. È dove abbiamo vissuto per anni, dove mio figlio è cresciuto e ha stretto amicizie. Ha pianto per tutto il tempo dopo che ci è stato detto che non saremmo potuti tornare indietro. Era lì da quando aveva 10 anni. Ho lasciato la mia carriera e tutti i nostri averi nella nostra casa, la sua PlayStation, la sua bicicletta e i nostri abiti“.
Grazie agli sforzi dell’avvocato, Laura e suo figlio sono riusciti a tornare alla fine del 2018, dopo aver versato una cauzione che sarebbe stata restituita solo quando avrebbe lasciato la Cisgiordania, e ad insegnare per alcuni mesi. Ma, data la loro persistente impossibilità di rinnovare i loro visti e i costi crescenti, anche per gli avvocati, Laura sentiva di non avere altra scelta che vendere tutto e tornare negli Stati Uniti nel dicembre 2019. Da allora è tornata [in Cisgiordania] solo una volta, con un visto di 30 giorni che le autorità israeliane le hanno concesso a condizione che pagasse una cauzione di 30.000 shekel (7796 euro) da restituire solo quando avesse lasciato la Cisgiordania.
Dato che le nuove linee guida impediscono agli stranieri la permanenza in Cisgiordania per più di cinque anni al di fuori di circostanze eccezionali, afferma che tali norme le impediscono effettivamente di rimanere più a lungo in Cisgiordania. Continua a insegnare per l’università a distanza, poiché afferma che nessun altro ha il background necessario per tenere i suoi corsi.
Omar Shakir
Nel luglio 2021 Omar Shakir, il direttore di Human Rights Watch per Israele e Palestina, ha chiesto all’esercito israeliano un permesso per entrare in Cisgiordania per una settimana per incontrare il personale di Human Rights Watch dell’area, informare i diplomatici dell’Unione Europea in risposta al loro invito e svolgere ricerche, anche sugli abusi da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese. Shakir ha cercato di svolgere di persona un lavoro che non era stato in grado di svolgere da quando le autorità israeliane lo hanno espulso da Israele nel novembre 2019, affermando che la sua attività di difesa violava una legge del 2017 che vieta l’ingresso in Israele a persone che sostengono il boicottaggio di Israele o dei suoi insediamenti nella Cisgiordania occupata. Né Human Rights Watch né Shakir come suo rappresentante hanno mai chiesto il boicottaggio di Israele.
Dopo mesi passati senza ricevere una risposta affermativa o negativa, nell’aprile 2022 Shakir e Human Rights Watch hanno intentato una causa presso il tribunale distrettuale di Gerusalemme contro l’esercito israeliano. Nel luglio 2022, l’esercito ha respinto la richiesta, citando “un’ampia discrezionalità” dell’Unità per il coordinamento delle attività governative dei Territori per quanto riguarda l’ingresso in Cisgiordania di cittadini stranieri e una clausola nelle linee guida sull’ingresso in Cisgiordania secondo cui “tutte le relative disposizioni sono soggette alla politica del governo”.
Nella lettera dell’esercito a Shakir si rileva che “la politica del governo in questa materia (che è stata inserita nella legislazione primaria in Israele) è quella di vietare la concessione di qualsiasi tipo di visto o permesso di soggiorno a persone che consapevolmente lanciano un appello pubblico al boicottaggio dello Stato di Israele o una qualsiasi delle sue istituzioni o qualsiasi area sotto il suo controllo” e si cita la preoccupazione che Shakir possa utilizzare la sua visita “per promuovere il boicottaggio di Israele e delle entità che operano in Israele e nell’area della Giudea e della Samaria [ovvero Cisgiordania, ndt.]”. La decisione, in effetti, estende alla Cisgiordania occupata il divieto di ingresso in Israele per presunto sostegno ai boicottaggi.
Ad agosto Shakir e Human Rights Watch hanno presentato una petizione modificata sostenendo che l’esercito israeliano è andato oltre la sua autorità ai sensi del diritto internazionale umanitario, che limita gli interventi degli occupanti ad azioni che mantengano la sicurezza o l’ordine e l’incolumità pubblici o siano finalizzate al migliore interesse della popolazione occupata. Citando la discrezionalità più ristretta che un esercito di occupazione ha sull’ingresso nel territorio occupato rispetto a un Paese sul suo territorio sovrano, la petizione afferma che il diritto umanitario internazionale non consente all’esercito israeliano di negare l’ingresso in Cisgiordania per presunto sostegno ai boicottaggi. Sostiene che negare l’ingresso ai difensori dei diritti umani mina l’interesse pubblico dei residenti della Cisgiordania, che dovrebbero avere il diritto di coinvolgere rappresentanti delle organizzazioni internazionali per i diritti umani.
A novembre il tribunale distrettuale di Gerusalemme ha confermato il diniego del governo, stabilendo che il divieto di ingresso basato sul presunto sostegno al boicottaggio rientra nell’ampia autorità che l’esercito ha di mantenere “l’ordine pubblico e la sicurezza” per i residenti del territorio occupato. La sentenza cita il presunto danno che le attività di boicottaggio arrecano ai coloni israeliani, che considera parte della popolazione locale nonostante il divieto del diritto umanitario internazionale di trasferire la popolazione dell’occupante nel territorio occupato, e ai lavoratori palestinesi che lavorano negli insediamenti coloniali. Indica inoltre le disposizioni delle linee guida sull’ingresso in Cisgiordania che consentono all’esercito di prendere decisioni basate su considerazioni politiche e di altro tipo e che negano qualsiasi “diritto acquisito” ai cittadini stranieri di entrare in Cisgiordania, che l’esercito ha dichiarato zona militare chiusa nella sua interezza.
Sebbene il rifiuto di Israele di consentire la visita di Shakir non abbia causato tante difficoltà quanto il rifiuto di concedere permessi estesi a un membro di una famiglia palestinese o a un professore straniero a lungo termine, illustra come Israele abusi della sua autorità per controllare l’ingresso di stranieri nel territorio in cui non ha sovranità.
(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta e Cristiana Cavagna)