Quando il sionismo si spacca: Israele e il monito della storia coloniale

David Heartst

26 gennaio 2023 – Middle East Eye

La divergenza tra il progetto delle truppe d’assalto sioniste per la creazione di uno Stato ebraico e la tradizione sionista è stata tantissime volte nascosta sotto il tappeto. Oggi sta venendo prepotentemente allo scoperto.

La classe politica israeliana non ha saputo dare nessuna risposta [alla domanda]: “Chi è al comando?”

[Tale domanda] costituiva una provocazione suscitata dalla acuta sensazione che gli ebrei avessero perso il controllo sui palestinesi che vivevano nel loro Stato. Ma a poche settimane dall’ultima reincarnazione di Benjamin Netanyahu a capo del governo più estremista nella storia di Israele milioni di israeliani si stanno ponendo una domanda simile: chi abbiamo al comando?

Un ministro della giustizia che intende neutralizzare l’autorità e l’indipendenza giudiziaria? Un ministro delle finanze che mette in dubbio il diritto degli immigrati russi a essere considerati ebrei? Un ministro della sicurezza nazionale il cui primo atto è stato l’assalto alla moschea di Al-Aqsa? 

In verità, le manifestazioni di massa riguardano solo la prima delle tre questioni, anche se la questione dell’identità russa è abbastanza esplosiva – Bezalel Smotrich l’ha definita una bomba a orologeria ebraica.

I palestinesi sono stati ancora una volta esclusi dalla rivolta sionista liberale. Dopo che alcune bandiere palestinesi sono apparse nel mare di quelle bianche e blu durante le prime proteste di massa gli organizzatori si sono affrettati a rinunciare a una presenza palestinese. Ciò nonostante, i sionisti liberali hanno avuto un assaggio di cosa significhi essere palestinesi nelle mani della nuova élite – il movimento nazionalista religioso dei coloni.

È vero, la battaglia si inquadra come una lotta contro i fascisti a favore della democrazia. Non si trasforma, almeno per ora, in un dibattito sulla crudeltà quotidiana e sul costo umano del sostegno allo progetto sionista in sé. Ma quelle domande cominciano ad emergere.

Leggete questo commento pubblicato da Yedioth Ahranoth, un giornale di centro fedele alla linea ufficiale israeliana sull’occupazione: “La verità scomoda è che non può esserci democrazia insieme a un’occupazione, non può esserci democrazia in un Paese la cui politica economica consente ai forti di fare un balzo in avanti mentre i deboli restano indietro e non può esserci democrazia in un luogo dove gli arabi sono tenuti fuori dalla scena”.

Chi non riesce ad affrontare questi problemi in modo chiaro e coerente fallirà anche nel suo sforzo assolutamente giustificato di fermare una parte del processo. La scomoda verità è che chiunque voglia portare un milione di persone nelle strade per scuotere il paese in risposta al piano di Levin non può balbettare luoghi comuni sul “restringimento del conflitto” e sull’essere “né di destra né di sinistra”.

Un rapporto complesso

Il rapporto del sionismo tradizionale con il movimento dei coloni è sempre stato più complesso e ricco di sfumature rispetto alla sua consueta rappresentazione come divisione tra centro ed estrema destra. E quando il centro è al comando fa molto peggio che voltarsi dall’altra parte. Molto peggio.

Gli insediamenti si sono moltiplicati sotto i governi laburisti. Esprimere orrore per personaggi come Ben Gvir incaricati di governare la Cisgiordania occupata significa ignorare il sangue palestinese che gronda dalle mani dell’ex primo ministro Yair Lapid.

L’anno scorso è stato il più sanguinoso dalla Seconda Intifada con 220 morti tra cui 48 minori.

Denunciare gli attacchi ai giudici israeliani “di sinistra” significa dimenticare che gli attacchi dei coloni sono rimasti impuniti – e anche nel raro caso di una condanna continuano a rimanere nella stragrande maggioranza impuniti. Fino ad ora, il rapporto tra il sionismo liberale e il terrorismo ebraico è stato simbiotico sia prima che dopo l’assassinio di Yitzhak Rabin nel 1995 [allepoca Rabin era primo ministro e fu assassinato da un estremista israeliano, ndt.].

Questo è molto chiaro nelle testimonianze dei successivi capi dello Shin Bet. Quando il servizio di sicurezza interna ha catturato dei terroristi nell’atto di piazzare negli autobus palestinesi bombe al semtex [esplosivo al plastico, ndt.] che avrebbero provocato un eccidio di massa, si è imbattuto anche nei piani per far saltare in aria la moschea di Al-Aqsa.

Carmi Gillon, a capo dello Shin Bet dal 1994 al 1996, intervistato nel documentario The Gatekeepers [I guardiani, ndt.], ha dichiarato: “Dopo che smascherammo la Jewish Underground [o makhteret, organizzazione terrorista di destra ebraica, ndt.] il primo ministro Shamir definì la mia unità il diamante della corona. Abbiamo ricevuto complimenti e sostegno da tutte le parti. Iniziarono le pressioni a loro favore. Furono processati. Tre di loro ebbero l’ergastolo, altri condanne diverse. Tutti uscirono di prigione molto velocemente. Tornarono a casa come se niente fosse. Tornarono ai loro precedenti incarichi, alcuni ad incarichi anche più elevati. La Knesset [parlamento israeliano, ndt.] rilasciò l’intera Jewish Underground. La legge di clemenza verso la Jewish Underground fu firmata da Yitzhak Shamir come primo ministro di Israele. Non si trattò solo di pochi membri dell’opposizione”.

Per lo Shin Bet l’assassinio di Rabin fu un incidente automobilistico al rallentatore. In quella circostanza emerse per la prima volta Ben Gvir. Apparve in televisione brandendo lo stemma del cofano della Cadillac che era stato rubato dall’auto di Rabin: “Siamo arrivati alla sua macchina e arriveremo anche a lui”.

Yaakov Peri, capo dello Shin Bet dal 1988 al 1994, ha detto che per lui l’assassinio di Rabin ha cambiato il mondo intero: “Improvvisamente ho visto un Israele diverso. Non ero consapevole dell’intensità degli abissi, dell’odio e delle fratture tra di noi. Come percepiamo il nostro futuro? Cosa abbiamo in comune? Perché siamo venuti qui? Cosa vogliamo diventare? Tutto ciò era evidente e tutto è andato in pezzi.”

C’è un senso di amarezza in tutte e sei le interviste con i capi dello Shin Bet. Non si sentono solo delusi dai governi successivi. Si sentono traditi e lo dicono apertamente. Nel 1996, quando l’assassino di Rabin, Yigal Amir, fu condannato, il 10% degli israeliani disse che avrebbe dovuto essere rilasciato; nel 2006, tale sostegno era aumentato al 30%.

Ma il rapporto non è più simbiotico. L’ascesa al potere di Ben Gvir e Smotrich non è uno scherzo della natura, un incidente della politica. Non è Trump. Né è un’insurrezione del 6 gennaio.

Il conflitto tra il progetto delle truppe d’assalto sioniste per la creazione di uno Stato ebraico dal fiume [il Giordano, ndt.] al mare [Mediterraneo, ndt.] e la visione tradizionale sionista, sia in Israele che all’estero, è stato intrinsecamente latente sullo sfondo fin dalla creazione dello Stato di Israele stesso.

È presente da quando Rabin, in qualità di comandante del neonato esercito israeliano, ordinò alle sue truppe di aprire il fuoco su una nave mercantile che stava scaricando armi per l’Irgun [gruppo paramilitare sionista ndt.], uccidendo 16 combattenti. Un futuro primo ministro, Menachem Begin, fu portato a terra ferito.

Questa spaccatura è stata nascosta tante volte sotto il tappeto. Oggi sta venendo prepotentemente allo scoperto.

Il modello algerino

Se esiste un parallelo storico con la scissione che sta spaccando il sionismo, non è con il Sud Africa ma con l’Algeria.

I coloni francesi, conosciuti come i pied-noirs, si trovavano in Algeria dal XIX secolo. Il Paese veniva trattato come un’estensione del Paese continentale piuttosto che una colonia in Africa. “Algeri fa parte della Francia tanto quanto la Provenza”, dicevano tra loro.

Fin dall’inizio, i “colons” furono parte integrante del progetto coloniale francese. Il maresciallo Thomas-Robert Bugeaud, governatore generale dell’Algeria, proclamò all’Assemblea nazionale francese nel 1840: “Ovunque (in Algeria) ci sia acqua dolce e terra fertile, là bisogna collocare dei coloni, senza preoccuparsi a chi appartengono queste terre.“

I primi fermenti del dopoguerra concernenti richieste algerine per una parità di cittadinanza furono affrontati con dei tentativi di riforma. Parigi concesse la cittadinanza a 60.000 persone in base a ciò che venne definito un criterio “di merito”, e nel 1947 un parlamento con una camera per i pied-noirs e un’altra per gli algerini. Tuttavia, il voto del pied-noir era considerato valere sette volte il voto di un algerino.

Impegnati per quattro anni in una brutale guerra d’indipendenza il cui bilancio di vittime la Francia – fino ad oggi – continua a sottostimare (l’Algeria parla di 1,5 milioni di morti, mentre la Francia dice che furono uccisi da entrambe le parti 400.000 persone), i pied-noirs ebbero la simpatia e il supporto dell’esercito e degli apparati di sicurezza francesi.

E’ istruttivo su quest’epoca il capitolo di Henry Kissinger, nel suo libro Leadership sul generale Charles De Gaulle, che definisce uno dei sei grandi leader con cui ha interagito durante la sua carriera di diplomatico.

Il rapporto di De Gaulle con i coloni si evince da un discorso in cui diceva loro “vi capisco” per il fatto di essere presi di mira nella stessa Francia per la loro campagna terroristica. In quel momento l’umore pubblico in Francia era cambiato e la Francia si rivoltava contro i coloni. Il punto di svolta fu la mutilazione di una bambina di quattro anni nell’esplosione di una bomba a Parigi nel 1962.

Prima di allora, l’Organizzazione Armee Secrete (OAS) [organizzazione paramilitare clandestina francese il cui slogan era “l’Algérie française”, ndt.] godeva del sostegno di 80 deputati all’Assemblea nazionale.

Ciò provocò una manifestazione contro l’OAS, che la polizia represse uccidendo otto persone. Ai loro funerali parteciparono centinaia di migliaia di persone e un cessate il fuoco tra la Francia e il Fronte di liberazione nazionale (FLN) [movimento rivoluzionario algerino che diresse la guerra d’indipendenza, ndt.] trasformò una lotta a tre in un conflitto a due che l’OAS era destinata a perdere.

Naturalmente ci sono tante differenze tra i pied-noirs e i coloni ebrei così come sono molte le somiglianze. La religione non svolse un ruolo determinante nel progetto francese. Non c’era stato in Europa alcun eccidio su larga scala dei francesi che giustificasse la creazione di quella colonia.

Tuttavia, l’elemento essenziale del confronto rimane valido. Quando l’OAS si mise in proprio l’intero progetto fu destinato a perdere. Un altro punto vitale per i palestinesi, né la resistenza algerina né la resistenza sudafricana hanno vinto militarmente. Erano entrambe completamente prive di armi. In entrambi i casi a vincere la battaglia è stata la perseveranza, il rifiuto di arrendersi.

Nessuno sta dicendo, tanto meno io, che Israele stia per crollare come fece il dominio francese in Algeria. Ma stanno comparendo le prime grandi crepe nel progetto sionista.

Le prime crepe

Ben Gvir ha fatto di più per delegittimare Israele da quando è salito al potere poche settimane fa che anni di campagna del movimento BDS. Gli ex capisaldi del sostegno ebraico di New York a Israele stanno rilasciando dichiarazioni che implorano Netanyahu di cambiare rotta.

Eric Goldstein, il capo della più grande federazione ebraica del Nord America, ha “rispettosamente implorato” Netanyahu di mantenere le precedenti promesse di bloccare le leggi che minacciano l’indipendenza del sistema giudiziario israeliano.

Le federazioni ebraiche non rilasciano quasi mai tali dichiarazioni pubblicamente per il semplice motivo che il settore dei servizi sociali israeliani è uno dei loro maggiori beneficiari.

Ovviamente Netanyahu farà tutto ciò che è in suo potere per giocare la carta internazionale. Lo ha fatto in Giordania, dichiarando senza fondamento che lo status quo ad Al-Aqsa non cambierà. Lo aveva già fatto, come sa benissimo il Waqf, custode dei luoghi santi di Gerusalemme, la cui gestione è affidata alla Giordania.

Ma in Ben Gvir e Smotrich Netanyahu ritrova una forma diversa di partner di coalizione. Questi rottweiler della destra religiosa nazionale non sono solo una parte dell’attuale, traballante soluzione politica di un politico, Netanyahu, che ha superato da tempo la data di scadenza. Sono la forma della futura leadership di Israele.

Questo dovrebbe costituire un segnale di allarme per ogni ebreo israeliano che non ha un passaporto europeo e non gradisce la prospettiva di una guerra a tutto campo con 1,6 miliardi di musulmani in tutto il mondo, che il movimento religioso nazionale sembra essere determinato a scatenare.

Dovrebbero pensare ad affrontare il futuro con i palestinesi alla pari, visto che il conflitto è ancora riferito alla terra e alla nazionalità, non alla religione. C’è solo un breve periodo di tempo per farlo.

Gillon afferma in The Gatekeepers: “Il piano era di far saltare in aria la Cupola della Roccia e l’esito avrebbe portato – come anche oggi – alla guerra totale da parte di tutti gli stati islamici, non solo l’Iran, ma anche l’Indonesia”.

Se aveva ragione 11 anni fa quando questa intervista è stata registrata, ha ancora più ragione oggi. Con il movimento religioso nazionale al comando, la previsione di Ami Ayalon è preveggente: “Vinceremo ogni battaglia ma perderemo la guerra”.

E’ capitato in Algeria. E’ capitato in Sud Africa. Capiterà anche in Israele.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

David Hearst è co-fondatore e redattore capo di Middle East Eye. È commentatore e relatore sulla regione e analista sull’Arabia Saudita. E’ stato capo redattore per la politica estera del Guardian e corrispondente in Russia, Europa e Belfast. È entrato a far parte del Guardian da The Scotsman, dove era corrispondente per l’istruzione.

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Cisgiordania: le nuove disposizioni sugli ingressi isolano ulteriormente i palestinesi

Human Rights Watch

23 gennaio 2023 – Human Rights Watch

Le direttive di Israele vietano di fare visite, studiare, lavorare

Gerusalemme – Le nuove direttive israeliane per l’ingresso degli stranieri in Cisgiordania rischiano di isolare ulteriormente i palestinesi dai propri cari e dall’intera società civile, ha dichiarato oggi Human Rights Watch. Le disposizioni, entrate in vigore a ottobre 2022 e modificate a dicembre 2022, delineano dettagliate procedure per l’ingresso e il soggiorno di stranieri in Cisgiordania, procedure diverse da quelle per l’ingresso in Israele.

Le autorità israeliane hanno da tempo reso difficile per gli stranieri insegnare, studiare, fare volontariato, lavorare o vivere in Cisgiordania. Le nuove direttive codificano e inaspriscono le precedenti restrizioni, rischiando di rendere ancor più difficile per i palestinesi in Cisgiordania, che già subiscono pesanti limitazioni al movimento imposte da Israele, vivere con i familiari che non hanno una carta di identità cisgiordana e collaborare con studenti, accademici, studiosi ed altri stranieri.

Rendendo più difficile alle persone soggiornare in Cisgiordania, Israele sta compiendo un nuovo passo verso la trasformazione della Cisgiordania in un’altra Gaza, dove due milioni di palestinesi vivono da oltre 15 anni isolati dal resto del mondo”, ha detto Eric Goldstein, vicedirettore per il Medio Oriente di Human Rights Watch. “Questa politica è finalizzata a indebolire i legami sociali, culturali e intellettuali che i palestinesi hanno cercato di mantenere con il mondo esterno.”

Tra il luglio e il dicembre 2022 Human Rights Watch ha intervistato 13 persone che hanno descritto nei dettagli le difficoltà che hanno incontrato per anni per entrare o soggiornare in Cisgiordania e le loro preoccupazioni riguardo al modo in cui le nuove direttive li danneggeranno. Human Rights Watch ha anche intervistato gli avvocati israeliani che hanno rappresentato chi sfidava le restrizioni. Tra queste persone intervistate vi è uno psicologo americano docente in un’università palestinese, un’inglese madre di due figli che tenta di vivere con suo marito e la sua famiglia palestinese e un palestinese che ha vissuto la maggior parte della sua vita in Cisgiordania ma non ha una carta di identità.

Inoltre a luglio 2022 le autorità israeliane hanno negato a Omar Shakir, direttore di Human Rights Watch per Israele e Palestina, un permesso per entrare in Cisgiordania per una settimana per condurre attività di ricerca e patrocinio, appellandosi all’ampia autorità dell’esercito riguardo agli ingressi. La Corte Distrettuale di Gerusalemme ha confermato il divieto a novembre, in seguito ad un ricorso presentato da Shakir e da Human Right Watch.

Il documento di 61 pagine denominato “Procedura per l’ingresso e il soggiorno degli stranieri in Giudea e Samaria (intendendosi la Cisgiordania)” ha sostituito un documento di procedura di tre pagine redatto nel dicembre 2006. Esso definisce la politica e le procedure dell’esercito israeliano relativamente agli stranieri che cercano di entrare solamente in Cisgiordania, con esclusione di Gerusalemme est, o di estendere il soggiorno per una visita o per “uno scopo specifico”, per esempio studio, insegnamento, volontariato o lavoro. Le direttive sono diverse da quelle per l’ingresso in Israele che vengono normalmente applicate all’aeroporto Ben Gurion e in altri luoghi di ingresso. Chi possiede un permesso per la Cisgiordania ma non ha un visto di ingresso israeliano non è legalmente autorizzato ad entrare in Israele, né nella Gerusalemme est occupata.

Mentre spesso la gente visita la Cisgiordania con normali visti turistici israeliani, agli stranieri in possesso di questi visti non è permesso insegnare, studiare, fare volontariato, lavorare o vivere in Cisgiordania. Le autorità israeliane spesso rifiutano normali visti di ingresso per questi motivi o altri in cui si riconosca o si sospetti una collaborazione con attività filopalestinesi. Il permesso è l’unico modo per molti di soggiornare in Cisgiordania.

Le direttive sulla Cisgiordania consentono che siano rilasciati permessi solo a limitate categorie di visitatori. Alcuni di coloro che possono ottenere i permessi, come i parenti stretti di palestinesi, possono ottenere un’autorizzazione fino a 3 mesi dall’arrivo al ponte di Allenby/Re Hussein tra la Giordania e la Cisgiordania, in attesa di approvazione delle autorità israeliane in loco. Altri, compresi accademici, studenti, volontari e studiosi, devono richiedere dall’estero un permesso per la Cisgiordania, valido fino a un anno, ed ottenerlo prima del viaggio. Le precedenti disposizioni raccomandavano, ma non richiedevano, un accordo preventivo, anche se spesso le autorità israeliane nella pratica richiedevano un’approvazione preventiva. Altri visitatori, quali turisti o chi cerca di far visita alla famiglia allargata o ad amici o di partecipare ad una conferenza, non possono ottenere un permesso per la Cisgiordania.

Col pretesto del “rischio” che gli stranieri “si radichino”, le direttive precludono anche a tutti gli stranieri, tranne le mogli di palestinesi, tutte le vie per rimanere a lungo in Cisgiordania.

Le direttive concedono alle autorità militari israeliane ampia discrezionalità, consentendo che “considerazioni di politica generale” influenzino il processo decisionale e sottolineando che “l’applicazione di questa procedura dovrà essere condizionata alla situazione di sicurezza e alla politica israeliana in vigore, che viene rivista e modificata di volta in volta.”

Nel maggio 2022 l’esercito israeliano ha detto al Jerusalem Post che le disposizioni renderanno l’ingresso in Cisgiordania “più agevole”, probabilmente dettagliando la procedura, e perciò “porteranno beneficio a tutti gli abitanti dell’area.”

Tuttavia tutti coloro che Human Rights Watch ha intervistato hanno parlato di enormi ostacoli burocratici per restare legalmente in Cisgiordania e dell’impatto delle restrizioni sulle proprie vite. Una donna d’affari americana sposata con un palestinese, che era vissuta in Cisgiordania per un decennio e ha chiesto di restare anonima per paura di rappresaglie, ha detto di aver dovuto abbandonare il suo bambino e restare all’estero per diverse settimane nel 2019 dopo che le era stato negato il visto. Ha raccontato che lo stress e la sofferenza la avevano portata a “scoppiare in lacrime davanti alla scuola di mio figlio quando lo ho lasciato senza sapere se lo avrei ancora visto.” Il suo visto è stato ripristinato solo dopo l’intervento di diplomatici.

Se gli Stati hanno ampia discrezionalità riguardo all’ingresso nel proprio territorio sovrano, il diritto umanitario internazionale richiede però alle potenze occupanti di agire nel superiore interesse della popolazione occupata o di mantenere la sicurezza o l’ordine pubblico. Non vi sono evidenti giustificazioni basate sulla sicurezza, l’ordine pubblico o il superiore interesse dei palestinesi per il modo in cui le autorità israeliane pongono significative restrizioni ai volontari, agli accademici o agli studenti per entrare in Cisgiordania o ai familiari di palestinesi per rimanervi a lungo, afferma Human Rights Watch.

Limitando eccessivamente la possibilità delle famiglie di vivere insieme e bloccando l’ingresso di accademici, studenti e operatori di Ong che contribuirebbero alla vita sociale, culturale ed intellettuale in Cisgiordania, le restrizioni di Israele entrano in conflitto con il suo compito, che aumenta durante una prolungata occupazione, di agevolare la vita civile della popolazione occupata.

Questo comporta necessariamente vivere con la propria famiglia. Sia il diritto umanitario internazionale che le leggi sui diritti umani sottolineano l’importanza del diritto alla vita e all’unità della famiglia, incluso il diritto di vivere insieme. Significa anche facilitare il lavoro e l’attività delle università palestinesi, delle organizzazioni e degli affari della società civile e mantenere un rapporto costante con il resto del mondo.

I doveri di Israele in quanto potenza occupante gli impongono di facilitare l’ingresso degli stranieri in Cisgiordania in modo ordinato. Previa una valutazione individuale di sicurezza e in assenza di obblighi di legge, le autorità israeliane dovrebbero come minimo concedere permessi di durata ragionevole agli stranieri che contribuirebbero alla vita della Cisgiordania, compresi i familiari di palestinesi e coloro che lavorano con la società civile palestinese, nonché la residenza ai parenti stretti.

Le restrizioni di Israele incrementano la sofferenza già imposta ai palestinesi in Cisgiordania attraverso il diniego su vasta scala dei diritti di residenza, le ampie restrizioni di movimento e gli attacchi alla società civile palestinese. Questa politica spiana maggiormente la strada alla frammentazione dei palestinesi in differenti aree e aggrava il controllo israeliano sulla loro vita. La severa repressione delle autorità israeliane sui palestinesi, attuata in conformità ad una politica di mantenimento del dominio degli ebrei israeliani sui palestinesi, configura i crimini contro l’umanità di apartheid e persecuzione, come hanno rilevato Human Rights Watch e importanti organizzazioni per i diritti umani israeliane, palestinesi e internazionali.

Un esercito occupante non ha alcun diritto di decidere quali docenti siano qualificati per insegnare nelle università palestinesi, di impedire ai difensori dei diritti umani di interagire con la popolazione occupata o di separare crudelmente le famiglie”, dice Goldstein. “Gli Stati americani ed europei dovrebbero far pressione sulle autorità israeliane perché rendano più facile, non più difficile per le persone, compresi i propri stessi cittadini, costruire rapporti significativi con le comunità della Cisgiordania.”

Richiedere permessi e proroghe per la Cisgiordania

Le disposizioni per l’ingresso in Cisgiordania sono state originariamente pubblicate nel febbraio 2022 e modificate a settembre e poi ancora a dicembre 2022. Esse identificano alcune categorie di persone, compresi accademici, studenti, volontari e “studiosi e consulenti in singole discipline e personale direttivo” che sono tenute a richiedere anticipatamente a Israele, direttamente all’esercito, presso un’ambasciata israeliana all’estero o attraverso l’Autorità Nazionale Palestinese, i permessi (per entrare in Cisgiordania) a scopi specifici.”

La procedura per ottenere un permesso implica fornire informazioni personali importanti alle autorità israeliane. Diverse persone che hanno passato del tempo in Cisgiordania hanno detto che questa procedura scoraggia del tutto le persone a presentare richiesta, dato il numero record di dinieghi di ingresso da parte delle autorità israeliane a coloro che sono impegnati nel sostegno ai palestinesi. Come risultato, e alla luce della difficoltà di ottenere permessi per la Cisgiordania, alcuni programmi della Cisgiordania hanno a lungo consigliato i partecipanti internazionali di richiedere un visto turistico israeliano invece di un permesso per la Cisgiordania e di evitare di dichiarare il motivo della loro visita in modo da aumentare le possibilità di entrare.

Tra gli stranieri che possono ottenere il permesso di visitatori all’arrivo in Cisgiordania vi sono la moglie, il figlio o il parente di primo grado di un palestinese in Cisgiordania, uomini d’affari o investitori, giornalisti accreditati dalle autorità israeliane o coloro che presentano “situazioni eccezionali” e con “speciali situazioni umanitarie” che non hanno avuto precedenti problemi collegati al visto.

Le direttive limitano a tre mesi i permessi di visita di breve durata ottenuti al ponte di Allenby. I permessi possono essere rinnovati “per motivi eccezionali per un massimo di altri 3 mesi.” Ogni ulteriore proroga “necessita l’approvazione del funzionario autorizzato del COGAT sulla base di speciali considerazioni che vanno documentate.” 

I permessi per scopi specifici” ottenuti precedentemente all’arrivo durano un anno e le proroghe hanno copertura di 27 mesi, e chiunque voglia fermarsi più a lungo deve lasciare la Cisgiordania e fare nuovamente richiesta dall’estero. Le direttive pongono agli accademici e studiosi stranieri un limite massimo di cinque anni complessivi in Cisgiordania, una restrizione che non era scritta nelle direttive precedenti. Chi intende fermarsi più a lungo può fare richiesta di nuovo ingresso dopo nove mesi di lontananza, ma le direttive autorizzano proroghe addizionali fino ad altri cinque anni solo “in casi eccezionali e per motivi speciali.”

I palestinesi in Cisgiordania possono fare richiesta a Israele attraverso un procedimento separato di ricongiungimento familiare tramite l’Autorità Nazionale Palestinese per ottenere carte di identità palestinesi rilasciate per le loro mogli e altri parenti in “circostanze eccezionali”, che consentirebbero loro di rimanere a lungo termine. Le autorità israeliane hanno esaminato 35.000 richieste alla fine degli anni 2000 e parecchie migliaia nel 2021 e 2022 come gesto nei confronti della ANP, ma a parte questo hanno di fatto congelato il processo.

Le direttive delineano una procedura per rilasciare permessi di un anno rinnovabili per le mogli straniere di palestinesi che hanno in corso una richiesta di ricongiungimento familiare che l’ANP ha inviato a Israele. Tuttavia stabiliscono che non saranno approvate richieste che non siano conformi alla complessiva “politica dei vertici politici”.

Le direttive danno alle autorità il potere di rivalutare le qualifiche accademiche dei docenti o ricercatori presso le università palestinesi, compresa la verifica che chi non è in possesso di diploma PhD abbia “competenze speciali”, e quali professioni siano sufficientemente “richieste o necessarie” a garantire di poter concedere a stranieri di lavorare al loro interno.

Un amministratore dell’università di Betlemme ha detto che il 70% del corpo docente in uno dei programmi della scuola viene dall’estero e l’amministrazione teme che le regole renderanno ancor più difficile assumere e trattenere i docenti. Un portavoce dell’università di Birzeit ha detto che tra il 2017 e il 2022 hanno perso otto membri del corpo docenti a causa delle restrizioni all’ingresso in Cisgiordania, il che hanno detto aver loro causato la perdita di eccezionali competenze ed aver inficiato la qualità dell’educazione fornita dalla scuola.

Un professore, Roger Heacock, nel 2018 ha lasciato la Cisgiordania con la sua famiglia dopo 35 anni, 33 dei quali spesi nell’insegnamento della storia a Birzeit, quando le autorità israeliane non hanno risposto in tempo alla sua richiesta di rinnovo del permesso, abbandonando gli studenti laureati cui sovrintendeva. Ha detto che quell’esperienza “ci ha spezzato il cuore. Non l’ho superata.”

Le direttive non si applicano agli stranieri che vogliono visitare Gerusalemme est occupata da Israele o le colonie israeliane in Cisgiordania, che sono illegali ai sensi del diritto umanitario internazionale. Per entrare in quelle aree devono ottenere un visto d’ingresso israeliano.

Le direttive non si applicano neanche a coloro che hanno nazionalità, sono nati o “hanno documenti” di Giordania, Egitto, Marocco, Bahrein e Sud Sudan, come neanche ai cittadini di Stati che non hanno relazioni diplomatiche con Israele. Queste persone devono fare richiesta ad Israele tramite l’Autorità Nazionale Palestinese sulla scorta di una separata “Procedura di rilascio di permessi per visite di stranieri all’Autorità Palestinese”, che stabilisce che i permessi devono essere rilasciati solo in “casi eccezionali e umanitari”. Un’avvocata israeliana, Leora Bechor, ha descritto questi permessi come “quasi impossibili” da ottenere. Non esiste valida ragione per rendere più difficile entrare in Cisgiordania soprattutto ai cittadini della Giordania, che sono per la maggior parte palestinesi, rispetto ai cittadini di altri Stati, dichiara Human Rights Watch.

Casi individuali

Ayman”

Nato in Europa a metà degli anni ’90 da padre palestinese della Cisgiordania e madre europea, “Ayman” ha vissuto in Cisgiordania la maggior parte della sua vita. Ha chiesto che il suo vero nome non fosse rivelato per paura di ritorsioni. Racconta che suo padre lasciò la Cisgiordania negli anni ’70 per evitare l’arresto per le sue attività politiche, e fu costretto ad abbandonare i suoi documenti di identità. Fece rientro nel 1997, quando Ayman era bambino, insieme ad altri autorizzati a tornare all’indomani degli accordi di Oslo, ma le autorità israeliane non gli restituirono immediatamente la sua carta d’identità. Ogni membro della famiglia di Ayman ha richiesto carte d’identità palestinesi, ma solo suo padre ne ha ricevuta una all’inizio del 2022, a seguito di una domanda di ricongiungimento familiare presentata dal nonno di Ayman nel 2009.

Senza una carta d’identità palestinese, per il suo status giuridico Ayman fa affidamento sui visti rilasciati sul suo passaporto europeo in Cisgiordania, anche se la sua famiglia vive lì da generazioni e lui ha vissuto lì la maggior parte della sua vita. Ha detto che la Palestina per me è casa, poiché “la mia infanzia, la scuola, i compagni di classe, gli amici, la famiglia allargata, i parenti e i miei ricordi sono tutti quieppure risulto trovarmi in Palestina come turista, come cittadino europeo”.

Da bambino, dice Ayman, ha ricevuto i visti grazie al lavoro di sua madre in un programma affiliato a un’ambasciata straniera. Nel 2015, tuttavia, afferma che le autorità israeliane rifiutarono di rinnovargli il visto, sulla base del fatto che lui, a 20 anni, non poteva più rivendicare la dipendenza da sua madre. Poco dopo partì per studiare all’estero per un semestre. Tornò nel dicembre 2015 e dice di essere riuscito a ottenere diversi visti di breve durata che gli hanno permesso di rimanere in Cisgiordania nel 2016 e gran parte del 2017 in modo da completare gli studi universitari.

Nel settembre 2017 ha conseguito la laurea in Europa e si è recato in Cisgiordania tre volte come turista. Afferma di non aver potuto visitare la sua famiglia per due anni, tra marzo 2020 e febbraio 2022, a causa soprattutto di una normativa israeliana rivolta a limitare l’ingresso di stranieri in Cisgiordania a fronte della pandemia di Covid-19.

Ayman è preoccupato per il fatto che le nuove linee guida sugli ingressi gli rendono praticamente impossibile vivere in Cisgiordania creandogli persino delle difficoltà a visitarla, anche attraverso il limite di soggiorni di tre mesi salvo circostanze eccezionali e l’imposizione obbligatoria di periodi durante i quali deve partire e stare lontano dalla Cisgiordania. Per quanto le linee guida consentano l’ingresso a coloro che, come Ayman, stiano andando a trovare parenti di primo grado, si preoccupa di cosa potrebbe accadere quando suo padre, l’unico membro della sua famiglia con un documento d’identità palestinese, morirà. Potrei perdere il diritto di ingresso, dal momento che non avrò più un parente di primo grado, e con queste norme non potrò nemmeno entrare come turista, dice Ayman.

Margaret

“Margaret”, una cittadina britannica di 46 anni che ha chiesto di non rivelare la sua reale identità per paura di ritorsioni, vive a Ramallah con il marito palestinese, che ha un documento di identità della Cisgiordania, e i loro due figli, di 9 e 6 anni. Dice di vivere in Cisgiordania dal 1998 e di aver sposato suo marito nel 2005. Poco dopo, racconta Margaret, le autorità israeliane le hanno negato l’ingresso, nel quadro di una politica sistematica dell’epoca che, secondo il quotidiano israeliano Haaretz, ha colpito migliaia di coniugi stranieri.

Margaret è riuscita a tornare nove mesi dopo e da allora è rimasta pressoché stabilmente in Cisgiordania. Riferisce di aver richiesto nel 2006 un documento d’identità palestinese nell’ambito del percorso di ricongiungimento familiare, ma di non averlo ricevuto. Invece ha usufruito di visti per soggiorni di breve durata, originariamente di un anno ma più recentemente di sei mesi, dovendo periodicamente lasciare la Cisgiordania per mantenere il suo status. Con tali visti il lavoro non è consentito, ma Margaret ha comunque lavorato senza mai rivelarlo alle autorità israeliane.

Quando nell’agosto 2021 le autorità israeliane hanno informato Margaret che doveva lasciare la Cisgiordania entro gennaio 2022, per rientrarvi per mantenere il suo status, temeva che le procedure aggiuntive imposte dalle autorità israeliane durante la pandemia di Covid-19 potessero bloccare la sua possibilità di tornare in famiglia. In particolare, le autorità israeliane richiedevano agli stranieri che entravano in Cisgiordania di coordinare con loro i loro piani, una prassi che, Margaret aveva sentito, per altre persone aveva richiesto tre o quattro mesi. Margaret dice che sentiva di non poter sopportare di stare lontana dai suoi figli così a lungo durante l’anno scolastico.

L’Autorità nazionale palestinese aveva annunciato alla fine del 2021 che le autorità israeliane avevano dato il via libera al rilascio di migliaia di documenti d’identità per le persone bloccate in situazioni come la sua. Nella speranza di essere tra coloro che avrebbero ricevuto un documento d’identità o in caso contrario di poter risolvere la questione con l’aiuto di un avvocato, ha preso la difficile decisione di sospendere il visto.

Margaret non ha mai ricevuto un documento d’identità e quindi è priva di status giuridico. Di conseguenza, afferma che dal gennaio 2022non lascio Ramallah. Non posso correre rischi”.

Susan Power

Susan Power, una cittadina irlandese di 43 anni, conduce ricerca e patrocinio legale per al-Haq, una delle principali organizzazioni palestinesi per i diritti umani. Power è entrata a far parte di al-Haq, il cui quartier generale è a Ramallah in Cisgiordania, nel 2013. Con un dottorato di ricerca incentrato sulla legge dell’occupazione, Power ha una competenza unica che ben si adatta al lavoro di al-Haq, che da più di 40 anni è incentrato sulla documentazione delle violazioni dei diritti umani derivanti dalla prolungata occupazione israeliana.

Power afferma che per entrare in Cisgiordania ha fatto ricorso ai visti per visitatori, che è stata in grado di prorogare. Ha detto che per ottenere il visto doveva mostrare un contratto di lavoro, anche se il visto non le dà il permesso di lavorare. Descrive il pesante iter che deve regolarmente affrontare per entrare, compreso il dover pagare a volte obbligazioni fino a 30.000 NIS (7.796 euro) per garantire che se ne andrà alla scadenza del visto. Dice che ogni volta si preoccupa che non le venga consentito l’ingresso e, quando si trova in Cisgiordania con un visto valido, generalmente rifiuta di viaggiare per visitare famiglie, partecipare a riunioni o per qualsiasi altro scopo al di fuori delle emergenze.

Le nuove linee guida renderanno le cose ancora più difficili, dice Power, richiedendole di coordinare i suoi piani e ottenere un visto in anticipo dall’ambasciata israeliana nel suo paese d’origine. Teme che nell’ambito di questo iter non le venga concesso un visto, data l’assenza nelle linee guida di disposizioni esplicite riguardanti il lavoro delle organizzazioni per i diritti umani e il limite di cinque anni per gli stranieri che vivono in Cisgiordania. Le autorità israeliane hanno anche messo al bando al-Haq, dichiarandola nel 2021 una “associazione illegale” ai sensi della legge militare applicabile in Cisgiordania e una “organizzazione terroristica” ai sensi della legge israeliana.

Queste restrizioni rendono più difficile per le organizzazioni della società civile palestinese attrarre e assumere esperti stranieri come Power. Anche se gli esperti sono in grado di entrare in Cisgiordania, “un’organizzazione non può funzionare o operare senza sapere se i suoi lavoratori potranno tornare” ogni qualvolta se ne vanno, afferma Power.

Power ha lasciato la Cisgiordania a dicembre, prima della scadenza del suo visto alla fine dell’anno. Dice di aver paura che non le sia permesso di tornare.

Laura

Laura, una cittadina statunitense di 57 anni che ha chiesto di non rivelare il suo vero nome per paura di ritorsioni, ha visitato per la prima volta la Cisgiordania nel 2012. È una psicologa clinica e ha detto che per due anni è tornata periodicamente per partecipare a conferenze e lavorare come consulente a breve termine, ottenendo il visto per visitatori all’arrivo all’aeroporto Ben Gurion. Nell’estate del 2014 ha deciso di trasferirsi con il figlio di 10 anni in Cisgiordania per lavorare a tempo pieno con bambini a rischio e insegnare in un’università. Ha ottenuto un visto sulla base del suo contratto con l’università, anche se il visto le proibisce formalmente di lavorare, e ha vissuto in Cisgiordania, rinnovando il visto ogni anno, per i successivi quattro anni.

Riferisce che mantenere il suo status giuridico é stato stressante, anche per la necessità di aspettare per mesi i documenti suoi o di suo figlio. “L’incertezza, niente di chiaro, la burocrazia e la sensazione di mancanza di sicurezza durante il tempo di attesa, dopo aver fatto tutte le scartoffie, passato tutto al dettaglio”, dice.

Nell’autunno del 2017 Laura ha chiesto il prolungamento del visto, ma le autorità israeliane non hanno risposto per mesi e nell’aprile 2018 le hanno restituito il passaporto senza una decisione o un nuovo visto. Senza status giuridico, ha deciso nel maggio 2018, alla fine dell’anno scolastico di suo figlio, di lasciare la Cisgiordania. Afferma che all’Allenby Crossing le forze israeliane le hanno detto che non poteva tornare e l’hanno rimproverata pubblicamente per essersi trattenuta oltre la scadenza del visto. “Mi hanno detto che avevo rovinato le possibilità di mio figlio di tornare qui e gli avevo rovinato la vita”, dice.

È tornata negli Stati Uniti e ha assunto un avvocato israeliano per aiutarla a ottenere il permesso di vivere di nuovo in Cisgiordania. Dice che ho scelto di lottare per il mio visto perché la Cisgiordania è la nostra casa e la nostra vita. È dove abbiamo vissuto per anni, dove mio figlio è cresciuto e ha stretto amicizie. Ha pianto per tutto il tempo dopo che ci è stato detto che non saremmo potuti tornare indietro. Era lì da quando aveva 10 anni. Ho lasciato la mia carriera e tutti i nostri averi nella nostra casa, la sua PlayStation, la sua bicicletta e i nostri abiti“.

Grazie agli sforzi dell’avvocato, Laura e suo figlio sono riusciti a tornare alla fine del 2018, dopo aver versato una cauzione che sarebbe stata restituita solo quando avrebbe lasciato la Cisgiordania, e ad insegnare per alcuni mesi. Ma, data la loro persistente impossibilità di rinnovare i loro visti e i costi crescenti, anche per gli avvocati, Laura sentiva di non avere altra scelta che vendere tutto e tornare negli Stati Uniti nel dicembre 2019. Da allora è tornata [in Cisgiordania] solo una volta, con un visto di 30 giorni che le autorità israeliane le hanno concesso a condizione che pagasse una cauzione di 30.000 shekel (7796 euro) da restituire solo quando avesse lasciato la Cisgiordania.

Dato che le nuove linee guida impediscono agli stranieri la permanenza in Cisgiordania per più di cinque anni al di fuori di circostanze eccezionali, afferma che tali norme le impediscono effettivamente di rimanere più a lungo in Cisgiordania. Continua a insegnare per l’università a distanza, poiché afferma che nessun altro ha il background necessario per tenere i suoi corsi.

Omar Shakir

Nel luglio 2021 Omar Shakir, il direttore di Human Rights Watch per Israele e Palestina, ha chiesto all’esercito israeliano un permesso per entrare in Cisgiordania per una settimana per incontrare il personale di Human Rights Watch dell’area, informare i diplomatici dell’Unione Europea in risposta al loro invito e svolgere ricerche, anche sugli abusi da parte dell’Autorità Nazionale Palestinese. Shakir ha cercato di svolgere di persona un lavoro che non era stato in grado di svolgere da quando le autorità israeliane lo hanno espulso da Israele nel novembre 2019, affermando che la sua attività di difesa violava una legge del 2017 che vieta l’ingresso in Israele a persone che sostengono il boicottaggio di Israele o dei suoi insediamenti nella Cisgiordania occupata. Né Human Rights Watch né Shakir come suo rappresentante hanno mai chiesto il boicottaggio di Israele.

Dopo mesi passati senza ricevere una risposta affermativa o negativa, nell’aprile 2022 Shakir e Human Rights Watch hanno intentato una causa presso il tribunale distrettuale di Gerusalemme contro l’esercito israeliano. Nel luglio 2022, l’esercito ha respinto la richiesta, citando “un’ampia discrezionalità” dell’Unità per il coordinamento delle attività governative dei Territori per quanto riguarda l’ingresso in Cisgiordania di cittadini stranieri e una clausola nelle linee guida sull’ingresso in Cisgiordania secondo cui “tutte le relative disposizioni sono soggette alla politica del governo”.

Nella lettera dell’esercito a Shakir si rileva che la politica del governo in questa materia (che è stata inserita nella legislazione primaria in Israele) è quella di vietare la concessione di qualsiasi tipo di visto o permesso di soggiorno a persone che consapevolmente lanciano un appello pubblico al boicottaggio dello Stato di Israele o una qualsiasi delle sue istituzioni o qualsiasi area sotto il suo controlloe si cita la preoccupazione che Shakir possa utilizzare la sua visita per promuovere il boicottaggio di Israele e delle entità che operano in Israele e nell’area della Giudea e della Samaria [ovvero Cisgiordania, ndt.]. La decisione, in effetti, estende alla Cisgiordania occupata il divieto di ingresso in Israele per presunto sostegno ai boicottaggi.

Ad agosto Shakir e Human Rights Watch hanno presentato una petizione modificata sostenendo che l’esercito israeliano è andato oltre la sua autorità ai sensi del diritto internazionale umanitario, che limita gli interventi degli occupanti ad azioni che mantengano la sicurezza o l’ordine e l’incolumità pubblici o siano finalizzate al migliore interesse della popolazione occupata. Citando la discrezionalità più ristretta che un esercito di occupazione ha sull’ingresso nel territorio occupato rispetto a un Paese sul suo territorio sovrano, la petizione afferma che il diritto umanitario internazionale non consente all’esercito israeliano di negare l’ingresso in Cisgiordania per presunto sostegno ai boicottaggi. Sostiene che negare l’ingresso ai difensori dei diritti umani mina l’interesse pubblico dei residenti della Cisgiordania, che dovrebbero avere il diritto di coinvolgere rappresentanti delle organizzazioni internazionali per i diritti umani.

A novembre il tribunale distrettuale di Gerusalemme ha confermato il diniego del governo, stabilendo che il divieto di ingresso basato sul presunto sostegno al boicottaggio rientra nell’ampia autorità che l’esercito ha di mantenere “l’ordine pubblico e la sicurezza” per i residenti del territorio occupato. La sentenza cita il presunto danno che le attività di boicottaggio arrecano ai coloni israeliani, che considera parte della popolazione locale nonostante il divieto del diritto umanitario internazionale di trasferire la popolazione dell’occupante nel territorio occupato, e ai lavoratori palestinesi che lavorano negli insediamenti coloniali. Indica inoltre le disposizioni delle linee guida sull’ingresso in Cisgiordania che consentono all’esercito di prendere decisioni basate su considerazioni politiche e di altro tipo e che negano qualsiasi “diritto acquisito” ai cittadini stranieri di entrare in Cisgiordania, che l’esercito ha dichiarato zona militare chiusa nella sua interezza.

Sebbene il rifiuto di Israele di consentire la visita di Shakir non abbia causato tante difficoltà quanto il rifiuto di concedere permessi estesi a un membro di una famiglia palestinese o a un professore straniero a lungo termine, illustra come Israele abusi della sua autorità per controllare l’ingresso di stranieri nel territorio in cui non ha sovranità.

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta e Cristiana Cavagna)

 




Uomo armato uccide 7 persone in un attacco nella Gerusalemme est occupata

Redazione di Al Jazeera

27 gennaio 2023 – Al Jazeera

La sparatoria ha fatto seguito a una sanguinosa incursione israeliana nel campo profughi di Jenin, nella Cisgiordania occupata, che ha ucciso nove palestinesi.

In un’escalation di violenza dopo una sanguinosa incursione dell’esercito israeliano in Cisgiordania il giorno prima, nella Gerusalemme est occupata un uomo armato ha ucciso sette persone nei pressi di una sinagoga in una colonia israeliana prima di essere colpito a morte.

Dopo la sparatoria di venerdì il pronto soccorso di Magen David Adom [la Croce Rossa israeliana, ndt.] ha confermato che sette persone, cinque uomini e due donne, sono morte, mentre erano ancora ricoverate in ospedale altre tre sono rimaste ferite, una delle quali in condizioni gravissime.

Per quanto abbiamo capito, è arrivata un’auto davanti a una sinagoga, ne è uscito un uomo armato che ha aperto il fuoco,” ha informato James Bays di Al Jazeera dalla scena dell’attacco nell’illegale colonia israeliana di Neve Yaakov.

Il bilancio che abbiamo finora è di sette morti,” ha affermato Bays, aggiungendo che secondo la polizia il sospettato non aveva “precedenti penali”.

Il pronto soccorso ha informato di un totale di dieci vittime dell’attacco armato, tra cui una donna di 60 anni e un ragazzo di 15.

Immagini televisive mostrano sulla strada fuori dalla sinagoga varie vittime che vengono assistite da operatori del pronto soccorso.

Ho sentito molti spari,” ha detto all’agenzia di notizie AFP Matanel Almalem, uno studente diciottenne che vive nei pressi della sinagoga.

Un primo comunicato della polizia afferma che si è trattato di un “attacco terroristico a una sinagoga di Gerusalemme” e che “il terrorista che ha sparato è stato neutralizzato (ucciso)”.

In seguito la polizia ha detto che il sospettato è un ventunenne abitante di Gerusalemme est che nell’attacco avrebbe agito da solo in una zona che Israele ha annesso a Gerusalemme dopo la guerra del 1967 in Medio Oriente [la guerra dei Sei Giorni, ndt.].

[La polizia] ha affermato che [l’attentatore] ha cercato di scappare in auto, ma è stato inseguito dalla polizia e colpito a morte.

L’attacco è avvenuto un giorno dopo una sanguinosa incursione israeliana nel campo profughi di Jenin, nella Cisgiordania occupata. Sono rimasti uccisi nove palestinesi, tra cui una donna anziana, dopo che decine di soldati israeliani hanno attaccato una casa che secondo l’esercito ospitava sospetti combattenti, provocando duri scontri durati alcune ore.

Giovedì anche un ventiduenne palestinese è stato ucciso dalle forze israeliane nella città di al-Ram, a nord di Gerusalemme.

A indicare una potenziale ulteriore escalation, il ministero della Sanità palestinese ha affermato che tre palestinesi sono stati portati in ospedale dopo essere stati colpiti da un colono israeliano in un incidente nei pressi della città di Nablus, nel nord della Cisgiordania.

Ha aggiunto che è morto un sedicenne palestinese ferito da forze israeliane in un altro incidente mercoledì.

Poi i combattenti di Gaza hanno lanciato razzi e Israele ha effettuato raid aerei durante la notte, ma lo scontro è stato limitato.

Una risposta naturale”

Hazem Qassem, un portavoce di Hamas, la fazione palestinese che controlla la Striscia di Gaza, ha detto all’agenzia di notizie Reuter che l’attacco di venerdì è stato “una risposta al crimine perpetrato a Jenin dall’occupazione e una risposta naturale alle azioni criminali dell’occupazione.”

Qassam non ha rivendicato l’attacco a mano armata. Anche la Jihad Islamica palestinese ha elogiato [l’azione], ma non ha assunto la responsabilità dell’attentato.

Nell’ultimo anno le incursioni militari israeliane nella Cisgiordania occupata sono diventate quasi quotidiane, con la morte di almeno 200 combattenti e civili palestinesi. Anche civili e soldati israeliani sono stati uccisi in attacchi palestinesi in Israele e nei territori occupati.

La sparatoria di venerdì è avvenuta poche ore dopo che i palestinesi avevano sfilato con rabbia al funerale dell’ultima delle vittime uccise dai soldati israeliani il giorno precedente.

Durante tutto il giorno sono scoppiati scontri tra forze israeliane e manifestanti palestinesi nella Cisgiordania occupata, anche dopo il funerale del ventiduenne ucciso a nord di Gerusalemme. Folle di palestinesi hanno sventolato le bandiere sia di Fatah, il partito che controlla l’Autorità Nazionale Palestinese, che di Hamas. Nelle strade di al-Ram palestinesi mascherati hanno lanciato pietre e fatto scoppiare petardi contro la polizia israeliana, che ha risposto con lacrimogeni.

L’escalation di violenza è giunta pochi giorni prima della prevista visita del Segretario di Stato USA Antony Blinken in Israele e nella Cisgiordania occupata.

Gli Stati Uniti condannano nel modo più fermo l’orrendo attacco terroristico,” ha affermato Blinken in un comunicato. “Siamo in stretto contatto con i nostri partner israeliani e riaffermiamo il nostro incrollabile impegno per la sicurezza di Israele.”

Netanyahu convoca il gabinetto di sicurezza

Poco dopo l’attacco a Gerusalemme est il ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben-Gvir, di estrema destra, ha visitato il luogo dell’attentato. “Dobbiamo reagire, la situazione non può continuare così,” ha detto.

Parlando ai giornalisti nel quartier generale della polizia nazionale israeliana, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha affermato di aver fatto una verifica riguardo alla sicurezza e deciso “azioni immediate”.

Ha detto che convocherà il gabinetto di sicurezza sabato sera, dopo la fine del Sabbath [giorno della festa settimanale per gli ebrei, ndt.], per discutere di un’ulteriore risposta. Netanyahu si è rifiutato di specificare, ma ha detto che Israele agirà con “determinazione e autocontrollo”.

Ha anche chiesto all’opinione pubblica di non farsi giustizia da sé.

Venerdì notte il presidente USA Joe Biden ha avuto un colloquio con il primo ministro israeliano, in cui ha definito le uccisioni “un attacco contro il mondo civilizzato” e offerto appoggio a Israele. Biden ha anche “sottolineato il ferreo impegno USA per la sicurezza di Israele”, ha affermato la Casa Bianca in un comunicato.

Secondo il ministero degli Esteri israeliano l’aggressione a mano armata è stata la più sanguinosa per gli israeliani dall’attacco del 2008 che uccise otto persone in una scuola religiosa ebraica.

Prima della sparatoria di venerdì finora almeno 30 palestinesi sono stati uccisi quest’anno e l’Autorità Nazionale Palestinese, che ha limitati poteri di governo in Cisgiordania, ha affermato che sospenderà l’accordo di cooperazione per la sicurezza con Israele.

Mesi di violenza nella Cisgiordania occupata hanno accresciuto le preoccupazioni che il già imprevedibile conflitto possa acuirsi vertiginosamente senza controllo, innescando ulteriore violenza da parte di Israele.

Israele e Hamas hanno combattuto quattro guerre e una serie di schermaglie minori contro Gaza da quando Hamas ha preso il potere nell’enclave costiera assediata dal 2007. Le tensioni si sono notevolmente accentuate dopo che dallo scorso marzo Israele ha moltiplicato le incursioni nella Cisgiordania occupata.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




L’esercito israeliano uccide dieci palestinesi, tra cui una donna anziana

Redazione

26 gennaio 2023-Al Jazeera

Le forze israeliane si sono scontrate con i combattenti palestinesi nella città occupata di Jenin, in Cisgiordania, accusati di aver usato gas lacrimogeni in ospedale.

Le truppe israeliane hanno ucciso almeno dieci palestinesi in uno dei giorni più letali nella Cisgiordania occupata da quando le incursioni israeliane si sono intensificati all’inizio dello scorso anno.

Il Ministero della Salute palestinese afferma che altri 20 sono stati feriti con proiettili veri nel rastrellamento odierno nel campo profughi di Jenin, che i palestinesi hanno descritto come un “massacro”.

Secondo funzionari palestinesi è stata segnalata tra i morti una donna anziana. Quattro dei feriti sono in gravi condizioni.

Le forze israeliane si sono ora ritirate da Jenin.

L’ospedale di Jenin ha identificato la donna uccisa come Magda Obaid e l’esercito israeliano afferma di star esaminando i rapporti sulla sua morte.

Il Ministero della Sanità palestinese ha precedentemente identificato un altro dei morti come Saeb Azriqi, 24 anni, che è stato portato in ospedale in condizioni critiche dopo essere stato colpito da colpi d’arma da fuoco ed è deceduto per le ferite riportate.

La Brigata dei Martiri di Al-Aqsa – una milizia armata affiliata a Fatah – ha rivendicato uno dei morti, Izz al-Din Salahat, come un suo combattente.

I sanitari affermano che la situazione sul campo è molto difficile, con feriti che continuano a riversarsi negli ospedali e le forze israeliane che ostacolano il lavoro delle ambulanze e dei medici.

Il Ministero della Salute palestinese ha annunciato una protesta di medici alle 12:00 (10:00 GMT) davanti all’ospedale di Ramallah per protestare contro gli attacchi israeliani agli ospedali e al personale delle ambulanze a Jenin.

“In termini di dimensioni e numero di feriti c’è un’invasione che non ha precedenti in passato” testimonia ad Al Jazeera Wissam Baker, capo dell’ospedale pubblico di Jenin

Baker continua: “L’autista dell’ambulanza ha cercato di raggiungere uno dei martiri che era al suolo, ma le forze israeliane hanno sparato direttamente contro l’ambulanza e hanno impedito loro di avvicinarsi a lui”.

Baker afferma che le forze israeliane hanno anche sparato lacrimogeni contro l’ospedale che sono penetrati nel reparto infantile provocando sintomi di soffocamento, bambini inclusi.

Sono seguiti scioperi generali a Jenin, Nablus e Ramallah, con la chiusura anticipata delle scuole e dei negozi.

Il Primo Ministro palestinese Mohammad Shtayyeh in una dichiarazione invita le Nazioni Unite e tutte le organizzazioni internazionali per i diritti umani a “intervenire urgentemente per fornire protezione al popolo palestinese e fermare lo spargimento di sangue di bambini, giovani e donne”.

Saleh al-Arouri, importante leader del movimento Hamas che governa la Striscia di Gaza, sostiene che “la risposta della resistenza non tarderà”.

Youmna El Sayed di Al Jazeera, che riferisce da Gaza, riporta che fazioni palestinesi, Hamas compresa, hanno annunciato un giorno di lutto e dichiarato lo stato di allerta.

El Sayed riferisce: “Hanno invitato la comunità internazionale a ritenere i ‘criminali dell’occupazione’ responsabili dei loro crimini e infine hanno invitato la popolazione di Gaza a scendere in piazza e mostrare la loro rabbia contro il massacro commesso a Jenin”.

L’incursione israeliana

L’esercito israeliano afferma che forze speciali sono state inviate a Jenin per arrestare i combattenti della Jihad islamica sospettati di aver compiuto e pianificato “numerosi grandi attacchi terroristici”.

Le forze israeliane hanno lanciato un’incursione su larga scala e hanno assediato il campo nelle prime ore del giorno con forze sotto copertura, decine di veicoli blindati e cecchini. Ben presto sono scoppiati scontri armati con i combattenti della resistenza palestinese. I militari hanno aggiunto che diversi combattenti palestinesi sono stati uccisi dopo aver aperto il fuoco.

In una nota i funzionari israeliani sostengono che “Durante l’operazione, le forze di sicurezza hanno operato per circondare l’edificio in cui si trovavano i sospetti. Due sospetti armati sono stati identificati mentre fuggivano dalla scena e sono stati neutralizzati dalle forze di sicurezza”.

Non sono stati segnalati feriti dell’IDF [esercito israeliano, ndt.].

Jenin è tra le aree della Cisgiordania settentrionale dove Israele ha intensificato le incursioni nell’ultimo anno nel tentativo di reprimere la crescente resistenza armata palestinese.

Aleef Sabbagh, un analista politico specializzato in affari israeliani, afferma che l’operazione odierna a Jenin “dovrebbe essere intesa come un segnale: è il primo colpo di una prossima e più ampia operazione israeliana”.

Sabbagh dice ad Al Jazeera che “La mancanza di una risposta – né araba né internazionale – su ciò che Israele sta facendo lo sta incoraggiando a continuare con i suoi rastrellamenti e uccisioni”.

Nessuna responsabilità è stata attribuita per gli attacchi alle ambulanze e agli ospedali, per l’ostacolo degli aiuti ai feriti, per le esecuzioni sul campo – persino per l’uccisione di Shireen Abu Akleh. Se non ci sarà una risposta reale e forte, Israele continuerà a fare ciò che vuole con impunità”.

Shireen Abu Akleh di Al Jazeera, corrispondente veterana che copriva i territori palestinesi occupati da più di 25 anni, è stata uccisa a colpi di arma da fuoco a maggio mentre documentava un’incursione nel campo profughi di Jenin.

Nessuno è stato ancora ritenuto responsabile per la sua uccisione.

Il numero di palestinesi uccisi dalle forze israeliane durante le incursioni nella Cisgiordania occupata e a Gerusalemme est a gennaio è salito ad almeno 29 persone, tra cui cinque minori. Almeno 15 degli uccisi provenivano da Jenin.

Più di 170 palestinesi sono stati uccisi in tali azioni nel 2022, molti dei quali civili.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)

 




I palestinesi non sono bugiardi – contro la violenza della delegittimazione dei media

Ramzy Baroud e Romana Rubeo

24 gennaio 2023, PalestineChronicle

Il 19 gennaio, durante uno dei suoi raid nella Cisgiordania occupata vicino alla città di Al-Khalil (Hebron), l’esercito israeliano ha arrestato un giornalista palestinese, Abdul Muhsen Shalaldeh. È solo l’ultima di un numero impressionante di violazioni contro i giornalisti palestinesi e contro la libertà di espressione.

Pochi giorni prima durante una conferenza stampa a Ramallah il capo del Sindacato dei Giornalisti Palestinesi (PJS) Naser Abu Baker ha diffuso alcuni numeri tremendi. “Dal 2000 sono stati uccisi cinquantacinque giornalisti dal fuoco o dalle bombe israeliane”, ha detto. Altre centinaia sono stati feriti, arrestati o detenuti. Sebbene scioccante, questa realtà è in gran parte censurata dai principali media.

L’omicidio dell’11 maggio ad opera dell’esercito di occupazione israeliano della veterana giornalista palestinese Shireen Abu Akleh è stata un’eccezione, in parte a causa dell’importanza mondiale della sua testata, Al Jazeera Network. Tuttavia, Israele e i suoi alleati si sono impegnati a nascondere la notizia, ricorrendo alla consueta tattica di diffamare coloro che sfidano la narrativa israeliana.

I giornalisti palestinesi pagano un caro prezzo per portare avanti la loro missione di diffondere la verità sull’attuale oppressione israeliana dei palestinesi. Il loro lavoro non è solo fondamentale per una buona ed equilibrata copertura mediatica, ma anche per la causa stessa della giustizia e della libertà in Palestina.

In un recente rapporto del 17 gennaio, PJS ha dettagliato alcune delle spaventose esperienze dei giornalisti palestinesi. “Decine di giornalisti sono stati presi di mira dalle forze di occupazione e dai coloni durante lo scorso anno, che ha (registrato) il maggior numero di gravi attacchi contro giornalisti palestinesi”.

Tuttavia, il danno inflitto ai giornalisti palestinesi non è solo fisico e materiale. Sono anche costantemente esposti a una minaccia molto sottile ma ugualmente pericolosa: la costante delegittimazione del loro lavoro.

La violenza della delegittimazione

Romana Rubeo, co-autrice di questo articolo, ha partecipato il 18 gennaio a un incontro riservato che ha coinvolto oltre 100 giornalisti italiani con lo scopo di consigliarli su come riferire in modo accurato della Palestina. Rubeo ha fatto del suo meglio per illustrare alcuni dei fatti discussi in questo articolo, su cui è impegnata quotidianamente come caporedattrice di Palestine Chronicle.

Tuttavia, una giornalista israeliana veterana, spesso lodata per i suoi coraggiosi reportage sulla Palestina, ha scioccato tutti quando ha suggerito che non ci si può sempre fidare dei palestinesi per i particolari. Ha detto qualcosa del genere: sebbene la verità sia dalla parte palestinese, non ci si può fidare totalmente di loro sui particolari, mentre gli israeliani sono più affidabili sui dettagli ma mentono sul quadro generale.

Per quanto oltraggioso tale pensiero possa apparire – per non parlare del suo orientalismo [costruzione imperialista della disuguaglianza, dall’omonimo libro 1978 di Edward Said, ndt.] – è una minuzia in confronto alla macchina dell’hasbara [controllo e manipolazione delle notizie sulle politiche del governo e sull’esercito israeliani, ndt.] gestita dallo Stato del governo israeliano.

Ma è vero che non ci si può fidare dei palestinesi per i particolari?

Quando a Jenin Abu Akleh è stata uccisa non era l’unica giornalista presa di mira. Era presente il suo collega Ali al-Samoudi, un altro giornalista palestinese anch’egli colpito e ferito da un proiettile israeliano alla schiena.

Naturalmente al-Samoudi era il principale testimone oculare di quanto era accaduto quel giorno. Ha detto ai giornalisti dal suo letto d’ospedale che non c’erano combattimenti in quella zona; che lui e Shireen indossavano giubbotti stampa chiaramente contrassegnati; che sono stati intenzionalmente presi di mira dai soldati israeliani e che i combattenti palestinesi non erano neanche lontanamente vicini alla distanza di tiro da cui sono stati colpiti.

Tutto ciò è stato negato da Israele e, a propria volta, dai principali media occidentali, poiché presumibilmente “non ci si può fidare dei palestinesi per i particolari”.

Tuttavia, le indagini di organizzazioni internazionali per i diritti umani e infine una timida ammissione israeliana di possibile colpevolezza hanno dimostrato che quello di al-Samoudi era il racconto più dettagliato e onesto della verità. Questo episodio si è ripetuto centinaia di volte nel corso degli anni per cui all’inizio le opinioni palestinesi vengono respinte come false o esagerate e la narrazione israeliana accolta come l’unica verità possibile finché infine viene alla luce la verità che conferma ogni volta la versione palestinese. Molto spesso, la verità dei fatti viene rivelata troppo poco e troppo tardi.

Il tragico assassinio del ragazzo palestinese di 12 anni Mohammed al-Durrah rimane fino ad oggi l’episodio più vergognoso del pregiudizio dei media occidentali. La morte del ragazzo, ucciso dalle truppe di occupazione israeliane a Gaza nel 2000 mentre cercava rifugio accanto al padre è stata essenzialmente attribuita ai palestinesi, prima che la narrazione del suo assassinio fosse riscritta suggerendo che fosse rimasto ucciso nel “fuoco incrociato”. Quella versione della storia alla fine è cambiata con la riluttante accettazione del racconto palestinese sull’evento. Tuttavia, la storia non è finita qui, poiché l’hasbara sionista ha continuato a perseguire la propria narrativa, diffamando coloro che adottano la versione palestinese come anti-israeliani o addirittura “antisemiti”.

(Nessuna) Autorizzazione a narrare

Nonostante il giornalismo palestinese abbia dimostrato negli ultimi anni la sua efficacia – esempio lampante le guerre di Gaza – grazie al potere dei social media e alla loro capacità di diffondere informazioni direttamente ai fruitori di notizie, le sfide rimangono grandi.

Quasi quattro decenni dopo la pubblicazione del saggio di Edward Said “Permission to Narrate” [Autorizzzione a narrare, Journal of Palestine Studies XIII/3 1984, pp. 27-48] e più di dieci anni dopo il fondamentale poema di Rafeef Ziadah “We Teach Life, Sir” [“…non pensi si risolverebbe tutto se la smetteste di insegnare così tanto odio ai bambini?…”] sembra che, in alcune piattaforme mediatiche e ambienti politici i palestinesi debbano ancora ottenere il permesso di narrare, in parte a causa del razzismo anti-palestinese che continua a prevalere ma anche perché, secondo il giudizio della giornalista supposta filo-palestinese, i palestinesi non sono affidabili nei particolari.

Tuttavia, c’è speranza in questa storia. C’è una nuova generazione di attivisti palestinesi, emancipata e coraggiosa – autori, scrittori, giornalisti, blogger, registi e artisti – più che qualificata a rappresentare i palestinesi e a presentare un discorso politico coeso, non fazioso e universale sulla Palestina.

Una nuova generazione alla ricerca della verità

In realtà i tempi sono cambiati e i palestinesi non hanno più bisogno di filtri – come quelli che parlano a loro nome, posto che i palestinesi siano – come si presume – intrinsecamente incapaci di farlo.

Gli autori di questo articolo hanno recentemente intervistato due rappresentanti della nuova generazione di giornalisti palestinesi, due voci forti a favore di un’autentica presenza palestinese nei media internazionali: la giornalista e il redattore Ahmed Alnaouq e Fahya Shalash.

Shalash è una giornalista residente in Cisgiordania; ha trattato della copertura mediatica a partire dalle priorità palestinesi raccogliendo molti esempi di storie importanti che spesso non vengono riportate. “Come donne palestinesi nella nostra vita troviamo molti ostacoli e sono (tutti) legati all’occupazione israeliana; è molto pericoloso lavorare come giornalista. “Tutto il mondo ha visto cosa è successo a Shireen Abu Akleh per aver riferito la verità sulla Palestina”, ha detto.

Shalash ritiene che essere una giornalista palestinese che scrive sulla Palestina non è solo un’esperienza professionale, ma anche emotiva e personale. “Quando lavoro e sono al telefono con le famiglie dei prigionieri o dei martiri palestinesi, a volte scoppio a piangere”.

In effetti, le storie sugli abusi e gli attacchi contro le donne palestinesi da parte dei soldati israeliani raramente sono un argomento mediatico. “Israele indossa la maschera della democrazia; fingono di avere a cuore i diritti delle donne, ma non è affatto quello che succede qui”, ha detto la giornalista palestinese.

Colpiscono le giornaliste palestinesi perché sono fisicamente più deboli; le insultano con un linguaggio davvero spudorato. Sono stata personalmente detenuta dalle forze israeliane per essere interrogata. La cosa ha influenzato il mio lavoro. Mi hanno minacciato, dicendo che se nel mio lavoro avessi continuato a raffigurarli come criminali mi avrebbero impedito di fare la giornalista”.

Nei media occidentali continuano a parlare dei diritti delle donne e dell’uguaglianza di genere, ma noi non abbiamo alcun diritto. Non viviamo come in qualsiasi altro paese”, ha aggiunto.

Da parte sua Alnaouq, capo dell’organizzazione palestinese “We Are Not Numbers”, ha spiegato come i principali media non permettano mai alle voci palestinesi di essere presenti nei loro reportage. Gli articoli scritti da palestinesi sono anche “pesantemente modificati”.

“È anche colpa dei redattori”, ha detto. “A volte commettono grossi errori. Quando un palestinese viene ucciso a Gaza o in Cisgiordania, i redattori dovrebbero dire chi è l’autore, ma la stampa spesso omette questa informazione. Non menzionano Israele come colpevole. Hanno una specie di agenda da imporre”.

Quando gli abbiamo chiesto come avrebbe cambiato l’informazione sulla Palestina se avesse lavorato come redattore in un importante media occidentale, Alnaouq ha detto:

Direi solo la verità. È questo ciò che vogliamo come palestinesi. Vogliamo la verità. Non vogliamo che i media occidentali siano prevenuti nei nostri confronti o attacchino Israele, vogliamo solo che dicano la verità come è giusto che sia”.

Dare priorità alla Palestina

Solo le voci palestinesi possono trasmettere l’emozione delle drammatiche storie palestinesi, che non arrivano mai alla più vasta copertura mediatica e, quando succede, le storie spesso mancano di contesto, danno la priorità alle opinioni israeliane – se non a vere e proprie bugie – e a volte omettono del tutto i palestinesi. Ma come continua a dimostrare il lavoro di Abu Akleh, al-Samoudi, Alnaouq e Shalash e di centinaia di altri, i palestinesi sono qualificati per produrre giornalismo di alta qualità, con integrità e professionalità.

I palestinesi devono essere il fulcro della narrativa palestinese in ogni sua manifestazione. È tempo di rompere con il vecchio modo di pensare che vedeva i palestinesi incapaci di narrare, o passivi all’interno della propria storia, personaggi secondari che possono essere rimpiazzati o sostituiti da altri ritenuti più credibili e veritieri. Qualcosa di diverso sarebbe giustamente collocato nel pensiero orientalista di un’epoca passata, o peggio.

Ramzy Baroud è giornalista, autore ed redattore di The Palestine Chronicle. È autore di sei libri. Il suo ultimo, co-curato con Ilan Pappé, è La nostra visione per la liberazione: parlano i leader e gli intellettuali palestinesi impegnati. Fra gli altri libri My Father was a Freedom Fighter e The Last Earth. Baroud è Senior Research Fellow non residente presso il Center for Islam and Global Affairs (CIGA). Il suo sito web è www.ramzybaroud.net

Romana Rubeo è una scrittrice italiana e caporedattrice di The Palestine Chronicle. I suoi articoli appaiono su molti giornali online e riviste accademiche. Ha conseguito la Laurea Magistrale in Lingue e Letterature Straniere ed è specializzata in traduzione audiovisiva e giornalistica.

(Traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




L’UE afferma che è antisemita chiamare Israele Stato di apartheid.

Ali Abunimah  

23 gennaio 2023 – Electronic Intifada

Secondo l’Unione Europea dire che Israele sta perpetrando il crimine di apartheid contro il popolo palestinese è antisemita.

Ciò significherebbe che per Bruxelles importanti organizzazioni per i diritti umani, tra cui Human Rights Watch, Amnesty International e l’israeliana B’Tselem, finanziata dall’UE, sono colpevoli di fanatismo antiebraico.

L’incredibile affermazione è giunta in risposta a un’interpellanza da parte di alcuni membri filoisraeliani del parlamento europeo rivolta all’organo esecutivo dell’UE, la Commissione Europea.

I parlamentari hanno affermato che il rapporto di Amnesty International dello scorso febbraio “sostiene che l’apartheid è intrinseco alla fondazione dello Stato di Israele nel 1948, costruito e conservato dai successivi governi israeliani.”

I deputati hanno chiesto se anche il responsabile per la politica estera dell’UE Josep Borrell considera Israele uno “Stato di apartheid”.

Intendevano anche sapere se Borrell considera “antisemita” il rapporto di Amnesty in base alla definizione di antisemitismo dell’International Holocaust Remembrance Alliance [Alleanza Internazionale per la Memoria dell’Olocausto] (IHRA) “dato che esso sostiene che l’esistenza dello Stato di Israele è un’iniziativa razzista (cioè uno Stato di apartheid).”

Non appropriata”

I parlamentari filoisraeliani dovrebbero essere pienamente soddisfatti dalla risposta scritta di Borrell resa pubblica il 20 gennaio:

La commissione considera che non sia appropriato usare il termine apartheid in relazione con lo Stato di Israele,” scrive Borrell.

Egli afferma che l’UE si basa sulla cosiddetta definizione di antisemitismo dell’IHRA e sottolinea: “Sostenere che l’esistenza dello Stato di Israele sia un’iniziativa razzista è tra gli esempi illustrativi inclusi nella definizione dell’IHRA.”

L’estremamente politicizzata definizione dell’IHRA, pesantemente promossa da Israele e dalla sua lobby, ha subito incontrato una vasta opposizione dovuta a preoccupazioni sul fatto che sarebbe stata utilizzata esattamente nel modo in cui l’ha fatto Borrell ora: etichettare falsamente legittime critiche contro Israele e i suoi crimini come fanatismo antiebraico.

Borrell non fornisce nessuna base concreta per smentire la meticolosa ricerca di molte associazioni per i diritti umani che dimostra come Israele perpetra l’apartheid, un grave crimine contro l’umanità previsto dallo Statuto di Roma, il trattato che ha istituito la Corte Penale Internazionale.

Ma egli prosegue riaffermando la rituale e vuota adesione dell’UE a “una soluzione negoziata a due Stati.”

Crimine contro l’umanità

In base al diritto internazionale il crimine di apartheid si configura come “azioni inumane commesse con lo scopo di creare e conservare la dominazione di un gruppo razziale di persone su qualunque altro gruppo razziale di persone e opprimerlo sistematicamente.”

Nel gennaio 2021 B’Tselem, l’associazione per i diritti umani appoggiata dall’UE, ha affermato che Israele mette in atto “un regime di supremazia ebraica dal fiume Giordano al mar Mediterraneo”, cioè tutta l’area che comprende Israele, la Cisgiordania occupata e la Striscia di Gaza.

Questo è apartheid,” conclude B’Tselem.

Il nuovo governo israeliano si è insediato proclamando apertamente il proprio impegno a favore della supremazia ebraica e di conseguenza delle politiche di apartheid necessarie a conservarla.

Il popolo ebraico ha un diritto esclusivo e inalienabile su ogni parte della Terra di Israele”, ha proclamato la nuova coalizione, promettendo di “favorire e sviluppare l’insediamento in ogni parte della Terra di Israele: nelle Galilee, nel Negev, sulle Alture del Golan e in Giudea e Samaria.”

Le Alture del Golan sono un territorio siriano occupato, mentre “Giudea e Samaria” sono i termini sionisti per la Cisgiordania occupata.

Dopo questa dichiarazione Borrell ha detto ai nuovi governanti israeliani di “guardare avanti per lavorare con voi per migliorare ulteriormente i rapporti UE-Israele.”

In altre parole l’impegno dell’UE nei confronti del regime di apartheid israeliano e della sua opposizione ai diritti dei palestinesi rimane solidissimo.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




I generali israeliani non sono contenti di dover rispondere ai due ministri e mezzo di Netanyahu

Lily Galili

23 gennaio 2023 – Middle East Eye

L’accordo di coalizione del primo ministro israeliano ha consegnato all’estrema destra un controllo civile e militare senza precedenti, aprendo la strada all’annessione de facto della Cisgiordania.

Il nuovo comandante dell’esercito israeliano Herzi Halevi si trova in una situazione insolita. Il generale deve rispondere non a un ministro della Difesa, e neanche a due, ma a due ministri e mezzo.

Yoav Gallant del Likud [partito nazionalista e di destra israeliano con a capo l’attuale primo ministro Netanyahu, ndt.] è il ministro della Difesa israeliano. Bezalel Smotrich, presidente del partito di estrema destra Sionismo religioso, è sottosegretario presso lo stesso ministero [oltre ad essere ministro delle Finanze ndt.]. Itamar Ben-Gvir, del partito Jewish Power [Potere Ebraico, di estrema destra, ndt.], dispone di una fetta del portafoglio della Difesa, oltre ad essere ministro della Sicurezza Nazionale.

Gli ultimi due politici di estrema destra hanno rivendicato la loro parte nel ministero attraverso piani per riorganizzare l’autorità nella Cisgiordania occupata, che Israele ha [fino ad oggi, ndt.] amministrato – con l’eccezione di Gerusalemme Est – attraverso l’Amministrazione Civile Israeliana, un ramo del ministero della Difesa.

Nell’ambito dell’accordo che lo ha visto entrare a far parte del nuovo governo del primo ministro Benjamin Netanyahu, Smotrich ha chiesto – e ottenuto – l’autorità sull’Amministrazione Civile, che fino a quel momento era stata sotto il controllo esclusivo del ministro della Difesa.

Ben-Gvir, responsabile della polizia, ha ottenuto l’autorità sulla polizia di frontiera operante in Cisgiordania. Fino ad ora quella forza è rimasta sotto il controllo del comando centrale dell’esercito israeliano.

Ma ora, sulla base dell’accordo di coalizione, entro 90 giorni dalla formazione del nuovo governo sarà attuato il trasferimento dei poteri.

Di tutte le frammentazioni dei ministeri compiute da Netanyahu per facilitare la ripartizione equilibrata degli incarichi tra i partner della sua coalizione di estrema destra, la disarticolazione del ministero della Difesa è la meno comprensibile.

Nonostante la messa sull’avviso da parte di ufficiali di alto rango, anche in occasione di un incontro urgente con il comandante dell’esercito uscente Aviv Kochavi, Netanyahu ha portato a termine una mossa senza precedenti e insolitamente rischiosa.

Non è ciò che fa un primo ministro che si vanta di essere “Mr Security” [Signor Sicurezza]. È qualcosa che fa un uomo incriminato di tre reati per evitare di andare in prigione.

Yagil Levy, professore di Sociologia Politica e Ordine Pubblico presso la Open University of Israel, ha dichiarato a Middle East Eye che queste variazioni senza precedenti nella struttura dell’esercito e nella divisione dei compiti potrebbero provocare nei militari, in particolare tra gli alti gradi dell’esercito, un senso di perdita di prestigio.

Amir Eshel, ex dirigente generale del ministero della Difesa ed ex comandante dell’aeronautica israeliana, ha avvertito che la divisione del ministero tra tre entità potrebbe costituire un vero pericolo per la sicurezza.

Lunedì scorso, alla cerimonia del passaggio delle consegne ad Halevi, il ministro della Difesa Gallant ha affrontato la questione, dicendo che si sarebbe impegnato per frenare la “pressione esterna” sulle forze armate.

Gallant ha sottolineato l’unità di comando: “Per ogni soldato c’è un comandante… e soprattutto c’è il capo di stato maggiore, subordinato al ministro della Difesa”, ha detto.

Quindi un ministro della Difesa, e non 2,5. Dietro le spalle Gallant, che dovrebbe essere alla guida del ministero, è soprannominato ministro della Difesa di secondo grado”, o appaltatore esecutivo per lo smantellamento dell’esercito”. In questo caso la colpa non è sua.

La nuova struttura è stata testata prima del previsto quando venerdì, dopo che un avamposto coloniale ebraico illegale in Cisgiordania è stato evacuato poco dopo che era stato creato durante la notte, si è verificata una crisi di potere all’interno della coalizione. Gallant ha ordinato l’evacuazione sfidando sia Smotrich che Ben-Gvir.

Come ritorsione Smotrich ha rifiutato di partecipare alla teleconferenza con Netanyahu e Gallant; nel frattempo Ben-Gvir ha chiesto l’immediata evacuazione di Khan al-Ahmar, un villaggio beduino in Cisgiordania, lamentando un doppio standard per ebrei e arabi. Questo è solo l’inizio.

L’autorità di Smotrich sull’Amministrazione Civile israeliana e il Coordinatore delle attività governative nei territori (Cogat) [unità del Ministero della Difesa israeliano che coordina le questioni civili tra il governo di Israele, l’esercito israeliano, le organizzazioni internazionali e l’Autorità Nazionale Palestinese, ndt.] è già stata suggellata nell’accordo di coalizione.

Cosa significa questo in realtà, a parte un’anomalia all’interno di un’anomalia? Una risposta è più che certa: significa annessione de facto della Cisgiordania.

Amministrazione civile e militare

Per comprenderlo è fondamentale cogliere il ruolo dell’amministrazione civile nella macchina dell’occupazione.

La natura di questo organismo, istituito nel 1981, è stata delineata dal governo militare della Cisgiordania occupata in un regolamento militare.

Esso affermava: “Con la presente istituiamo un’amministrazione civile … gestirà tutte le questioni civili regionali relative a questo decreto militare, per il benessere e l’interesse della popolazione locale”.

In pratica, l’amministrazione civile è un eufemismo per amministrazione militare. Dal 1994 nelle aree A (18% della Cisgiordania) [sotto il pieno controllo dell’ANP, sulla base degli accordi di Oslo del 1993, ndt.] e B (22%) [sotto il controllo civile dell’ANP e militare di Israele, ndt.] alcune delle sue funzioni sono state trasferite per le questioni civili all’Autorità Nazionale Palestinese.

Oggi l’amministrazione civile è responsabile del rilascio dei permessi di viaggio dalla Cisgiordania occupata e da Gaza verso Israele. All’interno della Cisgiordania rilascia permessi di lavoro ai palestinesi che entrano in Israele per lavorare e sovrintende a tutti i permessi di costruzione negli insediamenti coloniali israeliani e su terra palestinese nell’Area C (60% della Cisgiordania), che è sotto il pieno controllo civile e militare israeliano.

“Il controllo dell’esercito sulla terra e sulla popolazione, in particolare quella palestinese, richiede non solo armi, ma un insieme di strumenti civili, militari e legali – ecco perché deve rimanere sotto una catena di comando militare”, ha detto in un’intervista radiofonica il generale in pensione Nitzan Alon, già a capo del comando centrale.

La subordinazione dell’Amministrazione Civile all’autorità militare non solo svolge il ruolo di organo effettivo di occupazione, ma anche di strumento legale. Israele non ha mai annesso formalmente la Cisgiordania e, anche se lo facesse, il suo status rimarrebbe comunque definito dal diritto internazionale come “occupazione militare temporanea”.

Mentre il mondo diviene insofferente per i 56 anni di occupazione temporanea, il trasferimento dell’autorità militare sull’area a un ministero civile solleva una questione giuridica.

Apparentemente, potrebbe significare un’annessione de facto con tutte le ripercussioni giuridiche del cambiamento di status. Contemporaneamente significa un aggravamento dell’apartheid.

Quasi tre milioni di palestinesi – compresi quelli delle aree A e B, ancora dipendenti da Israele – e mezzo milione di coloni ebrei si ritroveranno sotto una nuova compagine amministrativa che predica la supremazia ebraica ed è lì per compiacere il suo elettorato di estrema destra. Le implicazioni sono evidenti.

I generali in pensione si oppongono al cambiamento

Ephraim Sneh, un generale di brigata in pensione ed ex politico il cui ultimo ruolo nelle forze armate è stato quello di capo dell’Amministrazione Civile e che in seguito ha svolto attività di supervisione come viceministro della Difesa, è profondamente turbato dall’imminente trasferimento del potere dal comando militare a Smotrich.

Parlando con MEE, ha descritto l’equilibrio che le amministrazioni civile e militare cercano di raggiungere nel controllo della Cisgiordania e della sua popolazione.

“Il responsabile del comando centrale e il capo dell’amministrazione civile devono trovare l’equilibrio tra le esigenze di sicurezza militare e le esigenze civili”, sostiene Sneh.

Molto spesso queste esigenze si scontrano. Il capo dell’Amministrazione Civile si occupa per definizione di tutelare con la maggiore discrezione possibile la routine quotidiana. L’organismo responsabile della sicurezza è lì per fornire sicurezza, spesso a costo di interrompere la routine dei palestinesi”, afferma.

I responsabili della sicurezza, dice Sneh, sono a favore di più posti di blocco, maggiori restrizioni per fornire sicurezza, mentre la popolazione cerca semplicemente più comodità e possibilità di spostamento”.

“Alla fine, spetta al ministro della Difesa decidere”, afferma il comandante in pensione. “È una mossa molto rischiosa mettere questa autorità nelle mani di un ministro il cui principale interesse è cacciar via quanti più palestinesi possibile.

Ancora peggio, un politico i cui maggiori interessi sono scontri violenti tra ebrei e arabi ovunque, per preparare il terreno per futuri trasferimenti o quanto meno per compiacere il suo elettorato”.

Alla richiesta di fornire un esempio concreto di possibile scontro tra l’autorità militare del comando centrale responsabile della Cisgiordania e l’amministrazione civile, Sneh descrive una situazione di vita reale.

Immaginiamo una situazione in cui un uomo di un villaggio palestinese venga sospettato di qualche atto terroristico. L’istinto immediato dei militari sarebbe porre sotto assedio l’intero villaggio e revocare tutti i permessi di lavoro – una punizione collettiva totale”, sostiene Sneh.

L’Amministrazione Civile per definizione non è interessata ad una punizione collettiva, a cui farebbe seguito una protesta collettiva e quindi una violenza collettiva. Diciamo che l’Amministrazione Civile preferisce infliggere una punizione solo alla famiglia. È il ministro della Difesa a dover decidere. Ora abbiamo due ministri incaricati di quella decisione”.

Sneh aggiunge che il Cogat, un’unità del ministero della Difesa a cui è subordinata l’Amministrazione Civile, sarebbe guidata da un esponente di estrema destra incaricato da Smotrich, “la cui missione è rendere la vita dei palestinesi il più miserabile possibile”.

Avvertimento del dimissionario Kochavi

In una serie di interviste di addio ai media israeliani il comandante militare uscente Kochavi ha trattato dell’imminente subordinazione della polizia di frontiera della Cisgiordania al controverso Ben-Gvir.

Ha espresso la sua preoccupazione per la mossa in un incontro con Netanyahu. Alla domanda sul possibile trasferimento del potere a Ben-Gvir Kochavi non ha usato mezzi termini:

“Non possiamo avere due eserciti che rispondono a differenti concezioni e norme“, ha detto a Channel 13 [canale televisivo israeliano, ndt.].

Se in Giudea e Samaria [denominazione ebraica della Cisgiordania, ndt.] il controllo viene trasferito al di fuori della catena di comando dell’esercito, schiereremo soldati e riservisti per sostituire la polizia di frontiera. Le forze che operano insieme non avranno due comandanti”.

Kochavi ha sollevato la questione con Netanyahu ed è andato via con la convinzione che “saranno prese le decisioni giuste”. Ma anche Smotrich e Ben-Gvir sono stati ottimisti quando hanno firmato i loro accordi di coalizione, essendogli stato promesso tutto questo e altro ancora.

Levy, l’accademico, è preoccupato per le possibili ripercussioni. “Se a causa del trasferimento dell’autorità sulla polizia di frontiera a Ben-Gvir saranno necessari più riservisti, alcune unità potrebbero ribellarsi contro l’eccessivo reclutamento“, ha detto a MEE.

Il mondo assiste con indifferenza alla scissione del ministero dell’Istruzione e al trasferimento di alcuni dei suoi poteri a un irriducibile omofobo e misogino [si riferisce al vice ministro Avi Maoz, del partito ultraintegralista Noam, ndt.]. Lo stesso si può dire nel caso della frammentazione del ministero degli Esteri.

Questo non accade quando dei cambiamenti nelle forze armate sono un segnale chiaro e forte di un cambiamento di politica sull’uso della forza, l’apartheid e l’annessione accelerata dei territori occupati.

“Caos” è la parola usata dalla maggior parte delle alte cariche per descrivere l’evolversi della situazione, poiché avvertono il pericolo di un grande scontro con la comunità internazionale, l’amministrazione statunitense, l’UE e gli Stati arabi.

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Manifestazioni dopo le minacce israeliane di distruggere un villaggio palestinese

Redazione di Al Jazeera

23 gennaio 2023 – Al Jazeera

Khan al-Ahmar si trova nella Cisgiordania occupata in un corridoio che Israele progetta di usare per collegare colonie israeliane illegali.

Decine di palestinesi hanno manifestato contro le minacce dei massimi dirigenti politici israeliani di attuare a breve lo spostamento forzato del villaggio beduino palestinese di Khan al-Ahmar, situato alla periferia orientale di Gerusalemme, ove risiedono circa 180 persone.

La protesta si è svolta lunedì dopo che Itamar Ben-Gvir, politico di estrema destra e ministro della Sicurezza Nazionale, ha detto che avrebbe proceduto con la rimozione forzata del villaggio e dopo che sono emersi i piani per una visita alla località dei ministri di estrema destra, inclusi Ben-Gvir e Bezalel Smotrich.

Alla fine vari politici del Likud, il principale partito del parlamento israeliano, si sono riuniti vicino al villaggio per poi andarsene.

Sabato Ben-Gvir ha detto che il governo del primo ministro Benjamin Netanyahu “non adotterà norme giuridiche diverse per ebrei e per arabi” dopo lo sgombero da parte delle forze israeliane di un avamposto illegale ebraico nella Cisgiordania settentrionale occupata.

Comunque i palestinesi hanno precisato che si oppongono al paragone, secondo loro falso, fra Khan al-Ahmar e le colonie israeliane che sono illegali secondo il diritto internazionale.

Eid Jahalin, che si definisce il portavoce del villaggio, alle manifestazioni di lunedì ha detto che “dal 1967 ci sono state ordinanze militari per demolire case, istituire aree militari chiuse e altre che poi queste zone sono state trasformate in colonie illegali e riserve naturali”.

Il nostro destino è di rimanere in questa zona,” sostiene Jahalin. “E non si pensi che si tratti solo di Khan al-Ahmar, ci sono demolizioni nella valle del Giordano, a Masafer Yatta, nella città di Gerusalemme, succede continuamente in tutta la Palestina.”

Il destino di Khan al-Ahmar ha attirato l’attenzione internazionale per la sua pluriennale battaglia legale per la sopravvivenza contro le autorità israeliane.[ cfr. i molti articoli su Zeitun riguardo all’argomento]

Nel settembre 2018, la Corte Suprema Israeliana ha dato il via libera alla rimozione del villaggio, ora in pericolo di essere smantellato in ogni momento, ma da allora i piani di demolizione sono stati sospesi parecchie volte.

Il governo ha fino al primo febbraio per spiegare alla Corte Suprema perché il villaggio non è ancora stato demolito e per presentare un progetto.

Il governo israeliano ha detto che il villaggio è stato “costruito senza permesso”, ma le autorità rendono estremamente difficile ai palestinesi l’ottenimento di permessi di costruzione nella Gerusalemme Est occupata e in quella che è conosciuta come Area C, [sotto il totale ma temporaneo controllo israeliano, N.d.T.] che occupa più del 60% della Cisgiordania occupata. I palestinesi e le organizzazioni per i diritti umani dicono che la politica è parte di una più vasta strategia israeliana per rafforzare e mantenere nella regione una maggioranza demografica ebraica.

Il trasferimento forzato di persone protette in territori occupati è classificata come crimine di guerra ai sensi del diritto internazionale.

Precedentemente Amnesty International ha definito gli sforzi per spostare gli abitanti di Khan al-Ahmar “non solo spietati e discriminatori [ma anche] illegali”.

Nel 2018 Amnesty ha affermato che “il trasferimento forzato della comunità di Khan al-Ahmar costituisce un crimine di guerra”. Israele deve porre termine alla sua politica di distruzione delle abitazioni dei palestinesi e dei loro mezzi di sostentamento per far posto alle colonie.”

Khan al-Ahmar è situato in Cisgiordania, a pochi chilometri da Gerusalemme, e fra le due più grandi colonie illegali israeliane, Maale Adumim e Kfar Adumim.

È situato lungo un corridoio chiave che si estende alla valle del Giordano dove Israele mira a espandere e collegare le colonie, in pratica tagliando in due la Cisgiordania.

Il nostro messaggio principale ai leader palestinesi: … se questo villaggio sarà distrutto, ci sarà una Cisgiordania settentrionale e una Cisgiordania meridionale,” dice Jahalin. “In ciò risiede l’importanza di Khan al-Ahmar.”

Maarouf Rifai, consulente legale della commissione contro il muro e le colonie dell’Autorità Palestinese (AP), ha detto ad Al Jazeera che l’AP non permetterà la demolizione del villaggio.

Questa è terra palestinese. È terra palestinese privata,” ha aggiunto. “Non ci sono altre scuse per il governo israeliano se non lo sviluppo del piano per una ‘Gerusalemme più grande’ e per collegare le colonie intorno Gerusalemme Est e scacciare da questa zona gli arabi palestinesi. Siamo qui per far sentire la nostra voce, per dire che non permetteremo che ciò accada.”

Secondo Amnesty International dall’inizio della sua occupazione della Cisgiordania nel 1967, Israele ha sfrattato forzosamente e sfollato intere comunità e demolito oltre 50.000 abitazioni e strutture palestinesi.

Anche un’altra comunità palestinese, una costellazione di villaggi nota come Masafer Yatta dove vivono oltre 1000 palestinesi vicino a Hebron, nella Cisgiordania meridionale, sta affrontando uno sfratto forzoso imminente da parte del governo israeliano.

L’attivista palestinese Khairy Hanoun, che era presente alla manifestazione a Khan al-Ahmar, dice: “Siamo qui per sfidare la decisione di Ben-Gvir’ e le scelte di tutto questo governo di destra.”

Siamo venuti qui per dir loro: voi demolite i nostri villaggi, le nostre città e le nostre abitazioni, ma non distruggerete la nostra perseveranza,” ha ripetuto ad Al Jazeera.

Usando l’esempio di al-Araqib, un villaggio demolito e ricostruito 211 volte, Hanoun conclude: “Se demolite Khan al-Ahmar, anche se lo demolite 100 volte, noi continueremo a ricostruirlo.”

(Traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




L’esercito israliano ammette di aver ucciso senza motivo un padre palestinese disarmato di fronte a suo figlio

Redazione di The New Arab

23 gennaio 2023 – The New Arab

Continua a cambiare la narrazione dell’esercito riguardo all’uccisione di Ahmad Kahla, che era disarmato, ad un posto di blocco in Cisgiordania.

Le forze israeliane hanno ammesso di aver ucciso senza motivo Ahmad Kahla, che non era armato e che è stato colpito a morte di fronte a suo figlio ad un posto di blocco a nord di Ramallah il 15 gennaio.

Secondo fonti di informazione israeliane, con una rara ammissione di responsabilità, un’indagine iniziale della polizia militare israeliana ha scoperto che il quarantacinquenne è stato “colpito a morte senza motivo”.

In precedenza l’esercito israeliano aveva affermato che i soldati avevano colpito qualcuno dopo uno “scontro violento” durante il quale Kahla “avrebbe tentato di impadronirsi delle armi di uno dei soldati”.

Ora indagini militari hanno concluso che queste affermazioni sono false.

Il figlio dell’uomo, Qusai Kahla, ha riferito ai giornalisti che si trovava nell’auto con suo padre quando sono stati fermati al posto di blocco.

I soldati sono arrivati ed hanno spruzzato uno spray al peperoncino sulla mia faccia e mi hanno tirato fuori dall’auto”, ha detto il diciottenne a sua casa nel villaggio di Rammun.

Non so cosa sia accaduto dopo,” ha detto “Ho saputo da mio zio che mio padre era stato ucciso.”

Nel frattempo l’esercito israeliano ha affermato che i palestinesi si erano rifiutati di fermarsi e i soldati avevano usato “mezzi anti-sommossa al fine di arrestare uno dei sospetti nel veicolo”.

Lo spray al peperoncino che i soldati israeliani hanno usato non è in dotazione dell’esercito, ma è stato spruzzato su tutto il corpo di Ahmad Kahla prima che fosse colpito a morte.

Poi, quando il video della sparatoria è stato pubblicato sui social media, le fonti dell’esercito hanno cambiato versione sostenendo che Kahla aveva “cercato di afferrare una delle loro pistole”.

Il video non supporta le loro dichiarazioni, e testimoni oculari hanno detto agli investigatori militari che egli stava agitando le braccia quando è stato tirato fuori dal veicolo.

Il ministero degli Esteri palestinese ha condannato l’uccisione come una “orrenda esecuzione”.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Palestinese ucciso da un colono israeliano vicino a Ramallah

Redazione

21 gennaio 2023-Middle East Eye

Tariq Maali, 42 anni, è stato ucciso dopo essere entrato in un avamposto illegale di coloni dove si presume abbia tentato di accoltellare un israeliano.

Sabato un colono israeliano ha sparato e ucciso un palestinese in una fattoria vicino a Ramallah, nella Cisgiordania occupata.

Il Ministero della Salute Palestinese afferma che Tariq Maali, 42 anni, è stato ucciso dopo che “gli occupanti [israeliani] hanno aperto il fuoco su di lui” vicino alla città palestinese di Kafr Nama.

L’esercito israeliano ha dichiarato all’AFP [France-Presse] che Maali avrebbe tentato di accoltellare un civile israeliano nella fattoria di Sde Efraim, un avamposto illegale di coloni, ed è stato “neutralizzato” dagli israeliani.

I filmati delle telecamere a circuito chiuso rilasciati dai militari hanno mostrato un uomo che entrava nella fattoria e veniva ucciso poco dopo.

Secondo un fotografo dell’AFP le autorità israeliane hanno impedito a un’ambulanza palestinese di entrare nel sito.

Sde Efraim è un avamposto di coloni, o insediamento selvaggio, illegale anche secondo la legge israeliana.

La distinzione tra avamposti e altri insediamenti non è riconosciuta dal diritto internazionale, che considera illegali tutti gli insediamenti nei territori occupati.

Nello stesso luogo, due anni fa, un colono israeliano ha ucciso a colpi di arma da fuoco Khaled Nofal, un ragioniere palestinese disarmato di 34 anni.

Secondo i resoconti israeliani Nofal stava cercando di attaccare l’avamposto dei coloni disarmato, un’affermazione che la sua famiglia nega secondo quanto detto a Middle East Eye.

L’ultima uccisione porta a 18 il numero dei palestinesi uccisi finora quest’anno, compresi quattro minorenni.

Giovedì, Jawad Farid Bawaqta, 57 anni, insegnante di scuola superiore e padre di sei figli, è stato ucciso dalle forze israeliane dopo essere andato a prestare i primi soccorsi a un altro palestinese ferito.

Le forze israeliane conducono quasi ogni notte in Cisgiordania incursioni che spesso si rivelano mortali.

La maggior parte delle incursioni degli ultimi mesi si sono concentrate su Nablus e Jenin, che ospitano un crescente numero di combattenti palestinesi.

Almeno 167 persone sono state uccise l’anno scorso in Cisgiordania: il bilancio di vittime più alto dalla Seconda Intifada.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)