Il Comitato delle Chiese: l’attacco di Israele contro i cristiani è una ‘violazione’ del diritto internazionale

Redazione di MEMO

17 aprile 2023 – Middle East Monitor

Ieri l’Alto Comitato Presidenziale delle Chiese ha condannato come una “violazione” del diritto internazionale l’attacco dello Stato di Israele contro frati, ecclesiastici e altri fedeli che hanno partecipato alle celebrazioni del Sabato Santo a Gerusalemme occupata.

Ramzi Khoury, il presidente del comitato, ha affermato che “per giorni, la polizia israeliana ha minacciato di imporre una chiusura della Città Santa e ha chiesto alle chiese di ridurre il numero dei partecipanti e di quanti erano autorizzati ad accedere alla chiesa del Santo Sepolcro.”

“Da questa mattina la polizia israeliana ha trasformato la città in un accampamento militare e sono state installate delle barriere a tutte le entrate e attorno alla chiesa del Santo Sepolcro.”

Khoury ha sottolineato che Israele non tiene conto del diritto internazionale, che garantisce libertà di culto e una pratica dei rituali religiosi senza ostacoli.

Khoury ha affermato che “oggi [domenica] gli attacchi contro i cristiani avvengono nello stesso contesto degli attacchi contro i fedeli musulmani nella moschea di Al-Aqsa.”

“È diventato chiaro che il governo dell’occupazione israeliana non è preoccupato di ottenere la calma, ma invece è interessato ad accentuare la tensione e la violenza, usando tutti i mezzi a sua disposizione per provocare le reazioni emotive dei fedeli musulmani e cristiani”, ha aggiunto.

Khoury ha sollecitato la comunità internazionale e le istituzioni che si occupano di diritti umani a prendere al più presto provvedimenti contro la violazione da parte dello Stato di Israele dei luoghi santi e a porre fine ai crimini israeliani contro il popolo palestinese.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Cos’è la Giornata dei Prigionieri Palestinesi?

Maram Humaid

AlJazeera 17 aprile 2023

La ricorrenza, celebrata ogni anno il 17 aprile, è dedicata alla centralità dei prigionieri nella causa palestinese.

La Giornata dei Prigionieri Palestinesi viene commemorata ogni anno il 17 aprile, una data approvata dal Consiglio Nazionale Palestinese nel 1974 come giornata nazionale dedicata alla libertà dei prigionieri e al sostegno dei loro diritti.

La data è stata scelta poiché ricorda il rilascio del prigioniero Mahmoud Bakr Hijazi nel primo scambio di prigionieri tra palestinesi e Israele.

Alla fine del marzo 2008 il XX Vertice Arabo tenutosi nella capitale siriana Damasco ha approvato l’adozione della giornata in tutti i paesi arabi, in solidarietà con i prigionieri palestinesi e arabi detenuti da Israele.

Secondo la Commissione Palestinese per i Detenuti e gli Ex-detenuti, in Israele sono attualmente trattenuti 4.900 prigionieri di cui 31 donne e 160 minori.

Tra loro anche i circa 1.000 detenuti sottoposti a detenzione amministrativa, il che significa che sono trattenuti senza processo e ogni “prova” a loro carico viene loro nascosta.

Ci sono anche più di 20 prigionieri arrestati prima della firma degli accordi di Oslo tra Israele e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina nel 1993. Quello detenuto da più tempo è Muhammad al-Tus: dietro le sbarre dal 1985.

Da tempo i palestinesi criticano Israele per le condizioni delle sue prigioni. Secondo la Commissione, dal 1967 nelle carceri israeliane sono morte 236 persone e centinaia sono morti dopo il rilascio per malattie contratte mentre erano detenuti.

La sofferenza dei detenuti ammalati è una delle principali preoccupazioni umanitarie, con più di 700 detenuti affetti da varie malattie e almeno 24 che hanno il cancro e necessitano di assistenza sanitaria intensiva.

Arresti di quest’anno

L’anno scorso si sono registrati arresti quasi quotidiani nella Cisgiordania occupata e a Gerusalemme Est con l’intensificarsi dei raid di Israele.

Dall’inizio del 2023 sono stati registrati dalle organizzazioni dei detenuti 2.300 casi di arresti, di cui 350 minori provenienti in maggioranza da Gerusalemme e 40 fra donne e ragazze.

All’interno delle prigioni

Le associazioni per i diritti umani e le organizzazioni dei prigionieri affermano che le condizioni all’interno delle strutture israeliane sono molto dure. Vengono riportati il rifiuto delle visite, le torture psicologiche e fisiche e la negligenza medica, con i prigionieri malati impossibilitati a ricevere cure adeguate.

Dal 2021 è inoltre aumentata in modo significativo la misura di isolamento, con circa 35 prigionieri palestinesi ora in isolamento, compresi malati affetti da malattie croniche.

In passato il servizio penitenziario israeliano ha difeso il trattamento riservato ai prigionieri palestinesi affermando che le sue politiche sono pienamente legali.

Le autorità israeliane continuano a vietare le visite familiari per alcuni prigionieri, in particolare a quelli provenienti da Gaza.

Proteste dei prigionieri

Nel corso di febbraio e fino al 22 marzo i prigionieri palestinesi hanno portato avanti una serie di proteste contro le politiche carcerarie israeliane quando il ministro per la Sicurezza Nazionale di estrema destra Itamar Ben-Gvir ha annunciato una nuova serie di misure.

Queste misure hanno fortemente condizionato la vita dei palestinesi nelle carceri israeliane, anche limitando la quantità di acqua che possono usare, le ore in cui possono fare la doccia e il loro accesso al cibo.

La protesta alla fine si è conclusa quando i detenuti hanno raggiunto un accordo con il servizio penitenziario israeliano.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Sotto copertura in pieno giorno: raid militari israeliani nelle città della Cisgiordania

Ola Marshoud, Nablus, Palestina occupata

16 aprile 2023Middle East Eye

Soldati israeliani travestiti da palestinesi si infiltrano nei quartieri quando sono più affollati e li trasformano in campi di battaglia

Un tranquillo mercoledì mattina Allam Abdulhaq stava pulendo il suo piccolo negozio in Mreij Street a Nablus nella Cisgiordania occupata quando si è trovato nel mezzo di un violento raid israeliano clandestino.

Gli sono bastati pochi secondi perché si rendesse conto che un gruppo di addetti alle telecomunicazioni giunto nel suo quartiere pochi istanti prima era in realtà un’unità delle forze israeliane che si preparava ad arrestare il combattente palestinese Mohammed Hamdan.

Il raid del 22 marzo è avvenuto come parte di una serie di analoghe incursioni militari israeliane in varie città e quartieri della Cisgiordania con l’obiettivo di arrestare o assassinare dei ricercati combattenti della resistenza palestinese.

Molti di questi raid hanno provocato l’uccisione di diversi palestinesi in quella che dei funzionari palestinesi hanno descritto come una serie di “massacri”.

Con voce tremante Abdulhaq ha ricordato gli eventi di quella mattina.

“Ho visto due giovani vestiti come operai delle telecomunicazioni o dell’azienda elettrica. Portavano attrezzature e i loro indumenti erano impolverati e sporchi”, dice con voce tremante il cinquantacinquenne proprietario del negozio nel ricordare gli eventi di quella mattina.

“Uno di loro ha parlato con il suo collega in arabo e poi ha comprato una bottiglia d’acqua. Pochi istanti dopo è arrivata un’auto con una scala fissata sul tettuccio e ne sono scesi quattro uomini. Hanno chiesto ai due giovani: ‘Pronti?’. Hanno risposto: “Sì, pronti”.

“I quattro si sono poi diretti all’agenzia di consegne di fronte e gli altri due sono rimasti vicino al mio negozio”.

“Sono passati alcuni minuti prima che Hamdan uscisse di corsa dall’agenzia, inseguito dai quattro uomini che gli hanno puntato contro le pistole e gli hanno sparato iniziando poi a urlare e insultarlo con parole volgari“.

Mentre Abdulhaq osservava lo svolgersi dei fatti i due giovani gli hanno puntato le pistole alla tempia, costringendolo a voltare le spalle alla scena.

Tuttavia ha cercato di dare un’occhiata per vedere se Hamdan, che era stato colpito alla coscia, fosse ancora vivo.

“Pensavo che fosse un problema familiare o una sorta di litigio, fino a quando sono arrivati dei rinforzi militari su un autobus che trasportava agenti sotto copertura e soldati. Solo allora ho capito che quello che stava succedendo era un raid militare per arrestare un palestinese ricercato”, riferisce Abdulhaq a Middle East Eye.

Tre settimane dopo il raid Abdulhaq sembra trovarsi ancora sotto shock.

“Ero terrorizzato. Ho il diabete ed ero in pessime condizioni, quindi mio fratello, che è medico, ha chiamato un’ambulanza”, ricorda.

“Non posso dimenticare la voce di Mohammed Hamdan che gridava mentre veniva arrestato: ‘Salutate le mie figlie’. Non riesco a togliermelo dalla mente”.

Travestiti per assassinare

Dal 2021 l’esercito israeliano ha intensificato i suoi raid nelle città della Cisgiordania, dove le operazioni di arresti e assassinii sono solitamente condotte da forze speciali sotto copertura.

Dei soldati israeliani compaiono in un quartiere palestinese vestiti come gente del posto – anche travestiti da religiosi musulmani, operai, giornalisti o medici – per condurre operazioni militari altamente riservate.

Da allora le forze sotto copertura riescono ad entrare nelle città palestinesi utilizzando camion e veicoli che portano nomi di aziende e industrie alimentari palestinesi, o auto con targa palestinese.

Sorprendentemente la maggior parte delle incursioni sono condotte nelle ore di punta in mercati e quartieri sovraffollati, trasformandoli in campi di battaglia.

Un mese prima del raid sotto copertura a Nablus, il 22 febbraio le forze israeliane hanno preso d’assalto la città e ucciso 11 palestinesi.

Secondo i resoconti dei testimoni oculari i soldati israeliani sotto copertura sono entrati in un mercato affollato travestiti da rappresentanti del clero, portando tappetini da preghiera in cui tenevano nascoste le armi e si sono diretti alla Moschea Grand Salahi.

Le forze speciali hanno quindi lasciato la moschea e si sono spostate verso un edificio vicino dove si vociferava si trovassero dei combattenti palestinesi, prima di essere raggiunti da ingenti rinforzi militari.

La casa è stata posta sotto assedio e sono stati lanciati dei razzi contro l’edificio, mentre nelle vicinanze venivano avvistati dei cecchini israeliani.

Si è anche visto un elicottero militare israeliano sorvolare la città.

Sotto copertura in pieno giorno

Tre settimane dopo, il 16 marzo, è stato condotto un raid simile nella città di Jenin in Cisgiordania, anche se con alcune varianti.

In un affollato giovedì pomeriggio in via Abu Baker, dove il mercato centrale di Jenin è solitamente gremito di gente in vista del fine settimana, quattro uomini armati sono scesi da un veicolo e hanno aperto il fuoco contro la folla di acquirenti e pedoni, prendendo di mira due combattenti della resistenza palestinese.

I due uomini, identificati come Nidal Khazem, 28 anni, e Youssef Shreim, 29, avevano lasciato quel giorno il campo profughi di Jenin dove erano nascosti per recarsi da un barbiere e presso un negozio di dolciumi in città.

Si trovavano su una moto quando sono stati uccisi insieme ad altri due, di cui un ragazzo di 16 anni. Secondo il Ministero della Salute palestinese nel raid sono rimaste ferite anche altre ventitré persone.

“Tutti urlavano, piangevano e correvano ovunque. Donne e bambini erano terrorizzati, mentre gli uomini cercavano di proteggerci e di farci entrare nei negozi per evitare di essere colpite“, ha detto Sora Abu al-Rob, che quando si è verificato l’incidente stava uscendo da una clinica odontoiatrica.

“Ho deciso di rientrare nella clinica. Ho pensato che forse sarebbe stato più sicuro della strada. Ma la finestra della clinica si affacciava direttamente sul tetto dell’edificio di fronte, dove i combattenti della resistenza si nascondevano dietro i serbatoi d’acqua e si scontravano con le forze speciali.”

Abu al-Rob e altri pazienti della clinica si sono riparati dalla sparatoria in uno dei corridoi.

Prima della visita Abu al-Rob aveva incontrato degli amici che non vedeva da sette mesi.

“Abbiamo camminato per i quartieri della città e abbiamo parlato di quanto la amiamo e del senso di familiarità che proviamo nel viverci. Ma questa familiarità è svanita in un batter d’occhio e si è trasformata in paura e orrore”, ricorda.

“[Quando è iniziata la sparatoria] ho provato a contattare i miei amici per assicurarmi che stessero bene, ma non ci sono riuscita”, dice.

“I raid [militari] non sono una novità per il popolo palestinese, ma di solito sono condotti alla periferia delle città e dei quartieri.

“Ciò che ha reso orribile quella circostanza è il fatto che sia successo all’interno di un mercato sovraffollato”.

In seguito all’incidente Abu al-Rob ha dichiarato in un post su Facebook: “Questa è una scena a cui non ci possiamo abituare, non importa quante volte si verifichi. Queste voci di dolore non scompaiono con il tempo. Questo enorme senso di perdita non svanisce con il tempo. Piuttosto genera paura, odio, sete di vendetta, e forse… un po’ di speranza.”

Sei un palestinese: sei un bersaglio

Non appena inizia un raid Mohammed Ordonia, allenatore di calcio e fotografo, indossa la sua divisa da paramedico e si precipita nel campo per curare i feriti.

Ordonia afferma che in tali occasioni lui e i suoi colleghi paramedici “dimenticano la paura” poiché la loro prima preoccupazione e priorità diventa “salvare vite”.

Il paramedico di 28 anni e molti suoi colleghi, che fanno parte di una squadra di soccorso medico di 25 persone, erano presenti nell’area di Bab al-Saha a Nablus il giorno del raid del 22 febbraio.

“Ci siamo distribuiti in più aree per assicurarci di poter intervenire in caso di ferimenti nelle aree degli scontri”, riferisce Ordonia a MEE.

“Abbiamo curato un gran numero di ferite causate da proiettili veri, proiettili di gomma e lacrimogeni”.

Ordonia afferma che durante i raid militari le forze israeliane non fanno differenza tra paramedici, civili e combattenti della resistenza.

“Sei un palestinese: sei un bersaglio. I paramedici si trovano sempre nell’elenco degli obiettivi dell’occupazione”, aggiunge.

A dicembre il suo collega paramedico Hamza Abu Hajar è stato gravemente ferito al fegato e alla milza mentre cercava di curare un palestinese ferito.

“Non smetto di pensare cosa succederebbe se un giorno fossi al suo posto”, dice Ordonia. “Ma una volta che riceviamo la chiamata a salvare i feriti e nel momento in cui indosso la divisa da paramedico faccio le abluzioni e prego, quindi mi precipito sul campo. In quel momento, questi pensieri cessano e mi dimentico della morte.”

In molti casi, le ambulanze sono prese di mira dai colpi di arma da fuoco israeliani o viene loro impedito di evacuare i feriti e raggiungere gli ospedali.

“Molti dei feriti arrivano in auto private piuttosto che in ambulanze. In tal caso i giovani del Campo, che resistono anchessi all’occupazione, lavorano come paramedici”, ha detto Nawal Anboussi, addetta alle pubbliche relazioni presso l’Ibn Sina Hospital, adiacente al Campo Profughi di Jenin.

Le conseguenze del lutto

Durante i raid, lontano dagli scontri per le strade, negli ospedali si svolge un altro tipo di combattimento.

“Non appena inizia il raid l’ospedale vicino al luogo dell’incidente si prepara a ricevere i feriti. I medici di tutti i reparti sono chiamati ad assicurarsi di essere completamente attrezzati per ricevere e curare tutte le ferite, lavorando instancabilmente per salvare vite umane”. afferma Anboussi.

I pronto soccorso si affollano di vittime e famigliari che si precipitano negli ospedali per vedere se tra le vittime figurano i loro figli e se sono vivi.

I feriti arrivano uno dopo l’altro, lasciando i medici esausti nel tentativo di salvare i feriti gravi. Le loro voci si sentono echeggiare in tutto l’ospedale, mentre invocano donazioni di sangue o chiedono agli infermieri di trasferire i feriti nelle sale operatorie o nelle unità di terapia intensiva.

“I parenti dei feriti aspettano al pronto soccorso senza sapere se i loro padri, fratelli o figli sopravviveranno. Ma la scena più dura che ho vissuto è stata quando ho confortato la madre di un giovane gravemente ferito, dicendole che sarebbe sopravvissuto, per poi apprendere, dieci minuti più tardi, che era morto”, ricorda Anboussi.

Sono solo pochi attimi tra la speranza di sopravvivere e la paura della perdita.”

L’anno scorso Anboussi ha preso parte alla cerimonia funebre della giornalista palestinese Shireen Abu Akleh dopo il suo assassinio da parte delle forze israeliane, un’esperienza che ancora non riesce a credere di aver vissuto.

Ero rimasta scioccata da quello che è successo, e mentre la stavo avvolgendo con il sudario, non riuscivo ancora a crederci. Tutti quelli che mi hanno visto quel giorno mi hanno detto che sembrava che fossi malata.”

Dopo ogni raid militare e il ritiro delle forze speciali i medici continuano a fare del loro meglio per salvare i feriti, mentre i morti vengono pianti e seppelliti.

L’intera città di solito cade in uno stato di profondo dolore e i negozi chiudono mentre la maggior parte delle città della Cisgiordania rispetta uno sciopero generale.

Per i combattenti della resistenza uccisi durante gli scontri con le forze israeliane si tengono funerali militari per onorare la loro lotta contro l’occupazione, e decine di residenti scendono in piazza per partecipare ai funerali, cantando per la Palestina e le vittime e minacciando ritorsioni contro l’occupazione israeliana.

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Cibo o medicine? Una scelta tragica a Gaza.

Ola Mousa

14 aprile 2023-The Electronic Intifada

Amal Bahar ha dovuto aspettare tre mesi prima di poter vedere un medico nel reparto otorinolaringoiatria dell’ospedale al-Shifa di Gaza City.

Per tutto quel tempo ha avuto l’acufene.

“Ho un formicolio costante nell’orecchio”, ha detto. “A volte, il dolore diventa acuto e si trasforma in mal di testa.”

Il dolore, ha osservato, può essere particolarmente acuto la sera.

Poiché al-Shifa è un’istituzione pubblica, alla fine Amal ha potuto consultare un medico gratuitamente. Tuttavia, poiché le risorse dell’ospedale sono limitate e molto richieste, c’è voluto molto tempo prima che potesse ottenere un appuntamento.

Avrebbe potuto ricevere cure prima se avesse avuto un reddito più elevato. Tuttavia sia Amal, 50 anni, che suo marito Wael, 55 anni, sono disoccupati, e lei non può permettersi di pagare.

La coppia fa affidamento sul sussidio di invalidità che Wael riceve dall’Autorità nazionale palestinese. Ammonta a circa $ 110 al mese.

Lui ha avuto un incidente in un cantiere dove lavorava due anni fa. Di conseguenza, la sua gamba destra ha subito gravi lesioni.

Amal dovrebbe pagare circa $ 22 per un consulto con uno specialista in una clinica privata. Ha anche bisogno di acquistare medicine dalle farmacie, il che può costarle circa $ 40 a settimana.

Le loro terribili circostanze economiche hanno fatto sì che Wael, Amal e i loro quattro figli abbiano dovuto fare a meno di molte qualità di cibo. Non hanno mangiato carne negli ultimi 18 mesi.

La povertà sta distruggendo la mia famiglia”, dice Amal. “E la mia malattia e tutto lo stress della mia vita stanno distruggendo la mia salute.”

Il blocco totale di Gaza – imposto da Israele dal 2007 – ha causato grossi problemi al sistema sanitario.

Le scorte di medicinali essenziali sono da lungo tempo gravemente carenti.

E i farmaci disponibili possono essere “più cari rispetto ai paesi vicini”, ha osservato Hussam al-Ladgha, un farmacista locale. L’importazione di medicinali da Israele e dall’Egitto è onerosa e costosa, ha spiegato.

Si lotta per il cibo

Muhammad Salem, 49 anni, soffre di mal di schiena cronico. Negli ultimi sette mesi ha aspettato un’operazione.

Gli è stato consigliato un certo numero di medicinali per alleviare le sue condizioni. Il costo totale per i farmaci è di oltre $ 20 a settimana.

Disoccupato da sette anni, Salem non può permettersi quella cifra.

Inoltre non può pagare gli onorari richiesti da molti medici. Mentre i medici che può vedere gratuitamente negli ospedali pubblici di solito sono oberati di lavoro

A volte è arrivato in ospedale per appuntamenti la mattina presto, ma ha dovuto aspettare fino al pomeriggio prima che un medico potesse vederlo.

“Soffro molto ogni giorno”, ha detto. “E trovo difficile dormire. Sono sempre in ansia”.

Le vittime della brutalità di Israele spesso devono accontentarsi di un trattamento inadeguato.

Muhammad Diab, che ora ha 34 anni, è stato colpito alla gamba sinistra da un cecchino israeliano nel maggio 2018. Stava partecipando alla Grande Marcia del Ritorno – proteste per chiedere che ai palestinesi fosse permesso di realizzare i loro diritti umani fondamentali.

Diab ha subito una serie di operazioni. Ha subito varie complicazioni, inclusa un’infezione alla gamba.

Dato che avrebbe bisogno di una sostituzione della rotula, dovrebbe vedere i medici regolarmente. Tuttavia, poiché non può permettersi di pagare le spese mediche, può fare gli esami medici solo una volta ogni due mesi.

Afferma che gli antidolorifici che riceve non forniscono un sollievo efficace.

“Sono disoccupato e ho tre figli”, prosegue. “Prima del mio infortunio [nel 2018], ero un operaio edile. Oggi sono ferito e povero e devo contare sull’aiuto dei miei fratelli. Non posso pagare per le cure di cui ho bisogno”.

Secondo gli ultimi dati ufficiali circa il 44% delle persone di età pari o superiore a 15 anni a Gaza sono disoccupate. Circa l’80% dei due milioni di abitanti di Gaza dipende dagli aiuti umanitari.

Il dottor Shawqi al-Baba, un chirurgo ortopedico, rileva che molte persone a Gaza non ottengono dei controlli clinici adeguati per i loro problemi medici perché non possono pagare gli onorari. È noto che i problemi di salute peggiorano di conseguenza.

“Per i poveri di Gaza andare da un dottore è spesso l’ultima risorsa”, ha detto. “La lotta principale qui è per il cibo.”

Zuhair Saad, 50 anni, fa eco a questa affermazione. Ha il diabete e la pressione alta, ma raramente va dal dottore.

Afferma: “Sono disoccupato da 10 anni e ho tre figli disoccupati”. “Per i poveri di Gaza recarsi in cliniche e acquistare medicinali è un carico aggiuntivo. Già dobbiamo affrontare una battaglia quotidiana per trovare cibo”.

Ola Mousa è un’artista e scrittrice di Gaza.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Le giustificazioni di Israele per la fucilazione – che l’Occidente si beve

Maureen Clare Murphy

The Electronic Intifada 14 Aprile 2023

Yusif Abu Jaber è stato seppellito martedì e la sua famiglia chiede risposte sulle circostanze della sua morte.

Le autorità israeliane affermano che venerdì scorso il cittadino palestinese dello Stato (di Israele) ha diretto intenzionalmente l’auto contro un gruppo di turisti sulla passeggiata a mare di Jaffa, uccidendo un italiano, prima di essere ucciso dal fuoco della polizia.

La polizia dice che, dopo che la sua auto si è ribaltata, è sembrato che Abu Jaber afferrasse un “oggetto simile a un fucile”, che in seguito ha ammesso essere una pistola giocattolo.

I famigliari di Abu Jaber vogliono che Israele consegni le riprese della videocamera registrate dagli agenti che hanno ucciso il padre di sei ragazze. Segnalano che Israele non ha pubblicato foto della pistola giocattolo che Abu Jaber avrebbe afferrato.

Una prima autopsia eseguita dall’Istituto di Israele di Medicina Legale ha stabilito che il quarantacinquenne ha avuto un ictus. I media israeliani, rimettendosi alla polizia segreta dello Shin Bet israeliano (servizi segreti interni, ndtr.), hanno riferito che questi risultati preliminari rafforzano “i sospetti che si trattasse di un attacco terroristico”, anche se dovrebbe essere necessario un esame ulteriore per accertare altre cause della possibile perdita di controllo del veicolo da parte di Abu Jaber.

L’Istituto di Medicina Legale avrebbe concluso che Alessandro Parini, il turista italiano, è stato ucciso dalla violenza dell’impatto e non ha riscontrato che sia stato ferito da arma da fuoco.

La polizia israeliana ha concluso che Abu Jaber ha investito intenzionalmente le persone con la sua auto.

E’entrato ad alta velocità nell’area della passeggiata ed ha guidato tra i blocchi di cemento per raggiungere la pista ciclabile e colpire più persone possibile”, ha detto al giornale Haaretz di Tel Aviv un alto funzionario. Dopo aver investito un primo gruppo di persone Abu Jaber “ha continuato ad accelerare investendo un altro gruppo.”

Il funzionario ha detto che dopo che l’auto di Abu Jaber si è ribaltata lui è uscito dal veicolo impugnando una pistola giocattolo. Dopo che gli hanno sparato e l’oggetto gli è caduto di mano, “ha cercato di afferrare nuovamente la pistola giocattolo, dimostrando di voler morire”, riferisce Haaretz.

La polizia israeliana ha confermato quella conclusione. In un video degli spari a Abu Jaber fatto da un passante si sente qualcuno ordinare in ebraico di dare conferma dell’uccisione.

Riecheggiando ciò che le associazioni per i diritti umani sostengono da anni, Omar Abu Jaber, fratello del guidatore ucciso, ha detto: “Il poliziotto che gli ha sparato uccidendolo ha assunto il ruolo di accusatore e giudice e lo ha condannato direttamente sul campo.”

Omar Abu Jaber ha detto che suo fratello avrebbe potuto essere arrestato da vivo ed ha sottolineato che la polizia e il Servizio nazionale di pronto soccorso israeliano Magen David Adom hanno modificato più volte la loro versione dei fatti.

Problema di credibilità della polizia israeliana

Sami Abou Shahadeh, un deputato palestinese del parlamento israeliano, ha richiesto un’indagine indipendente.

Tuttavia media internazionali, diplomatici e persino funzionari ONU hanno velocemente accettato le affermazioni della polizia israeliana sull’episodio dell’evidente esecuzione sommaria di un palestinese.

In una dichiarazione rilasciata giovedì, esperti indipendenti di diritti umani dell’ONU hanno riportato l’incidente di Jaffa con dei giri di parole. Gli esperti fanno riferimento a “attacchi mortali contro israeliani e civili internazionali”, chiedendo un’azione internazionale per bloccare il trasferimento forzato da parte di Israele dei palestinesi di Gerusalemme.

Le affermazioni della polizia israeliana dovrebbero invece essere trattate con scetticismo, data la lunga consuetudine di dare copertura a morti ingiustificate per mano dei suoi agenti.

Giovedì il procuratore di Stato di Israele ha chiuso una indagine di routine sulla sparatoria mortale della polizia contro un cittadino palestinese di Israele sulla spianata della moschea di al-Aqsa nella Città Vecchia di Gerusalemme all’inizio di aprile.

La polizia sostiene che Muhammad al-Asibi, uno studente di medicina, aveva afferrato il fucile di un poliziotto e sparato due volte, prima di essere ucciso.

Testimoni oculari hanno confutato la versione della polizia e persino degli ex poliziotti hanno espresso dei dubbi sull’affermazione che l’incidente non fosse stato ripreso da una videocamera in un’area altamente sorvegliata.

Un sorvegliante della moschea di al-Aqsa che è stato testimone degli spari ad al-Asibi ha detto che la polizia aveva sequestrato il suo cellulare e che era stato interrogato dallo Shin Bet a scopo di intimidazione.

Gideon Levy, un giornalista di Haaretz, nota che “in una registrazione audio della scena si sentono sparare 12 colpi in rapida successione in circa tre secondi”, nonostante la polizia affermi che ci fosse stata una lotta prima dei colpi iniziali presumibilmente sparati da al-Asibi e di quelli che lo hanno ucciso.

Oltre all’assenza di pause tra i colpi uditi nella registrazione, secondo Levy “è anche sconcertante il fatto che 12 pallottole abbiano colpito Mohammed, la maggior parte delle quali sparate da un secondo poliziotto, senza che nessuna di esse abbia colpito il poliziotto che avrebbe lottato con al-Asibi.”

Ahmad Tibi, un deputato palestinese nel parlamento israeliano, ha sottolineato che la polizia israeliana è pronta a diffondere filmati quando sostiene che qualcuno ha attaccato un agente.

Conosco bene la zona, ci sono cinque videocamere di registrazione ed ogni poliziotto ha una videocamera”, ha detto Tibi.

Sospettiamo che la polizia abbia coordinato i suoi testimoni. Dicono esattamente le stesse cose e questo desta veramente dei sospetti.”

Insabbiamenti e diffamazioni della polizia

Tibi ha paragonato l’uccisione di Abu Jaber a quella di Yaqoub Abu al-Qiyan e Iyad Hallaq.

In entrambi quei casi la polizia sostenne di aver ucciso qualcuno che stava compiendo o intendeva compiere un attacco, con il capo della polizia e l’allora Ministro della Pubblica Sicurezza che arrivarono a calunniare Abu al-Qiyan come terrorista dello Stato Islamico.

Anni dopo un’inchiesta indipendente rivelò una massiccia copertura dell’uccisione nel 2017 di Abu al-Qiyan durante un’azione di demolizione, anche se lo Shin Bet concluse due giorni dopo il fatto che “non vi era prova o indicazione di un attacco terroristico”, come riportato da Haaretz.

Il procuratore di Stato di Israele nel 2018 archiviò l’inchiesta sulla sua uccisione e nessuno venne indicato responsabile della morte dell’insegnante di matematica.

Un ex agente di polizia ammise in un’intervista televisiva lo scorso anno che il dipartimento investigativo ricevette pressioni dai livelli superiori per chiudere l’indagine sull’uccisione di Abu al-Qiyan.

Adalah, un’associazione che difende i diritti dei palestinesi in Israele, ha detto che quell’ammissione dimostra che gli apparati dello Stato “applicano una consolidata politica di completa immunità quando dei palestinesi vengono uccisi o feriti dalla polizia o dall’esercito di Israele.”

L’agente che ha ucciso Iyad Hallaq, un palestinese affetto da autismo ammazzato mentre andava a scuola a Gerusalemme nel 2020, è attualmente sotto processo per omicidio colposo.

Nonostante l’apparente attribuzione di responsabilità, l’agente, il cui nome non è stato reso noto, gode dell’appoggio del capo della polizia israeliana Kobi Shabtai. E nonostante sia sotto processo ha ricevuto di fatto una promozione.

Come al-Asibi e Abu Jaber, Hallaq è stato ucciso durante il Ramadan, quando l’esercito e la polizia israeliana sono in massima allerta.

E similmente al caso di al-Asibi, Israele sostiene che tutte le 10 videocamere della zona erano in qualche modo non funzionanti nel periodo in cui Hallaq venne ucciso dalla polizia mentre il suo accompagnatore li implorava di fermarsi.

I genitori di Hallaq dissero che il loro figlio spesso registrava le sue camminate verso e dalla scuola con il suo cellulare, che fu restituito alla famiglia con il contenuto cancellato, secondo Haaretz.

Ci sono forti motivi per credere che le autorità israeliane stiano occultando le prove, ha detto il legale della famiglia Hallaq.

Gli agenti “sospettarono che Hallaq fosse un terrorista perché si era fermato diverse volte guardandosi indietro mentre camminava”, ha riferito Haaretz.

Quanto al poliziotto che uccise Hallaq, “quando mi hanno detto che era affetto da problemi sono rimasto scioccato”, disse in tribunale. “Sul momento ciò che sapevo era che lui era un terrorista.”

Il processo al killer di Hallaq è un’eccezione alla “totale impunità di Israele nei confronti delle sue forze militari e di polizia, come anche dei vigilanti civili ebrei israeliani, quando dei palestinesi vengono uccisi e feriti”, secondo quanto detto da Adalah.

L’organizzazione nota che Israele non ha attribuito la responsabilità alle sue forze per l’uccisione di 13 palestinesi – tutti cittadini di Israele tranne uno – durante le proteste nell’ottobre 2000, mentre “i capi politici e delle forze dell’ordine … incitavano insistentemente contro i palestinesi cittadini dello Stato.”

Il governo di estrema destra di Benjamin Netanyahu intende ristrutturare le forze di polizia e allentare ulteriormente le regole d’ingaggio, codificando al contempo la politica di quasi totale impunità.

I campioni di verità e giustizia dovrebbero pensarci due volte prima di ripetere a pappagallo le asserzioni di Israele riguardo a palestinesi uccisi dalle sue forze.

Maureen Clare Murphy è caporedattrice di The Electronic Intifada.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Gli ebrei fondamentalisti sono più pericolosi di quelli laici? Chiedetelo alle loro vittime palestinesi

Joseph Massad

12 aprile 2023 – Middle East Eye

Non c’è nulla di quello che hanno chiesto gli ebrei sionisti fondamentalisti che i sionisti laici non abbiano già promesso o propugnato.

Per decenni i sionisti laici e persino gli antisionisti ci hanno messo in guardia contro il pericolo del fondamentalismo sionista ebraico. Le loro voci sono diventate più aspre negli ultimi mesi con la salita al potere del governo di destra di Benjamin Netanyahu, che include il maggior numero di ebrei fondamentalisti di sempre in un gabinetto israeliano.

La maggior parte dei laici sionisti pensa che gli ebrei fondamentalisti siano molto pericolosi per gli ebrei israeliani, altri che lo siano anche per i palestinesi, mentre alcuni, inclusi gli antisionisti laici, sostengono che sono una minaccia anche per tutto il mondo dei non ebrei.

Eppure sono sempre stati i sionisti laici a commettere i più orrendi massacri di palestinesi, che hanno conquistato e colonizzato le loro terre, discriminato gli ebrei mizrahi, [ebrei originari di Paesi arabi o musulmani, ndt.] che continuano ad essere amici di forze e regimi antisemiti in tutto il mondo, dall’Ungheria di Viktor Orbán e altri movimenti politici europei di destra ai fondamentalisti evangelici americani.

Sono i sionisti laici a continuare anche ad applicare in Israele la censura militare su tutti i media e che dal 1948 hanno continuato a governare il Paese con norme di emergenza. Sono i laici ad aver anche emanato le leggi razziste per cui Israele è tristemente noto.

Allora cosa rende gli ebrei sionisti fondamentalisti più pericolosi dei sionisti laici?

Il fondamentalismo laico

In realtà, molte delle disquisizioni fondamentaliste antiebraiche sono simili nei toni e nella faziosità agli scritti antimusulmani, per non parlare di quelli anti-islamisti, pubblicati dagli occidentali islamofobi e dai laici arabi e musulmani.

Sicuramente quello che i pamphlet fondamentalisti antiebraici hanno in comune con le tirate anti-musulmane e anti-islamiste è un impegno incondizionato al laicismo liberale dei bianchi protestanti europei usato come il principale punto di riferimento “illuminato” con cui islam, islamismo ed ebraismo fondamentalista (se non proprio l’ebraismo stesso) sono sempre paragonati e che lascia indietro tutti gli altri.

Un esempio rilevante è la lunga intervista che il quotidiano israeliano Haaretz ha pubblicato un paio di settimane fa sull’influenza di Yitzchak Ginsburgh, rabbino americano fondamentalista di origini israeliane. L’intervista è condotta da Motti Inbari, formatosi in Israele e ora docente di religione negli USA, studioso di Ginsburgh e del suo movimento. Da sionista laico Inbari avverte i suoi lettori che Ginsburgh vorrebbe trasformare Israele in un “Iran”, poiché cercherebbe di:“sradicare lo spirito sionista laico e di rovesciare il governo per poter instaurare un regime basato sulla Torah. La Corte Suprema, con le sue decisioni criminali, deve essere annientata. Non c’è bisogno di annientare l’esercito, non deve essere annientato, basta sottometterlo. In questo contesto è importante stabilire dei paragoni e va detto esplicitamente: l’ISIS e Al-Qaida la pensano allo stesso modo.”

Inbari aggiunge che Ginsburgh è pericoloso anche per i palestinesi e gli altri non-ebrei poiché crede che “il sangue ebraico valga più di quello dei gentili”, e che “gli ebrei siano al di sopra della natura e di conseguenza, nel caso in cui un gentile intenda uccidere un ebreo, il gentile deve essere liquidato per proteggere l’ebreo”.

Questi non sono affatto avvertimenti nuovi. In un libro pubblicato trent’anni fa sul fondamentalismo ebraico in Israele, Ian Lustick, lo studioso americano di scienze politiche filoisraeliano che si oppose all’occupazione del 1967 e sostenitore di negoziati per la pace, affermava che “il sistema di valori” degli ebrei fondamentalisti era “radicalmente diverso dall’ethos liberale umanitario condiviso dalla maggioranza di israeliani e americani”.

Lustick identificava i fondamentalisti come “l’ostacolo maggiore” a quello che lui definiva “negoziati seri”.  Egli sosteneva che, a differenza degli ebrei laici che si opporrebbero alla “pace” basandosi sulla “sicurezza”, i fondamentalisti lo fanno basandosi sull’”ideologia”. Sembrerebbe che i sionisti laici non abbiano un’ideologia a guidarli.

Lustick, preoccupato che le relazioni degli USA con Israele si sarebbero indebolite se al potere in Israele fosse andato il fondamentalismo ebraico, avvertiva che tale regime fondamentalista “avrebbe distrutto la relazione speciale con gli Stati Uniti” che si basa sulla “percezione di scopi etici, politici e culturali comuni”.

Questo Israele fondamentalista che possiede “un ampio e sofisticato arsenale nucleare”, concludeva Lustick, sarebbe una minaccia per gli interessi USA quanto la “rivoluzione islamica in Iran”.

L’adesione di Lustick e Inbari alla propaganda ufficiale USA riguardo al fatto che la struttura dello Stato iraniano sia “fondamentalista” o che costituisca una minaccia per gli USA, non viene messa in discussione, motivo per cui gli ebrei fondamentalisti sono paragonati da entrambi all’Iran, il peggior spauracchio dei laici occidentali.

Più pericoloso?

Per non essere da meno il defunto Shahak, attivista antisionista israeliano, è stato ancora più diretto nei suoi disperati attacchi anti-fondamentalisti. In un libro sull’argomento del 1999 di cui fu coautore aveva annunciato che gli ebrei fondamentalisti sono un pericolo non solo per i palestinesi, ma per “tutti i non ebrei “.    

Shahak, allo stesso modo di Inbari più recentemente, ha spiegato come il giudaismo fondamentalista consideri gli ebrei unici, per razza e genetica, con sangue ebraico speciale e DNA ebraico che quindi rendono la vita ebraica speciale e di maggior valore della vita dei non ebrei. Mentre Shahak era al corrente del razzismo laico sionista anti-arabo, radicato nel razzismo laico europeo, non è chiaro perché egli rappresenti il razzismo dei fondamentalisti ebrei come in un certo modo più pericoloso per palestinesi o altri gentili.

Inoltre Shahak si era spinto ad attribuire il razzismo laico sionista all’ebraismo stesso e non al razzismo laico europeo. Perciò l’atteggiamento suprematista ebraico prevalente fra i fondamentalisti, ci viene detto, è percolato nel sistema di pensiero degli ebrei laici al punto che i manifestanti israeliani contro il coinvolgimento militare israeliano in Libano non avevano mai citato i morti libanesi.

Ma tale omissione può essere spiegata in modo adeguato solo dal fondamentalismo ebraico? Negli USA, per esempio, si fa spesso riferimento ai circa 58.000 soldati americani uccisi in Vietnam senza citare gli oltre tre milioni di indocinesi uccisi dai soldati americani.

Quindi sarebbe anche colpevole non solo il fondamentalismo ebraico che privilegia le vite degli ebrei, ma anche un nazionalismo razzista laico e sciovinista che privilegia la vita dei bianchi europei, in vesti sioniste in Israele e camuffato da anticomunista e anti-asiatico negli USA a danno delle vite dei non-bianchi?     

Fin dall’inizio le opinioni di Shahak, simili a quelle di Lustick e Inbari, si basano su una griglia di paragoni fra l’ebraismo fondamentalista, da un lato e l’Europa protestante laica liberale e i suoi imitatori laici israeliani dall’altro. È all’interno di questo schema mentale che molti autori simili raccontano le loro storie di uno spaventoso fondamentalismo ebraico.

Il libro di Shahak continua come la maggioranza dei più recenti pamphlet occidentali sull’islamismo che esotizzano i musulmani e l’Islam per poi proseguire tirando le conclusioni più oltraggiose su di loro.

Ovviamente la differenza principale è che, a differenza degli esperti anti-Islam che fanno parte della propaganda egemonica occidentale contro i musulmani, il libro di Shahak sfida la riscrittura sionista egemonica e distorta della storia ebraica. Ciò che il libro condivide con i molti scritti anti-Islam è però la valutazione positiva a priori dell’Occidente protestante progressista e laico.

Shahak arriva al punto di affermare: “Le tensioni fra israeliani fondamentalisti e laici, perciò, derivano per la maggior parte dal fatto che questi due gruppi vivono in periodi temporali diversi”.

Tali rappresentazioni evoluzioniste e di darwinismo sociale sono caratteristiche di molti autori occidentali e di alcuni musulmani che scrivono sull’Islam e in generale sul Terzo mondo.

Razzismo ‘illuminato’

Il laico Shahak confonde devozione religiosa con fondamentalismo. A differenza dei laici ashkenaziti [discendenti degli ebrei provenienti dall’Europa centrale e orientale, ndt.] che sull’argomento dell’ebraismo e dell’autorità rabbinica sono rappresentati come “illuminati”, ci viene rifilata la descrizione paternalistica secondo cui “quasi tutti i politici [ebrei] orientali, incluse le Pantere Nere [gruppo di ebrei sefarditi che lottava contro il razzismo dell’élite ashkenazita e cercava un’alleanza con i palestinesi, ndt.] degli inizi degli anni ’70 e i membri dei minuscoli movimenti per la pace degli ebrei orientali, normalmente si inchinano e baciano le mani dei rabbini in pubblico”.

A parte la somiglianza tra questi pii gesti di questi non-fondamentalisti con i pii gesti con cui i pii musulmani arabi e cristiani trattano il loro clero, in Shahak questo panico orientalista è accostato alla descrizione dei movimenti per la pace mizrahi come “minuscoli” (come storicamente infatti sono stati), a suggerire che i movimenti per la “pace” ashkenaziti costituiscano movimenti popolari di massa (cosa che non sono mai stati).

Shahak aveva per lungo tempo predetto una guerra civile in Israele che non si è mai materializzata durante la sua vita. In questo libro aveva da fare previsioni ancora più allarmanti : “Non è irragionevole presumere che, se avesse il potere e il controllo, (il movimento dei coloni ebrei fondamentalisti) Gush Emunim userebbe armi nucleari in guerra per tentare di raggiungere i suoi scopi.”

Questo corrisponde esattamente alla propaganda USA sugli islamisti e alla presunta prontezza degli Stati “canaglia” a usare contro l’Occidente armi nucleari che non hanno, a differenza di Israele, specialmente perché, come Shahak ci spiega in gran dettaglio, i gentili non includono solo gli arabi, ma “tutti i non ebrei”.

In questo racconto manca il fatto che i primi ministri israeliani Levi Eshkol e Golda Meir, sionisti laici, nel 1967 e 1973 stavano per usare armi nucleari contro Egitto e Siria. Shahak, che ha scritto della potenzialità nucleare di Israele, certamente era a conoscenza di questi fatti.

Il punto non è che Gush Emunim negli anni ’90 o i fondamentalisti ebrei di oggi non userebbero armi nucleari (che Israele ha in abbondanza), ma che non le userebbero solamente basandosi sulla propria interpretazione fondamentalista dell’ebraismo, ma sulle convinzioni sioniste che caratterizzano in primo luogo la loro idea di ebraismo.

La cosa più straordinaria è che Shahak, Lustick e Inbari non vedano il colonialista fondamentalista ebreo-americano Baruch Goldstein che nel 1994 ha massacrato i palestinesi alla moschea al-Ibrahimi in occasione della festa di Purim, nel contesto di un sionismo laico razzista e colonialista e della miriade di massacri di palestinesi dagli anni ’30, ma piuttosto come parte di un impegno fondamentalista ebraico.  

Per contestualizzare il massacro, Shahak, per esempio, parla persino di “casi ben documentati di [ebrei che hanno commesso] massacri di cristiani e crocifissioni parodistiche di Gesù in occasione del Purim, la maggior parte avvenuta nel periodo tardoantico o nel Medioevo”.

Tuttavia, a differenza di tali eventi, massacri di palestinesi da parte di sionisti e israeliani laici sono continui e, piuttosto di alcune pratiche ebraiche medievali, offrono esempi più recenti da emulare per gente come Goldstein. Invocando alcuni esempi di uccisioni di cristiani da parte di ebrei durante il Purim, l’antisionista Shahak involontariamente discolpa il sionismo laico.

A oggi non c’è nulla che gli ebrei sionisti fondamentalisti chiedano che non sia stato già commesso o invocato dal sionismo laico. Probabilmente questo è stato espresso al meglio dal ministro della Sicurezza Nazionale di Israele, l’ebreo fondamentalista Itamar Ben Gvir nel 1994. quando era giovane.

In un’intervista rimproverava i suoi ipocriti interlocutori ebrei, laici di sinistra, che lo accusavano di sostenere i massacri per aver difeso Goldstein.

Alle loro urla di orrore, Ben Gvir astutamente e con sincera onestà ricordò ai suoi accusatori laici che tutti gli eroi dell’esercito israeliano e dell’Haganah, la milizia sionista precedente all’insediamento dello Stato, erano tali perché avevano assassinato dei palestinesi. Non si sbagliava.

Per quanto riguarda l’attuale campagna di propaganda, secondo cui gli ebrei fondamentalisti sono in un certo senso più pericolosi o violenti o sanguinari dei laici, basta chiedere alle vittime palestinesi sopravvissute che prontamente ribadiranno le giuste considerazioni di Ben Gvir.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Joseph Massad è docente di storia politica e intellettuale araba moderna alla Columbia University di New York. È autore di diversi libri e articoli, sia accademici che giornalistici. Fra i suoi libri: ‘Colonial effects: the making of national identity in Jordan’, ‘Desiring Arabs’ e ‘The Persistence of the Palestinian Question: Essays on Zionism and the Palestinians’. Più di recente ha pubblicato ‘Islam in Liberalism’. I suoi libri e articoli sono stati tradotti in una decina di lingue.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)

 




Mentre i palestinesi seppelliscono Yousef Abu Jaber, rimangono in sospeso delle domande riguardo alla morte del turista italiano

Redazione di Palestine Chronicle (PC, WAFA)

11 aprile 2023 – Palestine Chronicle

L’agenzia di notizie ufficiale palestinese WAFA ha riferito che la famiglia di un cittadino palestinese di Israele, che è stato colpito a morte dalla polizia dopo che lo scorso venerdì avrebbe attuato un attentato con la sua auto a Tel Aviv, sta sollevando dubbi riguardo alle giustificazioni delle autorità israeliane per averlo ucciso.

Yousef Abu Jaber, di 45 anni, è stato seppellito lo scorso martedì mattina nella città di Kafr Qasim, ma molte domande rimangono in sospeso sulle circostanze relative alla sua uccisione.

La polizia israeliana ha dichiarato che Abu Jamer è stato colpito a morte dopo aver lanciato la sua auto contro un gruppo di persone a Tel Aviv, provocando la morte di un turista italiano e il ferimento di altri.

La famiglia di Abu Jaber sta contestando la versione degli eventi della polizia, dichiarando che è stato un incidente d’auto e non un attacco.

Egli non ha un passato nazionalista, non si interessa alle notizie,” ha detto Omar Abu Jaber, il fratello di Yousef.

La famiglia ha chiesto un’indagine sull’incidente, affermando che l’arma che secondo la polizia israeliana lui avrebbe usato non è stata trovata e che la polizia ha nascosto i video che documentano l’incidente.

Inoltre la famiglia ha affermato che la polizia israeliana e i servizi di emergenza hanno cambiato molte volte la loro versione, sollevando dubbi su come gli eventi si siano svolti.

Secondo WAFA, il servizio di ambulanza Magen David Adom ha inizialmente dichiarato che il turista italiano è stato ucciso dai colpi di un’arma da fuoco e poi ha cambiato il suo comunicato, sostenendo che è morto per essere stato investito.

All’inizio la polizia israeliana ha anche dichiarato che Abu Jaber ha cercato di tirare fuori un’arma dalla sua auto e per questo è stato colpito a morte da un poliziotto in seguito all’incidente. Tuttavia, qualche ora dopo il fatto la polizia ha cambiato versione e ha affermato che la presunta arma era una pistola di plastica. La polizia non ha fornito documentazione riguardo all’arma giocattolo.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Cosa significa lo “status quo” alla moschea Al-Aqsa di Gerusalemme?

Adam Sella

11 aprile 2023 Al Jazeera

Lo status quo del complesso della moschea di Al-Aqsa a Gerusalemme è il motivo per cui un singolo raid della polizia può far precipitare una guerra a tutto campo.

Lo status giuridico del complesso della Moschea Al-Aqsa di Gerusalemme, noto agli ebrei come il Monte del Tempio, è un punto critico ricorrente nel conflitto israelo-palestinese.

La scorsa settimana la polizia israeliana ha fatto irruzione nella moschea di Al-Aqsa, attaccando e arrestando i fedeli palestinesi che si trovavano all’interno della sala di preghiera. Per rappresaglia sono stati lanciati dei razzi contro Israele da Gaza e dal Libano, provocando una breve esplosione di violenza.

Nel 2021 un raid simile ha portato a un assalto israeliano di 11 giorni alla Striscia di Gaza.

Per capire come un singolo raid della polizia possa scatenare una guerra bisogna capire lo status quo che governa il complesso della moschea di Al-Aqsa.

Qual è lo status quo?

Per i palestinesi – e secondo il diritto internazionale – la questione è abbastanza semplice.

Israele non ha sovranità su Gerusalemme [est] e quindi non ha sovranità su Al-Aqsa”, che si trova nella Gerusalemme est occupata da Israele, afferma Khaled Zabarqa, un esperto legale palestinese della città e del complesso. Di conseguenza, afferma Zabarqa, il diritto internazionale impone che Israele non sia autorizzato ad attuare alcuno status quo.

Secondo Nir Hasson, un giornalista di Haaretz che si occupa di Gerusalemme, per i palestinesi e il Waqf, la fondazione nominata dalla Giordania che gestisce il complesso di Al-Aqsa, si tratta di uno status quo radicato nell’amministrazione del sito sotto l’Impero ottomano, che ordinava che i musulmani avessero il controllo esclusivo di Al-Aqsa.

Gli israeliani, invece, la vedono diversamente, nonostante il diritto internazionale non riconosca alcun tentativo da parte di una potenza occupante di annettere il territorio che ha occupato.

Hasson spiega che “Lo status quo di cui parlano gli israeliani è completamente diverso dallo status quo di cui parlano il Waqf e i palestinesi”.

Per Israele lo status quo fa riferimento a un accordo del 1967 formulato da Moshe Dayan, l’allora ministro della difesa israeliano. Dopo che Israele occupò Gerusalemme Est, Dayan propose un nuovo accordo basato in parte sullo status ottomano.

Secondo lo status quo israeliano del 1967 il governo israeliano consente al Waqf di mantenere il controllo quotidiano dell’area e solo i musulmani possono pregare lì. Tuttavia la polizia israeliana controlla l’accesso al sito ed è responsabile della sicurezza e i non musulmani possono visitare il sito come turisti.

Shmuel Berkovits, avvocato ed esperto di luoghi santi in Israele, afferma che lo status quo stabilito nel 1967 non è protetto da alcuna legge israeliana. Infatti afferma che nel 1967 Dayan stabilì lo status quo senza l’autorità del governo.

Dal 1967, la legislazione, le azioni giudiziarie e le dichiarazioni del governo israeliano hanno creato un quadro istituzionale per questo status quo. Berkovits spiega che, sebbene nessuna legge israeliana proibisca agli ebrei di pregare ad Al-Aqsa, la Corte Suprema israeliana ha deciso che il divieto è giustificato per mantenere la pace.

Per molti israeliani, alla luce della loro vittoria nella guerra del 1967, anche questo è considerato “generoso”.

Recenti modifiche allo status quo

Tra il 1967 e il 2000 i non musulmani potevano acquistare i biglietti dal Waqf per visitare il sito come turisti. Tuttavia, dopo lo scoppio della seconda Intifada, o rivolta, dei palestinesi nel 2000 in seguito alla controversa visita dell’ex primo ministro israeliano Ariel Sharon ad Al-Aqsa, il Waqf chiuse il sito ai visitatori.

Il sito è rimasto chiuso ai visitatori fino al 2003, quando Israele costrinse il Waqf ad accettare l’ingresso di non musulmani. Da allora i visitatori non musulmani sono stati ammessi dalla polizia israeliana in orari limitati e in giorni specifici.

Secondo Hasson, il Waqf non accetta questi visitatori e li considera “intrusi”.

Nel 2015 un accordo a quattro tra Israele, Palestina, Giordania e Stati Uniti ha riaffermato lo status quo del 1967. Come parte dell’accordo il leader israeliano Benjamin Netanyahu ha ribadito l’impegno del suo paese per lo status quo.

Mentre a parole la versione del 1967 dello status quo è ancora rispettata oggi, Zabarqa afferma: “Questo è [solo, ndt] un tentativo di ingannare l’opinione pubblica internazionale”.

Secondo Eran Zedekiah, dell’Università Ebraica di Gerusalemme e del Regional Thinking Forum dal 2017 agli ebrei è stato tacitamente permesso di pregare nel complesso.

Non tutti gli ebrei sono responsabili di queste violazioni. Infatti, i visitatori, prima di entrare nel complesso di Al-Aqsa passano davanti a un cartello che avverte gli ebrei che l’ufficio del Rabbino capo vieta loro l’ingresso a causa della santità del luogo.

Hasson afferma che sono soprattutto i sionisti religiosi, attualmente rappresentati nel governo israeliano da estremisti come il ministro della sicurezza di estrema destra Itamar Ben-Gvir, che pregano nel sito e fanno pressioni per cambiare lo status quo.

Per loro questa pressione ha dato i suoi frutti. Hasson afferma che dal 2017 la polizia ha concesso più libertà agli ebrei che pregano nel complesso di Al-Aqsa.

Zabarqa lamenta che le forze di polizia israeliane “si sono trasformate da un organismo professionale che preserva lo stato di diritto a un organismo che assicura protezione alle persone che violano la legge”.

Zabarqa afferma che, nel frattempo, i palestinesi vedono questi cambiamenti come un tentativo di “rendere il complesso ebraico e di cacciare i musulmani e l’Islam da Al-Aqsa”.

Per loro Al-Aqsa è l’ultimo piccolo angolo di Palestina non sotto la piena occupazione israeliana.

Hasson dice che i palestinesi sono quindi orgogliosi di resistere all’occupazione israeliana del sito, ma se i palestinesi perdono Al-Aqsa, sarà come se “è tutto perduto. Non è rimasto niente.”

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Soldati israeliani uccidono due palestinesi nei pressi di Nablus

Redazione di Al Jazeera

11 aprile 2023 – Al Jazeera

L’episodio è accaduto mentre Israele dichiarava che avrebbe bandito i visitatori ebrei da Al-Aqsa per il resto del Ramadan.

Il ministro della difesa Yoav Gallant ha dichiarato che dei soldati israeliani hanno ucciso due palestinesi.

“Elogio le azioni dei soldati che hanno eliminato due terroristi che hanno aperto il fuoco contro di loro vicino a Elon Moreh [nei pressi della città di Nablus in Cisgiordania]”, ha detto Gallant martedì su Twitter.

“Il successo della loro operazione ha impedito un attacco contro cittadini israeliani”, ha dichiarato in seguito Gallant. In precedenza, i militari avevano detto che le loro forze avevano “neutralizzato” due uomini e trovato sul posto fucili e pistole.

Fonti locali palestinesi di Nablus hanno riferito ad Al Jazeera che i corpi dei due uomini identificati come Mohammed Abu Dhraa e Soud al-Titi sono stati sequestrati dall’esercito israeliano.

Le fonti sostengono che Al-Titi era un membro delle forze di sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese, mentre Abu Dhraa era un ex detenuto che ha trascorso sette anni in una prigione israeliana.

Israele trattiene i corpi dei palestinesi come politica punitiva da decenni. Tuttavia le organizzazioni per i diritti umani hanno affermato che dal 2015 si è verificata una crescita significativa di questa pratica.

Secondo il Jerusalem Legal Aid and Human Rights Center [ONG con sede a Ramallah che combatte contro le violazioni dei diritti umani fornendo sostegno legale gratuito, ndt] Israele attualmente trattiene almeno 105 corpi palestinesi negli obitori, un atto che si configura come punizione collettiva delle famiglie a cui, senza una sepoltura, viene spesso preclusa la possibilità di dare un estremo saluto.

Durante lo scorso anno l’esercito israeliano ha effettuato frequenti raid in tutta la Cisgiordania occupata.

Sotto il governo della destra più estrema nella storia di Israele, insediato alla fine dello scorso anno, i raid si sono intensificati, provocando un pesante tributo sui civili.

Da gennaio sono stati uccisi più di 90 palestinesi e sono morti almeno 19 tra israeliani e stranieri.

La tensione è particolarmente alta poiché il mese sacro musulmano del Ramadan e la Pasqua ebraica coincidono.

La scorsa settimana diverse incursioni della polizia israeliana nel complesso della moschea di Al-Aqsa a Gerusalemme e attacchi ai fedeli palestinesi hanno provocato dei lanci di razzi su Israele con conseguenti attacchi israeliani contro Gaza, il sud del Libano e la Siria.

Secondo una dichiarazione dell’ufficio del primo ministro Benjamin Netanyahu martedì Israele ha annunciato che avrebbe vietato ai visitatori e ai turisti ebrei di accedere al complesso della moschea di Al-Aqsa fino alla fine del Ramadan.

Anche negli anni scorsi Israele ha vietato le visite degli ebrei al complesso durante gli ultimi 10 giorni del Ramadan.

La scorsa settimana sospetti palestinesi armati hanno ucciso tre coloni e qualche ora dopo in un attacco è stato investito e ucciso un turista italiano. Nessuna organizzazione ha rivendicato la responsabilità di ambedue gli attacchi.

Lunedì dei palestinesi in lutto si sono ritrovati per il funerale di un ragazzo di 15 anni ucciso dalle forze israeliane durante un raid nel campo profughi di Aqabat Jaber, vicino a Gerico nella Valle del Giordano.

Il ministero della salute palestinese ha affermato che Mohammad Balhan ha riportato ferite da arma da fuoco alla testa, al torace e all’addome.

L’Associazione dei prigionieri palestinesi ha affermato che durante il raid l’esercito israeliano ha arrestato almeno due persone.

“Esortiamo il mondo a ritenere questo governo [israeliano] responsabile dei suoi crimini”, ha detto il primo ministro palestinese Mohammad Shtayyeh all’inizio della sessione settimanale del governo.

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)

 

 




Un poliziotto per gli ebrei israeliani, uno diverso per gli arabi

Hanin Maiadli

11 aprile 2023 – Haaretz

La scorsa settimana il ministro degli Affari e del Patrimonio di Gerusalemme Amichai Eliyahu, figlio del rabbino Shmuel (“È vietato affittare appartamenti agli arabi”) Eliyahu, ha scritto sul suo profilo Twitter che la ventilata Guardia nazionale dovrebbe operare solo contro cittadini israeliani che si identificano con il nemico.

Prima di tutto, grazie per aver chiarito ogni possibile confusione sul suo obiettivo. Dal momento che il rinvio, il mese scorso, della legge di riforma giudiziaria è stato subordinato dal ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben-Gvir all’istituzione di una Guardia Nazionale, molti oppositori della riforma hanno erroneamente pensato che la Guardia Nazionale li avrebbe presi di mira.

È bene che si siano sbagliati. Abbiamo imparato che la legge e l’ordine vengono mantenuti come sempre e che i buoni e i cattivi rimangono gli stessi, sebbene anche gli ebrei stiano iniziando a scoprire che il loro “Paese democratico” è un bluff e che lo Stato è ancora fondato sulla razza.

Eliyahu si è spiegato dicendo che, a suo avviso, “la divisione dei poteri deve essere tale che la polizia si prenda cura della criminalità ordinaria e delle questioni di legge e ordine tra i cittadini comuni, mentre la Guardia Nazionale si può occupare della criminalità nazionalista”. Ha spiegato: “In questo modo non arriveremo a situazioni in cui si veda un commissario di polizia accusare dei cittadini ebrei di una rivolta”. Il problema non è la rivolta in sé ma accusare della rivolta gli ebrei, vero?

In altre parole, il ministro sta dicendo in effetti che gli ebrei sono gli unici veri cittadini, gli arabi sono sudditi, persone identificabili con il nemico, che per il momento sono considerati cittadini (e comunque senza pari diritti, quindi la cittadinanza è solo sulla carta), ma non per molto. Quindi gli ebrei, i cittadini, si rivolteranno? Perché, sono arabi? Al massimo gli ebrei protestano, manifestano, proclamano la pura verità. “Rivolte.” Queste appartengono agli arabi.

E cos’è, in realtà, un “crimine nazionalista” e in che cosa differisce da un “crimine ordinario”? L’eroina venduta da uno spacciatore ebreo è meno pericolosa di quella di uno spacciatore arabo? Un rapinatore di banche ebreo vuole solo rubare denaro mentre un rapinatore di banche arabo ha altre motivazioni? E nel caso di una banda di ladri mista come stabiliamo il movente?

Un’ evasione fiscale compiuta da un arabo è nazionalista? E un abuso edilizio? Una guida spericolata? Pizzo e spaccio di armi? È sotto l’autorità della Guardia Nazionale o della polizia regolare? E che dire dei crimini di cittadini arabi commessi contro altri arabi? È vero, non c’è una voce in bilancio per questo: 42 assassinati dall’inizio dell’anno, un record assoluto.

Ben-Gvir ed Eliyahu vogliono una milizia ebraica con poteri legali che operi solo contro gli arabi. La fase successiva potrebbe benissimo essere quella di decidere che ogni caso criminale che arriva ai tribunali attraverso la Guardia Nazionale richieda una punizione doppia rispetto a un caso giunto attraverso la polizia regolare. O forse serviranno meno prove per ottenere una condanna.

Non dovranno nemmeno lavorare sodo. Sarà sufficiente che un giudice veda che il detenuto viene condotto in aula da agenti che indossano uniformi diverse (sarebbero appropriate delle camicie brune) e la sentenza potrà essere pronunciata senza il fastidio di ascoltare le testimonianze. Un sistema legale separato basato su origine e razza, dove l’ho già sentito?

Secondo un’ottica di sviluppo potenzialmente correlata, questa settimana è stato riferito che Tel Aviv e Berlino stanno per diventare città gemelle. Mi chiedo se in tale contesto invieremo agenti di polizia in Germania per la formazione professionale.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)