Il palestinese Khader Adnan muore in una prigione israeliana durante uno sciopero della fame

Fayha Shalash – Ramallah, Palestina occupata

2 maggio 2023 – Middle East Eye

Indetti scioperi e proteste dopo la morte del membro anziano della Jihad islamica, che ha rifiutato il cibo per 87 giorni

Il famoso attivista palestinese Khader Adnan è morto martedì in una prigione israeliana dopo quasi tre mesi di sciopero della fame.

Adnan, un membro del gruppo della resistenza palestinese Jihad islamica, si trovava in sciopero della fame per protestare contro la sua detenzione dal 5 febbraio, quando è stato arrestato nella sua casa di Arraba, una città nella Cisgiordania occupata a sud di Jenin.

La notizia della sua morte ha provocato il lancio di razzi dalla Striscia di Gaza, una sparatoria nella Cisgiordania occupata in cui è rimasto ferito un colono e appelli per uno sciopero generale e manifestazioni di protesta in tutte le città palestinesi.

Il 45enne è il primo prigioniero palestinese dal 1992 a morire in un carcere israeliano in seguito ad uno sciopero della fame. Altri sei detenuti palestinesi sono morti in circostanze simili nel corso di diversi scioperi della fame di massa nel 1970, all’inizio degli anni ’80 e nel 1992.

La salute di Adnan era peggiorata nelle ultime settimane, mentre la sua famiglia continuava a far presente che egli era moribondo e accusava Israele di negligenza medica per aver rifiutato di trasferirlo in un ospedale civile.

Le autorità israeliane hanno detto che Adnan “ha rifiutato di sottoporsi a esami clinici e di ricevere cure mediche” ed “è stato trovato privo di sensi nella sua cella” nella prigione di Nitzan vicino a Ramleh nelle prime ore del mattino.

L’organizzazione israeliana per i diritti Physicians for Human Rights Israel [Medici per i diritti umani Israele, ndt.] (PHRI) ha affermato di aver tentato di convincere le autorità israeliane, tra cui il ministero della salute e il servizio carcerario, a ricoverare Adnan in ospedale per poter essere monitorato mentre la sua salute peggiorava, ma la richiesta è stata respinta.

Pochi giorni prima della sua morte la presidente del PHRI Lina Qasem-Hasan ha visitato Adnan e ha concluso in un referto medico che aveva bisogno immediato di essere trasferito in osservazione in ospedale.

“Questi tentativi, tra cui appelli personali e richieste di intervento giudiziario alle parti responsabili non hanno avuto successo”, ha affermato PHRI in una nota.

Aggiunge che i servizi di sicurezza israeliani hanno anche rifiutato le richieste di fargli visita da parte della famiglia di Adnan “quando era chiaro che questo avrebbe potuto essere il loro ultimo incontro”.

L’ex prigioniero palestinese Mohamed al-Qeeq, che nel 2016 ha intrapreso uno sciopero della fame per 94 giorni, ha affermato che l’arresto di Adnan dalla sua casa nei territori occupati costituisce una violazione del diritto internazionale.

Qeeq ha descritto le accuse contro Adnan come “costruite ad arte“. Ha detto che mettere ripetutamente Adnan in detenzione amministrativa e tentare di condannarlo sono stati dei “crimini” volti a tenerlo in prigione.

“Tutte queste mosse sono culminate in un suo silenzioso assassinio senza la presenza di una commissione che indagasse e offrisse chiarezza riguardo il suo destino”, ha detto a Middle East Eye.

“Non aveva armi, ha soltanto intrapreso la resistenza più pacifica del mondo, il suo sciopero della fame, per opporsi alle ingiustizie del carcere”.

Storia degli scioperi della fame

Amin Shoman, capo della Commissione Superiore dell’Autorità Palestinese per gli Affari dei Prigionieri ed Ex-Detenuti, ha affermato che la morte di Adnan è la conseguenza di una deliberata politica contro i detenuti palestinesi da parte delle autorità carcerarie israeliane.

“Questo è un nuovo crimine commesso all’interno delle sue prigioni da Israele, che continua deliberatamente la sua politica di negligenza medica contro migliaia di prigionieri non rispondendo alle loro richieste giuste e umane e voltando le spalle a tutte le norme e leggi internazionali”, ha detto a MEE.

Shoman ha incolpato per la morte di Adnan il governo di estrema destra israeliano, che ha introdotto una serie di dure misure contro i prigionieri palestinesi.

“Se le politiche dell’attuale governo israeliano contro migliaia di detenuti continueranno assisteremo nei prossimi giorni e mesi al martirio di altri prigionieri “, afferma.

Le forze armate israeliane hanno riferito che dopo l’annuncio della morte di Adnan tre razzi sono stati lanciati dalla Striscia di Gaza nel sud di Israele cadendo in zone disabitate.

I palestinesi hanno chiesto uno sciopero generale in Cisgiordania e a Gaza, e nel corso della giornata erano previste proteste.

Secondo l’Associazione per i prigionieri palestinesi, una ONG che sostiene i detenuti, Adnan è stato detenuto da Israele 12 volte, trascorrendo circa otto anni in prigione, per lo più in detenzione amministrativa, una pratica che consente a Israele di trattenere una persona a tempo indeterminato senza processo o accusa.

Durante i suoi periodi di detenzione Adnan è stato portavoce dei prigionieri palestinesi e ha condotto per cinque volte uno sciopero della fame.

Il suo primo sciopero della fame ha avuto luogo dopo il suo arresto nel 2004 per protesta contro la detenzione amministrativa.

Uno sciopero della fame del 2012, durato 67 giorni, ha indotto un’ondata di prigionieri palestinesi in detenzione amministrativa a unirsi a lui e imitare il suo metodo.

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




L’UE chiede una inchiesta trasparente sulla morte di un prigioniero palestinese

Redazione di MEMO

2 maggio 2023 – Middle East Monitor

L’agenzia di notizie Anadolu riferisce che martedì un funzionario UE ha detto che l’Unione Europea chiede alle autorità israeliane di indagare sulla morte di un prigioniero palestinese, Khader Adnan.

L’Unione Europea è entrata in contatto con le autorità israeliane, incluso il ministero della Salute, sul caso di Adnan per chiedere allo Stato di Israele in merito alle sue condizioni di salute,” ha detto ai giornalisti Peter Stano, il portavoce per gli Affari Esteri della Commissione Europea.

Ha precisato che Adnan è morto mentre protestava contro la sua “incriminazione per incitamento ed affiliazione alla Jihad islamica palestinese, che è un’organizzazione terroristica.”

Stano ha affermato che le UE chiede un’“inchiesta trasparente sulle circostanze che hanno portato alla sua morte”.

Ha reiterato la posizione complessiva della UE, chiedendo a tutte le Nazioni il rispetto degli obblighi internazionali sui diritti umani verso i prigionieri.

Stano ha anche sottolineato che la UE sollecita tutte le parti a “prevenire una recrudescenza in una situazione già instabile” in seguito a “un appello alla rappresaglia da parte dei gruppi armati palestinesi”.

Adnan, una importante figura dell’organizzazione Jihad Islamica, è morto in prigione martedì scorso dopo uno sciopero della fame di 86 giorni contro la sua detenzione senza processo o capi di imputazione.

È diventato il simbolo della resistenza palestinese contro le politiche di detenzione israeliane, dato che dal 2012 ha fatto molti scioperi della fame in carcere.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Israele: Ben-Gvir tiene un discorso in memoria dei “martiri” Baruch Goldstein e Meir Kahane

Frank Andrews

2 maggio 2023 – Middle East Eye

Il ministro della sicurezza nazionale ha descritto in precedenza Goldstein, che massacrò 29 palestinesi nel 1994, come il suo “eroe”

Il ministro israeliano di estrema destra per la sicurezza nazionale, Itamar Ben-Gvir, è stato filmato mentre pronunciava un discorso davanti a un drappo che glorifica il colono israeliano Baruch Goldstein, che massacrò 29 palestinesi nel 1994.

Le immagini ottenute da Haaretz mostrano Ben-Gvir che parla martedì scorso, alla vigilia del Giorno dell’Indipendenza israeliana, circondato dalla sicurezza dell’ufficio del primo ministro.

Dietro di lui sul muro un drappo, citando le scritture, si riferisce ai “martiri” Kahane e Goldstein e recita: “Il loro sangue sorgerà” e prosegue “Perché vendicherò il loro sangue, che non ho ancora vendicato. Perché il Signore dimora a Sion”.

Parlando alla yeshiva [scuola ebraica nella quale si attende principalmente allo studio della Torah e del Talmud, ndt.], Ben-Gvir ha detto: “Siamo di fronte una lotta ideologica chiara e inequivocabile. C’è un piccolo gruppo che sta cercando di condurre l’intero popolo di Israele su una cattiva strada. Ma la verità deve essere detta – ci sono molti ebrei confusi”.

Ha detto ai presenti di partecipare al Memorial Day a Be’er Shiva, una commemorazione per i soldati israeliani caduti, nonostante si dica che famiglie in lutto adirate abbiano espresso l’opinione che Ben-Gvir non avrebbe dovuto partecipare.

Ben-Gvir, il cui partito Jewish Power ha recentemente vinto sei seggi alla Knesset israeliana, stava parlando alla Jewish Idea yeshiva, fondata da Kahane, un rabbino di estrema destra ed ex deputato.

Kahane fondò anche il partito Kach, che fu messo fuori legge in seguito al massacro compiuto a un suo sostenitore, Goldstein, alla Moschea Ibrahimi a Hebron nel 1994, con l’uccisione 29 fedeli e il ferimento di altre decine.

Secondo quanto riferito, Ben-Gvir va ogni anno al seminario di Kahane per le celebrazioni del Giorno dell’Indipendenza, ma afferma di aver rotto con gli elementi più estremi della piattaforma di Kahane.

All’età di 16 anni Ben-Gvir aderì come attivista al gruppo Kach prima che, in seguito alle azioni di Goldstein, fosse designato come gruppo terroristico dagli Stati Uniti e bandito in Israele

Una clip scoperta di recente mostra Ben Gvir nel 1995, vestito come Goldstein per la festa ebraica di Purim, che dice: “È il mio eroe”.

Per anni ha tenuto appeso un ritratto di Goldstein al muro della sua casa nella violenta enclave di coloni di Kiryat Arba, vicino a Hebron. Secondo quanto riferito ha rimosso la foto solo nel 2020, nella speranza di persuadere un altro leader dei coloni, Naftali Bennett, ad allearsi con lui nelle elezioni.

Nel 2007, prima della costituzione di Jewish Power, Ben Gvir è stato condannato per incitamento al razzismo e sostegno a un gruppo terroristico dopo aver mostrato un cartello con la scritta “Fuori gli Arabi”. Nella sua macchina sono stati trovati manifesti kahanisti che dicevano: “O noi o loro” e “C’è una soluzione: espellere il nemico arabo”.

Stav Shaffir, un ex deputato del partito laburista israeliano, lo ha descritto come l’unico accolito anziano di Kahane rimasto il cui “coinvolgimento nel terrorismo non è stato dimostrato”. Ad altri affiliati di Kahane i tribunali hanno impedito di candidarsi alle elezioni.

Kahane sorride dal cielo

Il Jewish Power di Ben-Gvir ha chiesto l’annessione formale e la colonizzazione ebraica dell’intera Cisgiordania occupata – in violazione del diritto internazionale – e il sequestro del complesso della moschea di Al-Aqsa, nella Città Vecchia di Gerusalemme est occupata, per porlo sotto la proprietà ebraica.

Sono in corso piani per dare a Ben-Gvir il comando di una guardia nazionale che un ex capo della polizia ha denunciato come una “milizia privata”.

Il piano è parte di un accordo tra il primo ministro Benjamin Netanyahu e Ben-Gvir, che aveva minacciato di dimettersi dopo che il primo ministro aveva sospeso un controverso piano per riformare la magistratura dopo settimane di proteste di massa che a marzo avevano bloccato il paese.

Ben-Gvir ha già detto alla polizia di reprimere più duramente le proteste antigovernative iniziate a gennaio.

Il ministro ha precedentemente notato come le idee di Kahane siano diventate un’opinione corrente nei principali partiti di destra israeliani, incluso il Likud di Netanyahu.

In un servizio commemorativo di Kahane nel 2020, il leader del Jewish Power ha tenuto un discorso in onore del suo defunto maestro.

Ha concluso: “Penso che stia guardando giù dal cielo e sorridendo”.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Chi ha detto che il BDS ‘è già fallito’?: città europee boicottano l’Israele dell’apartheid

RamzyBaroud

2 maggio 2023 – Middle East Monitor

Una serie di eventi, a partire da Barcellona, Spagna, in febbraio, seguita in aprile da Liegi, Belgio e Oslo, Norvegia, ha inviato un forte messaggio a Israele: il movimento palestinese di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS) è vivo e vegeto.

A Barcellona la sindaca della città ha annullato un accordo di gemellaggio con la città israeliana di Tel Aviv. La decisione non è stata impulsiva, benché Ada Colau sia ben nota per le sue posizioni di principio su molte questioni. E’ stata piuttosto l’esito di un processo pienamente democratico, iniziato da una proposta presentata al consiglio comunale dai partiti di sinistra.

Alcune settimane dopo che fu presa questa decisione, precisamente l’8 febbraio, un’organizzazione legale filoisraeliana nota come The Lawfare Project, ha annunciato l’intenzione di intentare una causa contro Colau in quanto lei, presumibilmente, “ha agito al di fuori della competenza della sua autorità”.

The Lawfare Project intendeva comunicare un messaggio ad altri consigli comunali in Spagna e nel resto d’Europa, cioè che vi sarebbero state gravi ripercussioni sul piano giuridico al boicottaggio di Israele. Tuttavia con grande sorpresa dell’organizzazione – e di Israele – altre città hanno subito avviato le loro procedure di boicottaggio. Tra esse la città belga di Liegi e la capitale della Norvegia, Oslo.

I vertici comunali di Liegi non hanno cercato di nascondere le ragioni della loro decisione. E’ stato riferito che il consiglio comunale ha deciso di sospendere i rapporti con le autorità israeliane perché guidano un regime “di apartheid, colonizzazione e occupazione militare”. L’iniziativa è stata appoggiata da un voto di maggioranza nel consiglio, dimostrando ancora una volta che la posizione etica filopalestinese è pienamente compatibile con un processo democratico.

Oslo rappresenta un caso particolarmente interessante. Fu là che il “processo di pace” diede luogo agli Accordi di Oslo nel 1993, che sostanzialmente divisero i palestinesi e fornirono a Israele una copertura politica alla prosecuzione delle sue pratiche illegali, sostenendo di non avere un partner per la pace.

Ma Oslo non è più legata ai vuoti slogan del passato. Nel giugno 2022 il governo norvegese ha dichiarato l’intenzione di negare l’etichetta “Made in Israel” ai beni prodotti nelle colonie ebree israeliane illegali nella Palestina occupata.

Benché le colonie ebree siano illegali ai sensi del diritto internazionale, per anni l’Europa non si è fatta scrupolo di fare affari – di fatto affari lucrativi – con queste colonie. Nel novembre 2019 la Corte di Giustizia Europea ha comunque stabilito che tutti i beni prodotti nelle “aree occupate da Israele” dovevano essere etichettati come tali, in modo da non ingannare i consumatori. La decisione della Corte era una versione attenuata di ciò che i palestinesi si aspettavano: un completo boicottaggio, se non di Israele nel suo insieme, almeno delle sue colonie illegali.

Comunque la decisione è servita ad uno scopo. Ha fornito un’ulteriore base giuridica al boicottaggio, rafforzando le organizzazioni della società civile filopalestinese e ricordando a Israele che la sua influenza in Europa non è così illimitata come Tel Aviv vuole credere.

Il massimo che Israele ha potuto fare in termini di risposta è stato rilasciare dichiarazioni aggressive unitamente a confuse accuse di antisemitismo. Nell’agosto 2022 la Ministra degli Esteri norvegese Anniken Huitfeldt ha chiesto un incontro durante la sua visita in Israele con l’allora Primo Ministro di Israele Yair Lapid. Lapid ha rifiutato. Non solo tale arroganza ha prodotto una certa differenza nella posizione della Norvegia sull’occupazione israeliana della Palestina, ma ha anche allargato i margini per gli attivisti filopalestinesi per una maggiore incisività, conducendo alla decisione di Oslo in aprile di bandire l’importazione di beni prodotti nelle colonie illegali.

Il movimento BDS ha spiegato sul suo sito web il significato della decisione di Oslo: “La capitale della Norvegia…ha annunciato che non commercerà in beni e servizi prodotti in aree che sono illegalmente occupate in violazione del diritto internazionale”. In pratica ciò significa che “la politica di acquisti di Oslo esclude le imprese che direttamente o indirettamente contribuiscono all’impresa coloniale illegale di Israele – un crimine di guerra secondo il diritto internazionale.”

Tenendo conto di questi rapidi sviluppi, The Lawfare Project ora dovrà estendere le sue cause legali includendo Liegi, Oslo e una sempre più ampia lista di consigli comunali che stanno attivamente boicottando Israele. Ma anche in questo caso non vi sono certezze che l’esito di tali contenziosi sarà comunque favorevole a Israele. Di fatto è più probabile che sia vero il contrario.

Un caso specifico è stata la recente decisione delle città di Francoforte e Monaco in Germania di annullare i concerti della leggenda del rock and roll filopalestinese Roger Waters, come parte del suo tour ‘Questa non è un’esercitazione’. Francoforte ha giustificato la sua decisione stigmatizzando Waters come “uno dei più noti antisemiti al mondo”. La bizzarra ed infondata accusa è stata categoricamente respinta da un tribunale civile tedesco che il 24 aprile ha deliberato a favore di Waters.

Certo, mentre un crescente numero di città europee si sta schierando con la Palestina, coloro che appoggiano l’apartheid israeliano trovano difficile difendere o addirittura conservare la propria posizione, semplicemente perché le prime basano le proprie posizioni sul diritto internazionale, mentre i secondi si appoggiano su distorte e convenienti interpretazioni dell’antisemitismo.

Che cosa significa tutto questo per il movimento BDS?

In un articolo pubblicato lo scorso maggio sulla rivista Foreign Policy Steven Cook ha raggiunto la precipitosa conclusione che il movimento BDS “ha già perso”, perché, secondo la sua deduzione, gli sforzi per boicottare Israele non hanno avuto effetto “nei palazzi del governo”.

Se il BDS è un movimento politico soggetto a calcoli sbagliati e errori, è anche una campagna dal basso che opera per raggiungere obbiettivi politici attraverso successivi e controllati cambiamenti. Per avere successo sul lungo termine queste campagne per prima cosa devono impegnare nelle strade la gente comune, gli attivisti nelle università, nei luoghi di culto, ecc., il tutto attraverso calcolate strategie a lungo termine, esse stesse formulate da collettivi e organizzazioni della società civile locale e nazionale.

Il BDS continua ad essere una vicenda di successo e le ultime cruciali decisioni prese in Spagna, Belgio e Norvegia attestano il fatto che gli sforzi della base ottengono risultati.

Non si può negare che la strada sia lunga e ardua. Avrà certamente le sue svolte, i suoi rovesci e, sì, le occasionali battute d’arresto. Ma è questa la natura delle lotte di liberazione nazionale. Spesso richiedono alti costi e grandi sacrifici. Ma, con la resistenza popolare interna e un crescente supporto internazionale e la solidarietà dall’estero, la libertà della Palestina dovrebbe essere di fatto possibile.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Il raduno filogovernativo evidenzia le divisioni interne della destra israeliana

Meron Rapoport

2 maggio 2023 – +972 Magazine

Gli alleati di estrema destra di Netanyahu sopravvalutano la loro possibilità di proseguire con la riforma giudiziaria. Ora stanno rivolgendo la pressione contro il primo ministro.

Lo scorso giovedì di fronte alla Knesset 200.000 israeliani di destra hanno chiesto al governo di proseguire con i progetti di riforma giudiziaria e di indebolimento della Corte Suprema. Uno dopo l’altro, leader dell’estrema destra, dal ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben-Gvir a quello delle Finanze Bezalel Smotrich, si sono impegnati a non “cedere” alle proteste antigovernative che da gennaio scuotono il Paese.

Ma la manifestazione della destra, denominata la “Marcia del Milione”, riguardava molto più che i tribunali: è stata in primo luogo e soprattutto una protesta contro Benjamin Netanyahu e i suoi tentativi di congelare i progetti del governo. Ed essa dovrebbe preoccupare il primo ministro.

Il 4 gennaio il ministro della Giustizia Yariv Levin e il presidente della commissione Costituzione, Legge e Giustizia della Knesset Simcha Rothman hanno lanciato un attacco a sorpresa per eliminare le isole di liberalismo della società israeliana. Non è del tutto chiaro quanto Netanyahu sia stato coinvolto nella pianificazione di questo violento attacco, ma dal momento in cui è stato lanciato non ha avuto altra scelta che presentarlo come suo.

Abbiamo già visto in precedenza situazioni politiche simili nella storia di Israele. Oggi sappiamo che nel 1982 il primo ministro Menachem Begin non era al corrente del fatto che il ministro della Difesa Ariel Sharon e il capo di stato maggiore dell’IDF [l’esercito israeliano, ndt.] Rafael Eitan avevano da tempo stilato piani d’emergenza per invadere il Libano. Ma ciò non impedì a Begin di approvare l’operazione o di fare nelle prime fasi della guerra tour della vittoria nel Libano occupato.

È molto probabile che la dinamica tra Netanyahu, Levin e Rothman sia simile a quella tra Begin, Sharon ed Eitan. Sia nella riforma giudiziaria che nella prima guerra del Libano l’attacco era basato sulla convinzione che l’altra parte fosse troppo debole e divisa per opporre resistenza. Ma questa convinzione si è molto presto dimostrata errata, o quanto meno non ha preso in considerazione le conseguenze a vasto raggio che avrebbe avuto un simile attacco. E appena esso ha incontrato difficoltà, anche la posizione del governo è stata danneggiata.

Levin e Rothman credevano che il destino della riforma giudiziaria sarebbe rimasto circoscritto alla Knesset e che di conseguenza una maggioranza di 64 deputati sarebbe stata sufficiente per far approvare qualunque cosa volessero. Non avevano previsto le massicce manifestazioni e la mobilitazione dell’industria dell’innovazione tecnologica e dei leader dell’economia contro la riforma giudiziaria. Sicuramente non avevano previsto che l’opposizione avrebbe incluso il rifiuto di massa dell’élite militare, compresi piloti, forze speciali e unità cibernetiche. E sicuramente non immaginavano che il presidente USA si sarebbe messo davanti alle telecamere e avrebbe detto che Israele “sta andando nella direzione sbagliata”, e che quindi non aveva intenzione di incontrare Netanyahu nel prossimo futuro. In breve, hanno sottostimato sia il potere della società civile che l’importanza della legittimazione internazionale ed hanno scoperto in carne propria che queste forze sono molto più forti di quanto pensassero inizialmente.

Cosa altrettanto importante, Levin e Rothman hanno sovrastimato il proprio potere. Nel loro attacco violento hanno scoperto che la loro coalizione era molto più debole di quanto pensassero. Parti consistenti della classe media mizrahi [ebrei israeliani originari dei Paesi arabi o musulmani, ndt.], che rappresenta un settore significativo della base elettorale del Likud, sono titubanti o persino contrarie alla riforma, come evidenziato dalle manifestazioni antigovernative in bastioni della destra come Netanya o Be’er Sheva. Persino gli haredim [ebrei religiosi ultraortodossi, ndt.], che per ragioni loro vogliono annientare il potere della Corte Suprema, hanno scelto di tenere una posizione neutrale ora che il progetto di riforna giudiziaria ha incontrato difficoltà.

Quindi non è un caso che alla “Marcia del Milione di Persone” non non abbiano partecipato quasi per nulla haredim o sostenitori del Likud. Si è trattato principalmente di una manifestazione della destra dei coloni religiosi, dei kahanisti [sostenitori del defunto rabbino di estrema destra Meir Kahane, ndt.] e di elementi fascisti nel Likud che, secondo un sondaggio di Canale 12 [canale televisivo israeliano privato, ndt.], rappresentano una minoranza nel partito.

I risultati sono difficilmente discutibili. La sessione invernale della Knesset si è conclusa senza che neppure una delle riforme di Levin venisse approvata. L’attacco di sorpresa è stato sconfitto alla prima battaglia. Ed è qui che Netanyahu è entrato in campo. Dal momento in cui ha capito che l’assalto aveva perso impeto e che ciò avrebbe potuto provocare enormi danni a Israele, alla stabilità della coalizione e, ovviamente, a lui stesso, ha iniziato a cercare di congelarlo. Levin e Rothman, che sono stati obbligati a passare dalla loro euforia ad affrontare la realtà, hanno dovuto accettare. Questo naturalmente non significa che Netanyahu pianifichi di accantonare totalmente la riforma – appoggia ancora l’indebolimento del sistema giudiziario e il rafforzamento del potere esecutivo – ma sa di avere, almeno a questo punto, la strada bloccata.

Una lotta tutt’altro che finita

Netanyahu vuole piuttosto che il governo ritorni alla guerra di trincea, aspettando il momento giusto per colpire. Per anni la guerra di posizione, quello che alcuni definiscono come “status quo”, è stata la specialità di Netanyahu. Attaccherà le “élite”, abbracciando nel contempo l’industria tecnologicamente avanzata. Dirà che “la sinistra ha dimenticato cosa significhi essere ebreo”, glorificando nel contempo la liberale Tel Aviv e le libertà per la comunità LGBTQ. Parlerà apertamente della soluzione a due Stati, cancellando nel contempo la Linea Verde e annientando l’Autorità Nazionale Palestinese. Venderà Israele come “l’unica democrazia del Medio Oriente”, dimostrando nel contempo un palese disprezzo per le leggi internazionali.

Nel 1982 Ariel Sharon parlò di “pace in Galilea”, il macabro nome dato a una guerra che intendeva porre il chiodo finale sulla bara del nazionalismo palestinese con l’occupazione di Beirut e l’installazione di un regime filo-israeliano in Libano. Nel 2023 Levin e i suoi amici parlano di “riforma giudiziaria”, ma di fatto intendono formalizzare in pieno la supremazia ebraica tra il fiume [Giordano] e il mare [Mediterraneo].

È così che i leader della riforma, come molti dell’opposizione, vedono il concetto di “democrazia ebraica”: un Paese governato solo dagli ebrei e che si preoccupa solo di loro. La recente proposta da parte di membri del [partito] kahanista Otzma Jehudit [Potere Ebraico], in base alla quale i cosiddetti “valori del sionismo guideranno” lo Stato, è emblematico di questa visione. Distruggere il sistema giudiziario ed eliminare il potere dei settori liberali della società ebraica è un semplice danno collaterale lungo la strada di questo obiettivo.

La comprensione, conscia o inconscia, che questo è il reale obiettivo della riforma può spiegare la generale assenza dalla manifestazione di giovedì della base del Likud, a buona parte della quale importano i valori “liberali”, e degli haredim, molti dei quali non sono ossessionati dalla distruzione del nazionalismo palestinese.

Proprio perché Levin, Rothman e i loro amici vedono sé stessi come rivoluzionari, essi considerano Netanyahu un residuo dell’“Ancien Régime”. Come tale gli propongono una scelta praticamente impossibile: o mettersi l’uniforme da guerra e attaccare insieme la Corte in quella che attualmente appare una battaglia persa, o rischiare di far cadere il suo governo, il che potrebbe aumentare le possibilità che venga condannato e spedito in carcere con accuse di corruzione. La manifestazione di giovedì intendeva ricordargli questa amara verità.

Il fatto che la guerra lampo di Levin e Rothman abbia fallito non significa che rinuncino alla lotta. Al contrario, sembrano ancor più determinati a far approvare la riforma. Quello che complica ulteriormente la situazione è il fatto che neppure il movimento di protesta israeliano sa cosa fare del suo sorprendente successo nel respingere la destra. Sembra che le parti più conservatrici del movimento siano pronte ad accettare l’idea di una guerra di trincea, del ritorno allo status quo e della preservazione delle loro significative posizioni di potere nella società, nell’economia e nell’esercito israeliani.

Eppure pare che ci sia anche una parte del movimento di protesta che intende approfittare di questo momento per cambiare radicalmente le regole del gioco e spingere Israele a diventare una vera democrazia, attraverso la stesura di una costituzione oppure con l’approvazione di una Legge Fondamentale che sancisca l’uguaglianza per tutti. Questo segmento è in sintonia con le richieste di non tornare al “vecchio ordine”, sia che si tratti dei rapporti tra ashkenaziti e mizrahi o tra ebrei e arabi, o dell’occupazione. Ma questa parte del movimento è ancora debole e non ha un vero piano su come realizzare questo cambiamento radicale.

Proprio come la “Marcia del Milione”, nonostante il suo relativamente grande numero di partecipanti, non è riuscita a nascondere le crepe all’interno del campo della destra, così il successo del movimento di protesta non è riuscito a nascondere le sue divisioni o il fatto che non ha una visione condivisa su come agire. Una cosa è certa: questa lotta è tutt’altro che finita.

Meron Rapoport è un editorialista di Local Call [l’edizione in ebraico di +972 Magazine, ndt.].

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Al Center for Jewish History alcuni studiosi ebrei osano parlare della Nakba: fischiati

Philip Weiss

1 maggio 2003 – Mondoweiss

Al Center for Jewish History lo studioso Omer Bartov è stato continuamente interrotto e fischiato quando ha descritto la “brutale” espulsione dei palestinesi durante la Nakba. Alcuni gridavano “vergogna!” e una persona è uscita.

Ieri a New York, in occasione del 75esimo anniversario della fondazione di Israele, al Center for Jewish History [Centro di storia ebraica] si è tenuta una conferenza sugli ebrei americani e il sionismo che ha rivelato la notevole tensione all’interno della comunità ebraica in merito al sionismo. 

Tre oratori hanno voluto parlare della Nakba. C’è stata dell’opposizione e in un caso fischi e urla di “Vergogna.” 

Omer Bartov, docente alla Brown University, ha tenuto una conferenza sull’ “Eredità del 1948” in cui ha descritto l’Olocausto e la Nakba come eventi “insanabili”. Ha detto che, se il sionismo è stato la logica risposta al genocidio degli ebrei in Europa, “dopo la Nakba niente potrebbe sembrare più giusto della richiesta dei palestinesi di poter tornare nelle loro terre, da cui furono brutalmente espulsi.”

Bartov, uno studioso dell’Europa orientale, ha affermato che l’impossibilità di spartire la terra indica la strada verso un futuro democratico: “Smantellare le barriere, ammettere che questa terra potrà essere una patria solo quando sarà finalmente la patria di tutti i suoi abitanti.”

Bartov è stato interrotto e fischiato. È stato riferito che alcuni dei presenti avrebbero urlato “Vergogna!” e che una persona è uscita. Ci sono stati anche dei brontolii quando uno dei relatori ha fatto riferimento a J Street! [associazione di ebrei progressisti USA, ndt.] l’accademica canadese Mira Sucharov all’inizio della sua relazione si è rivolta rispettosamente ai disturbatori per cercare di placarli. Ha poi descritto nei dettagli il bombardamento di Giaffa nell’aprile del 1948, durante il quale 68.000 dei 70.000 abitanti del quartiere di Ajami furono “respinti in mare.” Ha poi osservato che quando i suoi parenti si preoccupano per gli ebrei spinti in mare questo è “letteralmente” quello che è accaduto ai palestinesi nel 1948 prima della fondazione dello Stato. (Un argomento che ho sostenuto anch’io.) 

Sucharov ha poi continuato dicendo che nei suoi corsi fa riferimento all’articolo di Ari Shavit sulla pulizia etnica di Lod (o Lydda) apparso sul New Yorker perché alla fine egli dichiara che rifarebbe tutto da capo per ottenere uno Stato a maggioranza ebraica. Lei fa notare che Shavit serve “su un piatto d’argento,” la posizione sionista.

Eric Alterman è stato ancora più penetrante. Ha detto che i palestinesi non accetterebbero nessuna delle tesi sioniste presentate al Center for Jewish History, e naturalmente nessun palestinese è stato invitato a parlare della loro profonda conoscenza del sionismo. Alterman ha detto che 700.000 palestinesi furono espulsi prima del maggio 1948 dalle milizie sioniste, antesignane dell’esercito israeliano, e che terre e proprietà palestinesi furono poi confiscate dallo Stato e date al Fondo Nazionale Ebraico. 

Alterman ha poi detto: “Tutto della vita dei palestinesi è discriminatorio. E non c’è nulla che noi [ebrei] accetteremmo.” 

Ha poi continuato: “Non hanno diritti. A me va benissimo il divorzio fra ebrei americani e Israele” perché i cosiddetti “valori condivisi” fra le due società sono stati un disastro per l’identità degli ebrei americani. 

Alterman ha anche detto che nella comunità ebraica il racconto dell’Esodo [la fuga dall’Egitto narrata nell’omonimo libro della Bibbia] sta “crollando”. E che, questa è la mia parte preferita, gli ebrei sono stanchi che i “neoconservatori” parlino a nome della comunità. 

Alterman e Sucharov sono stati zittiti dal resto degli oratori. “Non risolveremo noi il 1948,” ha detto un altro relatore, David Makovsky, frase in codice per dire “Per favore, smettete di parlare della Nakba”. 

E così tre docenti di storia ebraica, di cui due sono stati importanti sionisti progressisti, hanno espresso una critica nei confronti di Israele piuttosto blanda in un luogo ebraico e c’è stata una gran rabbia. 

Sucharov ha colto questa tensione quando ha detto di essere stata marginalizzata dalla propria famiglia per la partecipazione a una commissione che discuteva se il termine “apartheid” fosse applicabile a Israele/Palestina. Una zia scandalizzata ha telefonato a un’altra e il “risultato è stato un ostracismo ufficiale.” Sucharov non può più far visita alla zia in Israele e non è stata invitata al suo ottantesimo compleanno. “È molto doloroso.” 

Questo è solo un assaggio di quello che presto succederà alla comunità ebraica. Dal massacro israeliano di Gaza nel 2014 ci sono state tensioni sul sionismo nella comunità ebraica e anche all’interno delle famiglie ebree, al punto che i rabbini evitano a tutti i costi l’argomento. 

Nel 2021, durante l’attacco israeliano contro Gaza, 94 studenti e cantori rabbinici hanno firmato una lettera indirizzata al “cuore della comunità ebraica” lamentando la violenza israeliana e “l’espulsione intenzionale di palestinesi.” Alterman dice che a una conferenza di J Street alcuni di questi studenti hanno detto di aver perso il lavoro a causa della lettera, e che “uno piangeva.” (E io ho riferito che la rabbina Angela Buchdahl, una celebrità, dichiarò che non ne avrebbe assunto nessuno.)

Tale tensione che ribolle non può durare. Le forze sono troppo potenti: Israele è troppo incasinato e non può più essere tollerato dai giovani ebrei. E la lobby israeliana, il sostegno ai politici degli ebrei americani, è semplicemente troppo importante per l’esistenza di Israele. Nessuno cederà senza lottare e sarà ben presto guerra aperta. 

Un giorno i giovani ebrei chiederanno che la Nakba sia nominata e consacrata nelle associazioni progressiste ebraiche americane che hanno armato, e negato, la pulizia etnica. Chiederanno l’accettazione dei palestinesi che descrivono la Nakba come un “genocidio.”

PS. Makovsky ha continuato a offrire una visione edulcorata dei valori israeliani. E per un buon motivo: i “valori condivisi” con gli USA. sono un “pilastro” dell’esistenza di Israele. E così Makovsky asserisce (contro ogni evidenza) che le imponenti proteste per la democrazia in Israele “continueranno fino al prossimo ostacolo: la questione palestinese. Ha detto che il governo USA “ha tentato di fare gol” tre volte nei colloqui di pace e che parte della colpa dei fallimenti va ai palestinesi.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio e Luciana Galliano)




Israele rilascia un palestinese arrestato mentre accompagnava la moglie ad una visita per un trattamento oculare

Maha Hussaini – Gaza City, Striscia di Gaza assediata

1 maggio 2023 – Middle East Eye

Hassan Abumustafa è stato arrestato nel novembre 2021 al valico di Erez nonostante avesse ricevuto l’autorizzazione a recarsi con sua moglie in Cisgiordania

Dopo mesi di attesa Khaldiya Abumustafa aveva finalmente ottenuto un permesso israeliano che le concedeva di lasciare Gaza City per entrare nella Cisgiordania occupata e sottoporsi a un intervento chirurgico agli occhi, accompagnata dal marito.

Felice di poter riacquistare la capacità di vedere correttamente grazie a cure mediche non disponibili nella Striscia di Gaza, Khaldiya è arrivata con il marito Hassan Abumustafa al confine di Erez la mattina del 24 novembre 2021.

Raggiunto il versante israeliano del valico – l’unico per i palestinesi che vogliono spostarsi tra Gaza e il resto del territorio palestinese occupato – a Khaldiya è stato chiesto di aspettare nell’atrio, mentre suo marito è stato convocato per un interrogatorio.

Trascorse circa 15 ore un ufficiale israeliano è entrato nella sala dove lei stava perdendo la speranza di riuscire a rispettare l’appuntamento in ospedale e le ha ordinato di tornare a casa senza il marito.

“Tuo marito rimane con noi – è in arresto”, le ha detto l’ufficiale.

Hassan, avendo già ricevuto un permesso di uscita e l’assenso da parte del corpo di sicurezza delle autorità israeliane per il passaggio attraverso il confine di Erez, è rimasto sorpreso nel ricevere l’informazione che sarebbe stato perseguito in base ad accuse di “appartenenza a un’organizzazione terroristica”.

Dopo diversi interrogatori e udienze giudiziarie è stato condannato a 18 mesi di carcere.

Martedì, dopo aver scontato la pena, Hassan è stato rilasciato ed è tornato presso la sua famiglia in un campo profughi di Khan Younis, nel sud della Striscia di Gaza.

Tuttavia Khaldiya deve ancora sottoporsi a un intervento chirurgico agli occhi.

Ore di interrogatorio

Mia moglie ha una lesione corneale. Aveva bisogno di sottoporsi urgentemente a un trapianto di cornea in modo che le sue condizioni non si aggravassero. E poiché era difficile farlo a Gaza abbiamo avviato le procedure necessarie per ottenere una prestazione medica presso un ospedale in Cisgiordania, ha detto Hassan a Middle East Eye due giorni dopo il suo rilascio.

Già dopo il primo tentativo abbiamo ottenuto un permesso israeliano e ci siamo subito diretti a Erez”.

Ai pazienti che ricevono permessi di uscita israeliani per ricevere cure mediche nei territori palestinesi occupati è consentita la presenza di un accompagnatore, sebbene i minori possano incontrare maggiori difficoltà nell’ottenere i permessi, il che spesso ha come conseguenza il fatto che essi viaggino da soli senza i genitori.

Dopo aver aspettato con mia moglie nell’atrio per un paio d’ore un ufficiale israeliano mi si è avvicinato e mi ha chiesto di seguirlo. Ho superato diversi controlli di sicurezza prima che mi portasse in una stanza dove sono stato perquisito”, riferisce Hassan.

Gli è stato quindi detto di aspettare altre due ore e il suo cellulare è stato confiscato prima che iniziasse un interrogatorio di otto ore.

L’ufficiale dell’intelligence mi ha chiesto di parlargli di me. Gli ho detto il mio nome, il numero dei miei figli e il motivo per cui io e mia moglie dovevamo andare in Cisgiordania. Poi ha detto: ‘No, voglio che tu mi parli delle tue affiliazioni'”, prosegue Hassan.

“Gli ho detto che non avevo alcuna affiliazione e che se avessi avuto dei trascorsi politici non mi sarebbe stato permesso di lavorare nei territori occupati nel 2000 e non avrei presentato una richiesta per accompagnare mia moglie per le cure”.

L’ufficiale israeliano ha informato Hassan che un altro palestinese che era stato precedentemente interrogato al confine di Erez aveva confessato che Hassan era affiliato al movimento palestinese della Jihad islamica (PIJ).

Dal 2016 Israele ha intensificato gli interrogatori per i palestinesi che tentano di attraversare il valico di Erez.

Prima che le autorità israeliane possano elaborare le domande di permesso, molti studenti, uomini d’affari, pazienti e loro accompagnatori devono sottoporsi a un interrogatorio da parte degli agenti della sicurezza.

Mi ha detto che hanno cercato nel mio telefono e hanno trovato precedenti contatti telefonici con persone affiliate alla Jihad islamica. Gli ho detto che lavoravo come portiere in uno dei siti della Jihad e che questo non era un crimine poiché non avevo contribuito ad alcuna attività militare. La mia responsabilità era aprire e chiudere il cancello, e lavoravo lì per lo stipendio, dice a MEE il padre di otto figli.

Mentre hanno iniziato a chiedermi informazioni su diversi membri e attività della Jihad ero solo preoccupato per mia moglie, che era stata lasciata ad aspettare da sola e non sapeva cosa stesse succedendo. Ho chiesto di lei e l’ufficiale ha detto: “Non preoccuparti, chiameremo qualcuno da Gaza perché venga per accompagnarla in Cisgiordania”. Più tardi ho saputo che era una bugia e che era stata lasciata ad aspettare fino a notte, poi le è stato negato l’ingresso ed è stata rimandata a Gaza”.

“Come una trappola”

In alcuni casi anche dopo che i pazienti ricevono i permessi israeliani per entrare nei territori occupati per le cure le autorità israeliane annullano i permessi alla frontiera e negano loro l’ingresso.

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), nel 2022 sono state presentate dalla Striscia di Gaza bloccata 20.411 domande di permessi di uscita per motivi medici, di cui 6.848 (34%) sono state respinte.

Inoltre, 219 pazienti sono stati sottoposti ad un interrogatorio israeliano al valico di Erez, inclusi 66 malati di cancro, 38 donne e 26 anziani. A circa il 91% di loro è stato negato il permesso di uscita.

L’ufficiale israeliano mi ha detto che ero ufficialmente in arresto e che sarei stato perseguito. Sono stato ammanettato mani e gambe, poi trasferito con un veicolo israeliano in un centro di interrogatorio, dove sono stato ulteriormente interrogato per 26 giorni, poi condannato a 18 mesi di prigione, prosegue Hassan.

Ero come in una trappola. Quando ho presentato la richiesta per accompagnare mia moglie, loro conoscevano già il mio background e la mia professione e mi hanno comunque concesso il permesso per facilitare il mio arresto”.

Islam Abdu, portavoce del Ministero per le questioni dei detenuti e degli ex detenuti di Gaza, ha riferito a MEE che dall’inizio del 2023 sono stati arrestati al confine di Erez otto palestinesi di Gaza, tra cui il malato di cancro Ahmed Abu Awwad, 55 anni, che è stato rilasciato un mese dopo, e Naim al-Sharif, 63 anni, che accompagnava la moglie per cure mediche.

In molti casi il valico di Erez serve come tramite per trattenere i residenti di Gaza. L’occupazione israeliana concede loro i permessi di uscita per attirarli, quindi arrestarli e sottoporli ad una pena”, dice Abdu.

Abbiamo documentato diversi casi in cui le autorità israeliane hanno arrestato pazienti e familiari che li accompagnavano, compresi pazienti in condizioni critiche che necessitavano di cure mediche urgenti”.

Perdita della speranza di una cura

Dopo diverse settimane, quando a sua moglie è stato permesso di fargli visita in prigione, Hassan ha saputo che non si era ancora sottoposta all’intervento e che le sue condizioni stavano peggiorando

Khaldiya ha detto a MEE che dopo la detenzione di suo marito ha presentato tre domande per un trattamento medico nella Cisgiordania occupata.

Non ha ancora ricevuto il permesso.

Ora riesco a malapena a vedere; sto lentamente perdendo la vista e la cosa peggiore è che soffro per un dolore molto intenso. Vivo grazie agli antidolorifici”, ha detto. E’ come se i miei bulbi oculari stessero per cadere dalla faccia. Passo le notti tra la cucina e la mia camera da letto cercando di alleviare il dolore con il ghiaccio.

Quel giorno, durante le lunghe ore di attesa al confine di Erez, avevo il terrore che venisse arrestato. Siamo arrivati alle otto del mattino e solo verso le 11 di sera sono stata informata che era stato arrestato e che mi era stato negato l’ingresso. Sono scoppiata in lacrime e sono tornata a casa perché non potevo farci niente”.

Essendo Hassan il principale sostegno della famiglia sua moglie, i figli e la madre, che vive con loro, durante la sua prigionia hanno avuto difficoltà ad affrontare le spese.

La Commissione per i detenuti ed ex detenuti dell’Autorità Nazionale Palestinese ha concesso alla sua famiglia uno stipendio mensile di 1.800 shekel israeliani (455 euro), ma sua moglie gli inviava 700 shekel (182 euro) per comprare il cibo necessario e coprire i suoi bisogni primari all’interno della prigione.

La caffetteria all’interno del carcere fornisce articoli di base dichiaratamente economici a prezzi molto alti. Settecento shekel potevano a malapena coprire i suoi bisogni primari aggiunge Khaldiyya.

Oggi Khaldiyya, dopo aver perso la speranza di ottenere un permesso israeliano, sta cercando in alternativa di sottoporsi all’operazione a Gaza.

Ci stanno punendo per crimini che non abbiamo commesso, dobbiamo trovare una soluzione con quello che abbiamo”.

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)