La tournée italiana del Coro palestinese Amwaj

Tom Suarez

29 giugno 2023 – Mondoweiss

Il Coro palestinese Amwaj ha intrapreso un ambizioso tour di otto tappe in Italia che prevede l’esecuzione dell’opera Amal – Oltre il Muro basata sul testo dello scrittore palestinese in carcere Walid Daqqah.

Questo mese per tre settimane la Palestina e l’Italia si incontrano faccia a faccia.

Il Coro Amwaj della Palestina ha intrapreso un ambizioso tour italiano di otto tappe, eseguendo tre differenti programmi a Vicenza, Brescia, Avesa, Torino, Genova, Roma, Castelnuovo di Porto e Supino. L’opera lirica Amal — Oltre il Muro si alterna a due programmi di concerti: “Dialogo Corale” e “Onde Corali”.

Il Coro Amwaj è un programma educativo indipendente per bambini e giovani istituito nel 2015, con sede nelle città palestinesi di Betlemme e Hebron. Guidato da un team di educatori francesi e palestinesi e sotto la direzione della fondatrice Mathilde Vittu, docente di musica al Conservatorio di Parigi, Amwaj offre lezioni di musica di alto livello attraverso un programma pedagogico intensivo basato sul canto collettivo. Oggi Amwaj conta 60 ragazze e ragazzi dagli 8 ai 18 anni provenienti da città, campi profughi e aree rurali nelle regioni di Betlemme e Hebron in Cisgiordania.

La visione sociale di Amwaj è inclusiva, promuove l’uguaglianza di genere, la non appartenenza a uno specifico contesto sociale, religioso o politico e si concentra sugli scambi culturali e sul dialogo interculturale. La collaborazione con altri artisti e pedagoghi in Palestina e all’estero è fondamentale per il progetto. Il repertorio del coro è ampio, dalle riscoperte medievali alle anteprime contemporanee, dalla musica araba ad altra musica non occidentale. La tournée italiana del coro segue a tre tour di grande successo in Francia, compresa una residenza presso la prestigiosa Philharmonie di Parigi.

Ho parlato con la direttrice Vittu, che mi ha spiegato:

Scoprire il mondo attraverso la musica è uno degli obiettivi del Coro Amwaj: fin dall’inizio, 8 anni fa, i bambini hanno avuto l’opportunità di cantare in più di 30 lingue. Questo permette loro di affrontare la chiusura imposta ‘viaggiando’ con le canzoni. Quando il viaggio diventa reale, nonostante le 36 ore per raggiungere l’Europa – perché in quanto palestinesi devono passare per Amman – tutte le loro energie vengono spese per mostrare la bellezza della Palestina e della sua cultura. Arrivare in Italia, essere ospitati in famiglie locali e condividere il palco con musicisti e cantanti italiani permette un dialogo, un incontro unico che ispira tutti a credere nel futuro.”

L’occasione di ascoltare questo coro palestinese senza dover passare la “sicurezza” israeliana all’aeroporto Ben-Gurion o all’Allenby Bridge mi è sembrata troppo bella per resistere. Ho preso un volo per Venezia e ho trovato un buon posto in sala nella piccola splendida città settentrionale di Vicenza, sala al completo e in attesa della loro prima performance: l’opera Amal — Oltre il Muro.

Non credo che l’arte possa (o debba) essere mai scollegata dalla società, ma per persone sotto apartheid militare l’arte è, per definizione, politica. Amal lo è apertamente, poiché è basata sul romanzo The Oil’s Secret Tale [Il racconto segreto dell’olio], scritto in carcere dal prigioniero palestinese Walid Daqqah. Israele ha emesso una condanna a trentasette anni a Daqqah nel 1986, all’età di 23 anni, per il suo ruolo in un’operazione di resistenza in cui è stato ucciso un soldato israeliano. Questo adattamento operistico per bambini del suo romanzo è il frutto di una commissione del 2020 del coro Amwaj alla compositrice Camille van Lunen e alla librettista Cornelia Köhler, per un ensemble strumentale di archi, percussioni e kanoun [strumento arabo a corde suonato solo o come parte di un ensemble, ndt.]. L’originale inglese dell’opera è stato tradotto in italiano per il tour.

La violoncellista palestinese Tibah Saad suona e recita la parte del secolare ulivo magico. Alla sua sinistra la voce recitante Louise Cadorini

Nell’opera – come nella vita reale – un grande muro divide la terra, oscura il cielo e separa le persone, gli animali e gli alberi l’uno dall’altro.

Un ulivo secolare, uno dei protagonisti della storia, spiega:

Duemila anni, un tempo molto lungo.

Un tempo pieno di storia. Che storia, la storia di chi? Duemila anni. Waq’t taweel k’teer – per molto tempo ho vissuto in pace e libertà, in tempo di guerra e di sconvolgimenti.

Duemila anni — un tempo molto lungo.

Ho incontrato ebrei e greci e romani e arabi, crociati e soldati, contadini e mandriani.

Ho incontrato ragazze e ragazzi, saggi e sciocchi, coraggiosi e forti, felici e tristi.

Ho incontrato uomini e donne che lavorano, si amano, si baciano, combattono e lottano per la vita.

Duemila anni – una vita molto lunga.

Ma non avevo mai visto un muro prima…

Quando il muro impedisce ad Amal e ai suoi fratelli di far visita al padre in prigione oltre il muro, gli animali si uniscono per aiutarli. Idee e tentativi si alternano: scavare un tunnel sotto il muro? Volarci sopra? Ingannare le guardie? I loro migliori sforzi falliscono, ma un ulteriore complice offre aiuto: l’ulivo secolare.

Bambini”, dice, “ho sentito la vostra storia e ho visto le vostre lacrime. Vi aiuterò. L’olio dei miei frutti è magico. Raccogliete le mie olive e ungetevi con il loro olio. Vi renderà invisibili e vi permetterà di intrufolarvi nella prigione e incontrare vostro padre. Insieme a lui libererete il prigioniero più anziano”. Amal chiede: “Chi è il prigioniero più anziano?” Ma l’albero risponde solo: “Dovete scoprirlo”.

Il piano funziona. L’olio magico dell’antico albero consente loro di raggiungere l’altro lato del muro, entrare nella prigione e trovare il padre. Per tutto il tempo, si chiedono se sia lui il prigioniero più anziano da liberare. Ma non è lui. Scoprono che il prigioniero più antico ed estremo dell’ingiustizia è il futuro.

Attraverso la loro perseveranza, libereranno il futuro.

Ahmad e Ahmad recitano la parte dei gemelli conigli Samour e Samour. Le foto sono di FARES S. MANSOUR

L’autore Walid Daqqah ha sposato Salameh dopo tredici anni di prigione e, facendo infuriare i suoi carcerieri, ha generato la figlia Milad facendo arrivare lo sperma fuori dalla prigione. Ora sta morendo di cancro avanzato al midollo.

Il coro e i musicisti hanno tutti le proprie storie di vita sotto il fascismo sionista. Limitandoci agli esempi di pochi membri adulti, nel 2021 i soldati israeliani hanno arrestato la contrabbassista palestinese Mariam Afifi e l’hanno trascinata via per i capelli per aver resistito alla pulizia etnica di Sheikh Jarrah. Quando nel 2015 la violinista e mezzosoprano palestinese Aleen Masoud si recò negli Stati Uniti con il giornalista Gideon Levy per un talk + performance a Westchester (area di New York), la mobilitazione sionista spinse la polizia a tentare di far naufragare l’evento ma grazie a WESPAC [società multinazionale australiana con sede a Sydney, ndt.] riuscì solo a interromperlo. Il violista Omar Saad, uno di quattro fratelli nativi della Galilea tra i musicisti del tour, è stato imprigionato nel 2014 per essersi rifiutato di prestare servizio nell’esercito israeliano.

L’oppressione israeliana è studiata per soffocare tutti gli aspetti della normale vita quotidiana, compresa la cultura. Una rete di colonie israeliane e attività dell’esercito si estende tra Betlemme e Hebron, città originarie del Coro, e l’apartheid israeliano costringe i palestinesi che viaggiano all’estero a volare dalla Giordania, il che a sua volta richiede un’uscita onerosa e laboriosa attraverso il controllo e il taglieggiamento di Israele [che richiede una tassa di 55 $, ndt.] al confine tra Palestina e Giordania.

Ma successi come quelli del Coro Amwaj sono una sfida e una prova che settantacinque anni di campagna israeliana per cancellare la civiltà palestinese sono inutili.

Thomas Suárez è un ricercatore e storico che vive a Londra, ed è anche violinista e compositore professionale formatosi alla Juilliard School. Ex residente in Cisgiordania, i suoi libri includono tre opere sulla storia della cartografia e quattro sulla Palestina, il più recente dei quali Palestine Hijacked – how Zionism forged an apartheid state from river to sea [Il sequestro della Palestina– come il sionismo ha forgiato uno Stato di apartheid dal fiume al mare].

Leggi anche The remarkable rise of the Amwaj Children’s Choir of Palestine, Mondoweiss, 2018

(traduzione dallinglese di Luciana Galliano)




Israele rifiuta di rilasciare un prigioniero palestinese malato terminale, nonostante ‘l’immediato pericolo per la sua vita’

Redazione di MEMO

27 giugno 2023 – Middle East Monitor

Ieri la commissione per la libertà condizionata, presieduto dal giudice in pensione Zvi Segal, ha rifiutato la richiesta di rilascio anticipato del prigioniero palestinese Walid Daqqa, malato terminale, nonostante gli avvertimenti che egli è a rischio di morte.

Contraddicendo l’opinione di un esperto medico facente parte dell’Israel Prison Service [il servizio carcerario israeliano, ndt.] (IPS) secondo cui la vita di Daqqa è in “concreto pericolo” come paziente oncologico, la commissione per la libertà condizionata ha concluso che le condizioni di salute dell’uomo sessantunenne non sono una ragione sufficiente per il suo rilascio anticipato.

Dopo aver effettuato la diagnosi, l’IPS ha confermato che “ha i giorni contati e che c’è un rischio immediato per la sua vita”.

Come altri prigionieri palestinesi, Daqqa, a cui è stata diagnosticata per la prima volta la leucemia nel 2015, durante i suoi 37 anni in prigione ha sofferto di incuria sanitaria che ha peggiorato la sua salute. A causa del deterioramento delle sue condizioni di salute all’inizio dell’anno è stato spostato dall’ambulatorio della prigione Ramla al centro medico Shamir.

A causa della protesta per la privazione del suo diritto di comunicare con la famiglia, Daqqa è stato riportato all’assistenza medica del’amministrazione dell’ambulatorio della prigione di Ramla.

Daqqa venne arrestato nel 1986 e gli fu comminata una sentenza a 37 anni di prigione che ha scontato nel marzo 2023; tuttavia nel 2017 le autorità israeliane hanno esteso il suo periodo di detenzione di due anni con l’accusa di contrabbando di telefoni mobili nella prigione.

Secondo l’organizzazione non governativa palestinese Addameer, Daqqa è uno scrittore, attivista e prigioniero politico palestinese originario di Baqa Al-Gharbiya, una cittadina palestinese in Israele, a cui nel 2022 è stata diagnosticata una rara forma di cancro del midollo osseo.

Egli è uno dei 19 palestinesi che hanno passato più di 30 anni nelle prigioni dell’occupazione israeliana e uno dei 23 palestinesi che sono stati incarcerati da prima degli accordi di Oslo del 1991.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




ILAN PAPPE su Gamal Abdul Nasser: perché dobbiamo riesaminare la guerra del giugno 1967

Ilan Pappe

27 giugno 2023 – Palestine Chronicle

Nasser sbagliò i calcoli riguardo alla reazione di Israele. Benché il governo israeliano sapesse molto bene che Nasser non intendeva iniziare una guerra, utilizzò la sua politica del rischio calcolato come pretesto per iniziare una guerra per conto proprio con l’obiettivo di costruire un piccolo impero, un Israele più grande.

Giugno è il mese in cui si ricorda la guerra del giugno 1967.

Gli storici riconsiderano un avvenimento non solo sulla base di nuove prove. Le loro analisi sono influenzate anche dal passare del tempo che consente loro di riesaminare aspetti differenti di eventi fondamentali come questo.

E quando indaghi la storia e utilizzi documenti e prove solide, a volte deludi amici e nemici.

In questo articolo vorrei riprendere in considerazione il ruolo in quella guerra dell’ex presidente egiziano Gamal Abdul Nasser. Penso che il suo ruolo non sempre corrisponda alla percezione comune di questo grande leader e forse deluda valutazioni percepite del suo contributo alla lotta.

Nasser, Palestina e Israele

Qui scrivo dal punto di vista palestinese, nel senso che sono meno interessato a quanto successe all’Egitto in seguito al ruolo di Nasser in Palestina, indubbiamente un argomento significativo. Mi interessa invece l’impatto del leader egiziano sulla storia della Palestina contemporanea.

Nasser arrivò al potere in quanto membro del movimento dei Liberi Ufficiali nella rivoluzione del luglio 1952. Subito dopo assunse la carica di vice capo del movimento, prima di togliere il comando a Muhmad Naguib.

Anche come vice capo era interessato ai negoziati con Israele. Ricorse a un importante diplomatico in Francia per iniziare colloqui con gli israeliani. La sua controparte fu Moshe Sharett, all’epoca ministro degli Esteri di Israele.

Certo Nasser considerava la Nakba come una catastrofe. Credeva fortemente al diritto dei rifugiati palestinesi a tornare e riteneva Israele una grave minaccia per il mondo arabo. Ma Nasser era anche un pragmatico che capiva bene come Israele fosse diventato una parte essenziale dell’assetto imperialista americano nel mondo arabo, e quindi cercò il modo di limitarne il potenziale pericolo.

All’epoca, nel 1952, Nasser non riteneva necessariamente gli Stati Uniti degli arcinemici dei regimi arabi progressisti e sperava che un approccio realistico verso Israele gli avrebbe ingraziato gli americani.

Nel 1952 fece due richieste ragionevoli e rimase sorpreso nell’apprendere che sia la Gran Bretagna che gli USA le trovarono accettabili: un ritorno incondizionato dei rifugiati palestinesi e un ponte terrestre attraverso il sud del Naqab (il Negev) che unisse Giordania ed Egitto. In cambio sarebbe stato disposto a [firmare] un patto di non aggressione con Israele e, successivamente, la pace.

Ben Gurion e i suoi due compari

Il primo ministro israeliano dell’epoca, David Ben Gurion, respinse categoricamente ogni contatto con il leader egiziano: di fatto, dal momento in cui fu chiaro che Nasser sarebbe stato il leader dell’Egitto, Ben Gurion cercò il modo di rovesciarlo.

Invece Sharett fu più disponibile: non che accettasse le condizioni di Nasser, ma apprezzò l’idea dei negoziati e sperò di trovare un compromesso.

Per un breve periodo, quando Sharett sostituì Ben Gurion come primo ministro di Israele per un anno e mezzo, tra il 1954 e il 1955, sembrò possibile arrivare a un compromesso.

Benché non fosse più nel governo, Ben Gurion aveva lasciato due compari che, come lui, credevano che Nasser dovesse essere spodestato. Questa convinzione era di per sé il risultato di un’ideologia radicata, in base alla quale solo un’esibizione della spietatezza di Israele avrebbe potuto ammansire gli arabi e cancellare ogni progetto panarabo che potesse aiutare i palestinesi.

Uno dei due compari era il ministro della Difesa Pinchas Lavon, l’altro il capo di stato maggiore Moshe Dayan.

I tre progettarono una serie di azioni per far fallire il desiderio di Sharett di raggiungere un accordo con Nasser. Si iniziò con la violazione dell’accordo di armistizio con l’Egitto costruendo una colonia illegale sulla terra di nessuno, seguita dall’ignobile massacro nel villaggio di Qibyah, in Cisgiordania.

Esso venne messo in atto nel 1953 da unità d’élite israeliane guidate da Ariel Sharon. Sessantacinque abitanti vennero uccisi, in parte facendo saltare in aria le loro case mentre vi stavano ancora dormendo.

Ma il culmine di questa campagna fu la formazione di un’organizzazione terroristica di ebrei egiziani a cui venne ordinato di piazzare bombe in cinema e librerie legate alla cultura occidentale per incrementare la sfiducia verso Nasser agli occhi degli americani.

I terroristi vennero catturati prima che riuscissero a portare a termine le loro azioni.

Il ritorno al potere di Ben Gurion

Dopo un’assenza relativamente breve Ben Gurion tornò al potere. Nel febbraio 1955 inviò il suo esercito nella Striscia di Gaza per compiere un’operazione militare che diede come risultato l’uccisione di 37 soldati egiziani. Fino a quel momento, come indicato nelle sue memorie dallo stesso Nasser, il leader egiziano era disposto a negoziare con Israele, attenendosi a una posizione che americani e britannici vedevano ancora come sensata e realizzabile.

Quando comprese che l’Occidente non era disposto a esercitare pressioni su Israele e non avrebbe mosso un dito per porre fine alle ambizioni colonialiste e annessioniste di Israele verso il mondo arabo, Nasser cambiò rotta. Ora si era convinto che Israele avrebbe attaccato sia la Siria che la Giordania per espandere i propri confini geografici. Ciò richiese un nuovo modo di pensare.

La nuova strategia di Nasser

Allora Nasser intraprese una nuova strategia, che includeva un appoggio più evidente alle nascenti attività di resistenza e di guerriglia dei palestinesi contro Israele, tentativi di unità panaraba, la creazione di un blocco di Paesi non allineati [né con gli USA né con l’URSS, ndt.] con India e Jugoslavia e l’acquisto di armi più moderne per il suo esercito.

Tra tutte queste politiche egli scelse quella nota come del rischio calcolato, utilizzando discorsi bellicosi e simulando la preparazione della guerra, con la speranza che ciò sarebbe stato sufficiente per obbligare l’Occidente a esercitare pressioni su Israele perché cessasse i suoi attacchi.

Questa strategia includeva la chiusura degli stretti di Tiran che collegano il Mar Rosso al Golfo di Aqaba, concentrando un’armata nella penisola del Sinai e chiedendo all’ONU di ritirarsi dalla frontiera tra Egitto e Israele.

Ma Nasser sbagliò previsione riguardo alla reazione israeliana. Benché sapesse benissimo che Nasser non intendeva fare la guerra, il governo israeliano utilizzò la sua politica del rischio calcolato come pretesto per iniziare una guerra per conto proprio con l’obiettivo di costruire un piccolo impero, un Israele più grande.

Il resto, come si suol dire, è storia

Documenti declassificati

Documenti recentemente declassificati degli incontri del governo israeliano mostrano chiaramente che i dirigenti israeliani capirono che la guerra non era imminente e che molto dipendeva dalle loro azioni.

In effetti non c’era bisogno di attendere l’apertura degli archivi per arrivare a tale conclusione. Molti leader israeliani lo ammisero. Uno di loro fu Menachem Begin, che faceva parte del governo dell’epoca e che disse a capi militari dell’esercito israeliano:

“Nel giugno 1967 facemmo di nuovo una scelta. La concentrazione dell’esercito egiziano sui confini del Sinai non dimostrava che Nasser stesse realmente per attaccarci. Dobbiamo essere onesti con noi stessi: noi decidemmo di attaccarlo.”

Israele ha bisogno della guerra

Come nel 1948, anche nel 1967 Israele aveva bisogno di guerre per raggiungere i tipici obiettivi di ogni movimento colonialista di insediamento: avere più spazio geografico con meno popolazione nativa che vi abiti.

Dal 1963 Israele aveva preparato piani complessivi in attesa della mossa perfetta per iniziare il suo progetto di un “Israele più grande”. Ma fallì, perché credeva erroneamente che lo squilibrio demografico derivante dalla creazione di una tale entità potesse essere facilmente risolto opprimendo per decenni milioni di palestinesi. Dato che non poteva replicare la campagna di pulizia etnica del 1948, Israele scelse di trattare le popolazioni da poco occupate come detenuti in una vasta e sempre più grande prigione.

La resistenza palestinese a questa mostruosa politica continua fino ad oggi.

La lezione è che, persino con un governo di sinistra, laburista, che governò Israele tra il 1948 e il 1977, Israele non voleva la pace. Al contrario, Tel Aviv sperò di imporre la sua volontà al mondo arabo alleandosi strettamente con l’Occidente.

Le conseguenze di questa strategia si fecero sentire oltre la Palestina, il cui popolo fu la principale vittima di questa intransigenza israeliana. Di fatto ebbe un impatto notevole e dannoso su tutto il mondo arabo.

Sfortunatamente stiamo ancora assistendo ai frutti amari di questa aggressione, che può essere fermata solo dalla liberazione della Palestina e dalla creazione di uno Stato democratico su tutta la Palestina storica, che garantisca il ritorno dei profughi.

È l’unico modo che ci consentirebbe di chiudere questo pericoloso e triste capitolo della storia del mondo arabo e, si spera, permetterebbe a tutti noi di iniziarne uno nuovo e più promettente.

Ilan Pappé è docente all’università di Exeter. È stato in precedenza professore associato all’università di Haifa. È autore di La pulizia etnica della Palestina [Fazi, 2008], The Modern Middle East [Il moderno Medio Oriente], Storia della Palestina moderna. Una terra, due popoli [Einaudi, 2014] e Ten Myths about Israel [Dieci miti su Israele]. Pappé è considerato uno dei “nuovi storici” israeliani che, da quando all’inizio degli anni ’80 sono stati resi pubblici documenti ufficiali britannici e israeliani sull’argomento, hanno riscritto la storia della creazione di Israele nel 1948. Ha concesso questo articolo a The Palestine Chronicle.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Perché i pogrom dei coloni stanno squassando la Cisgiordania proprio ora

Menachem Klein 

26 giugno 2023 +972

Frustrati dalle reazioni armate ai loro pogrom, i coloni continueranno a propugnare la supremazia ebraica con ogni mezzo necessario.

A volte un evento è così estremo da strappare il paraocchi della deliberata ignoranza alla società ebraico-israeliana. Il pogrom di Huwara lo scorso febbraio in cui centinaia di coloni hanno incendiato la città palestinese nella Cisgiordania occupata è stato un evento del genere. I pogrom della scorsa settimana a Turmus Ayya, Urif e Umm Safa hanno aperto ulteriormente il quadro, costringendo molti israeliani a guardare in faccia a una realtà presente da tempo e che senza dubbio può peggiorare.

Il problema principale non è però nel sottoprodotto dell’occupazione – il terrorismo dei coloni ebrei – ma nell’attività di routine di Israele nei territori. In effetti, la decisione dei dirigenti della sicurezza israeliana di etichettare i pogrom come “terrorismo” indica che il paraocchi è stato levato solo in parte: semplicemente non vogliono che il terrorismo ebraico interferisca o metta in imbarazzo l’autorità di esercito, Shin Bet e polizia.

L’insediamento coloniale è di per sé un atto violento, che sia fatto in accordo con la legge israeliana o con una legge che lo legittima retroattivamente. È violento perché i coloni impongono la loro presenza agli abitanti autoctoni e li privano della terra, dell’acqua, della libertà di movimento e dei diritti umani fondamentali. È un sistema organizzato di violenza per conto dello Stato.

La simbiosi tra esercito e coloni non si limita alla violenza; esiste anche nella concezione che hanno della loro missione. I coloni definiscono esplicitamente la loro missione come l’ebraizzazione dell’area, e lo fanno in modo efficace e coerente. La missione dell’esercito non è garantire la sicurezza a tutti i residenti nei territori – come il diritto internazionale richiede alla potenza occupante – ma piuttosto proteggere i coloni dalle reazioni dei nativi palestinesi, ai quali non è permesso difendersi, né con l’aiuto delle forze di sicurezza palestinesi, né istituendo una propria guardia nazionale.

Il fattore che determina se la vita e la proprietà di un residente della Cisgiordania saranno protette è se è ebreo o meno.

Anche l’espansione delle colonie in risposta all’assassinio di israeliani – come alte cariche del governo si sono impegnate a fare la scorsa settimana – non è un’innocua azione civile. È una violenza senza immediato spargimento di sangue, ma che inevitabilmente genererà una resistenza palestinese seguita da una sanguinosa repressione dell’esercito.

I palestinesi sono tollerati solo se si annullano nel paesaggio, diventando oggetti inanimati che rinunciano alla loro identità collettiva. Ma finché mantengono quell’identità sono per definizione il nemico. L’esercito e lo Shin Bet continueranno a controllarli con dati biometrici ed elettromagnetici che tracciano la loro posizione, le loro azioni e i pensieri espressi nelle telefonate e sui social media. La completa dipendenza dei palestinesi da Israele per i permessi rende facile per le autorità israeliane raccogliere informazioni sulla loro famiglia e le condizioni mediche, le tendenze sessuali, le debolezze personali e l’inquadramento sociale e utilizzare tali informazioni come arma per costringerli a collaborare.

Il predominio ebraico è chiaro come il sole e il popolo palestinese sta sanguinando fisicamente e politicamente. Tuttavia, man mano che le colonie si espandono e l’esercito interviene aumenta l’attrito, e così anche la motivazione palestinese a reagire. Oggi la violenza palestinese ha poca speranza di liberare la Cisgiordania la disparità di potere tra le parti è fin troppo evidente. Piuttosto, intende far pagare un prezzo, un qualsiasi prezzo, ai colonizzatori.

Una frustrazione pericolosa

Questa reazione frustra i coloni. Com’è possibile che tutto il loro potere e la loro supremazia non abbiano ancora cancellato l’identità e la resistenza palestinese? Questa frustrazione è ciò che muove i pogrom, come quelli che abbiamo visto la scorsa settimana, che poi spingono l’esercito e il governo a usare ancora più forza nell’espandere il progetto di insediamento coloniale. Solo pochi giorni fa, il Col. (Forze di Riserva) Moshe Hagar, capo dell’accademia premilitare nella colonia di Beit Yatir, ha invocato la distruzione di una città o di un villaggio palestinesi per dare una lezione ai palestinesi. Nel frattempo Bezalel Smotrich che funge sia da Ministro delle Finanze che come Ministro incaricato degli Affari Civili in Cisgiordania, ha definito “sbagliato e pericoloso” qualsiasi paragone tra ciò che ha definito “terrore arabo” e le “contro-operazioni di civili”.

La loro frustrazione oggi è maggiore di quanto non fosse in passato. Negli anni ’80 e ’90 i coloni nei territori occupati si sono trasformati da movimento civile sostenuto dalla classe dirigente in classe dirigente essi stessi. Si sono fatti strada nei livelli esecutivi degli ambiti governativi di amministrazione e sicurezza che controllano la popolazione palestinese e la sua terra. Oggi, sotto l’attuale governo di estrema destra, hanno raggiunto l’apice del potere. Non pensano affatto a riconoscere dei limiti al proprio potere, perché la direzione delle loro ambizioni politiche è diretta e inequivocabile. Non devono ritrarsi.

L’idea di contenere il conflitto per non perdere il controllo – come sperano di fare esercito, Shin Bet e polizia – è per loro inaccettabile, poiché la loro frustrazione è pari al loro estremismo politico e teologico. I coloni stanno spingendo i dirigenti della sicurezza ad agire secondo la visione di Hagar. A differenza dell'”Operazione Scudo Difensivo” – quando l’esercito israeliano distrusse fisicamente e politicamente l’Autorità Nazionale Palestinese nel 2002 attraverso devastanti invasioni urbane – oggi non c’è più una leadership da decimare. L’ANP sotto il presidente Mahmoud Abbas l’ha già fatto per Israele. L’appello della destra israeliana a lanciare “Scudo Difensivo II” è invece un invito a porre i civili palestinesi come obiettivo centrale piuttosto che come semplice e accettabile effetto collaterale.

La fine del conflitto e la soluzione dei due Stati non sono più interessanti per l’opinione pubblica israeliana e per la comunità internazionale. In mancanza di una soluzione – o più precisamente, della volontà di perseguirne una – i governi stranieri, compresi gli Stati arabi, hanno permesso a Israele di creare un regime unico nell’intera area compresa tra il fiume e il mare senza dover dichiarare ufficialmente l’annessione.

Il fatto che due popoli diversi vivano sotto due sistemi di leggi e un unico potere significa che Israele sta attuando pratiche di apartheid, supremazia razziale e governo militare non come una questione di politica estera, ma piuttosto come politica interna.

Questo è il motivo per cui, ad esempio, il Ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben Gvir sta cercando di istituire una propria milizia privata, per avere il potere di sottoporre i cittadini palestinesi di Israele alla detenzione amministrativa e per approfondire la penetrazione dello Shin Bet nella vita dei cittadini palestinesi di Israele. E, sulla scia degli eventi del maggio 2021 [grave esplosione di violenza iniziata il 10 maggio 2021 e continuata fino all’entrata in vigore del cessate il fuoco il 21 maggio, ndt.] l’esercito israeliano ha ora elaborato piani per agire contro i cittadini palestinesi in caso di conflitto.

I dirigenti di Israele si stanno rendendo conto che devono piegare ulteriormente la legge alla loro volontà, altrimenti l’identità dell’intera area tra il fiume e il mare non sarà mai esclusivamente ebraica. E, sfortunatamente, la sinistra ebraica sionista non ha né la visione né il coraggio per impedire questa tendenza.

Menachem Klein è professore di Scienze Politiche all’Università Bar Ilan. È stato consigliere della delegazione israeliana nei negoziati con l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina nel 2000 ed è stato uno dei leader dell’Iniziativa di Ginevra. Il suo nuovo libro, Arafat e Abbas: Portraits of Leadership in a State Postponed [Arafat e Abbas: ritratti di leadership in uno Stato rinviato], è stato appena pubblicato da Hurst London e Oxford University Press New York.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Cisgiordania: sviluppo della resistenza armata palestinese nei campi profughi contro i raid israeliani

Leila Warah, Tulkarem, Cisgiordania occupata

24 giugno 2023 – Middle East Eye

Nur Shams a Tulkarem è il più recente campo di rifugiati ad organizzare delle brigate mentre le incursioni israeliane diventano un elemento costante nelle vite dei palestinesi

Un piccolo gruppo di giovani, di cui tre armati di fucili informalmente imbracciati, staziona fuori da un supermercato. Fissano con circospezione qualunque sconosciuto che entri nel campo profughi, stando all’erta per individuare forze israeliane che possano fare irruzione in qualunque momento.

La scena potrebbe facilmente svolgersi a Jenin o Nablus, due città palestinesi nel nord della Cisgiordania occupata che hanno ricevuto attenzione internazionale per la loro resistenza armata contro l’occupazione di Israele.

Benché i giovani siano del nord, non provengono né da Jenin né da Nablus. Vengono dal campo profughi di Nur Shams a Tulkarem, ancora più ad ovest, e sono membri di un gruppo di resistenza armata recentemente creatosi nella zona.

In un vicolo del campo il 24enne leader delle brigate Tulkarem, Mohammad, dice a Middle East Eye di credere che l’occupazione israeliana non abbia lasciato ai giovani della Cisgiordania altra scelta che rivolgersi alla resistenza armata.

L’occupazione israeliana è la nemica di Dio, perciò io lotto per riavere la nostra terra in nome di Dio”, dice. “Il nostro problema non è che loro sono ebrei, è che stanno occupando la nostra terra.

Se vieni da noi con la violenza la nostra unica opzione è rispondere con la violenza. L’occupazione non ci lascia alcuno spazio di mediazione, solo i fucili.”

Una dura realtà e un futuro nero’

Le Brigate Tulkarem sono nate a febbraio e sono sotto il comando delle brigate Al-Quds, l’ala militare del movimento della Jihad islamica.

Sono formate da 15 militanti del campo di Nur Shams di età tra i 16 e i 25 anni, che si impegnano a “difendersi” contro l’occupazione militare di Israele attraverso la resistenza armata. 

Siamo all’inizio della resistenza. Tutto ciò che è accaduto non è che l’inizio. Stanno emergendo nuove generazioni e la libertà sarà nelle loro mani e sarà ottenuta da loro”, dice Mohammad.

La gente del posto dice che il campo profughi di Nur Shams subisce quasi ogni giorno incursioni militari, incluse cinque operazioni su larga scala in questo anno.

Questa generazione è nata in una dura realtà e un nero futuro. Ogni giorno l’occupazione fa incursione nel campo e arresta i loro padri. Uccidono i loro amici e distruggono tutto”, dice a MEE Ibrahim Al-Nimr, di 51 anni, un attivista che lavora per la Società dei Prigionieri Palestinesi.

Il gruppo crea dei posti di blocco a tutte le entrate del campo e le tiene chiuse tra mezzanotte e mezzogiorno per contrastare le frequenti incursioni e neutralizzare agenti israeliani sotto copertura.

Niya Jundi, abitante di Nur Shams, dice che la comunità “incoraggia gli sforzi della giovane e resiliente generazione che vuole vivere in un Paese libero.”

Ovviamente ci sono inconvenienti nella resistenza. Ci rende più difficile accedere ai servizi, ma è un nostro diritto imbracciare le armi finché non saremo liberi dall’occupazione.”

Una rete di resistenza armata

I locali dicono che la nascita della Brigata Tulkarem è stata indotta dal “martirio” dell’abitante di Nur Shams Saif Abu Libda.

Nato e cresciuto nel campo, Abu Libda si è unito alla Brigata Jenin e sperava di portare un giorno la resistenza armata a casa sua a Nur Shams, cosa che avrebbe completato il “triangolo della resistenza del nord” tra Jenin, Nablus e Tulkarem.

Il 2 aprile 2022 le forze israeliane gli hanno teso un’imboscata e lo hanno ucciso insieme a Saeb Abahra, di 30 anni, e Khalil Tawalbeh, di 24, mentre stavano guidando a Jenin. Tutti e tre erano membri delle Brigate Al-Quds, ma al momento sembra che non fossero impegnati in scontri armati.

Tutti i gruppi di resistenza in Cisgiordania sono in contatto tra di loro. Tutti abbiamo lo stesso obbiettivo”, dice Mohammad.

Jamal Huweil, professore di scienze politiche e relazioni internazionali all’università arabo-americana di Jenin, dice che, come Abu Libda, gente da tutta la Cisgiordania – comprese Tubas, Nablus, Balata e Hebron – è andata a Jenin per conoscere la lotta armata.

Con l’intensificarsi della resistenza armata in Cisgiordania, Israele ha ufficialmente dato inizio alla campagna ‘Spezzare l’Onda’ nel marzo 2022, conducendo incursioni militari quasi quotidiane in tutta la Cisgiordania e incrementando la politica di sparare per uccidere, con la conseguenza di arresti di massa e di segnare l’anno più mortale per i palestinesi nei territori occupati dopo la seconda Intifada due decenni fa.

Huweil ritiene che Israele abbia chiamato così l’operazione riferendosi a Jenin, dove è iniziata l’“onda”.

Israele considera il campo profughi di Jenin un’incubatrice di resistenza. L’onda continua ed ha raggiunto Nablus, il campo profughi di Nur Shams a Tulkarem e il campo profughi Aqbat Jabir a Gerico. Jenin è la fonte della resistenza palestinese e a sua volta un problema per Israele”, dice a MEE.

Anche con la crescita della resistenza armata, Huweil specifica che i rapporti di forza tra l’esercito di prima classe di Israele e i giovani militanti siano molto sproporzionati.

Non c’è paragone, quando loro hanno elicotteri Apache, aerei da ricognizione e unità speciali contro un gruppo di combattenti dotati del minimo indispensabile”, dice.

Mentre la resistenza armata palestinese si diffonde, i leader israeliani hanno invocato l’ “Operazione Scudo Difensivo 2”, con riferimento all’invasione militare su larga scala della Cisgiordania nel 2002 durante la seconda Intifada.

Ci sono discussioni interne se Israele debba espandere le proprie operazioni, ma sospetto che, se proseguiranno su questa strada, la resistenza si farà più forte e agguerrita”, dice Huweil.

Coordinamento della sicurezza palestinese e israeliana

Dirigenti palestinesi e israeliani si sono incontrati due volte quest’anno, a Aqabat in Giordania e a Sharm el Sheikh in Egitto, per discutere dell’economia palestinese, del ridimensionamento della violenza e del ruolo dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) nel disperdere la resistenza armata in Cisgiordania.

Tuttavia molti palestinesi sono delusi dai colloqui di pace e dalla diplomazia tra dirigenti e denigrano il coordinamento sulla sicurezza tra ANP e Israele per stroncare la resistenza armata, che ha provocato l’insorgere di tensioni in luoghi come Nur Shams.

Il presidente dell’ANP Mahmoud Abbas non crede nella resistenza armata. Incontra politici israeliani per discutere di situazioni di sicurezza e di economia perché sono fattori che spingono la gente a ribellarsi”, dice Huweil. “Sono spaventati che l’onda del campo di Jenin si allarghi e raggiunga tutta la Cisgiordania, Gaza e il Libano.”

Mohammad dice a MEE che “i colloqui politici non servono a niente. Ci abbiamo provato e sono finiti nel nulla. L’unica strada per riavere la nostra libertà è la forza.”

Sebbene qui l’ANP faccia pressioni sulla resistenza armata, tentando di offrire denaro per abbandonare la resistenza armata ed entrare nella polizia, non concluderà niente”, dice.

L’esercito israeliano non segue le norme internazionali, non segue nessuna regola.”

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Il ruolo dei sionisti negli attacchi contro gli ebrei iracheni negli anni ’50 ‘confermato’ da rapporti di agenti segreti e polizia

Rayhan Uddin

19 giugno 2023 – Middle East Eye

Lo storico anglo-israeliano Avi Shlaim cita ‘prove inconfutabili’ di ex agenti ebrei che dimostrano attentati dinamitardi da parte di sionisti in alcuni siti per incoraggiare l’emigrazione in Israele

Lo storico anglo-israeliano Avi Shlaim ha detto a Middle East Eye che un rapporto della polizia e un’intervista con un ex agente segreto sionista stanno alla base delle sue affermazioni circa la scoperta di “prove inconfutabili” del coinvolgimento di Israele negli attentati dinamitardi che hanno fatto fuggire gli ebrei dall’Iraq agli inizi degli anni ‘50.

Pubblicata all’inizio di questo mese, l’autobiografia di Shlaim,Three Worlds: Memoirs of an Arab-Jew, [Tre mondi: memorie di un ebreo arabo], descrive la sua infanzia di ebreo iracheno e il successivo esilio in Israele.

Include anche ricerche su vari attentati dinamitardi in Iraq che fra il 1950 e il 1951 causarono l’esodo di massa dal Paese di ebrei, la maggioranza dei quali, come lui e la sua famiglia, finiti in Israele.

Domenica Shlaim ha riferito a Middle East Eye di aver scoperto “prove inconfutabili della partecipazione negli attentati di agenti segreti sionisti “. 

Fra le prove lo storico ha citato una sua lunga intervista con Yaakov Karkoukli, ex membro del movimento sionista clandestino a Baghdad negli anni ‘50. 

Karkoukli, 89enne al tempo del colloquio con Shlaim per il libro, fu un collaboratore di Yusef Basri, un agente segreto sionista in Iraq condannato dalle autorità irachene per aver attuato attentati dinamitardi che presero di mira ebrei iracheni. 

‘Terrorizzare, ma non uccidere’

All’epoca, gli attentati dinamitardi presero di mira un caffè, un’autoconcessionaria e una sinagoga, oltre ad altri attacchi contro comunità e attività commerciali ebraiche. 

Karkoukli ha affermato che Basri mise in atto tre di quegli attacchi contro siti ebraici su ordine di Meir Max Bineth, un agente dell’intelligence israeliana che rifornì Basri di granate e tritolo.

Oltre alle armi, Bineth avrebbe fornito a Basri mappe, informazioni e istruzioni che includevano l’ordine di ‘terrorizzare, ma non uccidere’.

Basri e Shalom Salih Shalom, un altro agente sionista clandestino, furono condannati per gli attentati dinamitardi e giustiziati dalle autorità irachene. 

Anche un terzo agente clandestino, Yusef Khabaza, fu condannato a morte in absentia, ma fuggì dall’Iraq.

Karkoukli sostiene che l’attacco contro la sinagoga Masuda Shemtov a Baghdad nel gennaio 1951, l’unico attentato dinamitardo di quel periodo che provocò vittime tra gli ebrei, non fu direttamente eseguito da agenti sionisti, ma da arabi musulmani.

Bineth, che avrebbe dato gli ordini a Basri, si sarebbe poi suicidato dopo l’arresto da parte delle autorità egiziane per il suo sospetto coinvolgimento nell’affare Lavon, la fallita operazione israeliana sotto copertura per collocare bombe in Egitto e incolpare la Fratellanza Musulmana e i comunisti (egiziani). 

I funzionari israeliani hanno da tempo respinto qualsiasi coinvolgimento di clandestini sionisti o di agenti israeliani negli attacchi contro ebrei iracheni e danno invece la colpa ai nazionalisti iracheni. 

“Questa non è una testimonianza indiretta, ma direttamente di un partecipante,” ha detto Shlaim a MEE, riferendosi alla sua intervista con Karkoukli.

“Vero, questa è storia orale e perciò non conclusiva, sebbene sia impensabile che Karkoukli si sia inventato tutta la storia.” 

Ma lo storico ha aggiunto che Karkoukli ha fornito prove più decisive della sua testimonianza, nella forma di un verbale di polizia. 

Rapporto di polizia

Shlaim ha ricevuto una copia del rapporto della polizia di Baghdad sul processo a Basri e ai suoi complici che Karkoukli ottenne da un ufficiale della polizia irachena in pensione.

Il documento, la cui traduzione è inclusa nel libro e che è stato inviato a MEE, include dettagli delle confessioni sia di Shalom che di Basri, in cui essi ammettono di aver lanciato bombe contro obiettivi ebraici iracheni. Nella sua confessione Shalom implica anche Khabaza.

 “Tranne gli investigatori della polizia nessuno avrebbero potuto avere tutti i dettagli contenuti in questo rapporto,” ha affermato Shlaim. “Chiaramente non è un’invenzione, ma ho fatto un ulteriore passo per confermarne l’autenticità.”

Lo storico ha spiegato di aver confermato la veridicità del rapporto della polizia grazie al giornalista iracheno Shamil Abdul Qadir, in possesso del dossier della polizia di Baghdad lungo 258 pagine sugli interrogatori dei supposti agenti sionisti. 

Abdul Qadir ha verificato il rapporto della polizia e detto che si basa sul dossier in suo possesso. Un’immagine della sua copertina è stata visionata da MEE.

“Il rapporto della polizia che ho riprodotto nel mio libro è perciò una prova inconfutabile del coinvolgimento del movimento clandestino sionista negli attentati dinamitardi,” ha affermato Shlaim. ” Questa è la pistola fumante, per così dire.”

Attacco alla sinagoga

Secondo Karkoukli l’attacco alla sinagoga Masuda Shemtov, in cui restarono uccisi quattro ebrei, fu eseguito da un musulmano di origini siriane, Salih al-Haidari. 

Karkoukli ha sostenuto di essere “l’unica persona al mondo ” a sapere chi compì quell’attacco. 

Ha affermato che ad Haidari fu proposto l’attacco da un poliziotto iracheno corrotto che aveva ricevuto una mazzetta dal movimento clandestino sionista. Secondo Shlaim non ci sono altre prove che corroborino questa affermazione. 

In seguito agli attacchi dinamitardi circa 110.000 ebrei fuggirono dall’Iraq, la maggioranza per insediarsi nel nascente Stato di Israele. 

Oltre 800.000 ebrei lasciarono o furono espulsi da vari Paesi del Medioriente e del Nord Africa fra il 1948 e gli inizi degli anni ‘80. 

Nel 2005, il 61% degli ebrei israeliani erano di completa o parziale discendenza mizrahi, il termine sociologico coniato per riferirsi agli ebrei dalla regione dopo la creazione di Israele. 

Gli attacchi contro ebrei iracheni iniziarono meno di due anni dopo la pulizia etnica che avvenne in quella che i palestinesi chiamano la Nakba (catastrofe) che portò alla fondazione dello Stato di Israele nel 1948. 

Durante la Nakba le forze sioniste uccisero 13.000 palestinesi, distrussero e spopolarono circa 530 villaggi e città, commisero almeno 30 massacri ed espulsero 750.000 persone. 

Furono uccisi oltre 6.000 ebrei israeliani, fra cui 4.000 soldati e 2.000 civili, insieme a circa 2.000 militari dai Paesi arabi. 

Nel libro Shlaim sostiene che gli ebrei iracheni non subirono l’antisemitismo fino agli anni ’40, quando furono sospettati di essere coinvolti nell’invasione britannica dell’Iraq nel 1941 e nella Nakba.

Aggiunge che il progetto sionista trasformò gli ebrei in tutti i Paesi arabi da cittadini rispettati a qualcosa di simile a una quinta colonna alleata del nuovo Stato ebraico.

(Traduzione dall’inglese di Mirella Alessio) 




Sono l’ex presidentessa dell’Associazione Americana di Antropologia e questo è il motivo per cui voto per il boicottaggio delle istituzioni accademiche israeliane

Alisse Waterston

14 giugno 2023 – Mondoweiss

A otto anni da quando l’Associazione Americana di Antropologia prese per la prima volta in considerazione il boicottaggio accademico di Israele, le condizioni dei palestinesi sono solo peggiorate e le istituzioni accademiche israeliane sono complici. Questo è il motivo per cui appoggio la nuova risoluzione per il boicottaggio.

In questo momento critico gli antropologi membri dell’Associazione Americana di Antropologia (AAA) affrontano una decisione epocale. La questione che devono affrontare è la risoluzione di boicottare le istituzioni accademiche israeliane, un atto nonviolento di resistenza, facendo causa comune con il popolo palestinese che soffre i crimini di apartheid e persecuzione. Il voto elettronico sulla risoluzione inizia il 15 giugno e si concluderà il 14 luglio.

Mi sono già trovata alle prese con questa decisione in precedenza. Il 20 novembre 2015, un numero record di 1400 membri presenziò all’annuale incontro dell’associazione. La lunga notte di discussione e dibattiti finì in modo chiaro: la mozione per sottoporre all’assemblea generale il voto sulla risoluzione per boicottare le istituzioni accademiche israeliane nella primavera successiva passò con un ampio margine. Con un risultato senza precedenti: la risoluzione non fu approvata con un margine ridotto. Votò un numero record del 51% dei membri: il boicottaggio fu respinto [dall’assemblea generale] con 2.423 voti contro e 2.384 a favore.

Lo so perché alla fine di quell’incontro mi venne dato il martelletto del presidente e diventai l’84esimo presidente dell’AAA. Dovendo affrontare la questione la mia sfida più difficile è stata separare me stessa come individuo (e come potessi agire e votare) dai miei doveri in quanto funzionaria dell’associazione, una sfida che ho risolto attenendomi ai processi democratici dell’organizzazione e facendo costantemente riferimento al suo statuto. Nel corso dei sei difficili mesi che hanno preceduto il voto io e altri dirigenti e dipendenti di AAA abbiamo ricevuto email e telefonate moleste e minacciose da persone estranee all’associazione che volevano che noi ritirassimo del tutto la risoluzione.

Durante quei sei mesi la mia missione fu di organizzare la votazione, incoraggiando i membri ad ascoltare e farsi guidare dalla propria coscienza e dando loro il necessario per prendere una decisione informata. Fra queste informazioni c’era la relazione della task force dell’AAA su Israele e Palestina e un’esauriente bibliografia sull’argomento. Nel frattempo ho riunito un gruppo di lavoro che ha prodotto otto misure concernenti Israele-Palestina approvate dalla commissione esecutiva a maggio del 2016. Tra queste c’era una dichiarazione di condanna di politiche e pratiche israeliane focalizzata principalmente sulla negazione della libertà accademica e di espressione nei confronti dei palestinesi che includeva l’appello ad abrogare leggi israeliane che criminalizzano il fatto di parlare pubblicamente a favore del boicottaggio.

Questa non è una questione di opinioni: le prove raccontano delle orrende condizioni che i palestinesi sopportano come diretto risultato di leggi, politiche e pratiche israeliane. Fra esse la legge fondamentale Israele, Stato Nazione del popolo ebraico, che stabilisce che lo Stato di Israele è “solo per il popolo ebraico.” Inoltre le istituzioni accademiche israeliane hanno una lunga e documentata storia di collaborazione alla promozione del programma militare e nazionalista del Paese, per espanderne l’avanzata nei territori occupati, trascurando la sorte dei palestinesi. Ecco un esempio: in una lettera che ho ricevuto nel dicembre 2015 dall’associazione di rettori di università di Israele, gli 8 firmatari, che rappresentavano sedici università israeliane, sottolineavano di percepire il BDS come “una campagna anti-israeliana aggressiva e globale [che] fa circolare malignamente vili calunnie e bugie … con il solo obiettivo di delegittimare lo Stato di Israele.” Non si citava il timore per le continue violazioni, la negazione di vita, sostentamento, libertà di parola e libertà accademica che danneggiavano i palestinesi.

La situazione, una volta descritta come un conflitto e l’azione dello Stato di Israele come “l’occupazione”, è ora definita apartheid da parecchie organizzazioni affidabili. Per esempio la ricerca e le analisi dei dati di Amnesty International l’hanno portata a concludere che l’apartheid di Israele, in violazione del diritto internazionale, è “un sistema crudele di dominio e un crimine contro l’umanità.” Queste sono parole astratte: la cruda realtà è che la morte e distruzione vissute dai palestinesi sono praticamente impossibili da cogliere. Io leggo i vari rapporti, il minimo che posso fare. Non si possono voltare le spalle davanti a fatti dolorosi.

Eppure gli Stati Uniti non guardano ai fatti. Dal 2014 vari Stati hanno cominciato ad approvare leggi e decreti esecutivi contro il boicottaggio di Israele: oggi ci sono 35 Stati con tali leggi in vigore. Invece di contestare la lunga pratica di confondere l’antisemitismo con le critiche contro Israele, un crescente numero di Stati e governi federali hanno preso in considerazione o lo stanno facendo di codificare questa fusione adottando la definizione dell’IHRA [International Holocaust Remembrance Alliance, Alleanza Internazionale per la Memoria dell’Olocausto, organizzazione intergovernativa cui aderiscono 34 Paesi, per lo più europei, ndt.]. Secondo un rapporto del Servizio di ricerca del Congresso, a marzo di quest’anno Israele è il maggiore destinatario cumulativo di assistenza all’estero degli USA dalla seconda guerra mondiale, avendo ricevuto 158 miliardi di dollari in assistenza bilaterale e fondi per la difesa missilistica; quasi tutto l’aiuto bilaterale degli USA a Israele è militare. Non è fare polemica sostenere che i dollari dei contribuenti supportano un sistema crudele di dominio e di crimini contro l’umanità.

Avendo occupato una posizione apicale nell’associazione, conosco direttamente la difficoltà di rispondere ai vari punti di vista dei suoi membri, adeguando le decisioni ai valori fondanti e alla missione dell’organizzazione, fra cui la protezione della libertà accademica, preoccupandosi della sostenibilità dell’associazione e mantenendo una bussola morale rispetto ai temi umani e politici in oggetto. Sono anche consapevole del danno potenziale che potrebbe causare all’associazione: alcuni potrebbero ritirare la propria adesione, alcuni donatori potrebbero smettere di finanziarla e alcuni incontri annuali non potrebbero svolgersi in centri congressi pubblici negli Stati in cui vigono leggi anti-boicottaggio.

Tenendo a mente tutto ciò, la proposta di boicottaggio merita un’attenta analisi. Richiede all’AAA di impegnarsi in un boicottaggio delle istituzioni accademiche israeliane fino a quando queste istituzioni porranno fine alla loro complicità nel violare i diritti palestinesi stabiliti dal diritto internazionale; implementare questo boicottaggio d’accordo con le procedure di governance, statuti e missione dell’associazione; riconoscere che questo boicottaggio riguarda solo le istituzioni accademiche israeliane e non gli studiosi a livello individuale e che gli antropologi che sono membri dell’AAA sono liberi di stabilire se e come applicare il boicottaggio nella propria pratica professionale; sostenere i diritti di tutti gli studenti e accademici ovunque di intraprendere ricerche e interventi pubblici su Palestina e Israele e a favore del movimento di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS).

Riconosco che talvolta certi principi possono entrare in contraddizione. Se il boicottaggio dell’AAA danneggia la libertà accademica, ciò deve essere valutato rispetto ai morti e alle case distrutte che sono la tragedia dei palestinesi. Se dei membri cancelleranno la propria sottoscrizione e alcuni donatori si ritireranno, coloro che sostengono il boicottaggio dovranno impegnarsi a portare ognuno 1-2 nuovi membri e a offrire all’associazione un sostegno finanziario oltre alla quota di iscrizione. Ogni altra minaccia o danno all’AAA possono essere affrontati con l’impegno di prenderne le difese. Se il boicottaggio si rivela inefficace, esso deve essere valutato considerando l’alternativa di complicità con il silenzio sulle condizioni dei palestinesi sotto l’apartheid che li lascia isolati, soli e invisibili.

Lottando con la necessità di prendere una decisione, sono consapevole del mio obbligo speciale da antropologa di considerare le sofferenze di altri. Comprendo anche che l’incolumità e la sicurezza possono solo giungere quando tutte le persone sono sicure e protette: militarismo, occupazione e apartheid sono controproducenti al raggiungimento di questo obiettivo. Sono consapevole delle strutture di potere che riproducono diseguaglianze e delle sofferenze sociali che ne risultano e portano a un senso di responsabilità e all’azione in nome di coloro che sono disumanizzati, spossessati e scacciati. Ho esaminato i dati e le posizioni e sono a conoscenza dei rischi che potrebbe correre l’associazione, considerando le minacce già ricevute e quelle che potrebbero continuare ad arrivare. Da ebrea ho cercato insegnamenti etici nel libro di preghiere di mia madre che mi aiutassero a guidarmi. Forse nessuno di essi è più importante o rilevante dell’imperativo di perseguire “giustizia, giustizia,” una parola scritta due volte per “insegnarci che dobbiamo praticare la giustizia sempre, sia per il nostro profitto che nel caso ci arrecasse una perdita e verso tutti gli uomini [sic], ebrei e non ebrei, allo stesso modo.”

In conclusione io voterò a favore della risoluzione per il boicottaggio delle istituzioni accademiche israeliane, l’unica decisione suggeritami dalla mia coscienza.

Le opinioni qui espresse sono dell’autrice e non rappresentano la posizione dell’American Anthropological Association o dei suoi dirigenti.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




L’utilizzo dell’antisemitismo come arma è dannoso per i palestinesi – e per gli ebrei

M Muhannad Ayyash

22 giugno 2023 – Aljazeera

Accuse infondate di antisemitismo rivolte a voci pro-palestinesi e antisioniste stanno ostacolando la lotta per sradicare l’odio antisemita

Il 12 maggio, nel suo discorso in occasione della consegna dei diplomi presso la Facoltà di Giurisprudenza della City University of New York (CUNY), la neolaureata yemenita-americana Fatima Mohammed ha osato parlare in modo onesto e veritiero della difficile situazione dei palestinesi.

La risposta era prevedibile. È stata organizzata e lanciata una campagna per intimidirla, attaccarla e metterla a tacere denunciando il suo acuto discorso come “antisemita”. Piattaforme di destra come il New York Post e Fox News hanno amplificato queste accuse infondate. I politici – sia repubblicani che democratici – si sono uniti all’insensato bullismo verso la giovane laureata e i parlamentari statali repubblicani hanno persino chiesto il ritiro dei fondi dalla CUNY per averle offerto una ribalta.

CUNY ha rapidamente ceduto alla pressione. Il 30 maggio il suo consiglio di amministrazione ha rilasciato una dichiarazione in cui ha condannato le parole di Mohammed come “incitamento all’odio”.

Ovviamente nulla di ciò che Fatima ha detto quel giorno era carico di odio o falso. Tutto ciò che ha detto era basato sui fatti e guidato da un desiderio di giustizia e decolonizzazione. Ogni affermazione fatta nel suo discorso di apertura può essere trovata in articoli di riviste scientifiche specializzate, in libri accademici di esperti di fama mondiale o nella realtà quotidiana di milioni di palestinesi.

Nell’ascoltare il suo discorso ci si accorge che in realtà non ha detto assolutamente nulla sull’identità o sul popolo ebraico. A tale proposito non ha fatto menzione della vita ebraica negli Stati Uniti, in Canada, nel Regno Unito, in Francia o persino in Israele. Il suo discorso ha riguardato lo Stato israeliano, i suoi fondamenti e pratiche coloniali e l’egemonia imperiale degli Stati Uniti di cui Israele è parte.

Anche se non si è d’accordo con le sue opinioni, ci si deve chiedere: cosa ha a che fare una tale critica con l’identità ebraica? Ci viene costantemente detto che non dovremmo mai confondere la vita ebraica, ad esempio, a New York, con lo Stato israeliano. E sono totalmente d’accordo con questo. Assumere che una persona ebrea a New York sia “fedele” ad Israele – o risponda delle sue azioni – è indubbiamente antisemita. Ma sfortunatamente quell’associazione è precisamente ciò che le campagne dei gruppi filo-israeliani e sionisti hanno reso aderente al senso comune all’interno del dibattito pubblico in Occidente. Ora, come risultato diretto di tali campagne, ogni volta che qualcuno osa criticare Israele in pubblico, e specialmente quando quella persona è associata a un’istituzione pubblica come un’università, viene accusato di aver lanciato un attacco antisemita contro la comunità ebraica locale.

La prima conseguenza di ciò è che le voci che parlano dei problemi del popolo palestinese e delle sue aspirazioni alla libertà e alla liberazione sono etichettate come “antisemite” e quindi condannate e censurate. Ciò può avere conseguenze disastrose per la vita e la sussistenza di questi individui e contribuisce notevolmente all’emarginazione delle comunità palestinesi e arabe in Occidente creando la percezione che queste comunità siano intrinsecamente cariche di odio.

Ma adesso, grazie al coraggio di persone come Fatima che continuano a parlare a favore della Palestina nonostante conoscano il pesante tributo che pagheranno, molti negli Stati Uniti e altrove percepiscono le vere intenzioni di queste campagne e riconoscono in tali casi l’infondatezza dell’accusa di antisemitismo. Nel caso del discorso di Fatima, ad esempio, l’enorme applauso che ha ricevuto al termine dimostra da solo che i suoi coetanei, che l’hanno scelta per tenere il discorso per prima, non percepiscono le sue opinioni come antisemite.

C’è però un’altra conseguenza altrettanto preoccupante e dannosa delle infondate accuse di antisemitismo rivolte alle voci filo-palestinesi: esse rendono meno convincenti tutte le accuse di antisemitismo, comprese quelle molto reali.

In effetti, accusare di antisemitismo tutti coloro che criticano gli interventi coloniali di Israele è estremamente pericoloso perché alla fine ciò indurrà, se non è già successo, ad iniziare a mettere in dubbio l’esistenza stessa del male sociale molto reale, dannoso e pervasivo che è l’antisemitismo.

In questo contesto, nonostante pochi difetti, la Strategia Nazionale Statunitense per Contrastare l’Antisemitismo recentemente pubblicata sembra essere un passo nella giusta direzione. La strategia si concentra giustamente su esempi di antisemitismo derivanti dalle teorie del complotto sul “potere e controllo ebraico” e separa persino quello che chiama “antisemitismo domestico” dall’antisemitismo globale. Elenca di sfuggita gli “sforzi per delegittimare lo Stato di Israele” come esempio di antisemitismo globale (un’affermazione con cui sono totalmente in disaccordo per le ragioni sopra esposte) ma a parte ciò menziona a malapena Israele poiché si concentra su veri e propri atti di antisemitismo piuttosto che su accuse politicamente motivate volte a proteggere Israele dalle critiche.

Per questo motivo credo che questa nuova strategia possa effettivamente aiutare a ridurre la nuova e reale ondata di antisemitismo in America.

Oggi, mentre i gruppi filo-israeliani si concentrano sul diffamare qualsiasi critica di sinistra del colonialismo di insediamento come “antisemita”, la destra sta rapidamente normalizzando le vecchie teorie del complotto antisemita sul “potere e controllo ebraico”.

In effetti negli Stati Uniti la politica di destra, sempre più estremista, è ora piena di cospirazioni da parte dei “globalisti” che starebbero conquistando il mondo, gestirebbero vaste cerchie di pedofili, priverebbero la gente comune delle loro libertà, commetterebbero omicidi di massa con vaccini e così via. Ovviamente globalista” per queste persone è solo una parola in codice per ebreo”.

È fondamentale che tali idee pericolose siano adeguatamente etichettate come antisemite e contrastate efficacemente, per la sicurezza e il benessere del popolo ebraico e della società in generale. Ma più la lobby israeliana e altri gruppi sionisti usano come arma l’antisemitismo per permettere allo Stato israeliano di consolidare ed espandere la sua colonizzazione della Palestina, meno efficace diventa la lotta contro il vero antisemitismo.

Oltre a diluire l’accusa di antisemitismo, l’uso dell’antisemitismo come arma ha una terza conseguenza: impedisce un’autentica discussione sull’intersezionalità tra la lotta contro l’antisemitismo e altre lotte antirazziste, comprese quelle contro il razzismo anti-palestinese e l’islamofobia.

In effetti, il discorso di Fatima avrebbe dovuto essere l’occasione per iniziare una discussione in proposito. Dopotutto, il percorso da lei suggerito verso la liberazione palestinese – la caduta dell’impero – è anche l’unico percorso per liberare il nostro mondo dall’odio vile che è l’antisemitismo, che è stato essenziale per la formazione dello stesso impero. In questo contesto, censurare e marchiare come antisemita il discorso di Fatima e di altre voci palestinesi e antisioniste serve a ostacolare non solo la liberazione palestinese, ma anche gli sforzi per contrastare tutte le altre conseguenze interconnesse della modernità coloniale, compreso l’antisemitismo.

Pertanto, tutti gli studiosi, gli attivisti e chiunque altro sia interessato a porre fine a tutte le diverse forme di razzismo e odio che stanno paralizzando vite e mezzi di sussistenza in tutto il mondo dovrebbero vedere l’accusa di antisemitismo rivolta a Fatima per quello che realmente è: un pericoloso attacco alla verità, alla giustizia, all’antirazzismo e alla decolonizzazione.

Le opinioni espresse in questo articolo sono proprie dell’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Al Jazeera.

M Muhannad Ayyash

Professore di Sociologia alla Mount Royal University di Calgary, Canada.

Ayyash è l’autore di A Hermeneutics of Violence (UTP, 2019) e analista politico presso Al-Shabaka, il Policy Network Palestinese. È nato e cresciuto a Silwan, Al-Quds (Gerusalemme), prima di immigrare in Canada, dove ora è professore di sociologia alla Mount Royal University. Attualmente sta scrivendo un libro sulla supremazia del colonialismo di insediamento.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Per la prima volta dal 2006 Israele uccide tre attivisti palestinesi in Cisgiordania con bombardamenti aerei

Redazione di Al Jazeera, Palestine Chronicle

21 giugno 2023 – Palestine Chronicle

Per la prima volta dalla Seconda Intifada (sollevazione) palestinese [rivolta avvenuta in Cisgiordania e a Gaza dal 2000 al 2005, ndt.], l’esercito di occupazione israeliano ha effettuato nei pressi di Jenin un assassinio dall’aria di palestinesi.

Mercoledì sera i media palestinesi hanno riferito che un aereo israeliano ha effettuato l’omicidio di un gruppo di palestinesi nella regione di Jalameh vicino alla città di Jenin, nel nord della Cisgiordania.

In un comunicato l’esercito israeliano ha affermato di aver colpito i palestinesi con un “drone dopo che i suoi membri (presuntamente) hanno aperto il fuoco nell’area di Jalameh.”

L’esercito di occupazione israeliano ha anche dichiarato che “la cellula colpita ha effettuato attacchi con armi da fuoco in città israeliane”.

Secondo il comunicato di fonte militare l’ultima volta che l’esercito di occupazione israeliano ha colpito attivisti palestinesi con uccisioni dall’alto è stato nel 2006.

Nel frattempo il Palestinian Civil Defence ha affermato che dentro un veicolo sono stati trovati tre corpi e che “le forze di occupazione si stanno coordinando con le ambulanze israeliane per sequestrare i corpi dei martiri (palestinesi)”.

Al Jazeera ha riferito che le forze di occupazione hanno sparato ai palestinesi che stavano cercando di andare verso il luogo in cui si trovava l’auto colpita per recuperare i corpi.

Cambiamento di politica

Il Canale 14 israeliano ha riferito che il cambiamento della politica di uccisione usando bombardamenti aerei è supportato dal ministro israeliano della difesa Yoav Galant e approvato dal primo ministro Benjamin Netanyahu.

In risposta le Brigate di Jenin, un ramo del braccio armato della Jihad Islamica, le Brigate Al-Quds hanno emesso una dichiarazione:

Un gruppo di nostri eroi ha versato il proprio sangue in un vile assassinio effettuato da un drone dell’esercito di occupazione. (Gli assassinii) non indeboliranno la nostra volontà e i dirigenti del nemico dovranno subire la punizione”.

Le Brigate di Jenin hanno rivelato i nomi dei tre palestinesi: Suhaib al-Ghoul e Muhammad Owais delle Brigate Al-Quds e Ashraf al-Saadi dell’ala militare di Fatah, le Brigate dei Martiri di Al-Aqsa.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Palestinese ucciso in un attacco di coloni in un villaggio della Cisgiordania

Redazione Al Jazeera

21 giugno 2023 – Al Jazeera

Gli abitanti di Turmus Ayya dicono che 400 coloni hanno marciato lungo la strada principale del villaggio dando fuoco a automobili, case e alberi.

Mentre si intensifica la violenza nei territori occupati, il giorno dopo che un miliziano di Hamas ha ucciso quattro israeliani, un palestinese è stato colpito a morte in un villaggio della Cisgiordania attaccato dai coloni.

Omar Qattin, di 27 anni, è stato ucciso quando centinaia di coloni israeliani mercoledì hanno assalito il villaggio di Turmus Ayya ed hanno incendiato decine di auto e case.

Qattin aveva due figli e lavorava come elettricista per il comune.

Stava semplicemente là, inoffensivo. Era un bravo ragazzo. Non aveva pietre. Era del tutto disarmato. Si trovava almeno a un chilometro di distanza dai soldati”, dice Khamis Jbara, un suo vicino. “Lavorava dalle 6 del mattino alle 6 del pomeriggio. Era un uomo pacifico.”

Non è chiaro se Qattin sia stato ucciso da un colono o da un soldato. I testimoni hanno detto ai media locali che parecchi coloni hanno sparato contro gli abitanti del villaggio mentre un forte contingente di truppe israeliane vi faceva irruzione.

La Mezzaluna Rossa ha detto all’agenzia di notizie palestinese Wafa che molti coloni hanno impedito alle ambulanze di raggiungere la cittadina per curare i feriti.

Terrorismo appoggiato dal governo’

Abitanti palestinesi e associazioni per i diritti umani denunciano da tempo l’incapacità o la non volontà di Israele di fermare gli attacchi dei coloni. Quanto all’assalto di mercoledì, gli abitanti di Turmus Ayya hanno detto che circa 400 coloni hanno marciato lungo la via principale, incendiando auto, case e alberi.

Il sindaco Lafi Adeeb ha detto alla Wafa che 12 abitanti sono stati feriti da proiettili veri e più di 60 veicoli e 30 case sono stati dati alle fiamme.

Un’ora fa gli attacchi sono aumentati anche dopo che è arrivato l’esercito”, ha detto.

I coloni hanno incendiato anche vaste aree di terreni agricoli, ha aggiunto Adeeb.

Ha chiesto alla comunità internazionale di dare protezione ai palestinesi, sottolineando che Turmus Ayya è circondato da parecchi insediamenti illegali ed è quotidianamente esposto agli attacchi dei coloni.

Per il diritto internazionale le colonie israeliane sono illegali. Tuttavia il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha annunciato piani per la costruzione di 1.000 nuove unità abitative nella colonia di Eli in risposta all’uccisione nelle sue vicinanze di quattro israeliani da parte di due palestinesi armati nella giornata di martedì. I sospetti aggressori sono stati in seguito uccisi.

La nostra risposta al terrorismo è colpirlo duramente e costruire il nostro Paese”, ha detto Netanyahu, il cui governo di estrema destra è dominato da leader e sostenitori dei coloni.

La sua affermazione è giunta giorni dopo che il governo ha dato al Ministro delle Finanze di estrema destra Bezalel Smotrich pieni poteri per accelerare la costruzione di insediamenti illegali, eludendo le misure in vigore da 27 anni.

Spianare la strada’

Le violenze di martedì hanno fatto seguito ad una sanguinosa incursione il giorno prima da parte delle forze israeliane nel campo profughi di Jenin, in cui sono stati uccisi sette palestinesi e almeno 90 sono stati feriti in scene mai viste dallo scoppio della seconda Intifada, più di 20 anni fa.

Mercoledì a Jenin ragazze in uniforme scolastica hanno trasportato il corpo del loro compagno ucciso nel raid israeliano. Sadil Naghnaghiya, di 15 anni, è morto per le ferite da colpi di fucile subite durante l’attacco durato ore, ha affermato il Ministero della Sanità palestinese.

Gli abitanti palestinesi di Turmus Ayya, noto per l’alto numero di cittadini statunitensi, erano adirati e scioccati dopo la violenza dei coloni.

Le strade erano ingombre di alberi sradicati, mobili da giardino bruciati e scheletri di veicoli incendiati. Almeno una casa è stata completamente divorata dalle fiamme, il soggiorno annerito e i mobili ridotti in cenere.

È stato terrificante. Abbiamo visto per strada gruppi di persone mascherate e armate”, afferma Mohammed Suleiman, un palestinese americano di 56 anni che vive a Chicago ed era in visita nel suo paese natale.

Dice che suo fratello, che si trova attualmente a Chicago, è il proprietario di una delle case bruciate.

Suleiman accusa l’esercito israeliano di non aver disinnescato la situazione, sostenendo che i soldati hanno puntato le armi contro gli abitanti palestinesi invece che contro i facinorosi che marciavano nella città con fucili e bombe molotov, gettando benzina e dando fuoco ad ogni cosa sul loro cammino.

L’esercito ha letteralmente spianato loro la strada”, dice Suleiman.

Abdulkarim Abdulkarim, un residente dell’Ohio di 44 anni, afferma che le quattro auto della sua famiglia sono state distrutte e la loro casa danneggiata. “Ci sentiamo completamente in pericolo”, dice, visibilmente scosso. “Ci chiamano terroristi, ma qui c’è il terrorismo sostenuto dal governo.”

Crimine odioso’

Gli attacchi dei coloni hanno riportato alla memoria l’assalto di febbraio, in cui decine di auto e case sono state incendiate nella cittadina di Huwara dopo l’uccisione di due fratelli israeliani da parte di un uomo armato palestinese.

Le organizzazioni palestinesi hanno condannato la violenza a Turmus Ayya.

L’aggressione da parte di bande di coloni terroristi pesantemente armati contro i nostri villaggi e città palestinesi che terrorizzano i cittadini inermi costituisce una pericolosa escalation e un crimine odioso che viene perpetrato con l’incitamento e il sostegno del governo fascista di occupazione, che ha la piena responsabilità per le sue conseguenze”, ha affermato in una dichiarazione Hamas, che governa la Striscia di Gaza.

Da parte sua il partito Fatah, che guida l’Autorità Nazionale Palestinese, ha chiesto ai palestinesi di “affrontare i sistematici attacchi dei coloni che sono condotti con la complicità dell’esercito di occupazione”, sottolineando che la violenza dimostra che il governo israeliano, che è composto da “accaniti coloni ed estremisti”, intende provocare un’escalation.

Il portavoce della Jihad Islamica palestinese Jihad Selmi ha affermato che le colonie illegali sono “un legittimo obbiettivo della resistenza” ed ha definito gli attacchi israeliani “terrorismo crescente”.

L’esercito israeliano non ha rilasciato dichiarazioni.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)