L’industria dell’hasbara: decostruire la macchina propagandistica israeliana

M. Reza Behnam

8 giugno 2023 – Palestine Chronicle

Tuttavia Tel Aviv sta incontrando difficoltà sempre maggiori a nascondere il suo consolidato sistema di apartheid e il continuo genocidio, soprattutto alla luce delle politiche e prassi apertamente razziste dell’attuale regime di destra messo insieme dal suo primo ministro perseguito dalla giustizia, Benjamin Netanyahu.

Quasi sempre la mattina, mentre mi preparo per fare footing, mi sintonizzo su BBC News. Ultimamente il notiziario presenta, in sobrio stile britannico, il numero dei palestinesi uccisi la notte precedente dall’esercito israeliano durante le sue incursioni quasi quotidiane in case e campi di rifugiati nei territori palestinesi occupati. Quando cerco sui siti di notizie americani per saperne di più, essi non fanno menzione di queste atrocità. Invece le onde radio sono piene di notizie sulla guerra tra Russia e Ucraina e sulla morte di civili.

Quello che molti americani non sapranno da queste fonti di “notizie” è che nel 2022 l’esercito israeliano ha ucciso in Cisgiordania e a Gerusalemme est più di 170 civili palestinesi, tra cui 30 minorenni, e che dall’inizio del 2023 l’esercito di occupazione israeliano ha già ammazzato 158 palestinesi, tra cui 26 minori.

Quello che non sapranno è che Israele controlla le vite e le risorse (l’accesso all’acqua potabile) di circa 7 milioni di palestinesi, e che le città, villaggi, case, coltivazioni e attività economiche palestinesi sono state sistematicamente distrutte e ripopolate con oltre 750.000 occupanti illegali ebrei (“abitanti”).

Non sapranno dei 56 anni di occupazione, spoliazione, demolizioni di case, coprifuoco, posti di controllo, muri, blocchi, permessi, raid notturni, uccisioni mirate, tribunali militari, detenzioni amministrative, migliaia di prigionieri politici, minori palestinesi torturati e di 56 anni di oppressione e umiliazione da parte di Israele.

Cosa spiega l’“eccezionale” trattamento deferente che Israele riceve mentre altri che violano i diritti umani sono condannati o sanzionati dagli Stati Uniti e dai loro alleati?

Buona parte della spiegazione ha a che fare con la poderosa ed efficace industria delle pubbliche relazioni di Israele gestita dallo Stato, che si basa su miti e falsità. Dalla sua fondazione nel 1948 Israele ha creato con successo una nuova assurdità a se stante che ha fatto sembrare l’illegalità come legale, apparire morale l’immoralità e democratico ciò che è antidemocratico. Ha magistralmente spacciato una serie di miti che sono diventati parte della narrazione politica e dei principali media.

Fin dall’inizio i fondatori sionisti di Israele ammantarono di termini eroici il loro vero obiettivo di creare un “Grande Israele”, uno Stato ebraico non solo in Palestina, ma in Giordania, nel sud del Libano e sulle Alture del Golan siriane.

Una storia e figure retoriche inventate sui “buoni” israeliani, che portavano sviluppo a una terra spopolata, creando miracoli agricoli nel deserto e reclamando una storica terra promessa, si sono profondamente radicate.

In realtà i sionisti, come il primo capo del governo di Israele nato in Polonia David Ben-Gurion, videro il piano di partizione della Palestina dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1948 come il primo passo verso una futura espansione.

I piani di colonizzazione di Israele

Nel suo libro Vittime [Rizzoli, Milano, 2002] Benny Morris scrive che in una lettera al figlio del 1937 Ben-Gurion architettò il progetto sionista per colonizzare la Palestina: “Nessun sionista può rinunciare a una minima parte della Terra di Israele. (Uno) Stato ebraico su una parte (della Palestina) non è la fine, ma un inizio…attraverso di esso incrementiamo la nostra potenza, e ogni incremento di potenza agevola l’appropriazione del Paese nella sua totalità. Fondare un (piccolo) Stato…servirà come leva molto potente nel nostro storico tentativo di redimere tutto il Paese.”

Che per realizzare i suoi progetti colonialisti Israele avrebbe dovuto trasferire e togliere di mezzo con la forza la popolazione autoctona palestinese venne cancellato dalla narrazione israeliana.

In conseguenza di questa efficace campagna di disinformazione molti americani sono arrivati a credere che Israele sia uno Stato democratico, progressista e umano, una piccola ma coraggiosa Nazione che si difende contro violenza e terrorismo “stranieri”.

Nel realizzare la sua missione annessionista del “Grande Israele”, Israele ha creato un’altra finzione per legittimare la sua scelta di fare la guerra nel 1967. Benché la guerra dei Sei Giorni, iniziata nel giugno 1967, si sia dimostrata un cruciale punto di svolta nella storia contemporanea del Medio Oriente, il mito israeliano della vulnerabilità e le invenzioni sulla “Nazione sotto assedio” rimangono ampiamente indiscussi.

I produttori di miti sionisti

Cinquantasei anni fa l’aviazione militare israeliana attaccò le basi aeree di Egitto, Siria e Giordania, distruggendo a terra oltre l’80% degli aerei da guerra. Le truppe israeliane occuparono rapidamente la penisola del Sinai e la Striscia di Gaza egiziane, la West Bank giordana e le Alture del Golan siriane. Secondo i verbali del governo israeliano questo attacco non fu difensivo, ma preventivo e pianificato.

Gli israeliani erano pienamente consapevoli della necessità di avviare una campagna di disinformazione insieme alle loro operazioni militari preventive per placare le reazioni avverse da parte di Washington e di altre potenze occidentali.

Il mito israeliano secondo cui lo Stato ebraico stava lottando per la sua sopravvivenza fisica contro un nemico arabo più potente ebbe una forte presa sui dirigenti politici e sull’opinione pubblica statunitensi. Di fatto i leader arabi non avevano nessun piano di invasione e i dirigenti israeliani sapevano che era facile vincere la guerra. La menzogna sulla distruzione totale era diventata un dogma irrefutabile a Washington, il mantra del “diritto all’autodifesa” consentì a Tel Aviv di continuare la sua annessione illegale della terra palestinese conquistata.

I costruttori di miti sionisti si diedero di nuovo da fare negli anni ’80. Per controbattere alle critiche ricevute in seguito ai bombardamenti indiscriminati sul Libano e al massacro di palestinesi nei campi profughi di Sabra e Shatila a Beirut nel 1982, Israele nel 1983 partorì il Progetto Hasbara (“spiegazione” in ebraico).

Quell’anno l’American Jewish Congress [organizzazione creata per difendere gli interessi ebraici negli USA e all’estero, ndt.] sponsorizzò una conferenza di alti dirigenti, giornalisti e accademici di Israele e degli USA a Gerusalemme per elaborare una strategia volta a riabilitare Israele, cementare l’appoggio economico e militare statunitense e rendere estremamente difficile criticare le azioni di Israele.

[Il progetto] Hasbara creò strutture permanenti negli Stati Uniti e in Israele per influenzare il modo in cui in futuro il mondo, soprattutto gli americani, avrebbe pensato a Israele e al Medio Oriente. Gli argomenti che svilupparono sono riconoscibili nel discorso attuale, tra cui: l’importanza strategica di Israele per gli Stati Uniti; la sua vulnerabilità; i suoi valori condivisi con l’Occidente; il suo desiderio di pace. Israele definisce ora “diplomazia pubblica” la sua continua propaganda hasbara.

Mezzi di informazione, giornalisti, accademici, politici e personaggi dello spettacolo sono arrivati al punto di aspettarsi pressioni se superano il livello di accettabilità del discorso stabilito da Israele e dai suoi sostenitori. Narrazioni alternative che evidenziano gli abusi israeliani sono liquidate come anti-israeliani o ricevono la temuta etichetta di antisemite. I propagandisti israeliani hanno fatto in modo di confondere le critiche al regime – anti-sionismo – con l’antisemitismo. L’accusa di antisemitismo si è dimostrata un potente strumento retorico per difendere Israele da ogni colpa. Ha distrutto carriere e reputazioni.

Sfidare i miti israeliani

La defunta Helen Thomas, famosa giornalista, Norman Finkelstein, importante intellettuale ebreo, scienziato politico e scrittore, e Fatima Mohammed, laureata nel 2023 alla scuola di diritto della CUNY [università della città di New York, ndt.] sono tra quanti hanno voluto sfidare la violenta ondata di critiche che avrebbero dovuto inevitabilmente affrontare per “aver osato” mettere in discussione i miti israeliani.

Helen Thomas, icona nazionale e importante corrispondente dalla Casa Bianca di UPI [agenzia di notizie USA, ndt.] nel 2010 è stata obbligata a porre fine alla sua carriera durata 57 anni per aver insistentemente messo in discussione pubblicamente il sostegno statunitense a Israele. In seguito Thomas ha osservato: “In questo Paese non puoi criticare Israele e sopravvivere.”

Nel 2007 la De Paul University [università cattolica con sede a Chicago, ndt.] rifiutò una cattedra a Norman Finkelstein a causa delle sue critiche a Israele. Nei suoi libri Finkelstein ha sostenuto che l’antisemitismo è stato usato per reprimere le critiche alle politiche israeliane verso i palestinesi, e che l’Olocausto è sfruttato da alcune istituzioni ebraiche per i propri interessi e per nascondere l’illegale occupazione israeliana della Cisgiordania e di Gaza. Dato che il suo nome è stato calunniato, Finkelstein non ha più potuto insegnare.

Nel suo recente discorso di commiato dai suoi colleghi laureati, Fatima Mohammed ha condannato Israele per aver perpetuato la Nakba (la Catastrofe), affermando che “il nostro silenzio non è più accettabile…La Palestina non può continuare ad essere l’eccezione nella nostra ricerca di giustizia.” Come prevedibile, Mohammed ha dovuto affrontare un’immediata condanna pubblica da parte di politici statunitensi e organizzazioni filo-israeliane, che l’hanno accusata di antisemitismo e hanno chiesto che l’università non riceva più finanziamenti a causa del suo discorso.

Nel dicembre 2008 e gennaio 2009 Israele, come in precedenza, schierò la sua macchina di pubbliche relazioni. Questa volta fu per contrastare le critiche ricevute per i massicci bombardamenti della Striscia di Gaza durati 22 giorni, in cui vennero uccisi 1.398 palestinesi.

L’Israel Project

The Israel Project [Il progetto Israele] (TIP), organizzazione filo-israeliana con sede a Washington, assoldò Frank Luntz, militante e stratega politico del partito Repubblicano, per sostenere la sua immagine. Luntz intraprese un ampio studio per scoprire come inserire la narrazione israeliana nei principali mezzi di comunicazione. I risultati vennero riportati in un documento intitolato The Israel Project’s 2009 Global Language Dictionary [Il dizionario del linguaggio globale 2009 di The Israel Project].

Il linguaggio del manuale di Luntz, con i suoi discorsi scritti per i sostenitori di Israele, è penetrato nel pensiero, nel vocabolario e nei commenti di politici, accademici e dei principali mezzi di comunicazione americani, israeliani ed europei.

Nel suo libretto di 18 capitoli Luntz insegna ai sostenitori di Israele come adattare le risposte a differenti uditori, descrive quello che gli americani vogliono sentire e quali parole e frasi utilizzare e quali evitare. Fornisce una guida su come affrontare affermazioni da parte di palestinesi e ostentare compassione nei loro confronti. Luntz avverte di sottolineare sempre il desiderio di pace da parte di Israele, benché inizialmente affermi come non voglia realmente una soluzione pacifica.

Ai sostenitori viene raccomandato di dare la falsa impressione che il cosiddetto “ciclo di violenza” stia andando avanti da migliaia di anni, che le due parti sono ugualmente in errore e che la catastrofe Palestina-Israele sia incomprensibile. Sollecita i sostenitori a sottolineare la necessità israeliana di sicurezza, evidenziando che gli americani risponderanno favorevolmente se i civili israeliani vengono dipinti come vittime innocenti del “terrorismo” palestinese.

Luntz afferma che, quando viene detto agli americani che l’Iran sostiene Hezbollah e Hamas, essi tendono ad essere più favorevoli a Israele. Quindi, quando si parla di loro, bisogna ripetere continuamente Hamas ed Hezbollah “sostenuti dall’Iran”.

Nelle rare occasioni in cui i principali mezzi di comunicazione riportano le violenze di Israele, si adeguano al lessico ufficiale del dizionario di Luntz. L’esercito di occupazione israeliano, per esempio, viene definito forze “di difesa” o “di sicurezza”, i coloni sionisti (occupanti abusivi) vengono definiti “abitanti”, le colonie sioniste sono definite “insediamenti” o “quartieri”, i palestinesi “aggrediscono”, mentre gli israeliani semplicemente “reagiscono”.

Normalizzare l’anomalo

Tra le falsificazioni più evidenti c’è la descrizione del ginepraio israelo-palestinese come un “conflitto” tra due popoli con le stesse risorse politiche e militari e le stesse rivendicazioni, quando in realtà si tratta di un conflitto tra il colonizzatore, Israele, e il colonizzato, i palestinesi.

Per 75 anni la propaganda israeliana gli ha consentito di essere un’eccezione, di farsi beffe impunemente delle norme e delle leggi internazionali. Grazie ai suoi miti Israele ha avuto una notevole influenza nel definire la politica USA in Medio Oriente. Le campagne di incessante e metodica disinformazione del Paese dal 1948 fino ad ora hanno consentito a Israele di piantare la bandiera sionista su terra palestinese e nei cuori e nelle menti degli americani.

Tuttavia Tel Aviv sta incontrando difficoltà sempre maggiori a nascondere il suo consolidato sistema di apartheid e il continuo genocidio, soprattutto alla luce delle politiche e prassi apertamente razziste dell’attuale regime di destra messo insieme dal suo primo ministro perseguito dalla giustizia, Benjamin Netanyahu. Ma l’industria israeliana dell’hasbara rimane impavida. Il TIP ha chiuso nel 2019 dopo che i suoi finanziamenti si sono prosciugati, ma la Democratic Majority for Israel [Maggioranza Democratica per Israele] (DMFI) continua a portare avanti la missione dell’hasbara israeliana.

Israele sa che la narrazione che racconta a se stesso e al mondo è apocrifa e che lo Stato ebraico, nella sua attuale forma, è illegale e ingiusto. Di conseguenza, nel tentativo di rendere l’apocrifo reale e legale l’illegittimo, Israele continua la sua costante guerra ideologica per normalizzare l’anomalo in Palestina.

Reza Behnam è un politologo specializzato nella storia, la politica e i governi in Medio Oriente. Ha concesso questo articolo a The Palestine Chronicle.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Come l’Intelligenza Artificiale sta intensificando i bombardamenti israeliani su Gaza

Sophia Goodfriend

6 giugno 2023 – +972 Magazine

Con gli algoritmi che rendono più facile sostenere una guerra, le armi automatizzate hanno trasformato gli assalti israeliani contro i palestinesi assediati in un evento annuale.

“I cieli sopra Gaza sono pieni di bombe israeliane”, mi ha detto Anas Baba quando abbiamo discusso su WhatsApp qualche settimana fa, subito dopo che l’esercito israeliano e la Jihad islamica avevano raggiunto un labile cessate il fuoco successivamente all’ultima offensiva israeliana sulla Striscia bloccata, che ha ucciso 33 persone e ne ha ferite altre decine. Nonostante gli attacchi dei droni fossero cessati, persisteva il ronzio incessante degli UAV [droni, ndt.]. Il loro suono ricordava come ha detto Baba, un giornalista di Gaza che la guerra costituisce ormai un evento con cadenza annuale.

Nel corso dei 16 anni dall’inizio dell’assedio così tante famiglie palestinesi hanno perso la casa nei ripetuti bombardamenti della Striscia che la ricostruzione non ha mai fine ed è resa ancora più difficile dal coinvolgimento di numerose organizzazioni e governi che offrono una assistenza umanitaria limitata. E a causa dell’alto numero di persone interessate e della ingente quantità di fondi necessari per ricostruire, spiega Baba, le famiglie potrebbero trovarsi in lista d’attesa per anni.

I bombardamenti israeliani su Gaza stanno diventando più frequenti grazie alle innovazioni nell’intelligenza artificiale (AI) e a un esercito che si piega ai dettami di governi sempre più di destra. L’esercito si vanta che le unità di intelligence ora possono individuare obiettivi – un processo che richiedeva anni – in appena un mese. Anche se cresce il bilancio delle vittime nei territori occupati le evidenze di questa crisi umanitaria raramente fanno breccia nell’opinione pubblica ebraico-israeliana, barricata dietro censori militari, sistemi di difesa missilistica e semplice indifferenza. Invece, la violenza nella regione viene analizzata attraverso il linguaggio salvifico dell’innovazione tecnologica.

Sulla stampa israeliana queste guerre si svolgono secondo uno schema familiare. Nuove offensive militari su Gaza vengono annunciate come l’uscita di un tanto atteso videogioco della serie Call of Duty. L’esercito satura le pagine dei social media con immagini epiche di soldati armati, mentre nomi biblici evocano una potenza militare di proporzioni mitologiche. Poi i missili piovono su Gaza, spazzando via le infrastrutture, le case e le vite dei palestinesi, mentre le sirene d’allarme per i razzi invitano gli abitanti del sud di Israele a correre nei rifugi fortificati.

Nei giorni successivi all’accordo sul cessate il fuoco i generali fanno il loro giro dei media per parlare delle innovazioni nell’automazione, rivelate nel corso dell’ultimo assalto. Sciami di droni assassini diretti da algoritmi di supercalcolo, che possono sparare e uccidere con un minimo intervento umano, sono celebrati allo stesso modo in cui i CEO della Silicon Valley elogiano i chatbot [gli algoritmi alla base del funzionamento delle chat, ndt.]. Mentre il mondo fa i conti con gli sviluppi fuori controllo dell’AI, ogni guerra intrapresa contro Gaza dall’arsenale militare automatizzato di Israele illustra il costo umano di questi sistemi.

“Un moltiplicatore di forza”

La guerra è sempre stata un’occasione per i militari per il commercio di armi. Ma poiché i bombardamenti asimmetrici di Israele su Gaza sono diventati eventi con cadenza annuale l’esercito ha iniziato a definirsi una sorta di pioniere che esplora il territorio sconosciuto della guerra automatizzata. Le IDF [esercito israeliano,ndt.] hanno proclamato di aver condotto la “prima guerra AI al mondo” nel 2021 – l’offensiva di 11 giorni su Gaza denominata in codice Operation Guardian of the Walls” [Operazione Guardiano delle Mura, ndr.] che, secondo B’tselem, ha ucciso 261 palestinesi ferendone 2.200. I droni hanno spazzato via intere famiglie, danneggiato scuole e cliniche mediche e fatto esplodere grattacieli che ospitavano famiglie, aziende e uffici dei media lontani da qualsiasi obiettivo militare.

Mentre 72.000 palestinesi erano sfollati e altre migliaia piangevano i morti, i generali israeliani si vantavano di aver rivoluzionato la guerra. “L’intelligenza artificiale è stata un moltiplicatore di forza per le IDF”, si sono vantati gli ufficiali, descrivendo in dettaglio come sciami di droni robotici avessero accumulato dati di sorveglianza, individuato obiettivi e sganciato bombe con un intervento umano minimo.

Lo schema si è ripetuto poco più di un anno dopo. Nell’agosto 2022 le IDF hanno lanciato un’offensiva di cinque giorni contro Gaza, denominata “Operazione Breaking Dawn” [sorgere dell’alba, ndt.], che ha causato la morte di 49 palestinesi, inclusi 17 civili. Missili sono esplosi per le strade del campo profughi di Jabalia, uccidendo sette civili, fuori dalle loro case a causa delle interruzioni di corrente. I droni hanno colpito anche un vicino cimitero uccidendo dei bambini che giocavano in un raro lembo di spazio aperto.

Sulla scia della distruzione l’esercito ha lanciato un’altra curatissima campagna di pubbliche relazioni, infrangendo un divieto pluridecennale di discutere apertamente dell’uso nelle operazioni militari di droni basati sull’intelligenza artificiale. Il Brigadier Generale Omri Dor, comandante della base aerea di Palmachim, ha dichiarato al Times of Israel [quotidiano online israeliano, ndt.] che i droni dotati di intelligenza artificiale hanno conferito all’esercito una “precisione chirurgica” nell’assalto, consentendo alle truppe di ridurre al minimo “danni collaterali o danni a altre persone”.

Tuttavia, come tutte le autopromozioni, tali annunci sono un esercizio di autoesaltazione. Per cominciare, nel 2021 Israele non ha condotto la “prima guerra AI” al mondo. Droni, sistemi di difesa missilistica e guerra informatica sono stati usati per decenni in tutto il mondo e piuttosto che l’esercito israeliano sono gli Stati Uniti ad essere spesso considerati il vero pioniere.

Ad esempio in Vietnam sensori e centinaia di computer IBM hanno aiutato le truppe statunitensi a rintracciare, localizzare e uccidere i combattenti vietcong – e molti civili – in attacchi aerei letali. Quando i soldati statunitensi sono entrati in Iraq, lo stesso hanno fatto i robot armati di fucili e in grado di far saltare in aria esplosivi. Dalla fine degli anni 2000 la maggior parte dei governi ha incorporato nei propri arsenali militari e di sorveglianza sistemi di apprendimento automatico. Oggi sciami di droni automatizzati hanno ucciso militanti e civili nelle guerre in Libia e Ucraina.

È stato quindi un problema di saturazione del mercato a motivare l’esercito israeliano a trasformare gli attacchi contro Gaza in campagne pubblicitarie coordinate. Nel 2021 gli esperti di intelligenza artificiale hanno lanciato l’allarme sui droni assassini di fabbricazione turca che potrebbero sciamare e uccidere obiettivi senza intervento umano. La Cina è stata presa di mira per aver esportato sistemi d’arma automatizzati – da sottomarini robotici a droni invisibili – in Pakistan e Arabia Saudita.

Vedendo questo i trafficanti israeliani di armi hanno temuto che altri Paesi potessero eclissare il vantaggio competitivo della “nazione start-up” sulle esportazioni di armi a favore di regimi con sordidi primati a proposito di diritti umani. “E’ovvio che le cose sono cambiate e che Israele deve cambiare atteggiamento se non vuole perdere altri potenziali mercati”, ha detto un alto funzionario militare israeliano in una newsletter dell’industria della difesa dopo l’operazione dell’agosto 2022.

I loro sforzi sono stati ripagati: dopo Guardian of the Walls le esportazioni di armi di Israele hanno raggiunto nel 2021 il massimo storico. Tra i ripetuti bombardamenti su Gaza e con la guerra che infuria in Ucraina, quel numero probabilmente aumenterà.

Nuovi pericoli

L’ubiquità della guerra dell’IA non significa che questa tecnologia debba essere implementata senza salvaguardie e limitazioni. Gli algoritmi possono davvero rendere più efficienti molti aspetti della guerra, dalla guida dei missili all’esame delle informazioni al monitoraggio dei valichi di frontiera. Eppure gli esperti elencano una litania di pericoli posti da questi sistemi: dalla disumanizzazione digitale che riduce gli esseri umani a codici a barre per una macchina in grado di determinare chi dovrebbe vivere o morire, a un costo e una soglia ridotti per un sistema bellico che sostituisce le truppe di terra con algoritmi. Gran parte delle armi sul mercato sono piene di problemi tecnici, per cui si dice identifichino erroneamente gli obiettivi o siano pre-programmate per uccidere determinati gruppi demografici con maggiore frequenza. Anche se riducono il numero di civili uccisi in un singolo bombardamento, come affermano i loro sostenitori, i sistemi d’arma automatizzati rischiano di rendere le battaglie più frequenti e più facili da sostenere facendo sì che la guerra si trascini senza che se ne veda la fine.

Questo è il caso di Gaza. Come afferma Baba, il giornalista: Con una popolazione di 2,3 milioni di persone in un’area di meno di 45 chilometri, Gaza è uno dei luoghi più densamente popolati del mondo. Non importa quanto siano avanzate le tecnologie utilizzate, ogni bombardamento israeliano sulla Striscia uccide innumerevoli spettatori innocenti. “I civili sono spesso vittime del fuoco incrociato”, aggiunge.

Dal 2021, quando Israele ha iniziato a promuovere pubblicamente l’uso dell’intelligenza artificiale nelle operazioni militari, negli attacchi annuali di Israele oltre 300 palestinesi sono stati uccisi e altre migliaia sono stati feriti e sfollati; nei ripetuti assalti infrastrutture vitali come i sistemi fognari e le reti elettriche sono state irrimediabilmente danneggiate. L’automazione potrebbe aver consentito a Israele – se avesse potuto raccogliere le forze e il sostegno politico – di non inviare truppe di terra, impedendo perdite di vite umane dalla sua parte, ma soprattutto la tecnologia ha semplicemente reso più frequente la caduta delle bombe e l’uso di proiettili.

Gli esperti politici discutono spesso dei pericoli posti dai sistemi d’arma automatizzati nel futuro. Ma il costo umano è già evidente in tutta la Palestina. “Abbiamo assistito a lungo alle prove dell’uso da parte di Israele dei TPO [territori palestinesi occupati, ndt.], in particolare di Gaza, come laboratorio per testare e dispiegare tecnologie di armi sperimentali”, ha detto a +972 Omar Shakir, direttore per Israele e Palestina di Human Rights Watch.

Shakir sottolinea che tali armi utilizzate in Cisgiordania e a Gaza, dai droni alla biometria alle torrette potenziate dall’intelligenza artificiale, “servono ad automatizzare l’uso illegale della forza e dell’apartheid da parte di Israele contro i palestinesi”. Data la centralità di Israele nei mercati globali delle armi, Shakir ritiene che “è solo una questione di tempo prima che i sistemi d’arma schierati oggi da Israele finiscano negli angoli più remoti del globo”.

I sostenitori dei diritti digitali hanno anche avvertito che le armi sviluppate in Palestina causeranno il caos se esportate all’estero, sottolineando che questi sistemi provengono da contesti politici in cui il pregiudizio contro i palestinesi è fondamentale. Ad esempio, se l’esercito israeliano ha fornito agli operatori delle istruzioni secondo cui in attacchi con droni un certo numero di non combattenti potrebbe essere ucciso, come +972 ha riportato l’anno scorso, questo numero è replicato negli algoritmi che guidano i missili di precisione? Se i soldati israeliani che gestiscono posti di blocco hanno il compito di detenere temporaneamente uomini palestinesi di una certa età, i nuovi confini biometrici, come riportato di recente da Amnesty International, raccomanderanno la detenzione di tutti coloro che rientrano in questo gruppo demografico? Come ha spiegato Mona Shtaya, direttrice del sistema di patrocinio di 7amleh [associazione no profit che favorisce l’uso del digitale tra i palestinesi in particolare a sostegno dei loro diritti, ndt.]: “Se i dati sono distorti, il risultato finale del prodotto sarà sbilanciato contro i palestinesi”.

L’esercito israeliano non sembra preoccupato dal ritmo di tale sviluppo dell’IA. Cosa fa ChatGPT? Distilla la conoscenza, l’intuizione di cui hai bisogno “, ha affermato il colonnello Uri, comandante della nuova unità di ricerca e informazione sull’IA delle IDF, durante una rara intervista a febbraio. C’è un limite alle tue capacità come essere umano. Se stessi seduto una settimana per elaborare le informazioni potresti giungere alla stessa identica conclusione. Ma una macchina può fare in un minuto ciò che ti richiederebbe una settimana.

Questo tecno-ottimismo si ritrova in tutti i ranghi militari di Israele e lo ha aiutato a giustificare la guerra in corso. I comandanti delle unità di intelligence d’élite hanno volantini auto-pubblicati che esaltano una “sinergia uomo-macchina”. Altri occupano posizioni chiave in aziende di armi come Elbit Systems, desiderose di esportare sistemi d’arma automatizzati in tutto il mondo. Quando a febbraio 60 paesi, tra cui Cina e Stati Uniti, hanno stilato un “invito ad agire” in gran parte simbolico a sostegno dell’uso responsabile dell’IA militare Israele ha rifiutato di firmare la dichiarazione. Invece, i comandanti di alto rango paragonano i robot assassini alle chatbot, scimmiottando i dirigenti tecnologici della Silicon Valley che affermano che l’intelligenza artificiale potrà solo migliorare la vita umana.

La vastità della distruzione in una Gaza assediata rende sempre più difficile credere a tali affermazioni. Se l’ultimo bombardamento rivela qualcosa è che anche le armi tecnologicamente più avanzate non possono compensare il costo umano della guerra, non importa quanto sofisticati siano gli algoritmi.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Mentre Israele è scossa dalle proteste un centro culturale cisgiordano cerca di ‘rappresentare la lotta palestinese’

Charlotte Jansen

5 giugno 2023 – The Art Newspaper

L’istituzione artistica Dar Jacir è stata fondata dall’artista Emily Jacir, nata a Betlemme, per dare una sede ai creativi palestinesi

Il Dar Yusuf Nasri Jacir per l’arte e la ricerca (Dar Jacir) in via Al Khalil a Betlemme è uno dei pochi spazi culturali ancora aperti e attivi in Cisgiordania ed è facile capire perché. 

Il caratteristico edificio sanasil [con muri a secco, ndt.] con un giardino ombreggiato da olivi si affaccia sulla barriera di separazione in cemento costruita dall’esercito israeliano durante la Seconda Intifada (2000-05). Nelle vicinanze si trova un checkpoint israeliano con polizia militare, parte di una rete di centinaia di posti di blocco attraverso cui gli abitanti della Cisgiordania devono passare ogni giorno. 

Dar Jacir è spesso sulla linea del fronte negli scontri fra i giovani e l’esercito israeliano,” dice la sua direttrice, l’artista Emily Jacir. Ma Jacir è abituata a lavorare in tale contesto e dice che le recenti e storiche proteste israeliane contro i piani del governo di coalizione di Benjamin Netanyahu per la riforma della magistratura hanno avuto un “impatto zero” sul loro lavoro.

Jacir, artista, Leone d’Oro alla Biennale di Venezia 2007, e sua sorella, la regista Annemarie Jacir, dal 2018 gestiscono Dar Jacir, dove ospitano workshop di artisti, tengono corsi, proiezioni e residenze.

La proprietà fu originalmente costruita come una grandiosa casa di famiglia dall’antenato di Jacir, al Mukhtar Yusuf Jacir, archivista della cittadina, alla fine degli anni ’80 dell’Ottocento durante il periodo ottomano della Palestina (un dominio durato 402 anni, fino al 1918). Nella sua posizione è stato testimone di un paesaggio politico in drammatico mutamento in Cisgiordania. Nel 1918 le forze britanniche presero il controllo della Palestina dando inizio a una nuova era di occupazione. Questo mese segna i 75 anni dalla fine del mandato britannico sulla Palestina terminato nel 1948. Lo Stato della Palestina fu diviso in tre, in base alle disposizioni della risoluzione ONU, e i leader ebraici dichiararono lo Stato indipendente di Israele.

Storia di sopravvivenza

Nella lunga storia di occupazione di Betlemme anche Dar Jacir è passato di mano. Fra il 1929 e il 1980 è stato usato come prigione, base militare e scuola. Ma alla fine è stato riacquistato dalla famiglia Jacir e, nel 2014, il padre di Emily Jacir, Yusuf Nasri Jacir, è diventato il solo proprietario e ha deciso di aprire l’edificio al pubblico come centro culturale. La notevole storia di sopravvivenza, trasformazione e resistenza dell’edificio ne fa una sede significativa per attività culturali che promuovono l’educazione diadica e gli scambi all’interno della Cisgiordania e con il resto del mondo. 

Oggi Dar Jacir è una sineddoche. “Rappresenta la lotta palestinese locale e generale, funge da promemoria importante che i palestinesi sono attivi e continuano a produrre e essere coinvolti in processi creativi anche nella più grave delle situazioni,” dice Jacir.

Il programma di workshop e residenze di Dar Jacir spazia dai laboratori visuali e residenze di arte, cinema, danza, letteratura e agricoltura ed è completamente gestito dagli artisti. È finanziato da donazioni di numerosi sostenitori privati e i suoi partecipanti e leader dei programmi arrivano da tutto il mondo: è l’unico spazio nella Cisgiordania meridionale a offrire educazione alle arti e programmi di residenze sia a palestinesi che a studenti e professionisti internazionali.

Dar Jacir è un “modello pedagogico alternativo”, dice Jacir, risponde “alle necessità della nostra comunità, inclusi i nostri vicini nei campi profughi e a coloro che altrimenti non potrebbero avere accesso a opportunità creative e artistiche”. Anche le necessità domestiche del centro ne improntano il programma: insieme i partecipanti cucinano e si occupano del giardino. “Noi ospitiamo persone,” dice Jacir. “L’importanza del nostro diritto a ospitare è cruciale ed è qualcosa che le forze di occupazione cercano di sottrarci.” 

L’artista palestinese Vivien Sansour, ex residente, ha disegnato per Dar Jacir un terrazzamento dove ha piantato della juta, una pianta usata nello stufato mloukheyeh, un piatto tipico della cucina palestinese associato a consolazione e conforto. Durante un workshop sono state raccolte le piante e con esse preparato il mloukheyeh distribuito da un food truck. “Noi incoraggiamo gli altri a condividere le loro storie di famiglia” dice Jacir.

Il programma di Dar Jacir è condotto da artiste donne, fatto importante, dice Jacir, perché esse capiscono l’oppressione di altre donne, particolarmente quelle che vivono nei territori occupati. “Noi condividiamo così tanto con altre donne che fronteggiano l’occupazione, dal Kurdistan al Sahara occidentale,” dice. “Abbiamo già offerto residenze ed eventi pubblici organizzati a parecchie artiste palestinesi a cui prima non erano mai state date opportunità simili.” Possono offrire una piattaforma e visibilità a una rete internazionale di artiste che vivono in condizioni simili, aggiunge. 

Noi viviamo in un ambiente molto patriarcale, quindi avere uno spazio guidato da donne offre loro opportunità e modi di lavorare che portano a dei cambiamenti. Noi cerchiamo di dare un esempio alla generazione di artiste più giovani e di incoraggiarle a diventare leader che possano mediare in questo conflitto.” dice Jacir.

Per lei, nata e cresciuta a Betlemme, non è stata una conquista facile. “Ho avuto un’infanzia molto dura, ero estremamente timida e spesso bullizzata dagli altri bambini,” ricorda. “Ero troppo spaventata per aprire bocca in classe e rispondere alle domande anche quando sapevo la risposta. Non riuscivo a farmi sentire, amavo l’arte che era l’unico mezzo con cui sentivo di poter esprimere me stessa.” Le cose sono cambiate quando ha vinto una borsa di studio per la migliore artista: “All’epoca è stato veramente significativo per me.”

Negli anni ’90 Jacir era impegnata in progetti importanti che hanno formato in modo significativo la scena artistica a Ramallah, che è ancora il centro culturale della Cisgiordania. È stata fra i fondatori dell’International Academy of Art Palestine e vi ha lavorato come docente a tempo pieno per oltre un decennio. È anche stata la co-curatrice del Video Festival Internazionale della Palestina, lanciato nel 2002, il primo del suo genere in Palestina. 

La manifestazione, dice Jacir, è nata dalla necessità di avere “uno scambio bidirezionale” e non focalizzarsi solo su “noi e le nostre sofferenze. Ci stava portando a una visione miope e volevo porvi fine.” 

Ciò è anche parte della motivazione dietro alla pratica di Dar Jacir in quanto istituzione. Aggiunge che deve affrontare anche un altro problema: “Oggi gli artisti sono troppo spesso dipendenti da istituzioni che non hanno fiducia in loro o non se ne prendono cura,” fa notare.

Dar Jacir è un modello istituzionale radicale in un contesto complesso che spera di ispirare altre istituzioni nel resto del mondo. Ma, insiste Jacir, coloro che vogliano capire il lavoro che fa e i problemi che affronta “devono venire e vedere cosa sta succedendo qui con i propri occhi”.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Ci sono stati dei feriti a causa di un attacco delle forze israeliane a palestinesi che stavano seguendo il funerale di un bimbo ucciso

Redazione di Palestine Chronicle (WAFA, PC)

6 giugno 2023 – Palestine Chronicle

Due giovani palestinesi sono stati trasferiti all’ospedale dopo essere stati colpiti e feriti dalle forze israeliane nel villaggio. Le loro condizioni di salute sono state definite moderatamente gravi.

L’agenzia di notizie ufficiale palestinese WAFA ha riferito che martedì un giovane palestinese è stato colpito e ferito a un piede e un altro è stato colpito in faccia da una pallottola di acciaio ricoperta di gomma nel villaggio di Nabi Saleh, vicino Ramallah, in seguito al corteo funebre di un bambino ucciso, Mohammed Tamimi.

Centinaia di persone hanno partecipato al funerale di Mohammad Haitham Tamimi di due anni, morto lunedì, quattro giorni dopo essere stato colpito alla testa da soldati israeliani nel villaggio di Nabi Saleh.

Un attivista locale contro le colonie e contro il muro ha affermato che due giovani sono stati trasferiti all’ospedale dopo essere stati colpiti e feriti dalle forze israeliane nel villaggio. Le loro condizioni di salute sono state definite moderatamente gravi.

Le forze israeliane hanno anche attaccato gli abitanti del villaggio con una raffica di candelotti di gas lacrimogeni e granate stordenti, causando problemi respiratori a decine di persone.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




La definizione di antisemitismo dell’IHRA “reprime il sostegno ai palestinesi in Europa”

Areeb Ullah

6 giugno 2023 – Middle East Eye

Uno studio dell’European Legal Support Centre ha scoperto che le persone di colore e gli ebrei che appoggiano la Palestina sono stati colpiti in modo sproporzionato da una definizione “errata”.

Un’organizzazione europea per i diritti umani ha denunciato che la definizione operativa di antisemitismo dell’International Holocaust Remembrance Alliance [Alleanza Internazionale per la Memoria dell’Olocausto, organizzazione intergovernativa cui aderiscono 34 Paesi, per lo più europei, ndt.] (IHRA) ha avuto un impatto sproporzionato sulle persone di colore e sugli ebrei che appoggiano la Palestina, facendo sì che alcuni perdessero il lavoro oppure affrontassero la censura o azioni giudiziarie per presunti reati.

Basandosi su 53 casi in Austria, Germania e Regno Unito, l’European Legal Support Centre [Centro Europeo per il Sostegno Legale, che si occupa di appoggiare i gruppi filopalestinesi in Europa, ndt.] (ELSC) afferma che tutti e tre i Paesi hanno applicato la discussa definizione “come se fosse una legge”, nonostante essa sia definita come “non giuridicamente vincolante”.

L’ELSC critica anche la Commissione Europea per aver ignorato le crescenti preoccupazioni riguardo alla definizione.

In seguito alla pubblicazione martedì di un rapporto intitolato Suppressing Palestinian Rights Advocacy through the IHRA Working Definition of Antisemitism [Repressione del sostegno ai diritti dei palestinesi attraverso la definizione operativa di antisemitismo dell’IHRA], l’ELSC afferma in un comunicato che “tutti gli imputati sono stati presi di mira per il sostegno ai palestinesi e la denuncia delle prassi e delle politiche israeliane e/o per le critiche al sionismo come ideologia politica”.  

Quando sono state portate in tribunale, la maggior parte di queste accuse di antisemitismo sono state respinte in quanto senza fondamento.”

Il rapporto evidenzia casi di accademici, studenti e attivisti per i diritti dei palestinesi che sono stati penalizzati per aver espresso critiche a Israele.

Accuse di antisemitismo che fanno riferimento alla definizione operativa dell’IHRA nei casi documentati hanno colpito in modo assolutamente preponderante palestinesi, persone e organizzazioni ebraiche che sostengono i diritti dei palestinesi, suggerendo che la definizione dell’IHRA viene messa in pratica in modo discriminatorio,” segnala l’ELSC.

Sebbene la stragrande maggioranza dei ricorsi riguardanti la messa in pratica della definizione dell’IHRA abbia successo, le procedure disciplinari e le vertenze derivanti da false accuse di antisemitismo hanno prodotto un “effetto dissuasivo” sulla libertà di espressione e di riunione.”

L’ELSC afferma che tra le 53 persone intervistate per il rapporto 42 casi hanno preso di mira associazioni con “membri che sono di colore o individui che sono persone di colore, tra cui 19 palestinesi.

In 11 episodi sono stati presi di mira associazioni che si identificano come ebraiche o singoli ebrei, in particolare con opinioni antisioniste o simpatie nei confronti della lotta dei palestinesi per i diritti umani. Tutti i singoli individui e i gruppi che sono stati colpiti in questi episodi hanno manifestato simpatia per i diritti umani dei palestinesi,” nota l’ELSC.

Questi dati mostrano una potenziale discriminazione nel modo in cui la definizione dell’IHRA viene messa in pratica, suggerendo che i palestinesi e i loro alleati, ebrei, persone di colore o altri, sono i principali obiettivi di quanti utilizzano la definizione dell’IHRA per delegittimarli, calunniarli o sanzionarli.”

Aggiunge che alcuni dei partecipanti [alla ricerca] hanno perso offerte di lavoro o l’impiego e alcuni sono stati citati in giudizio da governi locali perché avrebbero violato la definizione dell’IHRA.

Eventi studenteschi legati all’Israeli Apartheid Week [Settimana contro l’Apartheid Israeliano] sono stati annullati per presunte violazioni della definizione dell’IHRA, compresa la conferenza di un sopravvissuto all’Olocausto presso l’università di Manchester.

La politica della Commissione Europea “dannosa per i diritti fondamentali”

Giovanni Fassina, direttore dell’ELSC, ha denunciato la Commissione Europea che ha promosso la definizione dell’IHRA attraverso un manuale sull’antisemitismo del 2021, affermando che l’ente ha “sistematicamente ignorato e respinto le crescenti preoccupazioni riguardo ai diritti umani relativi alla definizione dell’IHRA e non ha preso misure per impedire ogni suo impatto negativo su diritti fondamentali.

È tempo che la Commissione Europea riconosca e prenda in considerazione il fatto che la politica che ha promosso e implementato sulla base della definizione dell’IHRA, sia a livello di Unione Europea che di Stati membri, è estremamente dannosa per i diritti fondamentali e sta promuovendo il razzismo antipalestinese,” afferma Fassina in un comunicato.

La definizione dell’IHRA è stata formulata nel 2004 dall’esperto di antisemitismo Kenneth Stern in collaborazione con altri accademici per l’American Jewish Committee, un’organizzazione a favore degli ebrei fondata all’inizio del XX secolo e con sede a New York.

Stern ha affermato di aver formulato la definizione specificamente per ricercatori europei in modo da aiutarli a monitorare l’antisemitismo.

Ma chi la critica afferma che alcuni degli esempi che l’accompagnano confondono l’antisemitismo con l’antisionismo, o la critica a politiche del passato o attuali che portarono alla creazione dello Stato di Israele nel 1948, all’espulsione di centinaia di migliaia di palestinesi dalle proprie case nell’attuale Israele e alle continue violazioni dei diritti umani contro i palestinesi e l’occupazione delle terre palestinesi da parte di Israele.

Il Regno Unito è stato il primo Paese europeo ad adottare la definizione dell’IHRA nel 2016, seguito dall’Austria nell’aprile 2017. Nel settembre 2017 il governo federale tedesco, allora una coalizione tra i conservatori della CDU-CSU e i socialdemocratici della SPD, appoggiò la definizione dell’IHRA per decisione del consiglio dei ministri. Anche istituzioni locali e organizzazioni associative hanno adottato o votato per adottare in modo indipendente la definizione dell’IHRA.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Proposta di legge israeliana per impedire ai cittadini palestinesi di vivere in ‘zone ebraiche’

Elis Gjievori

6 giugno 2023 – Middle East Eye

Associazioni per i diritti umani si sono impegnate a combattere contro la proposta di legge che vedrebbe molte altre città israeliane impedire ai palestinesi di comprare o affittare appartamenti

Il governo israeliano propone una legge per “ebraizzare” la Galilea, una regione nel nord di Israele con una considerevole popolazione palestinese. 

La mossa fa parte di un accordo concluso lo scorso anno per formare il nuovo governo israeliano con i politici di estrema destra Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir, che vogliono espandere la colonizzazione ebraica nella regione.

In quanto parte del piano per “salvare la colonizzazione ebraica in Galilea,” il primo ministro Benjamin Netanyahu progetta di rafforzare significativamente la controversa legge del 2011 che darebbe a piccole comunità il potere di esaminare (e scartare) i potenziali nuovi arrivati.

Quando la legge fu approvata lo scopo era di aggirare una sentenza della Corte Suprema che proibisce alle comunità residenziali di affittare le terre solo ad ebrei.

Suhad Bishara di Adalah, il Centro legale per i diritti della minoranza araba in Israele, sostiene che le leggi danno “una discrezionalità quasi completa” a queste piccole comunità di scegliere chi ci vive.

“In pratica questa disposizione è principalmente un mezzo per scartare i cittadini palestinesi e impedire loro di risiedere in queste comunità e costituisce un meccanismo giuridico per la segregazione residenziale in molte località dello Stato di Israele,” ha detto Bishara a Middle East Eye.

All’inizio di questo mese il ministro della Giustizia Yariv Levin [del partito di Netanyahu, il Likud, ndt.] ha detto che in Israele l’acquisto di case da parte di palestinesi in paesi e cittadine sta spingendo gli ebrei a andarsene da queste zone.

“Gli arabi comprono appartamenti in comunità ebraiche in Galilea e ciò costringe gli ebrei ad abbandonare queste città perché non sono disposti a vivere con gli arabi,” dice Levin.

Ora il governo israeliano “vuole espandere e rafforzare questo sistema,” dice Bishara.

Il governo si è impegnato ad aumentare il numero di città che possono selezionare i nuovi arrivati estendendolo da quelle con 400 nuclei familiari a quelle con un massimo di 1000.

L’estensione della legge è sostenuta anche da alcuni parlamentari dell’opposizione. La prima versione della legge, che avrebbe permesso a cittadine con un massimo di 600 case di esaminare chi vi si trasferisce è stata approvata dal governo precedente.

Ufficialmente la legge non permette ai comitati di accettazione di respingere candidati alla residenza per motivi di razza, religione, genere, nazionalità, disabilità, classe, età, parentela, orientamento sessuale, Paese di origine, opinioni o affiliazione a un partito politico.

Tuttavia il testo della legge del 2011 permette ai comitati di respingere candidati che essi ritengono “inadatti al tessuto sociale e culturale” della comunità.

Sfacciata violazione della legge per i diritti umani’

All’inizio di questo mese il governo israeliano ha anche discusso una nuova proposta per imporre “valori sionisti ” in politiche governative che i critici sostengono potrebbero permettere agli ebrei israeliani di ricevere un trattamento preferenziale nella definizione dei piani regolatori e nella costruzione di case.

Cittadini palestinesi di Israele che vivono nella regione del Negev (Naqab) hanno da tempo accusato il governo israeliano di tentare con varie tattiche di sradicarli.

Queste includono la confisca di terre ai palestinesi trasformando i proprietari in affittuari. Inoltre il governo israeliano è stato accusato di impedire l’espansione dei villaggi palestinesi circondandoli con nuove colonie ebraiche.

Si intende espandere la nuova legge anche alla Cisgiordania occupata in zone dove Israele ha annesso territori in cui vivono anche palestinesi.

Bishara ha aggiunto che, se la proposta di legge passasse così com’è, potrebbe “essere soggetta a una verifica di costituzionalità in relazione alla sua applicabilità in Israele.”

“Questa è una sfacciata violazione del diritto internazionale umanitario e delle leggi per i diritti umani che si applicano alla Cisgiordania in quanto territorio occupato,” ha segnalato Bishara.

“Se approvata rafforzerebbe il meccanismo dell’annessione de facto di territori occupati e potrebbe essere considerato parte di un processo di annessione de jure, in totale violazione delle leggi relative a territori occupati,” aggiunge.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Un bambino palestinese di due anni muore dopo essere stato colpito dal fuoco dei soldati

Maureen Clare Murphy

6 giugno 2023 – The Electronic Intifada

Un bambino palestinese è morto per le ferite riportate quattro giorni dopo essere stato colpito dalle truppe israeliane, lunedì, a Nabi Saleh, un villaggio vicino a Ramallah nella Cisgiordania centrale occupata.

Defence for Children International-Palestine ha affermato che Muhammad Haitham Ibrahim Tamimi, di 2 anni, era nel retro dell’auto di suo padre fuori dalla loro casa giovedì sera “quando le forze israeliane hanno aperto il fuoco indiscriminatamente”.

L’organizazione per i diritti umani ha aggiunto che il bambino è stato colpito alla testa e suo padre alla spalla. Muhammad è stato trasportato in aereo in un ospedale vicino a Tel Aviv, dove in seguito è morto.

L’esercito israeliano afferma che uomini armati palestinesi avevano aperto il fuoco su un insediamento vicino da Nabi Saleh e che le truppe di stanza in una postazione dell’esercito hanno risposto al fuoco.

Il Times of Israel ha affermato in un titolo che Muhammad sarebbe stato “colpito per errore”.

Ma anche se il soldato non intendeva ferire il bambino, l’uso indiscriminato delle armi da fuoco in una comunità palestinese dimostra uno scellerato disprezzo per le vite dei palestinesi.

Ayed Abu Eqtaish, direttore del programma per Defence for Children International-Palestina, ha affermato: “Sparare indiscriminatamente proiettili veri in un quartiere residenziale dove non vi è alcuna minaccia per la vita di un soldato israeliano è una chiara violazione delle stesse politiche dell’esercito israeliano”,

“Le uccisioni illegali di minori palestinesi sono diventate la norma poiché le forze israeliane sono sempre più autorizzate a usare la forza letale intenzionale in situazioni che non sono giustificate”, aggiunge Abu Eqtaish.

“Questo è un crimine di guerra senza conseguenze”.

L’agenzia di stampa ufficiale palestinese WAFA ha riferito lunedì che Hassan al-Tamimi, lo zio del bambino ucciso, ha dichiarato che la famiglia intende portare il caso di Muhammad alla Corte penale internazionale.

Diverse persone nel villaggio sono state uccise negli ultimi anni, di cui due in incidenti distinti nel 2022. Altre sono state gravemente ferite e imprigionate dalle forze israeliane in quanto gli abitanti resistono all’occupazione e agli insediamenti coloniali, in particolare Halamish, che è costruito sulla terra di Nabi Saleh.

Dall’inizio dell’anno le forze israeliane hanno ucciso almeno due dozzine di minori palestinesi, 20 dei quali in Cisgiordania.

Sei minori palestinesi sono stati uccisi durante l’offensiva militare israeliana a Gaza nel mese di maggio; i rapporti iniziali indicano che due di quei ragazzi e ragazze potrebbero essere morti a causa di un razzo che non ha raggiunto il suo obiettivo in Israele.

Inoltre un bambino di 10 anni è morto a causa delle ferite alla testa subite durante un attacco israeliano a Gaza nell’agosto 2022.

Dall’inizio dell’anno ventiquattro israeliani e persone di altre nazionalità sono stati uccisi dai palestinesi nel contesto dell’occupazione, o sono morti per ferite riportate in precedenza. Quattro di loro erano minori.

Sabato, inoltre, tre soldati israeliani sono stati colpiti e uccisi da un ufficiale egiziano lungo il confine tra i due paesi. L’ufficiale egiziano è stato ucciso in una sparatoria in seguito alla sua scoperta da parte delle truppe che setacciavano la zona.

Nel frattempo, domenica, i coloni israeliani hanno attaccato Burqa, una città nel nord della Cisgiordania, lanciando pietre contro gli abitanti e le loro case.

Alla fine del mese scorso i coloni hanno iniziato a spianare la terra a Homesh, un avamposto di coloni costruito su un terreno appartenente ai palestinesi di Burqa.

I coloni hanno invaso Burqa e dato fuoco a diverse strutture nel villaggio dopo che una delegazione di diplomatici a guida europea ha visitato la comunità.

Il gruppo di monitoraggio delle Nazioni Unite OCHA ha registrato quest’anno circa 300 attacchi di coloni in Cisgiordania che hanno provocato danni alla proprietà e più di 100 che hanno provocato feriti o morti.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




“L’anno più difficile della mia vita”: i pastori di Masafer Yatta soffrono sotto la minaccia di espulsione

Hamdan Mohammed Al-Huraini,

5 giugno 2023 – +972 Magazine

L’escalation della repressione da parte di Israele dopo la sentenza dell’Alta Corte dello scorso anno ha avuto un grave impatto sui pastori palestinesi, un pilastro della sopravvivenza delle loro comunità.

Per quanto ne ho memoria qui a Masafer Yatta, nella regione delle colline a sud di Hebron nella Cisgiordania occupata, i pastori hanno pascolato liberamente le loro pecore ogni primavera per migliaia di dunam [1 dunum equivale a 1000 mq, ndt.] di terra. Si spostavano tra pascoli abbondanti, senza bisogno di acquistare acqua o foraggio per i loro animali, perché l’approvvigionamento era abbondante. Fintanto che i nostri villaggi dipenderanno dall’agricoltura e dal bestiame [la pastorizia] è qualcosa di più di una forma di sussistenza: è il nostro modo di vivere tradizionale.

Ma un anno fa, tutto è cambiato. Nel maggio 2022 l’Alta Corte dell’occupazione israeliana si è pronunciata contro gli abitanti palestinesi di Masafer Yatta e a favore dell’esercito israeliano che ha trasformato l’area in una “zona di tiro” per l’addestramento militare. In conseguenza della sentenza della corte, l’esercito ha intensificato la sua repressione contro i palestinesi della zona per cercare di espellerci con la forza dalla terra in cui i nostri antenati hanno vissuto per secoli. E queste politiche hanno avuto un impatto particolarmente grave sui pastori.

Tutto è proibito con il pretesto che viviamo in una zona di addestramento di tiro, anche pascolare le pecore”, spiega Issa Makhamra del villaggio di Jinba, accanto al quale in seguito alla decisione della corte l’esercito israeliano ha stabilito una nuova base. Ogni volta che andiamo da qualche parte istituiscono un posto di blocco. Quando voglio andare in città devo attraversare questo posto di blocco e vengo fermato e trattenuto per lunghe ore. Te lo giuro, se l’esercito riuscisse a tenerci lontano dalla luce del sole e dall’aria, lo farebbe.»

Muhammad Ayoub Abu Subha, un altro pastore del villaggio di Al-Fakheit, era solito pascolare il suo gregge di pecore attraverso i pascoli della sua terra. Ma nell’ultimo anno l’accesso a quella terra è diventato impossibile. “L’esercito ha chiuso le strade e istituito posti di blocco”, dice. I nostri raccolti agricoli sono stati distrutti da carri armati, bulldozer e veicoli militari, e ci è stato impedito di raggiungere i nostri pascoli con il pretesto che questa zona era diventata proprietà dell’esercito. Non avrei mai immaginato che la mia casa, che è di mia proprietà, sarebbe diventata un’area chiusa. Mi sento come se stessi impazzendo e perdendo la testa.

Poiché migliaia di dunam di pascoli naturali sono andati perduti i pastori di Masafer Yatta devono ora acquistare il foraggio da città vicine come Yatta e poi trasportarlo a prezzi esorbitanti. Sempre che siano in grado di trasportarlo, dato il forte dispiegamento dell’esercito in tutta l’area e il fatto che i soldati spesso confiscano le auto dei palestinesi e arrestano i conducenti con il pretesto che si trovano all’interno di una zona di addestramento militare.

Lo scorso inverno Makhamra è stato trattenuto presso un posto di blocco eretto dall’esercito all’ingresso di Jinba. Avevo bisogno di comprare il foraggio per le mie pecore, quindi sono andato con un trattore. Quando ho raggiunto il posto di blocco non hanno permesso all’autista di entrare e l’hanno costretto a mettere il foraggio a terra vicino al posto di blocco. Avevo paura che piovesse e che il foraggio si deteriorasse, così ho prelevato dal villaggio mio figlio insieme ad un gruppo per trasportare il foraggio sugli asini per oltre 500 metri. Questo è un semplice esempio di ciò che ci accade quotidianamente a causa del divieto di raggiungere i nostri pascoli, della confisca della nostra terra, della distruzione delle strade e dell’uso dei posti di blocco”.

“Volevo urlare e piangere”

La vita a Masafer Yatta non era certo facile prima della sentenza della corte dello scorso anno. I residenti sono stati a lungo esposti alla medesima violenza da parte dei coloni israeliani e alle restrizioni dell’esercito che hanno lo scopo di cacciare i palestinesi dalle loro case in gran parte delle zone agricole della Cisgiordania, in modo che la loro terra possa essere espropriata per ulteriori insediamenti coloniali ebraici.

Abu Subha, ad esempio, ha visto demolire la sua casa dall’esercito in quattro diverse occasioni perché l’aveva costruita senza permessi, che Israele rende per i palestinesi quasi impossibile da ottenere. Ora però l’intensificarsi della presenza dell’esercito sta causando ai pastori della regione gravi difficoltà economiche.

“Abbiamo sempre nutrito le nostre pecore grazie alla nostra terra, sia attraverso il pascolo diretto sia alimentandole con colture coltivate sulla nostra terra, a seconda della stagione”, spiega Abu Subha. A volte poteva capitare che comprassimo un po’ di foraggio in caso di carenza. Ho guadagnato abbastanza soldi per me e la mia famiglia. Ma poi la Corte dell’occupazione ha deciso di dare il via libera all’esercito per l’addestramento militare nel mezzo del nostro villaggio, proprio nel cuore della nostra terra e dei nostri pascoli naturali.

“Questo è stato l’anno più difficile della mia vita”, continua. Ho una famiglia e dei figli, alcuni dei quali vanno a scuola e alcuni sono ancora troppo piccoli. Ma hanno tutti delle necessità, come vestiti, cibo e materiale scolastico di base. Prima non mi preoccupavo di questi bisogni perché ero in grado di soddisfarli facilmente, ma oggi non posso.

Le difficoltà finanziarie hanno avuto un impatto profondamente emotivo su Abu Subha. Un giorno stavo uscendo per andare in città a comprare delle cose per la casa, e mio figlio, che non ha nemmeno quattro anni, mi ha detto: ‘Papà, ho bisogno di scarpe nuove, le mie scarpe sono rotte,’ e ho dovuto dirgli che non c’erano abbastanza soldi. Cosa dovrei fare? Volevo piangere. Volevo urlare. Cerco il più possibile di stare calmo di fronte alla mia famiglia in modo che possano trarre forza da me. Ma in realtà avrei voglia di piangere.

Un anno dopo la terribile sentenza è evidente quanto devastante sia già stato l’impatto sulla vita dei pastori palestinesi a Masafer Yatta, dove il bestiame è considerato un pilastro della vita e da cui dipende la stabilità economica delle famiglie. I cambiamenti che hanno avuto luogo nell’area, concedendo all’esercito israeliano il diritto di fare tutto ciò che vuole in mezzo ai nostri villaggi, sono una condanna a morte di civili. Rendono le nostre vite insostenibili; sono un crimine contro l’umanità. Questa sentenza deve essere abrogata e ai palestinesi deve essere concesso il diritto di vivere in sicurezza sulla loro terra e nelle loro case.

Hamdan Mohammed Al-Huraini è un attivista e difensore dei diritti umani di Susiya. Documenta gli abusi dell’occupazione contro i palestinesi a Masafer Yatta ed è membro del progetto Humans of Masafer Yatta. E’anche impegnato come ricercatore volontario sul campo con B’Tselem e altre organizzazioni per i diritti umani.

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Israele ha bombardato questa casa, riducendo in polvere un’antica collezione

Maram Humaid

5 giugno 2023 – Al Jazeera

Un abitante di Gaza ritorna nella sua casa distrutta da un bombardamento israeliano, sperando di recuperare la sua antica collezione di oggetti che risalgono a centinaia di anni addietro.

Gaza City – Da quando il 12 maggio la sua casa è stata distrutta da un bombardamento israeliano Hazem Mohanna vi si reca ogni giorno cercando tra le macerie per ritrovare la sua antica preziosa collezione.

Il sessantaduenne ha passatp 40 anni della sua vita collezionando, come hobby, antiche monete d’argento, pietre preziose e pezzi legati al patrimonio palestinese. La sua casa di quattro piani nel quartiere al-Sahaba, nella parte orientale di Gaza City è diventata “uno straordinario museo archeologico,” dice Mohanna.

Il 12 maggio, il terzo giorno dell’ultimo attacco militare contro Gaza, mentre se ne stava in casa con la sua famiglia, Mohanna ha ricevuto una telefonata dai servizi israeliani. “Mi hanno dato solo cinque minuti per lasciare la casa”, dice a Al Jazeera.

Ero sconvolto. Mia moglie, i miei figli sposati e i miei nipoti sono immediatamente corsi fuori dall’edificio di quattro piani”, dice il padre di quattro figli.

Ho potuto salvare me e la mia famiglia, ma non ho potuto salvare i miei beni, che ho collezionato e custodito per tutta la vita”, dice con volto visibilmente triste.

Nei diversi recenti attacchi Israele ha bombardato centinaia di case a Gaza, concedendo dovunque agli abitanti da qualche ora a solo pochi minuti di preavviso per uscire, suscitando le critiche delle organizzazioni per i diritti umani.

Nel maggio 2021 Israele ha bombardato un edificio di 11 piani che ospitava il nuovo ufficio di Al Jazeera, dopo aver dato un preavviso di circa un’ora. In 11 giorni di incessanti bombardamenti israeliani sono stati uccisi circa 250 palestinesi.

La mia antica collezione significava molto per me. Vi sono pezzi preziosi che datano centinaia di anni”, dice Mohanna, funzionario della sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese in pensione.

Ci sono documenti di certificazione di molti Paesi, pezzi legati alla tradizione palestinese, come vestiti ricamati, valigie e manufatti in rame”, dice.

Ci sono oggetti e memorie che non possono essere risarciti da alcuna somma di denaro, per via del nostro attaccamento ad essi. Vorrei che i miei figli ereditassero il mio piccolo museo archeologico, ma l’occupazione israeliana perseguita ogni cosa, anche le nostre memorie e i nostri hobby.”

Il vecchio collezionista non riesce ancora a trovare una ragione o una giustificazione del bombardamento della sua casa. “Siamo tutti dei semplici civili”, dice Mohanna, che ora vive in un piccolo appartamento di due stanze in affitto con i 16 membri della sua famiglia, compresi i suoi figli sposati.

Insieme ad altre centinaia di persone, è preoccupato per la ricostruzione della sua casa. Secondo il Ministero dei Lavori Pubblici almeno 20 edifici, per un totale di 56 unità abitative, sono stati completamene distrutti e 940 unità abitative sono state danneggiate durante l’escalation militare israeliana.

Finora nessuno mi ha contattato per una compensazione o almeno per pagare l’affitto dell’appartamento”, dice Mohanna. “Ci sono case distrutte nelle precedenti offensive israeliane che non sono state ancora ricostruite, perciò quando arriverà il nostro turno?”

Basta guerre’

Sabah Abu Khater, di 60 anni, dice che l’ultima escalation militare israeliana ha tolto l’allegria a suo figlio, che si sarebbe sposato dopo un mese e mezzo.

Nel pomeriggio dell’11 maggio la sua famiglia di 10 persone stava guardando le notizie nella sua casa di Beit Hanoun nel nord della Striscia di Gaza quando ha ricevuto una telefonata che ordinava di lasciare la casa perché stava per essere bombardata.

Israele ha giustificato il bombardamento di case civili affermando che venivano utilizzate da gruppi armati –un’affermazione respinta dai palestinesi.

Ho sentito i vicini gridare ‘Uscite di casa! Stanno per bombardarla!’” dice Khater.

Siamo tutti usciti immediatamente. I miei figli, le loro mogli e i miei nipotini. Siamo corsi in strada con solo i vestiti che avevamo addosso”, dice cercando le sue cose tra le macerie della sua casa di due piani.

Abbiamo concordato la dote per la sposa di mio figlio e ci stavamo apprestando a completare l’accordo dopo che la situazione si fosse calmata, ma adesso siamo nuovamente daccapo”, dice Khater riferendosi alla cifra che uno sposo deve pagare alla moglie al momento delle nozze, in base alla legge islamica.

Sono triste e col cuore spezzato per mio figlio, che ha speso un sacco di soldi e di sforzi per mettere insieme la dote e costruire la sua casa”, dice.

La gente qui a Gaza è stufa di guerre e disgrazie.”

Il figlio 26enne di Khater, Bilal Abu Khater, che sta seduto demoralizzato sulle macerie della casa della sua famiglia, racconta di aver faticosamente raccolto la dote della sua promessa sposa e preparato una modesta casa per il matrimonio.

Sono stato costretto a fare lavoro straordinario per una paga bassa, non più di 20 shekel al giorno e anche meno, che corrispondono a circa 5 euro, in aggiunta all’aiuto inviato dai miei zii e parenti all’estero”, dice.

Oggi ho dovuto lavorare di più per aiutare a costruire una nuova casa e anche a sostenere le spese dei miei famigliari, rimasti tutti senza casa”, dice Bilal Abu Khater.

I giovani della Striscia di Gaza vivono condizioni difficili a causa della mancanza di opportunità di lavoro e del perdurante blocco”, dice riferendosi al blocco terrestre, aereo e marittimo dell’enclave palestinese imposto da Israele dal 2007.

Le guerre peggiorano le cose”, dice Bilal Abu Khater.

Ci sono voluti anni per costruire la nostra casa ed ora ci vorrà molto tempo per ricostruirla”, dice con la voce spezzata, per poi ringraziare dio che la sua famiglia sia salva. “I soldi si rimediano. La cosa importante è che nessuno di noi è stato ferito.”

Nell’attacco militare israeliano iniziato il 9 maggio gli aerei da guerra israeliani hanno preso di mira case e appartamenti in tutta la Striscia di Gaza. Hanno sostenuto che il bombardamento era diretto contro il movimento della Jihad islamica, ma i palestinesi e le organizzazioni per i diritti hanno affermato che nei cinque giorni di aggressione sono stati uccisi soprattutto civili. Le fazioni palestinesi hanno lanciato razzi su Israele, uccidendo un israeliano.

Al momento in cui è entrato in vigore un cessate il fuoco mediato dall’Egitto, il 12 maggio, erano stati uccisi almeno 33 palestinesi, compresi sei minori, e feriti 190, con perdite economiche stimate in 5 milioni di dollari.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)

 




Campo di Aqbat Jabr ultimo obiettivo dei micidiali raid israeliani in Cisgiordania

Leila Warah, campo profughi Aqbat Jabr

MiddleEastEye – 4 giugno 2023

I ripetuti attacchi di Israele al campo profughi di Gerico trasformano una destinazione turistica palestinese in “zona di guerra”

Fidah Muqbil ha dovuto rivivere la notte più traumatica della sua vita quando l’esercito israeliano ha nuovamente fatto irruzione nel suo quartiere il 25 maggio.

Con la copertura della notte, le truppe hanno iniziato un’operazione su larga scala nel campo profughi di Aqbat Jabr nella Cisgiordania occupata dove vive Fidah.

L’accampamento, situato a sud-ovest di Gerico, è stato circondato da ogni parte e di fatto messo sotto assedio.

Decine di veicoli militari corazzati hanno chiuso i vicoli, accompagnati da soldati e cecchini appostati sui tetti.

Muqbil, 19 anni, e i suoi fratelli più piccoli erano soli e rannicchiati in casa mentre per ore si svolgevano le operazioni militari.

Unico conforto era la voce del padre al telefono, in videochiamata da una stanza d’ospedale a Ramallah mentre si prendeva cura della madre ferita in un simile raid israeliano poche settimane prima.

“Ogni rumore forte mi riporta a quella notte”, ha detto Muqbil a Middle East Eye, riferendosi alla mattina del 1° maggio. Quel giorno, circa 20 soldati israeliani hanno piazzato una bomba alla porta e fatto brutalmente irruzione in casa, ferendo la madre di Muqbil.

“Dormivamo tutti. Erano le 6:00. Ho sentito qualcosa esplodere, ho pensato che fosse la nostra bombola del gas. E sentivo mia madre gridare”, dice l’adolescente, ricordando il momento in cui sua madre è stata colpita dalle schegge.

Prima che potesse capire ciò che stava accadendo, un soldato l’ha spinta in soggiorno.

“Ero terrorizzata. Tutto quello che potevo vedere era la distruzione. Riuscivo a malapena a stare in piedi. Pensavo di stare per vomitare”, ha aggiunto.

I soldati hanno poi trascinato i vicini qui in casa, dice Muqbil, costringendo tutti a nasconderci sotto il tavolo da pranzo al buio, circondati da sedie, nuvole di polvere e frastuono. Non riuscivamo nemmeno a vederci in tutto quel caos”, racconta.

Per due ore e mezza sono rimasti tutti fermi così. Durante quel lasso di tempo un cecchino israeliano piazzato alla finestra della sua camera da letto ha sparato e ferito almeno tre palestinesi, tra cui il diciassettenne Jibril Muhammad al-Lada’a, che è stato colpito alla testa ed è poi morto in ospedale.

Circa un mese dopo Muqbil ha dovuto patire altri due raid israeliani su larga scala nel suo quartiere.

Il trauma che lei e i suoi fratelli hanno vissuto li ferisce ancora, dice, e ha portato la loro vita alla paralisi.

Il suo matrimonio, originariamente previsto per il 27 maggio, è stato annullato, mentre suo fratello Karam Muqbil, di sette anni, ha tuttora bisogno di costanti rassicurazioni e sostegno. Guardando la sorella che dorme nel pomeriggio, aggiunge che riescono a dormire solo quando c’è il sole.

Traumi e disabilità permanenti

Negli ultimi mesi, Aqabat Jabr è stata costantemente presa di mira da letali operazioni militari israeliane che hanno portato morte e distruzione a Gerico, una città turistica solitamente meno soggetta alla violenza israeliana rispetto ad altri luoghi della Cisgiordania.

Il campo di Aqabat Jabr è stato istituito nel 1948 per ospitare i rifugiati espulsi dalle loro case dalla milizia sionista per far spazio alla costituzione dello Stato di Israele.

Oggi ospita 30.000 persone ed è considerato il più grande campo profughi della Cisgiordania quanto ad estensione.

Le recenti incursioni nel campo seguono la crescente tendenza ad assalti mortali alle città della Cisgiordania da parte delle truppe israeliane, accanto a una ripresa della resistenza armata da parte dei palestinesi.

Proprio come a Nablus, Jenin, Tulkarem e Tubas, nel 2022 è sorto a Gerico un nuovo gruppo di resistenza chiamato Brigata Aqbat Jabr.

La Brigata e il campo sono saliti alla ribalta a febbraio, quando i soldati israeliani hanno ucciso cinque membri della Brigata in un “raid di 15 minuti”.

Nel campo da allora sono stati uccisi dalle forze israeliane altri quattro palestinesi tra cui due minori: al-Lada’a di 17 anni e Mohamed Faiz Balhan di 15 anni.

La gente del posto afferma che questi raid, che hanno portato all’arresto di oltre 100 palestinesi, stanno avendo effetti duraturi sui residenti.

Molte vittime di armi da fuoco si ritrovano con disabilità a vita e i bambini del campo sono traumatizzati.

Durante l’ultimo raid, i proiettili israeliani hanno ferito 13 persone e altre 14 sono state arrestate. I soldati hanno anche sfondato porte, saccheggiato e distrutto case e usato granate assordanti, provocando il panico nei quartieri.

“I cecchini hanno sparato a chiunque si muovesse per le strade”, ha detto a MEE Jamal Aweidat, capo del comitato popolare di Aqbat Jaber.

“Nessuno sapeva cosa fare; molti bambini erano così spaventati che durante il raid hanno bagnato i pantaloni “.

Complessivamente, quest’anno il fuoco israeliano ha ucciso almeno 118 palestinesi nella Cisgiordania occupata e a Gerusalemme est, tra cui 18 minori. Altre 34 persone sono state uccise nella Striscia di Gaza, di cui sei minori.

Nello stesso periodo i palestinesi hanno ucciso almeno 19 israeliani.

Se si mantenesse l’attuale tasso di uccisioni entro la fine del 2023 il bilancio delle vittime palestinesi in Cisgiordania potrebbe risultare ben superiore alle 280 vittime, il che segnerebbe un aumento del 67% rispetto al conteggio dello scorso anno di 167, che era già il più alto registrato in quasi due decenni.

Incursioni controproducenti

I media israeliani affermano che le operazioni ad Aqbat Jabr mirano a reprimere una ripresa della resistenza nel campo.

Tuttavia Saleh Sanhourie, attivista politico e sociale, ha affermato che invece di soffocare la crescita dei gruppi armati, l’intensità e la frequenza delle operazioni militari stanno avendo l’effetto contrario.

“Questa quarta generazione di rifugiati non vede un futuro per sé sotto l’occupazione e, nonostante gli attacchi in corso, non hanno nessun altro posto dove andare. Quindi si stanno orientando verso la resistenza armata”, ha detto Sanhourie a MEE.

“Non appartengono a nessun partito politico e non sono finanziati da nessuno”, ha aggiunto.

Sanhourie e Aweidat sottolineano che i media occidentali omettono di mostrare lo squilibrio di potere tra l’equipaggiatissimo esercito israeliano che attacca un piccolo gruppo di giovani che spendono i pochi soldi che hanno per comprarsi le armi.

“È così che giustificano le uccisioni e gli attacchi quando in realtà hanno trasformato le nostre case in zona di guerra”, dice Sanhourie.

“Usano contro di noi bulldozer, razzi, aerei da combattimento, droni e un grande dispiego di soldati armati “.

Misure punitive

Oltre all’incremento di violenza militare nel campo Israele decreta regolarmente misure punitive contro i civili, come la revoca dei permessi di lavoro ai residenti del campo.

“Chiunque abbia un parente che sia stato ucciso o messo in prigione viene punito”, dice Sanhourie.

“Ci stanno punendo tutti, il che sta affossando la nostra economia”, aggiunge l’attivista, sostenendo che Israele vuole suscitare nella comunità del risentimento verso coloro che resistono.

Tuttavia ad Aqbat Jabr sta ottenendo l’effetto opposto, poiché tutti nel campo sono consci che “Insieme restiamo forti, in sintonia “. 

La politica delle punizioni collettive è estesa anche a Gerico, popolare meta turistica attraversata dai viaggiatori in visita in Cisgiordania.

Quest’anno le forze israeliane hanno messo Gerico sotto assedio due volte per settimane, sottraendo al settore del turismo decine di milioni di dollari secondo le stime ufficiali palestinesi.

La situazione nel campo profughi di Aqbat Jabr non è unica.

Le forze israeliane prendono sempre più di mira i campi profughi in tutta la Cisgiordania occupata, come si è visto nel campo profughi di Jenin, nel campo profughi di Nur Shams a Tulkarem e nel campo profughi di Shuafat a Gerusalemme.

Ma mentre i raid diventano sempre più letali e intensi sembrano emergere sempre più gruppi armati, che sfidano l’occupazione israeliana e probabilmente affronteranno ulteriori violenze da parte dei militari.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)