Israele prende di mira gli operatori del pronto soccorso palestinese nella Cisgiordania occupata

Redazione di Al Jazeera

20 agosto 2023 – Al Jazeera

Le Nazioni Unite dicono che quest’anno 77 operatori sanitari sono stati feriti e 30 ambulanze sono state danneggiate mentre cercavano di soccorrere i palestinesi.

Il più recente attacco israeliano dello scorso mese contro il campo profughi di Jenin, nella zona settentrionale della Cisgiordania occupata, è stato descritto come un “massacro” da funzionari e abitanti locali e condannato dalle Nazioni Unite, ma è lungi dall’essere unico per ampiezza e crudeltà.

Sabato, in occasione della Giornata Mondiale dell’aiuto umanitario, la coordinatrice umanitaria dell’ONU Lynn Hastings ha rilasciato una dichiarazione in cui si dice che 77 operatori sanitari sono stati feriti e 30 ambulanze sono state danneggiate durante attacchi, proteste o anche solo in giorni normali.

Hastings ha precisato che il primo soccorso è costituito da ong con volontari, medici, infermieri, addetti comunali e altri che spesso rischiano le proprie vite mentre portano aiuto.

Hastings continua dicendo che sono ostacolati “dall’occupazione israeliana, da divieti di spostamento, divisioni politiche, conflitti ricorrenti e persino dai tentativi di denigrare il loro lavoro”.

Nel corso di vari anni innumerevoli testimoni sul campo hanno documentato deliberate azioni israeliane che prendono di mira gli addetti al soccorso che non mostrano di volersi fermare.

Personale medico bersagliato

Omar Azzam, coordinatore legale degli aiuti umanitari internazionali presso la società palestinese della Mezzaluna Rossa ha riferito ad Al Jazeera che dall’inizio del 2023 ad oggi ci sono state 193 reati delle forze israeliane a danno del personale medico nella Cisgiordania occupata.

Continua poi dicendo che si tratta di aggressioni dirette sul campo, attacchi contro ambulanze, accessi vietati e ostruiti e feriti e malati presi di mira.

Solo a luglio sono stati registrati 10 attacchi diretti contro il personale medico, con uso di gas e proiettili veri, come nel caso di un volontario nel campo di Askar che stava offrendo assistenza” afferma Azzam “Aveva con sé un badge, ma gli hanno sparato a un piede, quindi intenzionalmente.”

A Gerusalemme il team di Azzam ha documentato 314 casi fino alla fine di giugno in cui al pronto soccorso è stato impedito di andare sul posto o sono stati costretti a cambiare veicolo senza tenere in considerazione la salute dei pazienti.

Hanno anche riferito di 80 casi di paramedici a cui le forze israeliane hanno negato completamente l’accesso ai feriti e 41 casi in cui hanno subito ritardi o sono stati ostacolati.

Inoltre nove pazienti sono stati rapiti mentre ricevevano cure mediche, cosa avvenuta persino dentro le ambulanze.

Azzam ha detto che durante il raid più recente a Jenin “un paziente, in condizioni critiche, è stato interrogato dentro l’ambulanza e poi, dopo che i paramedici sono stati aggrediti, è stato arrestato e trasferito su un veicolo militare di pattuglia.”

Strisciavo per terra’

Hamza Abu Hajar, un volontario della società palestinese di soccorso medico a Nablus, ha pagato un caro prezzo durante i sei anni in cui ha prestato assistenza.

Il ventisettenne ha detto ad Al Jazeera che lo scorso dicembre durante un raid israeliano a Nablus gli hanno sparato al petto con proiettili veri ed è rimasto tra la vita e la morte in un reparto di terapia intensiva per parecchi giorni.

Otto mesi dopo sto ancora soffrendo per le complicanze causate dalle pallottole entrate nel petto e uscite dalla schiena,” ha continuato.

Nel corso degli anni ho subito varie aggressioni da parte delle forze di occupazione. e sono stato colpito da proiettili, lacrimogeni e bombe assordanti per impedirmi di raggiungere i feriti, o sono stato attaccato persino da pattuglie dell’occupazione.”

Lo scorso mese le forze israeliane hanno sparato ad Amir Ahmad Amir, un volontario della Mezzaluna Rossa a Nablus.

Il venticinquenne, diventato padre tre mesi fa, era al campo profughi di Askar a Nablus per cercare di prestare assistenza medica a un minore quando i cecchini israeliani gli hanno sparato tre volte ad entrambe le gambe.

A carponi ho cercato di raggiungere un muro ma mi sparavano contro direttamente e deliberatamente. Alcuni hanno sparato alle scarpe che indossavo,” ha detto ad Al Jazeera dall’ospedale dove sarà operato per danni neurologici.

Dopo l’operazione di luglio a Jenin Israele ha detto che “garantisce l’assistenza umanitaria e non applica alcun limite all’accesso del personale medico, eccetto in luoghi dove le loro vite sono in pericolo a causa di uno scontro a fuoco”.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Basta ai palestinesi poter accedere alle proprie terre due volte all’anno?

Amira Hass

20 agosto 2023 Haaretz

L’Alta Corte di Israele ha respinto la petizione degli abitanti del villaggio di Anin per poter lavorare i propri terreni oltre il muro di separazione ogni giorno, ed ha stabilito che due volte a settimana fosse sufficiente. Ora l’esercito israeliano dice che gli agricoltori potranno accedere ai propri terreni solo due volte all’anno.

I contadini del villaggio di Anin vogliono lavorare la propria terra ogni giorno, perciò hanno chiesto che il varco nella barriera di separazione che divide i loro campi dal villaggio venisse aperto quotidianamente, non due volte a settimana. Hanno inoltrato questa richiesta nel 2007, circa cinque anni dopo che Israele ha costruito il muro sulla loro terra, ma è stata respinta.

Un anno fa hanno nuovamente fatto la richiesta, di nuovo rifiutata e in marzo hanno presentato una petizione all’Alta Corte di Giustizia. Allora l’esercito ha informato loro e la Corte che in realtà sta programmando di rendere “stagionale” l’apertura del varco: invece di due volte alla settimana, verrà aperto due volte all’anno per l’aratura e la raccolta delle olive. E se i contadini sono così desiderosi di recarsi sul proprio terreno ogni giorno potranno guidare per 25 chilometri, sia per andare che per tornare, attraverso un altro varco. Quindi l’Ufficio del Procuratore di Stato ha raccomandato alla Corte di respingere la petizione.

I giudici non hanno nemmeno tenuto un’udienza con i richiedenti e la loro avvocata, Tehila Meir dell’associazione israeliana per i diritti HaMoked. Nella prima settimana di agosto hanno semplicemente emesso la sentenza: due giorni alla settimana sono ampiamente sufficienti, ha scritto la giudice Ruth Ronnen in accordo con i suoi colleghi Yael Willner e Alex Stein. Se davvero il varco diventasse stagionale i richiedenti potrebbero tentare un ricorso legale, ha precisato.

Dei circa 17.000 dunam (4.200 acri) del villaggio in Cisgiordania, 11.000 sono incastrati tra il muro di separazione e la Linea Verde, in un’enclave di 31.000 dunam. E’ l’enclave di Barta’a, che ospita 7.000 palestinesi in sette villaggi, il più grande dei quali è la stessa Barta’a. Ci vivono anche circa 3.000 coloni in quattro insediamenti; c’è pure una zona industriale israeliana.

E’ difficile dire che è la Cisgiordania e non Israele. I lavori di costruzione e altri lavori per lo sviluppo nei villaggi palestinesi sono pesantemente limitati. I palestinesi che non vivono nell’enclave sono impossibilitati ad entrare, anche se pochi privilegiati ricevono un permesso speciale. Sono i residenti dei villaggi ad est del muro, i cui terreni si trovano ad ovest del muro di cemento (fino a poco tempo fa una staccionata), come gli abitanti di Anin.

Viaggio estenuante, lunga attesa

I soldati aprono il varco a Anin solo il lunedì e il mercoledì e solo due volte al giorno per brevi periodi: dalle 6,50 alle 7,10 del mattino e dalle 15,50 alle16,10 del pomeriggio. Il varco si trova a 5 minuti di cammino dalle case dei richiedenti e la loro terra dista dai 5 ai 20 minuti dal varco.

Prima del 1948 Anin aveva 45.000 dunam”, dice al telefono a Haaretz il capo del consiglio del villaggio Mohammed Issa. Circa 27.000 di essi sono finiti in Israele. Dal 2002 la maggior parte della terra coltivabile che ci è rimasta è al di là del muro. Ogni famiglia ha il terreno là.”

Ottenere un permesso per entrare nei terreni coltivabili è una procedura molto complicata; i permessi sono concessi solo agli abitanti i cui documenti di proprietà soddisfano le condizioni dell’Amministrazione Civile israeliana in Cisgiordania. Inoltre occorre provare la parentela diretta con i proprietari (cioè coniugi e figli; i nipoti non ottengono i permessi). Tutto ciò è sottoposto ad un rigoroso controllo burocratico e di sicurezza. Il permesso va rinnovato ogni pochi mesi, ogni anno o ogni due anni, a seconda del tipo di permesso.

Gli abitanti di Anin che fanno la procedura attraverso il controllo dell’Amministrazione Civile e il servizio di sicurezza dello Shin Bet possono raggiungere la loro terra attraverso il varco di Barta’a, 25 chilometri a sud. Questo varco è aperto tutti i giorni, ma è un viaggio di circa un’ora e mezza da Anin e la strada è in parte costituita da pista sterrata che solo un trattore o un veicolo fuoristrada possono percorrere.

Questo lontano posto di blocco è utilizzato da centinaia di palestinesi di altri villaggi che vivono nell’enclave di Barta’a o hanno dei permessi per attraversarla, perciò per passare di là vi sono lunghe attese specialmente al mattino – il momento migliore per l’attività agricola.

Tanto per cominciare, passare con un trattore richiede un permesso che spinge i richiedenti ad una corsa a ostacoli burocratica. I contadini che portano attrezzi da lavoro attraverso il varco di Barta’a devono subire un lungo controllo di sicurezza – e poi, dopo circa due ore in strada, devono tornare di nuovo verso nord per guidare fino al loro terreno che è a portata di vista e di cammino dalle loro case.

Anche gli alti costi del viaggio spaventano i richiedenti: 80 shekel (21,20 dollari) al giorno con il proprio veicolo, oppure 60 shekel al giorno col trasporto pubblico, che non è disponibile a tutte le ore del giorno.

Tutte queste argomentazioni, dettagliate nella petizione da Meir di HaMoked, non hanno convinto i giudici. Ronnen si è allineata all’esercito e all’Amministrazione Civile in ogni aspetto, affermando che “le uniche colture attualmente esistenti nei terreni sono uliveti che richiedono una coltivazione solo stagionale durante le stagioni dell’aratura e della raccolta.” Ha aggiunto che “i richiedenti non contestano questa affermazione”.

Invece i richiedenti la hanno contestata. Una replica di Meir alla risposta dell’Ufficio del Procuratore di Stato alla petizione afferma che prima della costruzione del muro di separazione i contadini del villaggio coltivavano cereali come grano e frumento e verdure come pomodori, cipolle, sesamo e cetrioli. La costruzione del muro e la limitazione dei giorni in cui si può attraversarlo hanno costretto gli agricoltori a rinunciare alle colture che necessitano di irrigazione, cura e sorveglianza quotidiane, ha detto Meir.

La linea dura della Corte

Durante una visita al varco a maggio, su iniziativa dell’esercito e dell’Ufficio del Procuratore di Stato dopo che è stata presentata la petizione, gli agricoltori hanno spiegato la situazione agli alti funzionari, come documentato da Meir, che ha partecipato all’incontro con altre persone di HaMoked. Meir ha allegato alla sua risposta un parere di Bimkom, un’associazione israeliana per i diritti che perora l’uguaglianza nella pianificazione ed ha lavorato per molti anni con le comunità palestinesi nell’enclave di Barta’a.

Fornendo dati e fotografie aeree, Bimkom dimostra che molti degli appezzamenti di terra di Anin, che prima del 2000 erano intensamente coltivati, sono inariditi a causa delle restrizioni all’ingresso. Gli alberi negli uliveti di Anin, che non necessitano di irrigazione, sono meticolosamente curati.

Alla domanda se gli abitanti del villaggio sperassero di tornare a coltivare verdura, grano e cereali, Issa, il capo del consiglio del villaggio, ha risposto a Haaretz: “Adesso stiamo parlando di come mantenere e salvare ciò che abbiamo, gli alberi che abbiamo.”

E’ indignato dalla sentenza secondo cui il varco sarà aperto solo due volte all’anno. “Una mandria di buoi (da un vicino villaggio israeliano nell’area di Wadi Ara) raggiunge i nostri alberi e li danneggia, perciò dobbiamo essere là ogni giorno”, ha detto Issa.

Il timore è che ciò che succede in altri luoghi dove l’esercito e l’Amministrazione Civile concede l’ingresso ai contadini solo due o tre volte all’anno avverrà anche ad Anin: gli uliveti verranno invasi dai cardi selvatici e devastati da frequenti incendi boschivi e la loro produzione diminuirà drasticamente.

Nella loro risposta alla petizione gli avvocati dell’Ufficio del Procuratore di Stato, Yael Kolodny e Jonathan Berman, hanno sostenuto a nome dell’esercito e dell’Amministrazione Civile che il varco viene usato dagli abitanti di Anin con permessi agricoli soprattutto per entrare senza autorizzazione in Israele. Hanno detto di sostenere questo sulla base di un filmato di un drone e di una improvvisa visita al varco alla fine di marzo, quando sono state interrogate le persone che lo attraversavano. Hanno detto che molti avevano con sé un cambio di abiti e alcuni erano “vestiti elegantemente”. Nessuno aveva attrezzi da lavoro, hanno aggiunto gli avvocati.

In risposta i contadini hanno detto a Meir che alcuni di loro effettivamente escono di casa in abiti puliti e si cambiano in tenuta da lavoro, che indossano anche per riparare veicoli, per costruire, per tinteggiare le case e svolgere altre attività. Inoltre i lavoratori che attraversano il varco normalmente lasciano i loro attrezzi nell’appezzamento piuttosto che portarli avanti e indietro. Meir ha scritto, citando Bimkom, che gli uliveti curati dimostrano che i contadini si recano regolarmente dove sono gli alberi e se ne prendono cura con dedizione.

Quanto al filmato del drone, Meir ha scritto che è stato ripreso in Cisgiordania e non mostra nessuno che entra in Israele. I richiedenti, che hanno notato il drone, dicono che il filmato è selettivo, mostra persone che salgono nelle auto (che secondo l’esercito le portano in Israele), ma non mostra quelli che continuano a piedi fino ai loro appezzamenti. I richiedenti aggiungono che alcuni contadini trovano dei passaggi in auto israeliane (di proprietà di palestinesi cittadini dello Stato) per arrivare più in fretta ai loro terreni.

Meir ha detto a Haaretz che la sentenza mostra un drastico peggioramento nel rispetto da parte della Corte degli obblighi dello Stato verso i palestinesi danneggiati dal muro di separazione. Ha sottolineato che la Corte ha approvato la costruzione del muro all’inizio del 2000 dopo che lo Stato si è impegnato a ridurre i danni ai palestinesi separati dai loro terreni al minimo indispensabile, consentendo loro un accesso ragionevole alle loro terre.

Ora che accade che l’accesso non sia ragionevole, la Corte respinge l’appello dei contadini senza un’udienza, ha precisato. “E’ triste vedere quanto poco costi considerare giustificabile danneggiare i diritti umani dei palestinesi che cercano di lavorare i propri terreni”, ha detto Meir.

HaMoked ha anche evidenziato un altro inquietante aspetto della sentenza: i giudici hanno stabilito che queste terre “formalmente” appartengono all’ “area di Giudea e Samaria”, la Cisgiordania, che è occupata da Israele dal 1967. Questa affermazione indica che nella sostanza, al contrario che nella forma, questo territorio palestinese, noto in gergo militare come “zona di congiunzione”, non fa parte dell’ “area di Giudea e Samaria.”

Così c’è soltanto un passo tra la sentenza della Corte ed il suo assenso all’annessione della terra oltre il muro. I giudici sanno bene che solo gli israeliani e i turisti stranieri hanno libero accesso a questa area, mentre i palestinesi ne sono del tutto impediti, e che solo le colonie e l’Amministrazione Civile vi possono mettere in atto piani edilizi, mentre le autorità locali palestinesi, che posseggono questa terra, non possono. Del resto la Corte ha approvato questo stato di cose nel 2011.

Fondamentalmente oltre 500 chilometri quadrati di terra (9,4% dell’intera Cisgiordania) sono imprigionati tra il muro di separazione e la Linea Verde. Quindi la realtà è che un’enorme fetta di terra è stata sostanzialmente annessa ad Israele senza una dichiarazione “formale”.

Per adempiere alla promessa dello Stato di permettere ai contadini di lavorare la propria terra sono stati costruiti 79 varchi nel muro di separazione. Solo cinque sono aperti tutto il giorno, 11 sono aperti per poco tempo due o tre volte al giorno e 10 sono aperti per alcuni brevi intervalli due o tre giorni alla settimana.

Con la chiusura del varco di Anin questo numero scenderà a 9 e il varco di Anin si aggiungerà a 53 altri “varchi stagionali”, aperti solo alcuni giorni all’anno per l’aratura, la raccolta e a volte per diserbare. La gente di Anin ha tempo fino a lunedì per fare appello contro la decisione di chiudere il loro varco.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Due israeliani sono stati uccisi in un attacco con armi da fuoco in Cisgiordania

Redazione di MEE

19 agosto 2023- Middle East Eye

L’ incidente mortale è avvenuto vicino alla città palestinese di Huwwara, teatro di recenti attacchi selvaggi da parte dei coloni israeliani.

L’esercito ha dato la notizia che due israeliani sono stati uccisi sabato da presunti palestinesi armati nella Cisgiordania occupata.

La sparatoria è avvenuta vicino alla città settentrionale di Huwwara, teatro di numerosi attacchi selvaggi da parte di coloni ebrei israeliani negli ultimi mesi.

I servizi di emergenza israeliani hanno detto che un uomo sulla trentina e un uomo sulla sessantina sono stati colpiti da due aggressori in un autolavaggio. Non si conoscono ancora le identità degli assalitori. Secondo i primi resoconti citati dai media israeliani, l’attacco avrebbe avuto “motivazioni criminali”.

L’esercito israeliano comunica di aver chiuso diverse strade nella zona e che è in corso una caccia all’uomo.

Huwwara, che gli israeliani attraversano per raggiungere gli insediamenti illegali, è diventata quest’anno un punto critico a seguito dei precedenti attacchi mortali contro israeliani e delle violente incursioni dei coloni israeliani “in cerca di vendetta”.

A febbraio a Huwwara e in altre città e villaggi della Cisgiordania un palestinese è stato ucciso e quasi 400 feriti sotto la furia dei coloni, come riportato dai funzionari sanitari palestinesi.

I coloni hanno bruciato almeno 35 case, ne hanno parzialmente danneggiate altre 40 e molti edifici sono stati dati alle fiamme mentre i loro abitanti palestinesi si erano rifugiati all’interno.

Inoltre più di 100 auto sono state bruciate o distrutte in altro modo.

Negli ultimi due anni la Cisgiordania ha registrato un picco della violenza a seguito dell’aumento delle incursioni israeliane e degli attacchi dei coloni.

Solo questa settimana due palestinesi sono morti per le ferite riportate in precedenza durante i raid delle forze israeliane.

Secondo un conteggio di Middle East Eye in un anno almeno 215 palestinesi sono stati uccisi dal fuoco israeliano, tra cui 37 minori: un tasso di quasi una vittima al giorno.

Da gennaio in Cisgiordania e a Gerusalemme Est sono morte in totale 179 persone, rendendo il 2023 uno degli anni più sanguinosi nella Palestina occupata. Altre 36 persone sono state uccise nella Striscia di Gaza.

Nel frattempo i palestinesi, nello stesso periodo, hanno ucciso 28 israeliani, tra cui sei minori.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Truppe israeliane uccidono due palestinesi, di cui un minorenne, nel corso di un raid a Gerico

Redazione di Middle East Eye

15 agosto 2023 Middle East Eye

Qusai al-Walaji, 16 anni, e Mohammed Najum al-Omar, 25 anni, uccisi a colpi d’arma da fuoco nell’ultima operazione militare nel campo profughi di Aqbat Jabr.

Il Ministero della salute palestinese ha dichiarato che martedì mattina le truppe israeliane hanno ucciso due palestinesi nel corso di un raid nel campo profughi di Aqbat Jabr, nella città occupata di Gerico, in Cisgiordania.

Qusai al-Walaji, 16 anni, e Mohammed Najum al-Omar, 25 anni, sono stati colpiti da proiettili veri dopo che le forze israeliane hanno preso d’assalto il campo con violente irruzioni in diverse case e arresti degli abitanti.

Walaji e Omar sono stati portati al Jericho Government Hospital, dove poco dopo sono stati dichiarati morti.

“Due giovani sono stati portati d’urgenza in ospedale con dei proiettili nel torace”, ha riferito alla Reuters il direttore dell’ospedale.

Durante il raid sono scoppiati scontri armati tra gli abitanti del campo e le forze israeliane, ma non è chiaro se i due uomini fossero coinvolti, hanno detto i residenti a Reuters.

Secondo la Associazione dei Prigionieri Palestinesi di Gerico durante l’operazione le forze israeliane hanno arrestato un palestinese di 20 anni.

Aqbat Jabr ospita circa 30.000 persone ed è in termini di superficie il più grande campo profughi della Cisgiordania occupata.

Venne istituito nel 1948 per ospitare i rifugiati sfollati in seguito alla Nakba, o catastrofe, quando 750.000 palestinesi furono espulsi per far posto alla costituzione dello Stato di Israele.

Ultimissima irruzione nel campo di Aqbat Jabr

Negli ultimi mesi il campo è stato un obiettivo regolare dei raid militari israeliani, nonostante Gerico sia una città turistica meno soggetta alla violenza israeliana rispetto ad altre parti della Cisgiordania.

A febbraio soldati israeliani hanno ucciso cinque membri del gruppo di resistenza Brigata Aqbat Jabr durante quello che è stato descritto come un “raid di 15 minuti”.

Da allora sono stati uccisi nel campo dalle forze di sicurezza israeliane altri quattro palestinesi, tra cui due minorenni: il diciassettenne Jibril Muhammad al-Lada’a e il quindicenne Mohamed Faiz Balhan.

Il raid di martedì porta a 11 il numero di palestinesi uccisi quest’anno dalle forze israeliane nel campo profughi.

Middle East Eye ritiene che quest’anno almeno 212 palestinesi, di cui 37 minori, siano stati uccisi dal fuoco israeliano: un tasso di quasi un decesso al giorno.

Quest’anno sono morte in Cisgiordania e Gerusalemme Est 176 persone in totale, rendendo il 2023 uno degli anni più sanguinosi nei territori palestinesi occupati. Altre 36 persone sono state uccise nella Striscia di Gaza.

Nel frattempo nello stesso periodo i palestinesi hanno ucciso 26 israeliani, di cui sei minori.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Riepilogo delle notizie: irruzione ad Al-Aqsa, bambini aggrediti, auto di un disabile sequestrata dai militari

Redazione di Palestine Chronicle (PC, WAFA)

15 agosto 2023 – Palestine Chronicle

Soldati israeliani e coloni armati continuano la loro campagna di persecuzione e violenza contro i palestinesi in tutta la Cisgiordania. Di seguito gli aggiornamenti con le ultime notizie dall’agenzia di notizie palestinese WAFA.

Parco demolito vicino Salfit

WAFA ha riferito che le forze di occupazione israeliane hanno demolito un parco e sradicato gli alberi nel villaggio di Qarawat Bani Hassan, ad ovest della città di Salfit nella Cisgiordania occupata.

Il governatore di Qarawat Bani Hassan, Ibrahim Asi, ha detto all’agenzia WAFA che

le forze di occupazione hanno fatto irruzione nell’area Abu Ammar Well, a nord-ovest del villaggio, demolito il parco, rimossa l’erba artificiale, rotto i lampioni, le panchine, le celle ad energia solare e hanno sradicato gli alberi”.

È rilevante il fatto che “l’area del Pozzo di Abu Ammar è soggetta a continue violazioni delle forze di occupazione e dei coloni, che stanno cercando di impadronirsene per creare l’avamposto di una colonia.”

Aggressione ai bambini vicino a Nablus

Secondo fonti locali citate dall’agenzia WAFA lunedì sera i palestinesi che abitano nel villaggio di Yatma, situato a sud di Nablus nella zona nord della Cisgiordania occupata, hanno respinto un’aggressione di coloni ebrei illegali contro bambini nel villaggio di Al-Sawyah.

Le fonti hanno detto al corrispondente di WAFA che

gli abitanti sono riusciti a respingere una aggressione contro un certo numero di bambini palestinesi inseguiti dai coloni all’ingresso del villaggio.”

Sequestrata l’auto di un disabile

L’agenzia WAFA ha riferito che, secondo il proprietario dell’auto, Shadi Daraghmeh di 32 anni, abitante nel campo profughi di Qalandia, lunedì notte i soldati dell’occupazione israeliana hanno sequestrato l’auto di un disabile palestinese quando è arrivato al posto di controllo dell’esercito a sud di Ramallah.

Daraghmeh ha detto che

i soldati lo hanno fermato al posto di controllo vicino al campo, tra Ramallah e Gerusalemme, mentre stava ritornando da Gerico e lo hanno obbligato ad uscire dall’auto nonostante la sua disabilità fisica.

I soldati lo hanno trattenuto per molte ore e maltrattato prima di decidere di sequestrare la sua auto, che è appositamente equipaggiata per i disabili, e lo hanno lasciato sulla sua sedia a rotelle finché qualcuno è andato a prenderlo.”

Irruzione ad Al-Aqsa

L’agenzia WAFA ha riferito che martedì mattina decine di estremisti ebrei israeliani, pesantemente protetti dalla polizia israeliana, si sono introdotti nel complesso della moschea di Al-Aqsa.

L’agenzia ha aggiunto che “i coloni estremisti, divisi in gruppi, hanno fatto irruzione nella sacra moschea islamica dalla porta al-Maghariba e si sono provocatoriamente aggirati nel complesso.”

Questo è avvenuto nel momento in cui le forze israeliane hanno intensificato le misure contro i palestinesi provenienti da Gerusalemme per entrare nella moschea, controllandone i documenti di identità e arrestandoli per un breve periodo.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




I coloni volevano il potere supremo. Hanno invece avuto una ribellione

Meron Rapoport

15 agosto 2023 +972

Il movimento religioso sionista da due decenni è largamente penetrato nello Stato e nella società israeliani. La riforma giudiziaria potrebbe far crollare tutto.

Sembra strano se si pensa che alla vigilia delle ultime elezioni israeliane Benjamin Netanyahu e il suo partito Likud non hanno dato molto peso alla riforma giudiziaria che sta ora dilaniando il Paese. In effetti, il partito non ha fatto campagna elettorale sulla riforma e il Primo Ministro vi ha appena fatto cenno nella prima riunione di governo dopo le elezioni.

Che il graduale disfacimento del sistema giudiziario sarebbe stato l’ultimo disperato tentativo di Netanyahu di evitare il possibile carcere per i suoi scandali di corruzione è ormai risaputo. Ma il vero motore dietro la riforma non è mai stato il Likud: era e rimane il progetto di punta del settore nazional-religioso, su cui si è concentrata l’agenda del Partito Religioso Sionista (PRS) che cerca di “riavviare il sistema legale”.

Nei giorni che hanno preceduto le elezioni il capo del PRS Bezalel Smotrich e il presidente del Comitato Costituzione, Legge e Giustizia della Knesset Simcha Rothman hanno resa nota quasi ogni singola clausola di quella che sarebbe diventata la riforma presentata dal ministro della Giustizia Yariv Levin. I due sono stati estremamente franchi sull’annullamento della clausola di ragionevolezza [conseguente al principio di uguaglianza impone che le disposizioni normative siano adeguate o congruenti al fine, ndt.], sulla politicizzazione dei consulenti legali del governo, sulla subordinazione del comitato per la nomina dei giudici ai capricci dei politici e, naturalmente, sulla clausola di deroga [in base alla quale una norma giuridica non trova applicazione oppure viene disapplicata in luogo di altra norma, ndt.]

Smotrich e Rothman non si sono preoccupati di nascondere i motivi razzisti e suprematisti della loro proposta di riforma. Attraverso la clausola di deroga, che consentirebbe alla Knesset di ribaltare con una maggioranza semplice qualsiasi decisione emessa dalla Corte Suprema, il governo potrà, secondo il suo programma, “rimandare gli intrusi [cioè i richiedenti asilo africani] al loro paesi di origine utilizzando il metodo della ‘selezione naturale’ [non si spiega cosa si intenda con questa asserzione biologica]; emanare una legge sulla coscrizione [per esentare gli ultra-ortodossi dal servizio militare]; rimettere in vigore la legge di regolarizzazione [emanata nel 2017 e revocata dalla Corte Suprema nel 2020, ndt.] che correggerà un’ingiustizia di lunga data e consentirà di legalizzare le colonie israeliane in Giudea e Samaria, stabilite in buona fede e con il coinvolgimento del Governo su terreni privati [palestinesi], fornendo un equo risarcimento a coloro che dimostrano dei diritti su quelle terre; emanare una legge di conversione di Stato [collegata alla legge sul ritorno per gli ebrei, ndt.] che impedirà l’assimilazione [agli ebrei] e la minaccia di una politica di immigrazione, e altro ancora “.

Contrariamente a quanto i suoi sostenitori possano affermare oggi, la riforma non riguarda ciò che Rothman ha chiamato in seguito “riparare le tubature”. È invece un’ambiziosa revisione che è stata progettata, prima di tutto, per stabilizzare l’apartheid nei territori occupati e sancire la supremazia religiosa e nazionale ebraica all’interno di Israele.

Proprio perché la riforma giudiziaria è in gran parte un progetto del movimento dei coloni – Rothman vive in un avamposto illegale a Gush Etzion e Smotrich a Kedumim nel nord della Cisgiordania – dovrebbe sorprendere che Makor Rishon, il giornale più identificato con la destra dei coloni, si sia espresso a favore di un blocco totale della riforma giudiziaria. “Con il consenso o senza il consenso, con la parola o con il silenzio, la riforma deve essere abbandonata”, ha scritto Hagai Segal, redattore del giornale e fino a poco tempo fa caporedattore. “Dobbiamo abbandonarla immediatamente e annunciare alla nazione: stiamo fermando tutto”.

Le parole di Segal sono state riprese da altri giornalisti di Makor Rishon. Suo figlio, Amit Segal, uno dei giornalisti più influenti del Paese, è arrivato persino a scrivere che Netanyahu è stato “trascinato” nella riforma dal Ministro della Giustizia Levin. Nel frattempo, in seguito all’approvazione il mese scorso del disegno di legge che abolisce la clausola di ragionevolezza, la destra dei coloni ha lanciato una campagna di love bombing [bombardamento amoroso, tentativo di influenzare le persone con dimostrazioni di attenzione e affetto, possibile parte di un ciclo di abusi, ndt.] per cercare di riunire israeliani di fazioni politiche opposte in un dialogo.

Nel complesso è chiaro che la riforma giudiziaria è al centro di un fallimento nelle pubbliche relazioni anche all’interno dell’estrema destra israeliana.

L’elite isreliana nel 2023

Per essere chiari, la destra dei coloni non ha riserve sulla riforma stessa. Come ha scritto Hagai Segal, se combattere la “tirannia dell’Alta Corte” è una necessità, è più importante “l’armonia domestica”, in modo che la nazione possa dedicarsi a compiti altrettanto importanti come “la sorveglianza dell’Area C in Giudea e Samaria [la Cisgiordania] e mantenere la meshilut [gestione] all’interno della Linea Verde”. In altre parole, andare avanti con la riforma può effettivamente interferire con la continuazione dell’occupazione.

Questo è un punto chiave. Per il movimento dei coloni il trauma del disimpegno da Gaza nel 2005 è stato più grave della rimozione di 9.000 coloni e lo smantellamento delle loro colonie; la ferita che non si è mai rimarginata, ai loro occhi, è l’idea che il movimento delle colonie sia stato lasciato solo nella lotta per il “Grande Israele”. La società in generale, compresi i tradizionali elettori di destra del Likud, era sembrata abbastanza disinteressata al progetto.

Infatti la maggioranza dell’opinione pubblica israeliana era favorevole al disimpegno, come fu manifesto nelle elezioni del 2006: i partiti di destra contrari al ritiro da Gaza registrarono un minimo storico di 32 seggi (di cui 12 per il partito Yisrael Beiteinu di Avigdor Liberman, i cui elettori non erano troppo coinvolti nella lotta). Oggi, in confronto, il Likud e il Partito Religioso Sionista hanno un totale di 46 seggi alla Knesset.

La lezione per il movimento nazional-religioso fu che per mantenere la sua iniziativa nei territori occupati avrebbe dovuto lasciare la Cisgiordania e “stabilirsi nei cuori” della società ebraica. Questo è stato il progetto principale negli ultimi 15 anni: normalizzare gli insediamenti e rendere invisibili la Linea Verde e l’occupazione.

Questa mossa si è manifestata con una sempre maggiore presenza di ufficiali nazional-religiosi nell’esercito, una presenza molto ampia nella funzione pubblica a tutti i livelli (l’attuale commissario della funzione pubblica e il supervisore dei conti, l’ex procuratore generale e l’ex commissario di polizia provengono tutti dal settore nazional-religioso, e questa è solo la punta dell’iceberg), un ingresso massiccio nel panorama dei media e la creazione di una rete di think tank di destra, il più noto dei quali è il Kohelet Forum, un artefice della riforma.

Difatto se c’è un gruppo omogeneo che può valere come élite israeliana nel 2023 sono i coloni e i nazional-religiosi. Sette dei 33 ministri del governo provengono da questo settore, più due ministri non religiosi che vivono in Cisgiordania. La loro egemonia è evidente anche nel discorso pubblico: oggi è impossibile trovare parole come “occupazione”, “Cisgiordania” o persino “hitnahlut” [comune termine ebraico per le colonie nei territori occupati] nei media più popolari in Israele.

Ma è proprio la riforma giudiziaria – che i coloni hanno concepito per le loro urgenze nazionaliste-religiose e che avrebbe dovuto portarli all’apice del potere – che minaccia di distruggere ciò che erano riusciti a ottenere dal disimpegno di Gaza.

Ciò che è iniziato a gennaio con le educate manifestazioni della classe medio-alta israeliana si è trasformato in una ribellione non solo contro la riforma e l’attuale governo ma contro l’intero regime di destra e contro il nazionalismo teo-etnocratico che ne è alla base.

Di fronte a questa ribellione il movimento dei coloni si trova in una situazione particolarmente vulnerabile. I partiti ultra ortodossi (Haredi), che sono stati partner a pieno titolo nella riforma, possono ancora chiedere di correggere la rotta e sognare di partecipare ad un potenziale futuro governo guidato da Benny Gantz. Anche il Likud può fantasticare di un governo di unità nazionale, in particolare se Netanyahu finirà per firmare un patteggiamento sui suoi casi di corruzione. I nazional-religiosi sono entrati così a fondo nella destra fascista che se cade l’attuale governo, cadranno anche loro.


Rompere i tabù

È difficile per i nazional-religiosi legarsi al discorso anti-élite che sentiamo arrivare da certe correnti del Likud per screditare i manifestanti. Se i piloti e i lavoratori tecnologici sono già etichettati come “privilegiati ashkenaziti [ebrei di provenienza europea, ndt.]”, come saranno etichettati i sionisti religiosi la cui leadership è chiaramente ashkenazita, che in realtà godono di privilegi che non ha nessun altro gruppo nella società israeliana e che sono stati parte integrante del governo sin dalla fondazione dello Stato?

Ma, anche più importante, i coloni hanno inconsapevolmente creato un collegamento diretto tra la sfacciata violenza contro i palestinesi in Cisgiordania e il colpo di stato giudiziario. Il pogrom di Huwara, seguito dall’appello di Smotrich a spazzare via la città, è stato uno spartiacque nel modo in cui il movimento di protesta si è rapportato all’estrema destra. Slogan come “Dov’eri a Huwara?” diretti agli agenti di polizia sono diventati parte del repertorio delle proteste, anche tra coloro che in precedenza non avevano mai pensato molto all’occupazione.

I pogrom che sono seguiti hanno ulteriormente rafforzato questo legame. Oggi è difficile trovare un solo oratore che salga sul palco delle proteste a Tel Aviv e non faccia un collegamento tra la riforma giudiziaria, i pogrom in Cisgiordania e la supremazia ebraica – un collegamento che fino a poco tempo fa era tracciato esclusivamente dalla sinistra radicale. Il velo con cui il sionismo religioso ha cercato di nascondere la realtà dell’occupazione e dell’oppressione dei palestinesi è stato strappato.

Mentre le proteste continuano a sfidare il dominio della destra e i politici di estrema destra iniziano a sostenere apertamente la violenza dei coloni, la destra stessa è diventata oggetto della rabbia dei manifestanti. L’uccisione all’inizio di questo mese da parte dei coloni di Qosai Jammal Mi’tan, un palestinese del villaggio di Burqa, ha portato questa connessione al culmine. “Falangi di ebrei fascisti intrisi di un falso senso di superiorità compiono pogrom nei villaggi arabi”, ha detto Shikma Bressler, leader de facto del movimento di protesta, sul palco di Tel Aviv. “Milizie assassine al servizio del governo che ci sta portando alla distruzione”.

Brothers in Arms, un’organizzazione di riservisti dell’esercito israeliano contrari alla riforma giudiziaria, di cui alcuni membri hanno attaccato il mese scorso gli attivisti del blocco anti-occupazione, ha definito i pogromisti a Burqa “braccio militare di Otzma Yehudit [partito politico di estrema destra, kahanista e anti-arabo, ndt.] – un corpo che dovrebbe essere dichiarato organizzazione terrorista.” Il generale di brigata Ilan Paz, ex capo dell’Amministrazione Civile, l’organo militare che sovrintende alla vita quotidiana in Cisgiordania, si è pubblicamente chiesto quando verrà il giorno in cui invocherà il rifiuto di massa a prestare servizio nei territori occupati.

E sebbene Hagai Segal abbia scritto il suo articolo prima dell’uccisione a Burqa, lui e altri nel campo nazional-religioso si rendono conto che il movimento di protesta non solo è molto più forte di quanto si rendessero conto all’inizio, ma che è disposto a infrangere tabù che nessuno immaginava si potessero infrangere, come l’obiezione di coscienza. Ai loro occhi, il mantenimento della riforma giudiziaria significa la continuazione delle proteste. E la continuazione delle proteste potrebbe erodere ulteriormente la volontà di molti nella società israeliana di continuare a finanziare il progetto delle colonie e rischiare la vita per difenderlo. Pertanto, è meglio rinviare le riforme fino a data da destinarsi.

Naturalmente i coloni sono tutt’altro che deboli. Smotrich sta rafforzando il suo controllo in Cisgiordania, la violenza dei coloni sta espellendo le comunità palestinesi e la probabilità che gli assassini di Mi’tan vengano processati è molto bassa. E nemmeno significa che vedremo un consenso, da Gantz a Bressler, per smantellare le colonie o un riconoscimento che l’obiettivo finale della riforma è preservare l’occupazione e l’apartheid – che devono essere entrambi smantellati per stabilire una vera democrazia tra il fiume (Giordano) e il mare (Mediterraneo). Ma è possibile a questo punto affermare che il movimento dei coloni non può più “stabilirsi nei cuori” della società israeliana.

Questo articolo è stato originariamente pubblicato in ebraico su Local Call. Meron Rapoport è redattore di Local Call.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Sempre più sionisti stanno infine ammettendo l’apartheid israeliano, ma poi cosa succede?

Jonathan Ofir

14 agosto 2023 – Mondoweiss

Il generale israeliano in pensione Amiram Levin e il giornalista sudafricano Benjamin Pogrund sono gli ultimi a intervenire sull’apartheid israeliano. Adesso sorge la domanda: che cosa intendono fare in proposito?

Ora che vi è consenso all’interno della comunità dei diritti umani sul fatto che Israele sia uno Stato di apartheid, molti incominciano ad ammetterlo, persino alcuni insigni israeliani e apologeti di Israele. Ma anche se affermano ciò che è evidente, cercano comunque di limitare il danno e al tempo stesso di celare la propria personale responsabilità e provare a circoscrivere i possibili rimedi.

E’ cominciato forse all’inizio di quest’anno, quando lo storico giornalista israeliano di centro Ron Ben Yishai ha messo in guardia dall’incombente apartheid come il principale obbiettivo delle riforme giudiziarie dell’attuale governo. Ora il generale israeliano in pensione Amiram Levin ha rilasciato un’intervista alla radio Kan in Israele in cui ha fatto riferimento al “totale apartheid” nella Cisgiordania occupata:

Da 56 anni non vi è democrazia. Vige un totale apartheid. L’IDF (esercito israeliano), che è costretto a gestire il potere in quei luoghi, è in disfacimento dall’interno. Osserva dal di fuori, sta a guardare i coloni teppisti e sta iniziando a diventare complice dei crimini di guerra.”

In Israele Levin è considerato un liberale ed ha un passato scandalosamente razzista. In passato ha minacciato di “fare a pezzi i palestinesi” e “cacciarli in Giordania”, ha detto che “i palestinesi hanno meritato l’occupazione” e che nella maggioranza i palestinesi sono “nati per morire comunque, noi semplicemente li aiutiamo a farlo”. Eppure sì, egli vede un “totale apartheid”.

L’intervista viene sulla scia di una recente lettera agli ebrei americani che li rimprovera di ignorare l’apartheid, l’“elefante nella stanza”. Molti accademici e personaggi pubblici israeliani hanno firmato questa lettera che al momento ha ottenuto più di 1500 firme. Tra i firmatari vi sono anche convinti sionisti come Benny Morris. La lettera contiene suggerimenti di azione, compresa una richiesta al governo USA di sanzionare Israele:

Si chiede che i leader eletti negli Stati Uniti agevolino la fine dell’occupazione, impediscano che gli aiuti militari americani vengano usati nei Territori Palestinesi Occupati e mettano fine all’impunità israeliana alle Nazioni Unite e in altre organizzazioni internazionali.”

Un chiaro appello all’azione che, volutamente o no, riecheggia gli appelli che gli attivisti del BDS (Boicottaggio, Disinvestimento, Sanzioni) lanciano da quasi 20 anni. Ma non tutti approvano che il BDS si rafforzi come naturale risposta a questo apartheid.

La settimana scorsa Benjamin Pogrund, che è stato giornalista nel Sudafrica dell’apartheid, ha scritto un articolo su Haaretz intitolato “Per decenni ho difeso Israele dalle accuse di apartheid. Non posso più farlo.” Pogrund spiega di essere stato interpellato nel 2001 dall’allora Primo Ministro israeliano Ariel Sharon per far parte della delegazione governativa di Israele alla Conferenza Mondiale Contro il Razzismo a Durban: “Il governo Sharon mi invitò a causa della mia esperienza di un quarto di secolo come giornalista in Sudafrica; la mia specializzazione era riferire in dettaglio sull’apartheid.” Ma dice di non poterlo più difendere. Cita la legge razzista dello ‘Stato-Nazione’ del 2018, che codifica i diritti esclusivi per chi ha nazionalità ebrea. Poi c’è l’occupazione:

Israele non può più addurre la sicurezza come motivo del nostro comportamento in Cisgiordania e dell’assedio di Gaza. Dopo 56 anni la nostra occupazione non può più essere definita temporanea in attesa di una soluzione del conflitto con i palestinesi. Stiamo andando verso l’annessione, con la richiesta di raddoppiare i 500.000 coloni israeliani già presenti in Cisgiordania.”

Purtroppo Pogrund ha già “annesso” Gerusalemme est, che fa parte della Cisgiordania, che aggiungerebbe circa 250.000 persone al numero di coloni citati. Ma la sua osservazione sulla temporaneità è valida – è una parte importante del perché non può essere definita occupazione, che si presume essere temporanea. E poi, sorprendentemente, si scaglia contro il movimento per il Boicottaggio, Disinvestimento, Sanzioni per quello che definisce “ignoranza e/o malevolenza”:

In Israele sono ora testimone dell’apartheid in cui sono cresciuto. Israele sta facendo un regalo ai suoi nemici del movimento Boicottaggio, Disinvestimento, Sanzioni e ai loro alleati, soprattutto in Sudafrica, dove la negazione dell’esistenza di Israele è forte tra molti neri, nei sindacati e negli ambienti comunisti e musulmani. Gli attivisti del BDS continueranno a lanciare le loro accuse, frutto di ignoranza e/o malevolenza, diffondendo menzogne su Israele. Hanno trasformato ciò che è già negativo in grottesco, ma ora lo rivendicano. Israele gli sta dando ragione.”

Pogrund è stizzito. Questi attivisti BDS sono arrivati prima di lui nel chiedere di redarguire Israele, ma vuole avere il controllo su quando definire qualcosa apartheid e quando no, quando difenderlo e quando no. Gli attivisti BDS utilizzano una strategia consolidata per isolare lo Stato dell’apartheid. Pogrund non vuole che ciò accada, ma sa che è destinato ad accadere, perché Israele alla fine li legittimerà.

Che prospettiva confusa.

Sia Pogrund che Levin sono arrabbiati, ma è chiaro che la loro rabbia non è dovuta al crimine contro l’umanità che si compie contro i palestinesi, ma a ciò che accade a loro. Levin, un veterano dell’apparato di sicurezza di Israele e responsabile proprio del sistema che ora critica, si scaglia contro l’attuale governo. Non addita le proprie responsabilità e fa di tutto per dire che non sta esprimendo preoccupazione per i palestinesi.

Non sto dicendo questo perché mi importa dei palestinesi. Mi importa di noi. Ci stiamo uccidendo dall’interno. Stiamo disfacendo l’esercito, stiamo disfacendo la società israeliana”, dice. Ed è tutta colpa di “Bibi” (il soprannome di Netanyahu). “Bibi ha fallito”.

Ciò è estenuante: il tipico narcisismo israeliano. Non ci importa dei palestinesi. Guardate che cosa provoca a noi questa occupazione. 

E’ interessante come si stia diffondendo il riconoscimento dell’apartheid, ma dobbiamo stare attenti ai sionisti che cercano di prendere il controllo della narrazione e limitare il dibattito. L’apartheid israeliano non è qualcosa che accade “da qualche parte”. E’ l’apartheid dal fiume (Giordano) al mare (Mediterraneo); è dovunque. E queste risposte sono anche un buon promemoria del perché la supremazia ebraica non porrà fine a sé stessa dall’interno, l’unica risposta è dall’esterno.

Jonathan Ofir

Musicista israeliano, conduttore e blogger che vive in Danimarca.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




A Gaza il soddisfacimento dei bisogni primari è parte integrante della nostra liberazione

Mohammed R. Mhawish

11 agosto 2023 – +972 Magazine

Le proteste nella Striscia assediata evidenziano perché la leadership palestinese, pur sotto occupazione, deve curarsi sia della resistenza che della governance.

La scorsa settimana il governatorato meridionale di Khan Younis e altre aree al centro della Striscia di Gaza hanno assistito a scene di tensione quando diverse migliaia di palestinesi sono scesi in piazza per protestare contro le frequenti interruzioni di corrente, la scarsità di cibo e in generale la durezza delle condizioni di vita. Con la marcia al grido di “Bidna N’eesh” (“Vogliamo vivere”) le proteste di massa costituiscono un’espressione significativa del risentimento pubblico accumulato per anni tra la popolazione sotto assedio.

In risposta hanno sfilato dei cortei a sostegno di Hamas, il partito islamista che governa la Striscia, inneggiando al governo e aggredendo chi non esprimeva sostegno al movimento. Secondo quanto riferito, poco dopo è intervenuta la polizia che ha confiscato i telefoni cellulari ed effettuato numerosi arresti.

Le proteste sono seguite a giorni di intensa frustrazione e contrarietà nei confronti del governo di Hamas, dopo che un abitante di Khan Younis è rimasto ucciso in seguito al crollo di uno dei muri della sua casa mentre le autorità locali tentavano di demolirlo col pretesto che fosse stato costruito su una via pubblica. Le autorità hanno affermato che la morte dell’uomo sarebbe stata un tragico incidente e hanno licenziato il sindaco del Comune responsabile.

Sembra che le marce, per la loro dinamicità, brevità e impatto diretto, siano coordinate da movimenti di base attraverso piattaforme online e social media. Diversi palestinesi che erano tra la folla mi hanno detto che le loro proteste derivano da una richiesta fondamentale riguardante i loro diritti umani di base, che comprendono necessità come i servizi pubblici, occupazione, libertà di viaggiare e la possibilità di intraprendere attività commerciali fuori dalla Striscia. Al momento in cui scrivo il governo di Hamas non ha reso pubblica alcuna prospettiva di soluzione a nessuna di queste rimostranze, né di risposta alla rabbia della gente.

L’energia elettrica è al centro delle richieste dei manifestanti. Per quanto la crisi energetica di Gaza preceda le attuali proteste, le ondate di caldo torrido che quest’estate hanno investito la regione hanno portato le temperature nella Striscia oltre i 38 gradi. Il caldo non ha fatto che accentuare il crescente malcontento tra i 2,3 milioni di palestinesi che vivono nel territorio, confinati in una striscia di terra di circa 360 km2 che dal 2007 è stata tagliata fuori in seguito ad un blocco israeliano che colpisce ogni aspetto della vita quotidiana.

Questa frustrazione collettiva si è accumulata nell’arco di un considerevole periodo di tempo, poiché la popolazione di Gaza deve sopravvivere con razionamento che va dalle quattro alle sei ore di elettricità al giorno. Per far fronte alle prolungate interruzioni di corrente alcune abitazioni e aziende ricorrono a generatori privati o pannelli solari. Per altri che non possono permettersi apparecchiature così costose, modeste lampadine LED alimentate a batteria forniscono un’illuminazione improvvisata, mentre altri ancora cercano di combattere il caldo facendosi vento con vassoi di plastica.

Secondo gli enti energetici locali durante la stagione estiva Gaza necessita di circa 500 megawatt di energia elettrica al giorno. Tuttavia attualmente riceve da Israele solo 120 megawatt, con l’ulteriore contributo di 60 megawatt proveniente dall’unica centrale elettrica dell’enclave, ripetutamente danneggiata dagli attacchi militari israeliani e indebolita dalle restrizioni sull’importazione di materiali edili. Ultimamente i filmati dei social media hanno mostrato Gaza avvolta nell’oscurità notturna con poche luci nelle sue città.

Mentre l’opinione pubblica e l’Autorità Nazionale Palestinese guidata da Fatah in Cisgiordania attribuiscono le proteste di Gaza prevalentemente all’occupazione israeliana, molte persone credono che Hamas abbia ancora una certa possibilità, e l’obbligo, di avviare misure efficaci, anche aumentando la produzione e il funzionamento della centrale al massimo della potenza, soprattutto durante l’estate.

Sopportare il peso

Negli ultimi 16 anni Gaza è diventata un coacervo di avversità umanitarie, economiche e politiche. L’enclave ha vissuto diverse ondate di guerre mortali con Israele, la più devastante nell’estate del 2014. La chiusura imposta a tutti i valichi di Gaza ha fatto precipitare l’economia fino ad una condizione di degrado, portando a un forte aumento della disoccupazione e con conseguente grave scarsità di beni di prima necessità e altre risorse.

I palestinesi hanno dovuto attraversare divisioni significative all’interno della loro leadership politica, la più evidente delle quali rappresentata dagli scontri armati tra Fatah e Hamas nel 2007. Nelle elezioni parlamentari del 2006 Hamas assicurò la vittoria nei confronti delle altre fazioni arrivando a controllare la maggioranza in parlamento e la carica di primo ministro, mentre il leader di Fatah Mahmoud Abbas venne eletto alla presidenza.

Il governo palestinese venne subito sottoposto a sanzioni da parte di Israele, Stati Uniti e Paesi europei, con conseguente esacerbazione della rivalità tra fazioni che portò Hamas a conquistare Gaza. Da allora il territorio è sprofondato sotto il peso del rigido assedio israeliano.

Tuttavia le attuali manifestazioni a Gaza si distinguono per l’elevato livello di impegno pubblico e per il numero di manifestanti coinvolti. La gravità della situazione comprende molteplici aspetti e le condizioni di vita della popolazione stanno diventando sempre più difficili.

I palestinesi chiedono da tempo nuove elezioni generali esprimendo un’intensa richiesta di cambiamento. Eppure il sostegno pubblico ad Hamas a Gaza persiste e cresce la preoccupazione che le voci di coloro che cercano una qualche forma di cambiamento e ripristino dei propri diritti vengano soffocate, sia dalle autorità israeliane che da quelle palestinesi.

Ci sono diversi aspetti delle complessità in evoluzione tra gli attori politici palestinesi. Fatah e Hamas sono coinvolti in un continuo gioco di accuse reciproche, in quanto l’una attribuisce i problemi di Gaza all’altra. L’ANP sollecita Hamas a prendere iniziative, anche se ritiene principalmente responsabile Israele (con cui l’ANP collabora in base agli Accordi di Oslo) in quanto potenza occupante. Nel frattempo sono le persone a scontare le conseguenze e ad affrontare le deleterie ripercussioni, mentre continua la debole ricerca di una riconciliazione.

Ultimo ma non meno importante, il Jihad islamico, un tempo movimento marginale, è recentemente emerso come un attore significativo nel panorama geopolitico palestinese. Durante le ultime due guerre israeliane contro Gaza nell’agosto 2022 e nel maggio 2023 il Jihad islamico ha mostrato una capacità decisionale relativamente indipendente ed efficace sul fronte militare, sebbene cerchi ancora l’appoggio politico e militare di Hamas come autorità dominante.

Al di là della frammentazione sociale a Gaza e in Cisgiordania, un vincitore sta attualmente prendendo tutto: l’estrema destra israeliana, che mina incessantemente le fondamenta della lotta palestinese e porta avanti il suo progetto di disperdere permanentemente la popolazione palestinese in differenti enclave territoriali e politiche.

Sotto la guida di Benjamin Netanyahu l’attuale governo sta cogliendo ogni opportunità per consolidare la sua presenza in Cisgiordania. Ciò comprende la costruzione di insediamenti illegali, l’annientamento di qualsiasi tentativo di resistenza armata o popolare e l’annessione di terre e risorse palestinesi, indebolendo ulteriormente le basi di qualsiasi processo politico palestinese.

Un fronte unito per la liberazione

Le attuali proteste a Gaza riprendono indubbiamente le legittime richieste del popolo palestinese, meritevole e capace di forgiare un nuovo fronte unito verso la libertà e la dignità. Ma resta la domanda più importante: i leader palestinesi hanno la volontà di ascoltare queste richieste e di adottare misure efficaci per soddisfarle?

Sia gli osservatori esterni che quelli interni spesso attribuiscono le divisioni tra le fazioni palestinesi a contrastanti interessi politici e ideologici. Eppure tali differenze dovrebbero semmai gettare le basi e lo slancio per un’ampia coalizione politica che possa armonizzare i bisogni comuni con l’obiettivo della liberazione. Mentre alcuni sostengono che le fazioni palestinesi si stiano gradualmente riallineando contro Israele e non l’una contro l’altra, molti nutrono ancora un sentimento di perdita di speranza sulla possibilità di vedere un giorno una leadership unificata che comprenda le variabili della guerra e della pace, della resistenza e della governance, e che riunisca tutti i palestinesi sotto un’amministrazione unica.

A Gaza c’è una forte convinzione che avere una presenza armata che salvaguardi il diritto dei palestinesi all’autodifesa contro l’aggressione militare israeliana non dovrebbe mettere in secondo piano l’aspirazione delle persone a vivere con quel tanto di autonomia e agiatezza possibile sotto l’occupazione. L’obiettivo di rompere il blocco israeliano, un tempo il principale faro di speranza per la libertà a Gaza, si intreccia con la ricerca di soddisfare i bisogni di base all’interno dei confini di Gaza, come ad esempio altre due ore al giorno di accesso all’acqua potabile o all’elettricità.

Ciò è accompagnato dall’opinione diffusa che Hamas, come altre fazioni palestinesi, stia cercando di controllare e mettere a tacere l’attivismo e il dissenso di base, suscitando ulteriore irritazione nell’opinione pubblica. L’accoglimento a parole dell’idea di cambiamento da parte dei leader palestinesi non dovrebbe solo significare riconciliare le loro visioni contrastanti, ma anche smettere di nascondere sotto il tappeto le richieste collettive della gente per un futuro migliore.

In effetti l’intensificarsi degli attacchi israeliani contro tutti i palestinesi nell’intero Paese e l’obiettivo di disgregare la sfera pubblica a Gaza rendono queste proteste un momento ideale per riaffermare la necessità di una leadership palestinese unificata che possa progredire, dare priorità alla difesa dei valori umani e alle esigenze fondamentali della vita sotto occupazione e non tentennare tra rapidi mutamenti del panorama regionale e internazionale, che hanno messo in disparte le richieste di libertà e nel contempo di condizioni di vita dignitose dei palestinesi.

È ancora più importante che le attuali leadership, sia a Gaza che in Cisgiordania, si astengano dal governare con diktat e rispettino invece la volontà della maggioranza, osservando quadri normativi del Paese e la prospettiva della liberazione. È improbabile che il tentativo di forzare il cambiamento attraverso un conflitto aperto con una opinione pubblica scontenta abbia successo. Non è mai stato un metodo giusto o di successo per raggiungere l’autodeterminazione, specialmente sotto la guida di fazioni minoritarie frammentate, ognuna delle quali scandisce uno slogan diverso ed è apparentemente indifferente alla rappresentanza democratica. Ogni leader finisce per aggrapparsi al potere senza alcuna reale intenzione di migliorare e salvaguardare la vita dei propri elettori.

Per superare queste sfide i palestinesi devono essere in grado di esprimere critiche in consonanza coi simpatizzanti di ciascuna delle parti, dimostrando così la possibilità di essere uniti, piuttosto che limitarsi a dimostrare che i loro leader hanno torto. Le attuali proteste a Gaza e l’Intifada Unitaria scoppiata in tutta la Palestina due anni fa indicano la necessità di un tale percorso comune. Una volta che sarà stato veramente raggiunto, nessuna influenza esterna potrà impedire, ignorare o frammentare la sostanziale maggioranza delle persone che vogliono liberarsi dalla spirale dell’esclusione.

Fino ad allora il popolo palestinese merita la possibilità di affrontare il fondamentale dibattito su una tanto necessaria tabella di marcia politica in grado di determinare il destino della sua lotta. Mettendo da parte gli argomenti divergenti della realpolitik sul campo di battaglia interno e facendo ciò che può essere fatto per le persone con gli strumenti disponibili, solo allora i palestinesi potranno continuare ad essere saldi e fiduciosi di fronte ad una forza di occupazione.

Mohammed R. Mhawish è un giornalista e scrittore palestinese che vive a Gaza. È uno degli autori del libro “A Land With A People – Palestines and Jews Confront Zionism” [Una terra con un popolo – palestinesi ed ebrei di fronte al sionismo, ndt.] (Monthly Review Press Publication, 2021).

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Il presidente palestinese Abbas licenzia 12 governatori dell’Autorità Palestinese (AP) in Cisgiordania e a Gaza

Jack Khoury

10 agosto 2023 – Haaretz

L’ufficio di Abbas comunica che otto governatori della Cisgiordania e quattro di Gaza sono stati ‘congedati.’ Gli esperti credono che le destituzioni siano un tentativo di promuovere una nuova leadership e mettere a tacer le critiche contro l’Autorità Palestinese

Giovedì il presidente palestinese Abbas ha destituito la maggior parte dei governatori distrettuali dell’Autorità Palestinese (AP) in Cisgiordania e alcuni anche a Gaza.

Secondo la dichiarazione rilasciata dall’ufficio di Abbas i funzionari “congedati” includono gli otto governatori di Jenin, Nablus, Tulkarem, Qalqilyah, Betlemme, Tubas, Hebron e Gerico. 

Abbas ha anche destituito quattro governatori che operano per conto dell’Autorità Palestinese a Gaza, sebbene nella Striscia controllata da Hamas siano privi di una reale autorità e abbiano un ruolo più che altro simbolico. In un comunicato dell’ufficio di Abbas si dice che una commissione capeggiata dal presidente esaminerà i candidati che fungeranno da nuovi governatori. 

Gli unici non destituiti sono il governatore di Ramallah, vicino ad Abbas, e i due di Salfit e Gerusalemme. Funzionari di alto livello dell’AP hanno detto ad Haaretz che Abbas sta anche prendendo in considerazione ulteriori e più ampi cambiamenti del governo.

Si dice che l’opinione pubblica palestinese sia stata colta di sorpresa dall’annuncio, poiché nessun media locale aveva anticipato nei suoi reportage tale decisione. Ci si aspettava che i cambiamenti fossero fatti nel governo, ma non specificatamente fra i governatori distrettuali dell’AP

Neppure i governatori sono stati informati in anticipo della decisione e l’hanno saputo da una nota ufficiale dell’agenzia di stampa palestinese. I funzionari avrebbero detto ai loro colleghi che rispetteranno la decisione, nonostante il modo in cui la notizia è stata fatta loro arrivare.

Politici al vertice di Fatah hanno riferito ad Haaretz che probabilmente la notizia delle destituzioni sarà accolta positivamente dall’opinione pubblica palestinese, poiché parecchi dei congedati avevano suscitato vaste critiche.

In Cisgiordania si pensa che la decisione sia un tentativo di Abbas di ridurre la disapprovazione della gente nei confronti dell’AP, cresciuta a causa delle attività di sicurezza. L’anno scorso, dopo l’arresto di tre palestinesi per possesso illegale di armi da parte delle forze dell’AP, uomini armati hanno aperto il fuoco contro il quartier generale dell’AP nella città cisgiordana di Jenin.

Secondo una dichiarazione dell’ufficio di Abbas, il comitato che consiglierà sulla sostituzione dei governatori include sia importanti funzionari dell’AP che membri di partiti indipendenti. Storicamente i governatori sono nominati personalmente dal presidente dell’AP, di solito perché vicini a politici di Fatah o all’ufficio del presidente.

Esperti stimano che le destituzioni siano un tentativo di promuovere una nuova dirigenza e placare le critiche contro l’AP.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Rapporto OCHA del periodo 25 luglio – 7 agosto 2023

1). Nel corso di quattro attacchi, tentati o presunti attacchi, condotti in Cisgiordania e Israele da parte di palestinesi, un poliziotto israeliano è stato ucciso e otto israeliani sono rimasti feriti. Negli stessi episodi sono stati uccisi sei palestinesi, tra cui un minore e due sono rimasti feriti (seguono dettagli).

Il 25 luglio, in seguito a uno scontro a fuoco avvenuto nei pressi del cancello del Monte Garizim, nella città di Nablus, forze israeliane hanno ucciso a colpi di arma da fuoco tre palestinesi; i tre uomini avevano aperto il fuoco sui soldati da un veicolo. Non sono stati segnalati feriti o vittime tra le forze israeliane.

Il 1° agosto, nell’insediamento di Ma’ale Adummim (Gerusalemme), un palestinese ha sparato ferendo sei israeliani prima di essere ucciso da un agente di polizia israeliano fuori servizio. In seguito all’episodio, forze israeliane hanno condotto un’operazione di ricerca-arresto nella vicina Al ‘Eizariya (Gerusalemme), dove viveva l’aggressore, arrestando due suoi fratelli.

Lo stesso giorno, 1 agosto, sulla strada 317, vicino all’insediamento israeliano di Shim’a, prossimo alla città di As Samu’ (Hebron), forze israeliane hanno sparato a un ragazzo palestinese di 15 anni. Secondo fonti israeliane, il ragazzo aveva tentato di accoltellare due soldati israeliani che aspettavano l’autobus alla fermata vicino all’insediamento e un soldato israeliano gli ha sparato.

Il 5 agosto, a Tel Aviv, un palestinese della Cisgiordania ha sparato, uccidendo un poliziotto israeliano e ferendo altre due persone; è stato colpito e ucciso sul posto. Successivamente, le forze israeliane hanno fatto irruzione a Rummana (Jenin), da dove proveniva l’autore del reato ed hanno fatto il sopralluogo della sua casa di famiglia; secondo quanto riferito in preparazione della demolizione punitiva. Alla fine del periodo in esame, le autorità israeliane hanno trattenuto i corpi dei sei palestinesi, compreso il minore.

2). Forze israeliane hanno ucciso sette palestinesi, tra cui due minori, in tre diverse operazioni che hanno comportato uno scontro a fuoco (seguono dettagli).

Il 26 luglio, forze israeliane hanno circondato un edificio residenziale nel Campo profughi di Ein Beit el Mai a Nablus ed hanno arrestato un palestinese. È stato segnalato uno scontro a fuoco con palestinesi: un palestinese è stato ucciso e altri due, tra cui una donna, sono rimasti feriti.

Il 4 agosto, forze israeliane hanno effettuato un’operazione militare a Tulkarm e nel suo Campo profughi; le forze israeliane hanno sparato proiettili veri contro palestinesi che, secondo quanto riferito, hanno lanciato contro di loro bottiglie incendiarie. Durante tali scontri, le forze israeliane hanno sparato, uccidendo un ragazzo palestinese di 17 anni e ferendo altri due palestinesi. Il 6 agosto, un’unità sotto copertura delle forze israeliane ha sparato uccidendo tre palestinesi, tra cui un ragazzo di 15 anni; i palestinesi si trovavano all’interno del loro veicolo nei pressi di ‘Arraba (Jenin). Secondo l’esercito israeliano, i tre erano in procinto di compiere un attacco armato contro israeliani. Alla fine del periodo di riferimento i corpi delle persone uccise risultavano ancora trattenuti.

Il 7 agosto, un ragazzo palestinese di 17 anni è morto per le ferite riportate il 2 agosto, quando una guardia dell’insediamento israeliano gli sparò con proiettili veri, vicino al villaggio di Silwad (Ramallah). Secondo fonti israeliane, il ragazzo palestinese aveva lanciato una bottiglia incendiaria contro l’insediamento israeliano di Ofra prima di essere ferito, con arma da fuoco, dalla guardia dell’insediamento. Il numero di palestinesi uccisi (167) nel 2023, in Cisgiordania e in Israele, da forze israeliane, ad oggi, ha superato il numero totale di palestinesi uccisi da forze israeliane in tutto il 2022 (155); anno che aveva già registrato il maggior numero di vittime in Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, dal 2005.

3). Durante un attacco di coloni nel villaggio di Burqa (Ramallah), un colono israeliano ha sparato uccidendo un palestinese e ferendone altri due (seguono dettagli).

Il 4 agosto, coloni israeliani armati sono entrati a Burqa (Ramallah) con le loro pecore. I palestinesi hanno lanciato pietre contro di loro e i coloni hanno lanciato pietre e sparato proiettili veri, provocando l’uccisione di un palestinese e il ferimento di altri. Le forze israeliane sono arrivate sul posto e, secondo quanto riferito, hanno arrestato due coloni, compreso uno che è stato successivamente posto agli arresti domiciliari. Secondo i media israeliani, uno dei coloni arrestati è rimasto ferito. In Cisgiordania, compresa Gerusalemme est, dall’inizio del 2023, fino al 7 agosto, coloni israeliani hanno ucciso sette palestinesi; tre delle vittime erano autori, o presunti autori, di attacchi contro israeliani.

4). A Qalqilya un minore palestinese è morto in un’operazione di ricerca-arresto israeliana. Il 27 luglio, un ragazzo palestinese di 13 anni è morto per le ferite riportate dall’esplosione incontrollata di un ordigno artigianale.

5). In Cisgiordania, durante il periodo in esame, 276 palestinesi, tra cui almeno 60 minori, sono stati feriti da forze israeliane, tra cui nove colpiti da proiettili veri. Novantanove (99) feriti sono stati segnalati durante manifestazioni contro l’espansione degli insediamenti a Deir Istiya (Salfit) e le restrizioni di accesso all’insediamento a Kafr Qaddum (Qalqilya). Altri 21 feriti si sono verificati durante 13 operazioni di ricerca-arresto e altre operazioni condotte da forze israeliane in tutta la Cisgiordania. In altri tre casi, forze israeliane hanno ferito 118 palestinesi a Nablus e Hebron. Questi sono stati conseguenti all’intrusione di coloni israeliani, accompagnati da forze israeliane, nel villaggio di Asira al Qibliya (Nablus), e al loro ingresso nella tomba di Giuseppe nella città di Nablus e nella tomba di Othniel nell’area controllata dai palestinesi della città di Hebron. Nell’episodio registrato nel villaggio di Asira al Qibliya, coloni israeliani avevano appiccato il fuoco a terreni agricoli, provocando danni a proprietà palestinesi. I residenti palestinesi hanno lanciato pietre e le forze israeliane hanno sparato proiettili veri e lacrimogeni. Durante l’episodio registrato nella città di Nablus, si è verificato uno scontro a fuoco tra palestinesi e forze israeliane. In questa circostanza, secondo quanto riferito, forze israeliane hanno impedito ai palestinesi l’accesso alla parte orientale della città, scavando la strada e creando cumuli di terra. Nel caso occorso nella città di Hebron, i palestinesi hanno lanciato pietre e le forze israeliane hanno sparato proiettili di gomma e lacrimogeni. Venticinque feriti aggiuntivi sono stati segnalati durante due casi di demolizione a Beita (Nablus) e Al Mughayyir (Ramallah). I restanti 13 feriti palestinesi sono stati registrati quando palestinesi hanno lanciato pietre contro forze israeliane posizionate all’ingresso di Beit Ummar (Hebron) e Tuqu’ (Betlemme). Complessivamente, 242 palestinesi sono stati curati per inalazione di gas lacrimogeni, nove sono stati colpiti da proiettili veri, 15 sono stati feriti da proiettili di gomma, due da schegge, sei sono stati feriti da granate assordanti o lacrimogeni e due sono stati aggrediti fisicamente. In Cisgiordania, dall’inizio dell’anno, un totale di 683 palestinesi sono stati feriti da forze israeliane con proiettili veri; più del doppio rispetto al periodo equivalente del 2022 (307).

6). In Cisgiordania sei palestinesi, tra cui un minore, sono stati feriti da coloni israeliani, e persone conosciute come coloni, o ritenute tali, hanno danneggiato proprietà palestinesi in altri 14 casi. Ciò si aggiunge alle vittime palestinesi da parte di coloni e forze israeliane nei già citati episodi relativi a coloni (seguono dettagli).

Il 27 luglio, coloni, secondo quanto riferito provenienti da Sdeh Boaz, hanno aggredito fisicamente un palestinese che stava lavorando la propria terra vicino al villaggio di Al Khadr (Betlemme) e gli hanno sguinzagliato contro i loro cani che lo hanno morso.

Lo stesso giorno, il 27 luglio, un palestinese è stato aggredito fisicamente e ferito da coloni israeliani (accompagnati da forze israeliane) che hanno lanciato pietre, hanno aggredito fisicamente i residenti di Asira al Qibliya (Nablus) e hanno dato fuoco a terreni agricoli e veicoli.

Il 27 luglio, migliaia di israeliani, compresi coloni, hanno marciato attraverso la Città Vecchia di Gerusalemme, scandendo slogan anti-palestinesi, molestando i residenti e aggredendo fisicamente e ferendo un anziano palestinese. Questo è avvenuto nelle vicinanze della moschea Al Aqsa, nella Città Vecchia di Gerusalemme, in seguito alla visita del ministro israeliano della sicurezza nazionale, accompagnato da membri della Knesset e da migliaia di israeliani.

Il 28 luglio, un palestinese è rimasto ferito vicino al villaggio di Al Mughayyir (Ramallah), quando coloni israeliani hanno lanciato pietre contro il suo veicolo.

Il 4 agosto, nell’area H2 della città di Hebron, un minore palestinese è stato investito e ferito da un colono israeliano.

Lo stesso giorno, un palestinese è stato ucciso da proiettili veri (vedi sopra) e un altro ferito da schegge mentre coloni israeliani entravano nel villaggio palestinese di Burqa (Ramallah). Residenti e coloni palestinesi si sono lanciati pietre reciprocamente e coloni hanno sparato proiettili veri.

In sei episodi registrati a Umm ad Daraj (Hebron), Azzun (Qalqiliya), Burin (Nablus), Silat adh Dhahr (Jenin), Sarta (Salfit) e Ein al Hilwa (Tubas) coloni sono entrati nelle Comunità, causando danni a una struttura di sostentamento, un ricovero per animali, colture e due abitazioni; inoltre, presumibilmente, hanno rubato bestiame e serbatoi d’acqua, oltre a ferire capi di bestiame. In altri sei casi segnalati in Cisgiordania, coloni israeliani hanno lanciato pietre, danneggiando nove veicoli palestinesi.

7). Nove israeliani, tra cui una donna, sono stati feriti da palestinesi in quattro distinti episodi registrati tra la Cisgiordania e Israele (seguono dettagli).

Il 1° agosto, un palestinese ha aperto il fuoco all’interno dell’insediamento israeliano di Ma’ale Adummim e ha ferito sei coloni israeliani, prima di essere colpito e ucciso da un agente di polizia israeliano fuori servizio (vedi sopra).

Il 2 agosto, una donna israeliana è rimasta ferita e la sua auto ha subito danni, dopo che un aggressore, ritenuto palestinese, è uscito dal suo veicolo e ha sparato contro il veicolo con targa israeliana. Il 5 agosto, a Tel Aviv, un palestinese della Cisgiordania ha sparato uccidendo un poliziotto israeliano e ferendo due israeliani prima di essere colpito e ucciso sul posto.

In altri due casi registrati il 6 e il 7 agosto, vicino all’insediamento di Beit El (Ramallah) e ad Al ‘Isawiya (Gerusalemme Est), palestinesi hanno lanciato pietre contro veicoli israeliani, provocando, secondo fonti israeliane, il ferimento di un israeliano e il danneggiamento di due veicoli.

8). A Gerusalemme Est e nell’Area C della Cisgiordania le autorità israeliane hanno demolito, confiscato o costretto le persone a demolire 56 strutture, comprese sei case, adducendo la mancanza di permessi di costruzione rilasciati da Israele, che sono quasi impossibili da ottenere. Di conseguenza, 23 palestinesi, tra cui 12 minori, sono stati sfollati e sono stati colpiti i mezzi di sussistenza di oltre 3.500 altri. Sei delle strutture colpite erano state fornite da donatori in risposta a una precedente demolizione nella Comunità beduina di Az Za’ayyem nel governatorato di Gerusalemme, durante la quale erano state demolite un totale di 35 strutture in una unica circostanza. Cinquantatre (53) delle strutture interessate sono state demolite in Area C, compresa l’infrastruttura di un parco pubblico a servizio della Comunità di Al Mughayyir (Ramallah). Le restanti tre strutture sono state demolite a Gerusalemme est, provocando lo sfollamento di quattro famiglie, comprendenti 16 persone, tra cui sette minori. Tutte le strutture demolite a Gerusalemme Est sono state demolite dai proprietari per evitare il pagamento di multe alle autorità israeliane.

9). Le residue famiglie di Al Baqa’a e Ras nelle Comunità di pastori di Tin nel governatorato di Ramallah hanno lasciato la loro Comunità; questo a causa della violenza dei coloni e la perdita dell’accesso ai pascoli (seguono dettagli).

In seguito alla creazione di un insediamento israeliano nella Comunità palestinese di Al Baqa’a (Gerusalemme) il 20 giugno, una delle due famiglie palestinesi rimanenti, composta da otto persone, tra cui cinque minori e una donna incinta, il 28 luglio ha lasciato la Comunità. Stessa sorte era toccata a 36 persone della stessa Comunità che, all’inizio di luglio, hanno smantellato le loro case e strutture di sostentamento, trasferendosi in un luogo più sicuro. Il 4 agosto, 12 famiglie a Ras al Tin (Ramallah) comprendenti 89 persone, tra cui 39 minori, hanno smantellato le loro strutture residenziali e di sostentamento, hanno lasciato le loro Comunità e si sono trasferite in luoghi più sicuri. Secondo le famiglie, la loro decisione era dovuta all’aumento della violenza e delle molestie da parte di coloni, seguite alla creazione di nuovi avamposti di insediamenti agricoli. I coloni si sono impadroniti di pascoli appartenenti alla Comunità e hanno piantato vigneti, riducendo l’area di pascolo necessaria ai pastori palestinesi per sostenere le proprie greggi. Nel 2022, 100 membri della stessa Comunità sono stati sfollati in circostanze simili. Circa 477 persone, tra cui 261 minori, sono partite da Ras al Tin, Wadi as Seeq, Ein Samiya e Al Baqa’a (tutte nel governatorato di Ramallah), Lifjim (Nablus) e Wedadie e Khirbet Bir al ‘Idd (entrambe a sud di Hebron ) tra il 2022 e il 2023, adducendo come ragioni principali la violenza dei coloni e la perdita dell’accesso ai pascoli. Di conseguenza, tre di queste sette Comunità sono state interamente svuotate, mentre nelle altre rimangono solo poche famiglie.

10). Nella Striscia di Gaza, vicino alla recinzione perimetrale israeliana o al largo della costa, in almeno 14 casi, forze israeliane hanno aperto il “fuoco di avvertimento”. Questi episodi hanno interrotto il lavoro di agricoltori e pescatori. Un pescatore è rimasto ferito e due barche hanno subito danni.

11). Il 4 agosto, a Deir Al Balah, un ragazzo palestinese di 16 anni è rimasto ferito dalla esplosione di un ordigno che stava maneggiando.

12). Il 30 luglio e il 4 agosto, nella Striscia di Gaza, migliaia di palestinesi hanno manifestato per protestare contro le interruzioni di corrente e il peggioramento della situazione economica. I manifestanti hanno lanciato pietre contro la polizia palestinese ed hanno dato fuoco a pneumatici; sono stati segnalati 12 feriti e almeno 23 persone sono state arrestate dalle Autorità de facto di Gaza. Il 1° agosto, la centrale elettrica di Gaza ha acceso la sua quarta turbina dopo che il governo del Qatar ha fornito ulteriore carburante. L’impianto elettrico è attualmente in funzione a pieno regime, con una produzione aumentata da 65 a 100 megawatt. Nel mese di luglio i blackout giornalieri hanno superato mediamente le 12 ore, a causa dell’aumento stagionale della domanda. Ciò ha gravemente condizionato la vita quotidiana e la fornitura di servizi sanitari e WASH. Secondo l’Health Cluster, l’ospedale Kamal Odwan aveva trasferito i pazienti in un’altra struttura, a causa di un guasto ai generatori di energia di riserva.

Ultimi sviluppi

Questa sezione si basa su informazioni iniziali provenienti da diverse fonti. Ulteriori dettagli confermati saranno forniti nel prossimo rapporto.

– Il 10 agosto, forze israeliane sotto copertura hanno fatto irruzione a Zawata (Nablus); ne è seguito uno scontro a fuoco con palestinesi e un palestinese di 23 anni è rimasto ucciso.

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Note a piè di pagina

1 – Vengono conteggiati separatamente i palestinesi uccisi o feriti da persone che non fanno parte delle forze israeliane, ad esempio da civili israeliani o da razzi palestinesi malfunzionanti, così come quelli la cui causa immediata di morte o l’identità dell’autore rimangono controverse, poco chiare o sconosciute. In questo periodo di riferimento viene conteggiato un palestinese ucciso da un colono israeliano.

2 – Le vittime israeliane in questi rapporti includono persone che sono state ferite mentre correvano ai rifugi durante gli attacchi missilistici palestinesi. I cittadini stranieri uccisi in attacchi palestinesi e le persone la cui causa immediata di morte o l’identità dell’autore rimangono controverse, poco chiare o sconosciute, vengono conteggiate separatamente.

La protezione dei dati dei civili da parte dell’OCHA include incidenti avvenuti al di fuori dei Territori Palestinesi Occupati

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