Le forze israeliane uccidono 4 minori palestinesi in Cisgiordania

Redazione di Middle East Monitor

27 novembre 2023 – Middle East Monitor

Secondo Defense for Children International – Palestine (DCIP) [DCI è una ong internazionale per la difesa dei diritti dell’infanzia, ndt.], nelle ultime 24 ore le forze israeliane hanno ucciso quattro minori palestinesi nella Cisgiordania occupata.

Tra le vittime Ahmad Mohammad Hamed Abu Al-Haija, 16 anni, Mahmoud Khaled Mahmoud Abu Al-Haija, 17 anni, e Ammar Mohammad Faisal Abu Al-Wafa, 14 anni, uccisi sabato sera a Jenin durante un’operazione militare israeliana.

Ammar è stato colpito all’addome intorno alle 18:30 del 25 novembre da un cecchino israeliano posizionato a circa 200-250 metri. Il fatto è avvenuto mentre Ammar si trovava con un gruppo di amici vicino alla sua abitazione nel quartiere Al-Damj del campo profughi di Jenin. Il padre di Ammar lo ha portato d’urgenza all’ospedale Al-Razi, dove ne è stato constatato il decesso.

Contemporaneamente Ahmad stava riprendendo col cellulare il raid israeliano quando un soldato a bordo di un veicolo militare pesantemente corazzato gli ha sparato al petto vicino alla rotonda del cinema, nel centro di Jenin. Inoltre le forze israeliane hanno aperto il fuoco sul gruppo che lo accompagnava, provocando numerosi feriti. Ahmad è stato trasportato in ambulanza all’ospedale Al-Razi, dove anche lui al momento dell’arrivo è stato dichiarato deceduto.

Ayed Abu Eqtaish, direttore del Programma sulla ricerca delle responsabilità presso la DCIP, ha dichiarato: Mentre a Gaza è in corso una cosiddetta tregua con i gruppi armati palestinesi in tutta la Cisgiordania occupata le forze israeliane continuano a prendere di mira e uccidere minori palestinesi con una totale impunità”, aggiungendo: Solo nelle ultime 24 ore, le forze israeliane hanno ucciso a colpi di armi da fuoco quattro ragazzi palestinesi nella Cisgiordania occupata, compreso uno che si trovava all’interno della sua stessa casa, e hanno impedito ai paramedici di raggiungerli per poter prestare loro l’assistenza medica. Di conseguenza, tutti e quattro i ragazzi erano già morti al loro arrivo in ospedale”.

Secondo DCIP anche Mahmoud è stato colpito all’addome mentre si trovava davanti alla finestra della sua casa nel quartiere di Al-Zahra, nella parte meridionale del campo profughi di Jenin. Un cecchino israeliano ha sparato il colpo prima che le forze israeliane facessero irruzione nella sua casa di famiglia, dove gli hanno confiscato il telefono e la carta d’identità. Nonostante la chiamata di unambulanza da parte di suo padre i soldati israeliani hanno ritardato i soccorsi trattenendo i paramedici fuori dalledificio per circa 40 minuti.

L‘ambulanza l’ha finalmente raggiunto e trasportato all’ospedale Al-Razi, dove ne è stato constatato l’avvenuto decesso.

Sabato, dalle 18:00 alle 6:30 del giorno successivo, le truppe israeliane hanno condotto un’incursione terrestre e aerea a Jenin. I militari hanno assediato l’ospedale governativo di Jenin, conducendo attacchi contro i palestinesi e provocando la morte di cinque palestinesi, tra cui tre minori. Ad Al-Bireh, vicino a Ramallah, al centro della Cisgiordania occupata, Mohammad Riad Fathi Saleh Farhan, 15 anni, è stato colpito allo stomaco dalle forze israeliane.

Nonostante un’autoambulanza palestinese abbia tentato di raggiungerlo l’esercito l’ha bloccata per circa 45 minuti; comunque, all’arrivo dell’ambulanza al Palestine Medical Complex di Ramallah i medici hanno constatato l’avvenuto decesso di Mohammad.

Mentre lesercito israeliano bombarda pesantemente la Striscia di Gaza sotto assedio vengono effettuati raid anche in Cisgiordania e nella Gerusalemme est occupata con conseguenti arresti di palestinesi.

Secondo il Ministero della Sanità palestinese dal 7 ottobre in Cisgiordania sono stati uccisi dalle forze israeliane più di 220 palestinesi e feriti oltre 2.800.

La documentazione raccolta da DCIP rivela che quest’anno nella Cisgiordania occupata almeno 100 minori palestinesi sono stati uccisi dall’esercito e dai coloni israeliani.

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Media israeliani: gli ostaggi israeliani rilasciati da Gaza non hanno subito torture o sevizie

Redazione di MEMO

27 novembre 2023 – Middle East Monitor

L’agenzia Anadolu riferisce che lunedì i media israeliani hanno dichiarato che gli ostaggi israeliani rilasciati da Gaza non hanno subito torture o sevizie da parte dei gruppi palestinesi.

Il Canale 12 israeliano ha affermato di aver incontrato un certo numero di parenti degli ostaggi israeliani rilasciati da Hamas a Gaza che hanno confermato che [gli ostaggi] non sono stati esposti ad alcuna forma di tortura o maltrattamenti.

Il Canale ha tuttavia affermato che gli ostaggi hanno ricevuto quantità limitate di cibo.

Il Canale ha riferito “che nelle ultime due settimane, a Gaza è finito il cibo, per cui hanno dovuto accontentarsi di poco riso e che erano molto affamati.”

Lo Stato di Israele non permette ancora agli ostaggi rilasciati di parlare con i media. Tuttavia alcuni dei loro parenti hanno parlato con i media senza menzionare i loro nomi.

Agli ostaggi a Gaza era permesso ascoltare i canali radio israeliani.

Un dottore israeliano che ha esaminato gli ostaggi rilasciati ha affermato che essi “ricevevano riso, ceci, fagioli e pane, aggiungendo che alcuni di loro sono dimagriti.”

Il dottore ha affermato che “uno degli ostaggi ha perso 20 chili di peso, uno 9 e un altro 12.”

Il 24 novembre la pausa umanitaria tra lo Stato di Israele e le fazioni palestinesi inizialmente definita per quattro giorni è entrata in vigore alle 7 di mattina ora locale (alle 5 ora di Greenwich).

L’accordo per una pausa umanitaria include il rilascio di 50 ostaggi israeliani da Gaza in cambio del rilascio di 150 palestinesi e dell’ingresso di centinaia di camion carichi di aiuti umanitari, aiuti sanitari e carburante in tutte le aree della Striscia di Gaza.

Lunedì il Qatar ha annunciato l’estensione della pausa umanitaria temporanea per altri due giorni.

Lo Stato di Israele ha lanciato una massiccia campagna militare nella Striscia di Gaza in seguito all’attacco di Hamas del 7 ottobre sul confine.

Da allora ha ucciso almeno 14.854 palestinesi, inclusi 6.150 minori e oltre 4.000 donne secondo le autorità sanitarie dell’enclave. Il numero ufficiale delle vittime israeliane è fermo a 1.200.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Guerra tra Israele e Palestina: minori palestinesi liberati affermano che compagni di prigionia sono stati “torturati a morte”

Mosab Shawer a Hebron, Palestina occupata

27 novembre 2023 – Middle East Eye

Secondo le testimonianze di adolescenti liberati, almeno cinque detenuti palestinesi sarebbero morti nelle prigioni israeliane in seguito a violenze subite.

Minorenni palestinesi liberati dalle carceri israeliane come parte dello scambio di prigionieri tra Hamas e Israele hanno affermato di essere stati sottoposti a torture durante la detenzione e che altri detenuti sono stati percossi a morte.

Gli adolescenti sono tra i 39 palestinesi liberati dalle prigioni israeliane domenica nel corso del terzo scambio di prigionieri tra Israele e Hamas, mentre quest’ultimo ha rilasciato 13 israeliani trattenuti a Gaza.

Lo scambio ha avuto luogo nel terzo giorno di fila di una tregua temporanea di quattro giorni a Gaza, la prima interruzione di questo genere nei combattimenti da quando sono iniziate le ostilità il 7 ottobre.

Tra quelli che sono stati rilasciati c’era Khalil Mohamed Badr al-Zamaira, 18 anni, che ne aveva 16 quando è stato arrestato dalle forze israeliane.

Ha affermato che i prigionieri palestinesi sono stati maltrattati e picchiati in prigione e che non c’è un trattamento differenziato per i minorenni.

“Non fanno distinzioni tra vecchi e giovani,” ha detto a Middle East Eye.

“Due adolescenti sono stati trasferiti dalla prigione di Ofer con le costole rotte, non riuscivano più a muoversi.”

Anche Omar al-Atshan, un adolescente liberato, ha affermato di essere stato maltrattato e torturato nella prigione del Naqab [Negev in ebraico, ndt.], dove è stato tenuto prima del rilascio.

“I maltrattamenti erano indescrivibili,” ha detto ad Al Jazeera durante un reportage dal vivo dell’arrivo di prigionieri rilasciati domenica nella Cisgiordania occupata.

Ha detto che in prigione sono stati metodicamente picchiati e umiliati e che acqua e cibo erano scarsi.

Durante il rilascio i soldati israeliani hanno ordinato loro di abbassare la testa e poi li hanno percossi, ha affermato.

“Non siamo del tutto contenti perché ci sono altri prigionieri ancora detenuti,” ha detto, aggiungendo che un carcerato, che ha identificato come Thaer Abu Assab, è stato picchiato a morte in prigione.

“Ha subito troppe percosse. Abbiamo chiesto aiuto, ma i medici sono arrivati un’ora e mezza dopo che era morto per le torture.

È stato torturato per aver fatto una domanda, ha chiesto al secondino se c’era una tregua. Allora è stato pestato a morte e colpito in testa.”

Quattro detenuti torturati a morte a Megiddo

Anche un altro minore liberato, Osama Marmash, ha rilasciato ad Al Jazeera una testimonianza simile.

Il sedicenne è stato tenuto nella prigione di Megiddo prima del rilascio. Ha raccontato ad Al Jazeera che lì quattro detenuti palestinesi sono stati torturati a morte.

Marmash ha detto di aver subito lesioni a un piede e alla schiena a causa delle percosse.

“La mia divisa di recluso era bianca ma è diventata rossa per le macchie di sangue,” ha detto.

Il cibo era molto scarso, ha affermato, e spesso “immangiabile”.

Ha detto che sono stati maltrattati durante il viaggio verso la Cisgiordania.

“Il percorso è stato difficile. Hanno spento l’aria condizionata dell’autobus. Stavamo soffocando,” ha raccontato.

La tregua tra Hamas e Israele dovrebbe vedere il rilascio di 150 donne e minori palestinesi e 50 israeliani tenuti a Gaza in quattro giorni.

Da parte sua Hamas ha rilasciato 13 prigionieri israeliani, tra cui nove minorenni, così come quattro cittadini stranieri: tre thailandesi e un russo-israeliano.

Il presidente USA Joe Biden ha detto che è stata liberata anche una bambina israelo-americana di quattro anni i cui genitori sono stati uccisi il 7 ottobre.

In un comunicato Hamas ha affermato che il russo-israeliano con doppia cittadinanza è stato rilasciato “come risposta ai tentativi del presidente russo Vladimir Putin e come riconoscimento dell’appoggio russo alla Palestina.”

Il russo è il primo prigioniero di sesso maschile ad essere rilasciato da Hamas durante la tregua.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




‘Un posto dove volare’ – il Freedom Theatre di Jenin sopravvive coraggiosamente nonostante i raid israeliani

Mauricio Morales

25 novembre 2023 Al Jazeera

Una delle cose più allarmanti che Ranin Odeh ha osservato durante le attività che organizza per i bambini al Freedom Theatre nel campo di Jenin in Cisgiordania è che spesso i loro giochi diventano violenti. Frequentemente i bambini sono troppo turbolenti e si picchiano persino.

È una tipica reazione al trauma, dice. “Loro non capiscono perché lo fanno, ma io sì.” Ha spesso visto i bambini reagire al trauma delle incursioni israeliane nel campo con giochi violenti. Nel suo spazio non li permette, ma offre invece delle attività culturali e artistiche come alternativa per incanalare la loro paura e rabbia.

Capelli corti e neri e una presenza accogliente, la trentenne Odeh ha la vivacità e l’energia della gioventù, ma anche la decisione di una che ha visto molto ed è sopravvissuta. Il suo lavoro è particolarmente importante per una come lei cresciuta durante la seconda Intifada, o rivolta. Si identifica intensamente con la necessità che i bambini hanno di guarire dal trauma tramite arte e gioco.

I bambini hanno bisogno di spazi sicuri dove star bene, dice. “Devono avere un posto dove riuscire a volare.”

La vita per loro è traumatica. Odeh racconta che un giorno i bambini stavano divertendosi con un’attività nel Freedom Theatre ma improvvisamente c’è stato un attacco armato dell’esercito israeliano nel campo – un evento diventato molto più frequente dall’inizio della guerra di Israele contro Gaza il 7 ottobre.

Affrontare le bombe molotov

Lo stesso Freedom Theatre non è nuovo a pericoli e violenza.

In origine si chiamava Stone Theatre, fondato nel 1987, dopo la prima Intifada, da Arna Mer-Khamis, un’attivista israeliana morta nel 1995. Mer-Khamis nata nel 1929 in una famiglia ebrea è stata per tutta la vita una sostenitrice dei diritti dei palestinesi, specialmente dei bambini. Con il suo teatro e le arti voleva offrire loro uno spazio per guarire e alle donne per emanciparsi.

Il primo edificio ad ospitare il teatro fu distrutto nel 2002 dall’esercito israeliano durante la seconda Intifada. Nel 2006 Juliano Mer-Khamis, il figlio di Arna e del marito cristiano palestinese, Saliba Khamis, riaprì il teatro in una nuova sede a Jenin, che funge anche da centro comunitario.

Tuttavia non tutti erano a favore. Nel 2009 una persona non identificata gettò due bombe Molotov contro il teatro mentre era vuoto. Juliano a 52 anni fu ucciso a Jenin nel 2011 da un aggressore mascherato. Il caso del suo omicidio non è mai stato risolto.

Durante questa crisi Mustafa Sheta, l’alto e robusto direttore del teatro, dice che inizia ogni giorno sapendo che probabilmente non succederà niente di quello che aveva programmato.

Sheta ha un sorriso invitante, ti coinvolge intensamente quando parla del suo teatro o della guerra di Israele contro Gaza e dei frequenti attacchi contro la Cisgiordania occupata. Attacchi che in questi giorni avvengono quasi ogni volta che il 43enne parla con i visitatori del Freedom Theatre.

Due settimane fa – fra il 6 e il 10 novembre – ci sono stati attacchi multipli dell’esercito israeliano a Jenin e nei dintorni. Sheta e il personale del teatro erano dentro quando il 9 novembre, un giovedì, c’è stato un massiccio raid delle forze israeliane da mezzanotte fino all’alba di venerdì, che poi è ripreso a metà mattina. Ci sono stati scontri violenti accompagnati da attacchi di droni israeliani.

Prima che cominciasse la grande offensiva di giovedì notte c’erano già stati attacchi durante il giorno. La sera è stata interrotta l’elettricità e i militari hanno usato megafoni per annunciare che i civili avevano una finestra di due ore per lasciare il campo.

Quella notte, bambini, donne e uomini con pile o luci dei loro telefonini sono andati a piedi all’ospedale di Jenin in attesa che ricominciasse il raid. Durante la notte molti bambini sono rimasti intrappolati dentro le scuole aspettando che finissero le incursioni per potersi riunire alle loro famiglie. Quattordici palestinesi, alcuni di loro combattenti, sono stati uccisi.

Fare resistenza con l’arte

Perciò, data la probabilità di incursioni armate, il personale del teatro comincia ogni giorno cercando di scoprire se ce ne sarà una e Sheta dice che ha bisogno di sapere se il suo pubblico, i suoi quattro figli – due maschi e due femmine – il suo staff e le loro famiglie saranno al sicuro.

È molto difficile organizzare programmi regolari e quindi ha sempre un piano B. Ma dice che questo è il suo modo per resistere. E infatti “fare resistenza con l’arte” è il motto del teatro.

Anche noi facciamo parte della lotta,” aggiunge Sheta che crede che per liberare la Palestina dall’occupazione israeliana ci siano molti modi e che la lotta armata sia solo uno.

Sheta si considera un “guerrigliero culturale” ma neanche lui è sfuggito agli effetti della violenza. Suo padre, un insegnante delle superiori, è stato ucciso a Jenin dalle truppe israeliane nel 2002, proprio un mese prima che Sheta si laureasse, uno dei suoi sogni per i suoi figli.

Anche Sheta è stato arrestato nel passato ed è stato otto mesi in due carceri israeliane, accusato di “incitamento alla violenza”. Ha visto questa come un’opportunità per imparare qualcosa in più sulla situazione dei prigionieri. “La violenza contro i palestinesi in Cisgiordania, specialmente a Jenin, non è cominciata il 7 ottobre,” aggiunge.

Principalmente comunque crede nell’importanza di preservare la cultura palestinese e di stabilire un’identità per il suo popolo che vada oltre l’occupazione. “È ora di investire nella cultura palestinese. La lotta si fa a molti livelli, non solo con le armi.”

(tradotto dall’inglese da Mirella Alessio)




La città di Barcellona sospende le relazioni con Israele per la guerra contro Gaza

24 novembre 2023 – Press TV

 

Il Consiglio comunale di Barcellona ha sospeso le relazioni della città con il regime di Israele fino a quando quest’ultimo continuerà la sua attuale guerra mortale contro la Striscia di Gaza.

Il Consiglio ha preso la decisione venerdì rilasciando un’importante dichiarazione che obbliga il regime a “rispettare i diritti basilari del popolo palestinese”, come ha riferito l’agenzia turca Anadolu.

La dichiarazione è stata presentata dal partito di estrema sinistra ‘Barcelona en Comun’ dell’ex sindaca Ada Colau e appoggiata dal partito socialista del suo successore Jaume Collboni, nonché dal partito di sinistra separatista ‘Sinistra Repubblicana di Catalogna (ERC)’.

Il regime israeliano ha scatenato la guerra il 7 ottobre in seguito ad un’operazione, denominata ‘Tempesta di al-Aqsa’, dei gruppi della resistenza di Gaza.

L’Ufficio stampa del governo a Gaza ha comunicato in un rapporto giovedì che negli attacchi israeliani sono stati uccisi almeno 14.854 palestinesi, compresi oltre 6.150 minori e 4.000 donne e sono stati feriti altri 36.000.

Tel Aviv ha inoltre interrotto il rifornimento di acqua, cibo ed elettricità verso Gaza, precipitando la striscia costiera in una crisi umanitaria.

La dichiarazione di venerdì ha condannato tutti gli attacchi alla popolazione civile come anche “ogni punizione collettiva, spostamento forzato, distruzione sistematica di case ed infrastrutture civili e il blocco delle forniture di energia, acqua, cibo e medicine alla popolazione della Striscia di Gaza.”

Secondo la dichiarazione approvata a Barcellona, gli ostacoli principali ad una pace duratura sono “l’occupazione e la colonizzazione dei territori palestinesi” e “la negazione dei diritti” alla popolazione.

Altri membri di alto profilo del governo spagnolo, compresa l’ex ministra Ione Belarra, hanno censurato il “silenzio assordante” del proprio Paese e di altri alleati occidentali del regime israeliano sulla feroce guerra di Tel Aviv contro Gaza.

Sempre giovedì Belarra, che è stata rimossa dal suo incarico ministeriale all’inizio della settimana a causa delle sue critiche, ha detto in un post su X (ex Twitter) che lei e i suoi colleghi erano “preoccupati” che un viaggio compiuto precedentemente dal Primo Ministro spagnolo Pedro Sanchez nei territori occupati “potesse essere strumentalizzato per riabilitare il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu che è un criminale di guerra.”

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




La Palestina è il genocidio che noi, popolo ebraico, possiamo fermare

Amanda Gelender

24 novemebre 2023 – Middle East Eye

Non possiamo consentire che l’anima morale dell’ebraismo muoia a causa del nostro silenzio collettivo sulla guerra genocida contro i palestinesi a Gaza

Mi siedo per scrivere questa lettera d’amore al mio amato popolo ebraico, mentre un genocidio si svolge sul mio schermo.

Questa lettera sgorga dal mio cuore verso i vostri. È un appello all’azione per risollevarci in solidarietà con la Palestina. Ho tanta profonda tenerezza per noi, la nostra storia e le orgogliose tradizioni che abbiamo mantenuto attraverso secoli di indicibili ingiustizie.

Sono cresciuta come alcuni di voi andando alla sinagoga in una comunità ebraica progressista americana. Celebrare e sostenere Israele era parte di quello che significava essere ebrea dal punto di vista culturale e religioso. Quando sono arrivata per la prima volta a comprendere quanto stava realmente succedendo nei territori palestinesi occupati avevo 18 anni ed ero iscritta al primo anno di college. Una coetanea ebrea mi parlò dei soprusi che Israele commette nel nostro nome.

Non sono orgogliosa di ammettere che il fatto che lei fosse ebrea fu probabilmente la sola ragione per cui le diedi ascolto: mi era stato insegnato dalla mia comunità che solo il popolo ebraico può realmente capire quanto Israele sia importante per la nostra sicurezza e il nostro benessere. Ripensandoci, vorrei aver creduto prima ai palestinesi.

I palestinesi hanno autorità sulla loro lotta per la libertà. Ma l’indottrinamento e il timore instillatimi in quanto bambina ebrea era troppo forte da superare finché la bolla del sionismo è scoppiata. Quando sono arrivata ad apprendere per la prima volta la dimensione della continua brutalità di Israele contro il popolo palestinese ho stentato a crederci. Gli adulti ebrei della mia famiglia mi parlavano di giustizia, diritti umani e dell’obbligo morale degli ebrei di coltivare il cambiamento sociale e di “migliorare il mondo” (tikkun olam). 

Com’è possibile che il mio popolo possa omettere la verità riguardo all’apartheid e all’occupazione israeliane? Mi è stato insegnato che Israele venne fondato su un pezzo di terra vuoto, non che le bande terroristiche sioniste fecero irruzione nei villaggi uccidendo 15.000 palestinesi e cacciandone altri 750.000 durante la Nakba [la pulizia etnica del 1947-49, ndt.]. Semplicemente non ne sapevano niente, come me?

L’inganno sionista

La posizione secondo cui “chiunque critichi Israele è antisemita” è diventata sempre più debole di fronte alla crescente lista di crimini di guerra commessi da Israele. Se tutto quello che mi era stato detto riguardo a Israele non era vero, cos’altro era falso?

E cosa significa continuare a far parte della comunità ebraica, dato che di fatto tutti i miei coetanei ebrei sono ancora tacitamente o attivamente coinvolti nella menzogna del nazionalismo sionista?

Una volta svanita la negazione, è arrivata la rabbia. Persone di cui ci fidavamo ci avevano mentito; siamo stati ingannati in modo che sostenessimo uno Stato di apartheid che maltratta minorenni e tortura senza pietà nel nostro nome. Giovani ebrei, compresa me, sono stati coinvolti in un continuo genocidio contro il popolo palestinese durato 75 anni.

Ci sono state terribili, inimmaginabili violazioni dei diritti umani commesse con la scusa di proteggere le vite degli ebrei, quando in realtà una tranquilla pace coloniale è possibile solo attraverso la continua repressione dei palestinesi. Non c’è nessuna sicurezza per chi è sotto occupazione.

Ci è stato insegnato che Israele rappresenta una speranza di rifugio ritagliato per gli ebrei dopo l’Olocausto, qualcosa di prezioso che dobbiamo proteggere a ogni costo. Era “l’unica Nazione per il popolo ebraico”, la nostra patria, il nostro retaggio: Israele.

Ci è stato insegnato [che abbiamo] un intrinseco diritto su un pezzo di terra dall’altra parte del mondo. Israele era una seconda, possibile patria per noi, ma la storia guarda caso ometteva il fatto che la Palestina è l’unica patria per i palestinesi, che hanno posseduto la terra per generazioni.

Israele continua a negare ai palestinesi il diritto di visitarla e il diritto inalienabile di tornare inpatria, ma in quanto ebrea nata in California posso visitarla quando voglio e Israele mi pagherà persino per andarci a vivere su terra rubata ai palestinesi.

Non ci è stato insegnato che Israele è totalmente finanziato dagli USA e funge da avamposto strategico dell’Occidente imperialista per l’estrazione di materie prime, la sperimentazione di armi, l’addestramento della polizia statunitense e altro. Nessuno mi ha detto che la nascita di Israele ha richiesto la morte di palestinesi, una pulizia etnica opportunamente nascosta sotto il tappeto in modo che il popolo ebraico possa avere qualcosa di scintillante e pulito; che è una Nazione militarizzata fondata su mucchi di corpi di palestinesi bruciati, una patria ebraica costruita su fosse comuni di nativi.

Lotta per la libertà contro la colonizzazione

La storia di Israele non è nuova. È ben nota ai popoli colonizzati in tutto il mondo. Perpetua lo stesso suprematismo bianco, la menzogna colonialista che i coloni arrivati all’isola della Tortuga (nel Nord America) dissero a se stessi per giustificare il genocidio dei popoli indigeni: in nome del progresso, della modernità e della democrazia il colonizzatore deve demolire, uccidere e distruggere.

In base a questa menzogna il colonizzatore deve saccheggiare la terra come destino manifesto, dall’Atlantico al Pacifico, e uccidendo violentemente quanti più “terroristi nativi selvaggi” possibile per espandere le conquiste territoriali e costruire case sicure per le famiglie di coloni.

La Palestina non è impegnata in una guerra santa, è una lotta per la libertà dal colonialismo. I palestinesi non hanno scelto il popolo ebraico perché colonizzasse la loro terra e hanno il diritto morale e giuridico di resistere all’occupazione indipendentemente da chi sia l’occupante. La sicurezza degli ebrei è destinata al fallimento finché continuerà la violenta occupazione della Palestina. La nostra liberazione è strettamente collegata a ciò.

Siamo in un momento senza precedenti nella storia. Si sta svolgendo un genocidio davanti ai nostri occhi, mentre corpi sono ammassati in fosse comuni fuori dagli ospedali bombardati e dai campi profughi. Un movimento di solidarietà globale con la Palestina ha penetrato il velo di benessere occidentale, un’evasione dalla prigione dell’assedio.

E mentre l’esercito israeliano appoggiato dagli USA continua a far piovere bombe sul popolo di Gaza assediato, molti del mio popolo ebraico stanno seduti a guardare, o lo stanno appoggiando attivamente.

Con il nostro silenzio noi popolo ebraico nel mondo siamo co-firmatari di questo genocidio. Molti hanno considerato che è “troppo complicato”, con la minaccia di essere allontanati da amici, famiglia e colleghi. Non vogliamo rischiare conseguenze concrete.

Deludente asimmetria

Ma famiglie palestinesi vengono uccise nel sonno, brutalizzate con il fosforo bianco incendiario, prese di mira da cecchini nei reparti di maternità degli ospedali, fatti morire di fame e disidratati, senza acqua potabile e obbligati a marce della morte. Stanno estraendo morti, bambini insanguinati dalle polverose rovine di macerie bombardate.

Eppure i miei coetanei ebrei in Occidente dicono che sono loro a temere un genocidio. Questa deludente asimmetria deve finire, in modo che possiamo concentrare risorse e attenzione verso quelli che affrontano una minaccia concreta di eliminazione in questo massacro della dignità umana assolutamente evitabile.

La richiesta dei palestinesi in questo momento è chiara: cessate il fuoco subito. Fine dell’assedio contro Gaza e dell’occupazione illegale. Rispetto del diritto al ritorno. I palestinesi ci stanno chiedendo di testimoniare il loro genocidio, fare pressione sui nostri rappresentanti per un immediato cessate il fuoco e boicottare quanti stanno traendo profitto dall’occupazione illegale. Ogni giorno senza cessate il fuoco il numero di morti aumenta e Israele cancella altre famiglie dall’anagrafe.

La Palestina è il genocidio che il popolo ebraico può fermare. Non abbiamo potuto intervenire per bloccare la morte dei nostri predecessori nei campi della morte, ma possiamo e dobbiamo fermare questo genocidio dal continuare un giorno in più. Non sprechiamo il nostro urgente e sacro dovere sfruttando la sofferenza degli ebrei come scudo e clava per la violenza contro i palestinesi.

Se vi considerate persone ebree con una coscienza comprenderete che questo massacro non ha una giustificazione morale o giuridica. Questo è il momento di parlare. I palestinesi non possono aspettare che la storia li risarcisca, perché, mentre scrivo questa lettera di amore e rabbia a voi, miei fratelli ebrei, i bombardamenti aerei continuano a colpirli.

Non possiamo consentire che l’anima morale dell’ebraismo perisca con il suono del nostro silenzio collettivo sul genocidio. La nostra voce sia una preghiera per i nostri antenati ebrei e una benedizione per i nostri discendenti dicendo una volta per tutte: mai più.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Amanda Gelender è una scrittrice ebrea americana antisionista che vive in Olanda. Fa parte del movimento di solidarietà con i palestinesi dal 2006.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Lo scambio di prigionieri di Hamas e la guerra genocida di Israele: il contesto è cruciale

Iqbal Jassat

24 novembre 2023 – The Palestine Chronicle

In questa situazione è perfettamente logico che Hamas ricorra a mezzi creativi per spezzare la paralisi dell’assedio.

Storicamente la resistenza o la lotta armata da parte dei movimenti di guerriglia impegnati in combattimenti asimmetrici contro regimi canaglia hanno sempre catturato soldati nemici da impiegare come merce di scambio per ottenere vantaggi militari.

È fondamentale comprendere il contesto dell’operazione lanciata da Hamas il 7 ottobre, che l’estrema destra israeliana ha utilizzato come pretesto per lanciare un implacabile bombardamento via terra, mare e aria della popolazione civile di Gaza assediata.

* Gaza non è uno stato indipendente;

* È un campo di concentramento a cielo aperto per rifugiati palestinesi sotto occupazione militare israeliana;

* È sottoposto a un crudele blocco militare che lo isola dal mondo esterno;

* Non possiede un esercito, né aerei da caccia militari, né elicotteri e carri armati;

* Non ha nemmeno un aeroporto o un porto navale.

Quindi definire con disinvoltura il massacro di migliaia di persone da parte di Israele come una “Guerra contro Gaza”, come fanno alcuni media e commentatori, è fuorviante.

Ciò implica ingannevolmente che la guerra sia tra due Stati uguali, mentre la realtà è che Gaza si può definire solo come un’enclave “bantustan” che fa parte del territorio palestinese occupato.

Inoltre una componente importante della responsabilità della potenza occupante nei confronti dei 2,3 milioni di abitanti di Gaza ai sensi del diritto internazionale è sorprendentemente assente nel discorso pubblico.

La potenza occupante deve garantire un trattamento umano della popolazione e provvedere ai suoi bisogni primari, compresi cibo e assistenza medica.

Purtroppo, come sottolineato dal professor Abdelwahab El-Affendi in un recente articolo su Al Jazeera, i sostenitori di ieri della dottrina della “responsabilità di proteggere” sono oggi i maggiori sostenitori dell’assalto genocida di Israele a Gaza.

La considerazione fondamentale è che Israele occupa la Cisgiordania, Gerusalemme Est e Gaza, che collettivamente costituiscono i Territori Palestinesi Occupati (Opt), dal 1967. Contrariamente a quanto sostiene il regime israeliano, il ritiro da parte di Israele delle sue forze di terra non ha posto fine all’occupazione di Gaza.

Un altro elemento di confusione deliberatamente generato da Israele riguarda il valico di Rafah con l’Egitto. L’impressione che il Cairo ne abbia la piena sovranità è fuori luogo. La realtà è che Israele monitora tutte le attività al valico dalla sua base militare di Kerem Shalom. Decide quando l’Egitto può aprirlo, per quanto tempo e a chi e cosa è consentito entrare o uscire da Gaza.

La capacità dell’Egitto di esercitare la propria volontà diventa una buffonata se le forze di sicurezza israeliane supervisionano le liste dei passeggeri – decidendo chi può attraversare – e monitorano le operazioni e possono negare il “consenso e la cooperazione” necessari per mantenere aperto il valico.

In questo contesto è perfettamente logico che Hamas, in quanto movimento di liberazione indigeno, non solo ricorra a mezzi creativi per rompere la paralisi dell’assedio, ma anche per resistere al progressivo genocidio da parte degli occupanti.

La Resistenza palestinese è quindi in grado di assicurarsi di mantenere la superiorità morale avendo offerto il rilascio di civili tenuti come “ospiti” – qualche settimana fa – ma l’offerta è stata respinta da un intransigente gabinetto di guerra israeliano sostenuto dagli Stati Uniti.

Ora che un “accordo” è stato raggiunto, in netto contrasto con gli obiettivi di Netanyahu di eliminare Hamas, è importante notare che molti nel mondo, soprattutto tra i media, sono ora costretti a concentrarsi sul fatto che i prigionieri palestinesi in attesa di rilascio hanno nomi e identità degni di menzione – non sui profili anonimi preferiti dal carceriere per descriverli come terroristi.

I minori e le donne che fanno parte dei 150 da rilasciare sono stati incarcerati senza processo, in violazione del giusto processo e, a volte, tenuti per decenni in condizioni che possono essere definite come tortura

Grazie alla Resistenza saranno finalmente liberi; in verità molte altre migliaia di persone imprigionate in Israele semplicemente per aver fatto valere i propri diritti meritano la libertà.

Lo scambio simboleggia per i palestinesi in molti modi una svolta verso il raggiungimento della agognata libertà dalle grinfie di un’occupazione oppressiva e inflessibile che non riesce a imparare la lezione del Sud Africa: apartheid, razzismo, occupazione militare, negazione dei diritti umani sono insostenibili e destinati a fallire – con o senza il sostegno occidentale.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




La Spagna critica come ‘false’, ‘fuori luogo’ e ‘inaccettabili’ le accuse contro il primo ministro

Redazione di MEMO

24 novembre 2023 – Middle East Monitor

L’agenzia Anadolu riferisce che il ministro degli Esteri spagnolo Jose Manuel Albares ha condannato le accuse di venerdì rivolte dallo Stato di Israele contro i primi ministri spagnolo e belga come ‘false’, ‘fuori luogo’ e ‘inaccettabili’.

Ci sarà una risposta” ha avvisato Albares, ore dopo che il ministro degli Esteri israeliano Eli Cohen ha affermato che due leader europei stavano “appoggiando il terrorismo”.

Cohen ha affermato che lo Stato di Israele convocherà gli ambasciatori di entrambe le Nazioni a Tel Aviv per un “severo richiamo”.

L’ufficio del primo ministro israeliano ha anche dichiarato che il primo ministro spagnolo Pedro Sanchez e il primo ministro belga Alexander De Croo non “hanno attribuito tutta la responsabilità ad Hamas per i crimini contro l’umanità.”

A fronte del crescente conflitto diplomatico, Albares ha affermato che le false accuse dello Stato di Israele sono state “particolarmente gravi”, dato che la Spagna rappresenta l’Unione Europea in quanto attualmente ricopre la presidenza del Consiglio Europeo, una posizione che sarà assunta dal Belgio il 1 gennaio 2024.

Albares ha evidenziato il fatto che il governo spagnolo ha condannato l’attacco di Hamas chiedendo il rilascio incondizionato degli ostaggi e supportando il diritto dello Stato di Israele all’ autodifesa.

Questo non è incompatibile con il messaggio che stiamo ripetendo dal primo giorno… il diritto di autodifesa deve rispettare scrupolosamente il diritto umanitario internazionale” ha detto Albares ai media spagnoli, facendo notare “l’intollerabile numero di vittime palestinesi, inclusi i minori.”

Una delle principali finalità del viaggio di Sanchez in Israele, Palestina ed Egitto negli ultimi due giorni, dove ha incontrato i leader, tra cui il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il Presidente Palestinese Mahmoud Abbas, è stato di gettare le fondamenta per colloqui di pace.

La violenza porterà solo a più violenza. Abbiamo bisogno di sostituire la violenza con speranza e pace” ha affermato Sanchez venerdì sul lato egiziano del valico di Rafah.

Tuttavia il suo viaggio per la pace è finito in un battibecco diplomatico con lo Stato di Israele.

Gli spagnoli e la comunità internazionale troveranno sempre la Spagna nel gruppo di coloro che costruiscono la pace” ha affermato Albares.

Questo non è il primo scontro diplomatico tra Madrid e Tel Aviv dal 7 Ottobre, sebbene sia il più forte.

In ottobre l’ambasciata israeliana a Madrid ha accusato alcuni ministri spagnoli di essere allineati con “il terrorismo tipo ISIS” per le loro critiche all’assedio e ai bombardamenti israeliani a Gaza.

In quel momento il ministero degli Esteri spagnolo ha difeso i ministri, affermando che Israele aveva male interpretato le loro opinioni e insistendo sul fatto che in Spagna i dirigenti politici possono esprimere liberamente le proprie opinioni.

Venerdì, parlando dall’Egitto, Sanchez ha anche annunciato che mentre la Spagna promuoverà a livello europeo il riconoscimento dello Stato di Palestina, egli è disposto a riconoscerlo unilateralmente se le altre Nazioni non saranno d’accordo.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Guerra Israele Palestina: in Cisgiordania i coloni potrebbero già essere in possesso delle armi americane, avverte un ex funzionario

Dania Akkad

23 novembre 2023 – Middle East Eye

Fanno notizia le preoccupazioni per un recente ordine israeliano di fucili statunitensi. Ma secondo gli esperti anche se le armi americane non si trovassero nelle loro mani i coloni sono riusciti ad entrare in possesso di quelle israeliane.

Quando il mese scorso il ministro della Sicurezza nazionale israeliano Itamir Ben-Gvir ha iniziato a distribuire fucili dassalto ai civili, c’è stata un’immediata reazione da parte di Washington.

Secondo quanto riferito i funzionari statunitensi indignati avrebbero minacciato di bloccare le spedizioni di armi, inclusi 24.000 nuovi fucili che il ministero di Ben-Gvir aveva ordinato ad aziende americane.

Le armi fotografate in eventi pubblici ampiamente documentati non erano americane o, secondo quanto riferito, fornite dagli americani.

Tuttavia funzionari del Dipartimento di Stato e parlamentari statunitensi erano preoccupati che i nuovi fucili potessero essere consegnati ai coloni e usati contro i palestinesi nella Cisgiordania occupata, dove dopo il 7 ottobre la violenza dei coloni è aumentata rispetto a livelli già da record.

In tale periodo in Cisgiordania sono stati uccisi da soldati e coloni israeliani più di 200 palestinesi.

Nonostante le assicurazioni israeliane che le armi sarebbero state conseganate ad unità sotto il controllo della polizia nazionale israeliana, allinterno della Linea Verde [confine stabilito negli accordi d’armistizio arabo-israeliani del 1949 fra Israele e Paesi arabi confinanti, ndt.], gli Stati Uniti avrebbero ritardato la consegna di 4.500 fucili M-16.

Almeno questo è ciò che si può ricavare dai resoconti dei media israeliani e americani. Giovedì il Dipartimento di Stato ha rifiutato di rilasciare commenti su vendite commerciali dirette e conversazioni diplomatiche private.

Ma un ex funzionario del Dipartimento di Stato ha detto a Middle East Eye che è “quasi certoche le armi americane siano già utilizzate dai coloni in Cisgiordania.

Inoltre esperti sul controllo degli armamenti affermano che anche se le armi statunitensi esportate in Israele, finanziate attraverso gli aiuti militari statunitensi o acquistate a fini commerciali, non fossero nelle loro mani, i coloni potranno entrare in possesso dei fucili israeliani.

“Alcune delle armi che gli Stati Uniti avranno esportato saranno passate attraverso la licenza delle forze di difesa israeliane e naturalmente la maggior parte dei coloni in età per il servizio militare sono riservisti”, ha detto Josh Paul, che fino alle sue dimissioni del mese scorso era direttore dell’Ufficio di Affari di Politica Militare del Dipartimento di Stato.

Quindi nella maggior parte dei casi avranno le loro armi dall’esercito israeliano indipendentemente dal fatto che siano state consegnate o meno da Ben-Gvir ”.

MEE ha chiesto al Dipartimento di Stato se condivide la preoccupazione di Paul secondo cui le armi americane sarebbero probabilmente già nelle mani dei coloni in Cisgiordania.

Un portavoce non ha risposto direttamente alla domanda ma ha affermato che i governi che hanno ricevuto armi dagli Stati Uniti hanno la responsabilità di rispettare le condizioni dei trasferimenti e gli obblighi previsti dal diritto internazionale, compresi quelli relativi ai diritti umani.

Il portavoce ha anche affermato che pari attenzioni dovrebbero essere dedicate alla prevenzione della violenza estremista e alla consegna dei responsabili alla giustizia, compresi i membri delle forze di difesa e di sicurezza israeliani, così come della polizia nazionale israeliana, che restano a guardare e non intervengono.

Quante e quali tipi di armi americane siano arrivate in Israele nel corso degli anni costituisce un interrogativo che sfida anche i più ferrati esperti sul controllo degli armamenti.

Le informazioni più dettagliate disponibili al pubblico mostrano che nei primi nove mesi di questanno le esportazioni statunitensi verso Israele di rivoltelle, pistole e alcuni tipi di fucili sono aumentate in modo significativo rispetto ai tre anni precedenti.

Ma senza dati pubblici completi è impossibile per i contribuenti statunitensi e persino per i parlamentari valutare lentità delle esportazioni di armi statunitensi verso Israele e, soprattutto, quanto di questa sia approvata dal governo degli Stati Uniti.

“Se tutte queste vendite fossero completamente trasparenti per il Congresso e soprattutto per il pubblico penso che ci sarebbe molta più indignazione”, ha affermato Lillian Mauldin, tra le fondatrici e membro del consiglio di amministrazione di Women for Weapons Trade Transparency [Donne per la Trasparenza del Commercio delle Armi, ndt.] e ricercatrice presso il Center for International Policy [Centro di politica Internazionale, ndt.].

È nellinteresse delle aziende che le vendite di armi risultino incredibilmente difficili da tracciare, anche per persone che lavorano nel campo della ricerca sul controllo degli armamenti da decenni”.

Nel frattempo gli esperti affermano che i programmi del governo americano sul monitoraggio delle esportazioni di armi non sono impostati per tracciare il percorso delle armi leggere dopo la loro spedizione. Una volta spedite scompaiono, dice Paul.

Ciò lascia aperti degli interrogativi per i palestinesi in Cisgiordania come Mohammed al-Huraini.

“Prodotto negli USA“?

Al-Huraini è originario di Atuwani, uno dei villaggi della regione di Masafer Yatta, di circa 500 abitanti, nascosto tra le montagne a sud delle colline di Hebron.

Qui gli abitanti subiscono minacce di espulsione e ordini di demolizione da quando nel 1981 lesercito israeliano ha designato la loro terra come zona di esercitazione di tiro.

Huraini ora ha 19 anni e non ha mai conosciuto un momento in cui lui e la sua famiglia non abbiano subito pressioni per lasciare Atuwani.

Sua nonna, Fatemah, non vede da un occhio dopo che nel 2006 i soldati lhanno colpita durante una protesta. Lo scorso settembre i coloni hanno fratturato entrambe le braccia di suo padre Hafez.

Ma Huraini dice che dal 7 ottobre la situazione nel villaggio, raccolta attraverso filmati visionati da MEE e descritta da amici e familiari rimasti lì mentre lui frequenta l’università a Ramallah, è notevolmente cambiata.

I coloni hanno intensificato gli attacchi contro gli abitanti facendo irruzione nelle case e minacciando di uccidere chiunque non se ne vada. Indossano uniformi militari e sono tutti armati.

Prima non era così. Le persone ora hanno paura di affrontare [i coloni] perché sono a mani nude e non ricevono nessun aiuto, dice.

Suo cugino, Zakaria al-Adra, il 12 ottobre è stato colpito a distanza ravvicinata dai coloni con proiettili esplosivi che gli hanno squarciato lo stomaco. Da allora ha subito cinque operazioni.

Anche la casa degli Huraini è stata assalita e lorto della famiglia, che coltivavano da sei anni, è stato demolito con i bulldozer e sostituito da un tendone. Al-Huraini riferisce che non possono spostarsi nella loro proprietà o muoversi per fare la spesa senza essere presi di mira.

“Se ti avvicini ai 20 metri dalla casa iniziano immediatamente a sparare”, dice.

Prima almeno non avevi la sensazione che avresti potuto essere ucciso a sangue freddo. Adesso è più facile”.

Lanno scorso, dopo un attacco durato settimane da parte dellesercito e dei coloni israeliani contro il suo villaggio, Huraini ha trovato un contenitore di gas lacrimogeno fuori dalla sua casa con su scritto Made in USA”.

Non era la prima volta che vedeva un contenitore del genere ma era la prima volta che notava la scritta.

Siamo schiacciati dal potere del denaro e delle armi statunitensi, scrisse in quell’occasione. I cittadini americani dovrebbero sapere dove vanno le loro tasse e cosa finanziano”.

Ora si chiede se anche qualcuna delle armi moltiplicatesi nelle ultime settimane sia americana.

Limiti della Leahy

Tutte le armi americane finanziate o fornite come aiuto militare statunitense dovrebbero essere soggette alla legge Leahy, dal nome di Patrick Leahy, lex senatore democratico del Vermont che nel 1997 ha ideato la regolamentazione.

Secondo la legge ai dipartimenti statali e alla difesa degli Stati Uniti è vietato fornire assistenza in materia di sicurezza a governi stranieri che siano oggetto di accuse credibili di violazioni dei diritti.

Ma sia Paul, lex funzionario dell’ufficio del Dipartimento di Stato che sovrintende ai trasferimenti di armi, sia lo stesso Leahy hanno affermato che nel caso di Israele la legge non è stata applicata.

Nel corso degli anni ho protestato sia con lamministrazione repubblicana che con quella democratica sulla necessità di applicare la legge ad Israele”, ha detto la scorsa settimana Leahy al News & Citizen, un settimanale del Vermont.

Queste amministrazioni hanno sostenuto che Israele ha un sistema giudiziario indipendente, per cui non ci sarebbe bisogno. Recentemente abbiamo assistito agli sforzi volti a rendere la magistratura ancora meno indipendente di prima”.

Paul riferisce a MEE che allinterno del Dipartimento di Stato, riguardo alla Legge Leahy, Israele viene trattato diversamente rispetto aquasi tutti gli altri Paesi al mondo”.

Invece di controllare preventivamente le unità militari prima che ricevano questa roba, la inviamo e poi controlliamo eventuali violazioni dei diritti umani, dice Paul.

In precedenza ha affermato che il dipartimento ha trovato moltiesempi di unità israeliane sospettate di gravi violazioni dei diritti umani, ma non è mai stato in grado di giungere ad alcuna conclusione per cui dovesse essere richiesta lapprovazione da parte degli alti funzionari.

Un portavoce del Dipartimento di Stato non ha commentato direttamente le osservazioni di Paul e Leahy ma ha detto a MEE che ci si aspetta che qualsiasi Paese che riceva assistenza per la sicurezza dagli Stati Uniti la utilizzi in conformità con il diritto umanitario internazionale e le leggi sui diritti umani, e in conformità con gli accordi che ne regolano luso. Israele, ha detto, non fa eccezione.

Dettagli opachi

Nel frattempo il pubblico americano ha informazioni limitate sul tipo e sulla quantità delle armi da fuoco esportate in Israele, sia attraverso aiuti militari che tramite vendite commerciali.

La mancanza di trasparenza riguardo alle vendite di armi e gli aiuti militari statunitensi a Israele, il maggiore destinatario degli aiuti militari statunitensi a livello mondiale, è ben documentata.

E’ netto il contrasto tra le note informative del governo americano sulle armi fornite allUcraina, compresi kit di pronto soccorso e bende, e la scarsità di informazioni su ciò che viene inviato a Israele.

Questa opacità vale anche per le armi inviate a Israele: i dati sulle esportazioni di armi da fuoco statunitensi, qualunque sia il Paese destinatario, sono notoriamente difficili da ottenere.

Ciò è dovuto, in parte, al fatto che esistono restrizioni legali scritte da autorità di controllo finanziate con le tasse su quali informazioni possano essere fornite su determinate vendite.

Al Congresso, ad esempio, vengono comunicate solo le vendite di armi di valore superiore a soglie monetarie che variano a seconda del tipo di vendita, ma queste sono più elevate per i Paesi della NATO e altri cinque, compreso Israele.

Ciò significa che le vendite di armi leggere, che sono meno costose rispetto ad altri armamenti, sono particolarmente inclini a restare al di sotto della soglia e ciò ha determinato miliardi di dollari di vendite “non dichiarate al Congresso e al pubblico americano”, ha detto Mauldin.

I dettagli vengono regolarmente nascosti anche dai dipartimenti governativi statunitensi che sovrintendono alle licenze per l’esportazione di armi perché sostengono che si tratta di informazioni riservate la cui diffusione potrebbe indebolire le aziende statunitensi.

Le informazioni più dettagliate che MEE è riuscito a trovare sono i dati dell’US Census Bureau che mostrano che il valore totale delle armi e loro componenti esportate dagli Stati Uniti in Israele ha superato solo nei primi nove mesi di quest’anno il totale dei tre anni precedenti per ben cinque tipologie di armamenti.

Il valore degli articoli esportati che è aumentato in modo significativo riguarda rivoltelle e pistole, alcuni tipi di fucili, accessori e pezzi di ricambio per fucili e cartucce.

Seth Binder, direttore del settore assistenza legale presso il Project on Middle East Democracy a Washington, DC, ha affermato che il picco suggerito dai dati non è una grande sorpresa data l’intensità degli attacchi dei coloni in Cisgiordania e l’allentamento negli ultimi anni delle leggi israeliane al fine di consentire la concessione di più licenze di porto d’armi.

Quanto di questo proviene da finanziamenti militari stranieri? Sarebbe piuttosto interessante saperlo, ma queste informazioni non sono disponibili”, afferma Binder.

Ha ragione: i dati dellUS Census Bureau non dicono se i finanziamenti statunitensi siano stati forniti per assistere il governo o le aziende israeliane in questi acquisti o se alcuni [prodotti] siano stati inviati gratuitamente.

Quindi, anche se i dati mostrano che questanno c’è stato un forte aumento di componenti di armi e munizioni militari, non è chiaro quanto di questo sia stato sottoscritto dal governo degli Stati Uniti o dai contribuenti. Ma dalle bombe alle armi da fuoco, conoscere i dettagli è importante, sostiene Paul.

C’è qui un interesse intrinseco dei contribuenti statunitensi, prima di tutto su come vengono spesi i dollari dei contribuenti e se il modo in cui vengono spesi fornisce un netto positivo per la politica estera degli Stati Uniti, afferma.

Ciò è particolarmente vero in Israele, dove le armi americane sono lago della bilancia del conflitto.

“Le armi leggere e di piccolo calibro possono causare più danni di quanto la gente creda, in un modo più nascosto”, dice Mauldin.

“Ma il problema più grande è che ovviamente i finanziamenti statunitensi influenzeranno in modo sproporzionato il conflitto nel momento in cui concediamo miliardi di dollari, fondamentalmente una sovvenzione affinché Israele possa acquistare qualunque cosa voglia dagli Stati Uniti, comprese le armi leggere e di piccolo calibro”.

Limitazioni al monitoraggio

E c’è un altro mistero: dove sono le armi e componenti americane già presenti in Israele? Né il Dipartimento di Stato, che monitora le vendite commerciali, né il Dipartimento della Difesa, che monitora le vendite militari, sono in grado di tracciare le armi leggere.

Il programma Blue Lantern del Dipartimento di Stato pone fine ai controlli su circa il 2% delle licenze di esportazione di armi ogni anno, concentrandosi solitamente su nuove entità che compaiono nelle richieste di licenza o su aree in cui sussistono specifiche preoccupazioni guidate dallintelligence.

Quindi, per quanto riguarda le armi da fuoco destinate a Israele, è molto improbabile che si esegua qualsiasi tipo di controllo sulluso finale, presupponendo che siano destinate al governo israeliano e tramite entità logistiche note, afferma Paul.

Il programma Golden Sentry [sentinella d’oro, ndt.] del Dipartimento della Difesa si occupa in genere di armi molto più grandi e costituisce più uno strumento di controllo sulla localizzazione effettiva delle armi nellarsenale indicato da un’autorità militare straniera.

Gli esperti di armi con cui MEE ha parlato nelle ultime settimane hanno affermato che in questo momento il modo più semplice per rintracciare le armi americane in Cisgiordania sarebbe un’indagine fotografica.

Ma c’è anche un altro modo di vedere l’intera questione: anche se non è possibile risalire esattamente a dove siano finite le armi da fuoco statunitensi o se vengano utilizzate dai coloni in Cisgiordania, gli Stati Uniti sono comunque implicati.

Stiamo fornendo 3,8 miliardi di dollari in aiuti militari [all’anno, ndt.]. Si tratta di 3,8 miliardi di dollari che il governo israeliano non ha bisogno di utilizzare per lequipaggiamento militare perché lo forniamo noi, afferma Binder.

Fornire armi americane a Israele, sia attraverso aiuti militari sia attraverso vendite commerciali approvate dal governo degli Stati Uniti, funziona allo stesso modo.

Israele ha una propria industria nazionale e quindi, mentre garantisce che non forniranno armi americane ai coloni israeliani, di fatto lascia che le armi israeliane arrivino ai coloni, dice, aggiungendo che sarebbe rilevante e preoccupante se in questo momento le armi prodotte negli Stati Uniti venissero usate dai coloni.

In ogni caso, dal momento che lesercito israeliano o chiunque allinterno della linea verde utilizza armi statunitensi, se i coloni iniziassero a servirsi di quelle israeliane che differenza farebbe?

Huraini, che si sta preparando a tornare a casa per far visita alla sua famiglia ad Atuwani, ha detto di non essere un esperto di armi e di non essere sicuro se nei filmati che ha raccolto nelle ultime settimane i coloni stiano usando armi da fuoco americane.

Ma trova difficile capire come gli americani possano tollerare una tale politica finanziaria.

In realtà le persone stanno sostenendo con i loro soldi il genocidio, i crimini di guerra e le violazioni dei diritti umani, prosegue.

Non so dove [i soldi] siano finiti esattamente, per quali aiuti. Ma alla fine stanno sostenendo questo regime di apartheid che ha commesso di tutto contro il [nostro] popolo”.

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Quello che gli israeliani non vogliono credere sui palestinesi liberati in cambio degli ostaggi

Orly Noy

23 novembre 2023 – +972 Magazine

La lista dei palestinesi destinati a essere scambiati con israeliani dovrebbe far riflettere sul ruolo degli arresti di massa nell’occupazione.

Stamattina Israele e Hamas hanno definito i dettagli di un accordo per sospendere le ostilità nella Striscia di Gaza a quasi sette settimane dall’inizio della guerra. L’accordo include un cessate il fuoco di quattro giorni e lo scambio di 50 ostaggi israeliani con 150 “prigionieri di sicurezza” palestinesi con la possibilità di altri scambi in un secondo tempo. Questi sono i termini che Hamas avrebbe offerto a Israele settimane fa nelle prime fasi della guerra, ma il primo ministro Benjamin Netanyahu ha preferito lanciarsi in una guerra totale contro la Striscia assediata, uccidendo oltre 14.000 palestinesi, anche a scapito della salvezza e del benessere degli ostaggi israeliani, prima di prendere in considerazione un accordo. 

Israele ha pubblicato i nomi dei 300 prigionieri palestinesi che intende liberare come parte dell’accordo o in seguito alla liberazione di altri ostaggi israeliani, per permettere la presentazione di ricorsi nei tribunali israeliani contro il rilascio di specifici individui. Per il momento tutti gli ostaggi e i prigionieri da scambiare sono donne e minori. Tuttavia molti della destra israeliana e forse nell’opinione pubblica credono che il governo stia facendo una significativa concessione liberando pericolosi “terroristi” per il bene di pochi ostaggi.

Leggendo la lista dei prigionieri palestinesi scelti per il rilascio la prima cosa che colpisce è la loro età. La gran maggioranza, 287, ha 18 anni o meno, compresi cinque quattordicenni, cosa che solleva la domanda: come può un quattordicenne essere un “prigioniero di sicurezza?”

I nomi sulla lista includono persone che apparterrebbero a fazioni politiche palestinesi come Hamas, Fatah, Jihad Islamica e Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP), e anche molti che non sono affiliati ad alcun gruppo. Nessuno è stato condannato per omicidio. Alcuni sono stati condannati per tentato omicidio mentre la maggioranza è stata accusata di reati minori, fra cui molti arrestati per il lancio di pietre. Uno di loro, un diciassettenne, è stato dietro le sbarre per due anni per aver gettato pietre contro un veicolo militare israeliano a Gerusalemme, la stessa città dove i coloni ebrei possono scatenare disordini contro i palestinesi che raramente finiscono con indagini, men che meno arresti.

Ma soprattutto la lista è una sorprendente testimonianza di come arresti e incarcerazioni siano centrali nell’occupazione e nel controllo israeliano sui palestinesi. Secondo i dati dell’organizzazione israeliana per i diritti umani HaMoked, nel novembre 2023 Israele detiene 6.809 “prigionieri di sicurezza.” Di questi 2.313 stanno scontando una pena, 2.321 non sono ancora stati condannati dal tribunale, 2.070 sono in detenzione amministrativa (incarcerazione indefinita senza prove o giusto processo) e 105 sono “combattenti illegali” arrestati durante gli attacchi di Hamas del 7 ottobre nel sud di Israele.

Quasi tutti i 300 palestinesi destinati al rilascio sono prigionieri relativamente recenti, arrestati negli ultimi due anni. Fanno eccezione 10 donne di Gerusalemme e Cisgiordania che sono in prigione dal 2015-17, in maggioranza con l’accusa di aver commesso o tentato di commettere attacchi all’arma bianca contro soldati israeliani, alcuni senza aver causato alcun danno, mentre altri hanno provocato lesioni da lievi a moderate.

Va ricordato che tutto ciò è supervisionato dallo stesso sistema giuridico che, fra innumerevoli altri esempi, ha deciso di chiudere il caso contro un colono israeliano che ha accoltellato a morte un giovane palestinese nel maggio 2022 perché “non è possibile escludere la versione [del sospettato] di aver agito per legittima difesa.” È lo stesso sistema che a luglio di quest’anno ha assolto un poliziotto israeliano che ha ucciso Iyad al-Hallaq, un palestinese affetto da autismo, nonostante chiare testimonianze e video che provavano che era disarmato e non rappresentava un pericolo di alcun genere. 

Ciò va ad aggiungersi al fatto che i “prigionieri di sicurezza” sono giudicati da un sistema separato di tribunali militari che vanta un tasso di condanne tra il 95 e il 99%. Agli occhi del regime di apartheid israeliano la tolleranza è un diritto riservato solo agli ebrei.

Mentre gli ebrei che causano disordini, che attaccano e persino uccidono palestinesi godono dell’immunità, la lista dei prigionieri ci ricorda che i palestinesi possono essere arrestati in massa solo in base alle “intenzioni” di compiere un atto violento. Uno di quelli sulla lista, una donna di 45 anni di Gerusalemme, è stata in carcere per oltre due anni perché “è stata colta nella Città Vecchi con un coltello in mano,” e “ha detto che intendeva compiere un attacco.” Intanto il ministro kahanista [dell’estrema destra che si ispira al pensiero del rabbino Meir Kahane, ndt.] della Sicurezza Nazionale israeliana incita gli ebrei ad armarsi mentre distribuisce armi come caramelle e molti israeliani di destra stanno scrivendo innumerevoli messaggi, pubblici e privati, annunciando allegramente la loro intenzione di “ammazzare quanti più arabi possibile.”

Talvolta sul capo d’accusa non appare neanche “l’intenzione”. Un diciottenne di Gerusalemme è stato “arrestato con altri perché gridava ‘Allahu Akbar.” Una diciottenne della Cisgiordania è stata imprigionata per mesi per “incitamento su Instagram.” Fra gli israeliani, per contro, espliciti inviti al genocidio sono considerati un modo legittimo per sollevare il morale nazionale, mentre i palestinesi con cittadinanza israeliana possono essere arrestati per aver semplicemente postato la foto di una shakshuka [uova speziate, piatto magrebino poi introdotto in Israele e nord-Africa,] accanto a una bandiera palestinese.

Delle accuse elencate solo poche sono relative all’uso di armi e di aver sparato contro l’esercito israeliano (e persino in questi casi, non ci sono state vittime). La grande maggioranza degli episodi riguarda il lancio di pietre o molotov, lanciare fuochi di artificio e causare “disturbo alla quiete pubblica.” È valsa la pena di lasciar languire a Gaza gli ostaggi israeliani, donne e bambini, per alcune settimane per poter continuare a tenere in prigione un ragazzo che ha osato gridare “Dio è grande?”

Naturalmente questa lista è composta da prigionieri “deboli”, che non solleveranno molta opposizione pubblica, mentre i prigionieri palestinesi che sono stati accusati di reati ben più gravi e di omicidio restano nelle carceri israeliane. Ma i 300 nomi che Israele è riuscito a mettere insieme, quasi tutti giovani, arrestati negli ultimi due anni e imprigionati per qualche forma di resistenza popolare, dovrebbero indurre gli israeliani alla riflessione. 

Dopo tutto, c’è un chiaro legame fra la mano pesante usata per reprimere ogni espressione di opposizione da parte palestinese e il rafforzarsi dei gruppi armati che vedono la violenza come l’unico modo di sfidare seriamente gli occupanti. Ma questo richiederebbe che l’opinione pubblica israeliana finalmente cogliesse il fatto fondamentale che se l’oppressione continua, inevitabilmente, continuerà anche la resistenza.

Orly Noy è una giornalista di Local Call, un’attivista politica e traduttrice di poesia e prosa in farsi. È presidente del consiglio di amministrazione di B’Tselem e attivista del partito politico Balad. I suoi scritti trattano delle linee che intersecano e definiscono la sua identità di mizrahi, donna di sinistra, donna, migrante temporanea che vive dentro un’immigrata permanente e il continuo dialogo fra loro.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)