Nazioni Unite OCHA opt STRISCIA DI GAZA – Istantanea al 20 novembre 2023

L’istantanea fornisce una panoramica completa della crisi umanitaria in corso a Gaza al 20 novembre 2023, comprese le vittime, in particolare tra donne e bambini.

Danni significativi sono stati apportati alle infrastrutture basilari e ai servizi essenziali, colpendo la capacità delle persone di mantenere la propria dignità e gli standard di vita fondamentali.

Questa istantanea evidenzia i dati dell’impatto delle ostilità sulla popolazione di Gaza, dove si è verificata una grave crisi umanitaria.

PUNTI CHIAVE

Il 20 novembre, l’ospedale indonesiano di Beit Lahiya (nord di Gaza) è stato attaccato, provocando, secondo quanto riferito, almeno 12 morti, tra cui pazienti e loro accompagnatori, oltre a numerosi feriti. È la quinta volta che l’ospedale viene colpito dall’inizio delle ostilità. Secondo quanto riferito, è assediato e i pazienti e il personale non sono in grado di andarsene. A causa della mancanza di carburante, questa struttura sanitaria è soggetta a un’interruzione dell’energia elettrica e deve far fronte anche a una grave carenza di acqua, medicinali e forniture essenziali. In questo contesto, il 20 novembre l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha dichiarato che “gli operatori sanitari e i civili non dovrebbero mai essere esposti a un simile orrore, soprattutto all’interno di un ospedale”.

Gli ospedali e il personale medico sono specificamente protetti dal diritto internazionale umanitario (DIU) e tutte le parti in conflitto devono garantire la loro protezione. Gli ospedali non devono essere utilizzati per proteggere obiettivi militari da attacchi. Qualsiasi operazione militare intorno o all’interno degli ospedali deve adottare misure per risparmiare e proteggere i pazienti, il personale medico e gli altri civili. Devono essere prese tutte le precauzioni possibili, compresi avvertimenti efficaci, che tengano conto della capacità dei pazienti, del personale medico e degli altri civili di evacuare in sicurezza. Attacchi e carenze di carburante, medicinali, acqua potabile e altre risorse essenziali hanno fatto sì che la capacità dei posti letto ospedalieri in tutta Gaza sia scesa dai 3.500 letti, prima del 7 ottobre, ai 1.400 letti attuali. A ciò si aggiunge, dopo l’inizio della guerra, l’aumento esponenziale di coloro che richiedono cure. L’OMS denuncia carenze rilevanti per i pazienti con lesioni e altre malattie che richiedono il ricovero ospedaliero.

Il 20 novembre, sono entrati a Gaza, dall’Egitto, circa 40 camion che trasportavano attrezzature mediche, insieme a 180 medici e infermieri. Queste attrezzature e il personale medico sono destinati alla creazione di un secondo ospedale da campo giordano a Khan Younis, nel sud di Gaza, con una capacità di 150 posti letto.

In occasione della Giornata mondiale dell’infanzia, la coordinatrice umanitaria Lynn Hastings ha ribadito il suo appello “a tutte le parti in conflitto affinché proteggano i minori palestinesi e israeliani e i loro diritti”. Secondo il Ministero della Salute (MoH) di Gaza, al 10 novembre, 4.506 minori palestinesi sono stati uccisi e circa 1.500 risultano dispersi; questi ultimi potrebbero essere intrappolati o morti sotto le macerie, in attesa di essere salvati o recuperati. Secondo Save the Children, il numero di minori uccisi finora ha superato le cifre annuali registrate in tutte le zone di guerra dal 2019. Secondo il portavoce militare israeliano, almeno 33 minori israeliani sono stati uccisi il 7 ottobre e altri 40 minori sono tenuti in ostaggio a Gaza.

Il 20 novembre, circa altre 25.000 persone sono fuggite dal nord attraverso il “corridoio” di Salah Ad Deen. A causa della mancanza di spazio nei rifugi esistenti nel sud, migliaia di sfollati interni (IDP) dormono all’aperto, contro le pareti dei rifugi, in cerca di cibo, acqua e protezione. La loro situazione è notevolmente peggiorata nelle ultime 24 ore, poiché sono rimasti esposti alle forti piogge.

Il 19 novembre, verso le 11:30, secondo quanto riferito, le forze israeliane hanno colpito un edificio residenziale nella città di Gaza. L’attacco è avvenuto mentre le persone si accalcavano per prelevare acqua da un’adiacente stazione di desalinizzazione. Di conseguenza, sei palestinesi sono stati uccisi e dieci feriti.

Spostamenti

Il 20 novembre, l’esercito israeliano ha continuato a chiedere e ad esercitare pressioni sui residenti del nord affinché uscissero verso sud attraverso un “corridoio” lungo l’arteria principale del traffico, Salah Ad Deen Road, tra le 9:00 e le 16:00. Il team di monitoraggio dell’OCHA stima che circa 25.000 persone si siano spostate durante il giorno, la maggior parte delle quali sono arrivate a Wadi Gaza su carri trainati da asini o autobus, e alcune a piedi.

Le forze israeliane hanno arrestato alcune persone che si muovevano attraverso il “corridoio”. Gli sfollati interni intervistati dall’OCHA hanno riferito che le forze israeliane hanno istituito un posto di blocco senza personale in cui le persone vengono guidate a distanza per passare attraverso due strutture, dove si pensa sia installato un sistema di sorveglianza. Agli sfollati interni viene ordinato di mostrare i loro documenti d’identità e di sottoporsi a quella che sembra essere una scansione di riconoscimento facciale.

È stato osservato sempre più spesso il movimento di minori non accompagnati e di famiglie separate, comprese donne a cui è stato ordinato di lasciare i propri figli, durante tali spostamenti. In prossimità del corridoio si sono sentiti più volte bombardamenti intensivi.

Il 20 novembre il gruppo di monitoraggio dell’OCHA ha notato un aumento del numero di feriti che attraversavano il “corridoio”. Una donna intervistata ha riferito che proveniva da Tal Az Za’tar a Jabalia, dove la sua casa era stata bombardata e aveva riportato ferite da schegge nell’addome. Stava camminando premendosi un asciugamano sulle ferite. In precedenza, aveva tentato di farsi curare presso l’ospedale indonesiano, ma non era stata ricoverata a causa del collasso dei servizi.

Si stima che a Gaza siano oltre 1,7 milioni le persone sfollate interne. Quasi 900.000 di tali sfollati interni alloggiano in almeno 154 rifugi dell’UNRWA. I rifugi dell’UNRWA ospitano molte più persone rispetto alla capacità prevista e non sono in grado di accogliere i nuovi arrivati.

Il sovraffollamento contribuisce alla diffusione di malattie, tra cui malattie respiratorie acute e diarrea, suscitando preoccupazioni ambientali e sanitarie. In media c’è una doccia ogni 700 persone e un solo bagno ogni 150 persone. La congestione sta influenzando la capacità dell’UNRWA di fornire servizi efficaci e tempestivi.

Si stima che al 1° novembre oltre il 15% degli sfollati interni presentasse disabilità, ma la maggior parte dei rifugi non sono adeguatamente attrezzati per le loro esigenze. I rifugi non dispongono dei materassi e dei letti sanitari necessari, causando ulcere alle persone incapaci di muoversi e altri problemi medici che non possono essere curati in condizioni non sterilizzate. Il Relatore Speciale delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità chiede l’accesso incondizionato e senza restrizioni agli aiuti umanitari e ai soccorsi per le persone con disabilità della Striscia di Gaza.

Nei giorni scorsi, l’UNRWA, in collaborazione con l’ONG “Umanità e Inclusione”, ha fornito kit igienici, dispositivi di assistenza, occhiali, kit di pronto soccorso e kit per neonati a 3.830 persone con disabilità, feriti, bambini e anziani.

VITTIME PALESTINESI

VITTIME ISRAELIANE

GAZA: uccisi 11.078

feriti 27.490

ISRAELE: uccisi 1.200

feriti 5.400

Dati ONU, aggiornati al 10 novembre

Degli 11.078 palestinesi morti, 4.506 sono minori e 3.027 donne. Altri 2.700 circa (di cui 1.500 minori) risultano dispersi.

Traduzione a cura Associazione per la pace Rivoli




L’esercito israeliano chiede alla BBC di scusarsi per aver messo in dubbio la sua ‘prova’

Redazione di MEMO

21 novembre 2023 – Middle East Monitor

Il portavoce dell’esercito israeliano Peter Lerner ha chiesto alla BBC di scusarsi per aver messo in dubbio la “prova” dell’esercito riguardo alla presenza di Hamas nell’ospedale Al-Shifa a Gaza.

Lerner ha pubblicato su X [precedentemente Twitter, ndt.] il filmato di una telecamera di video sorveglianza con una descrizione orale di “armi, dispositivi di comunicazione, RPG [e una] Toyota carica di armi” che, a quanto afferma, l’esercito ha trovato nell’ospedale.

BBCWorld si scuserà? BowenBBC dirà che si è sbagliato?” chiede.

In un articolo pubblicato sabato, il caporedattore della BBC internazionale Jeremy Bowen ha messo in discussione la prova presentata dall’esercito israeliano secondo cui l’ospedale di Al-Shifa è stato usato come “quartier generale” di Hamas.

Ha anche criticato le restrizioni dell’esercito sui giornalisti stranieri che informano dall’Al-Shifa, affermando che “non c’è controllo indipendente dentro l’ospedale; i giornalisti non si possono muovere liberamente a Gaza e chi sta documentando sul sito sta lavorando sotto l’egida dell’esercito israeliano.”

La BBC ha riferito che le forze di occupazione israeliane hanno manipolato la presunta “prova” all’Al-Shifa prima di permettere ai giornalisti di entrare.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




‘Annienteremo tutti a Gaza’ – una canzone di bambini israeliani chiede la distruzione di Gaza

Redazione di Palestine Chronicle

20 novembre 2023 Palestine Chronicle

Una canzone di un gruppo di giovani israeliani intitolata “Bambini della generazione della vittoria” è recentemente diventata virale sulle piattaforme dei social media ebraici.

Il testo sollecita i soldati israeliani a distruggere tutto a Gaza.

Kan, l’emittente pubblica israeliana, l’ha trasmessa con il titolo ‘Annienteremo tutti a Gaza’, ma è poi stata costretta a rimuovere il video che aveva sollevato reazioni indignate in tutto il mondo.

Le parole di “Bambini della generazione della vittoria” esprimono sostegno a soldati e all’esercito israeliani e incita i bambini in Israele in particolare e tutti gli ebrei in generale, a distruggere i palestinesi.

Kan la descrive come “una canzone di amicizia,” sottolineando che “le sue nuove parole rappresentano i ragazzi della generazione vittoriosa, e che entro un anno  là non rimarrà più niente (riferendosi alla distruzione totale di Gaza), che questi ragazzi ritorneranno alle proprie case (gli insediamenti che circondano Gaza) e che il mondo vedrà come elimineremo il nostro nemico (i palestinesi).”

Secondo i media ebraici la nuova canzone è un adattamento di ‘Malvagità,’ scritta da Haim Ghouri. La nuova versione è interpretata da ragazzi/e israeliani/e tra i 6 e i 12 anni.

La nuova canzone è stata prodotta dal Rosenbaum Communications Group, con parole di Ofer Rosenbaum e Shulamit Stolero, che hanno sottolineato il loro desiderio di non cambiare il coro di “malvagità”, conosciuto in tutte le case di Israele.

L’autore della nuova canzone, Ofer Rosenbaum, ha detto ai media in ebraico:

I bambini del video appartengono alla generazione della vittoria, questi ragazzi sono forti, coraggiosi, amano la propria patria e hanno la sola richiesta che non si ripeta più: lo Stato di Israele deve la sicurezza a loro, alle loro famiglie e a tutti i cittadini e noi l’otterremo solo con una vittoria completa a Gaza, senza concessioni.”

Uno dei ragazzi che la cantano, Aden Nezof, 11 anni, dell’insediamento di Sderot, ha detto: “Io so e credo che i nostri soldati trionferanno sui terroristi, che la mia citta risorgerà e prospererà e che io potrò tornare a casa.”

Parole della canzone ‘Malvagità modificata

La notte autunnale scende sulla costa di Gaza

Gli aerei bombardano, distruzione, distruzione

Qui l’esercito israeliano attraversa il confine

Per sterminare quelli con la svastica

Fra un anno non resterà più nulla

E noi ritorneremo sani e salvi alla nostra patria

Entro un anno li elimineremo tutti

Ritorneremo ad arare i nostri campi.

E noi tutti ricorderemo

La bellezza e la purezza del cristallo

Perché questa malvagità

Non sarà dimenticata dai nostri cuori

l’amore sacro santificato dal sangue

Tornerà a sbocciare fra noi.

E ora basta con le parole

E le nostre anime urleranno

Perché la nostra anima non è solo la nostra patria

Perché oggi anche le nostre anime stanno combattendo

Una nazione sola, per l’eternità, per sempre

Non ci fermeremo e proteggeremo le nostre case

Non resteremo in silenzio e noi e voi vedremo

Come oggi i nostri nemici sono distrutti

E noi tutti ricorderemo

La bellezza e la purezza del cristallo

Perché tale malvagità

Non sarà dimenticata dai nostri cuori

l’amore sacro santificato dal sangue

Tornerà a sbocciare fra noi.

Il video della canzone ha ricevuto aspre critiche e suscitato molte polemiche.

Il giornalista e regista Dan Cohen ha twittato: “I bambini israeliani cantano, ‘Annienteremo tutti’ a Gaza. Questo video è stato caricato e rimosso dall’emittente nazionale @kann_news. Perché insegnano ai loro figli a odiare?”

L’analista Patrick Henningsen ha commentato: “Gli americani devono capire che il sionismo è un’ideologia razzista e genocida e proprio come ogni altro movimento o culto di supremazia etnica …”

L’attivista Lema Pal ha twittato:“I bambini vengono istruiti all’arte della guerra, a loro viene insegnato a dare la priorità a distruzione, uccisioni e sono educati ad approvare il conflitto e il genocidio!”

Secondo il ministero della Salute palestinese fino ad ora Israele ha ucciso oltre 13.300 palestinesi, fra cui 5.600 minori e 3.550 donne, oltre 31.000 sono i palestinesi feriti.

L’esercito israeliano continua a colpire case di civili in tutta la Striscia di Gaza e giungono notizie di nuovi massacri ovunque nell’enclave assediata.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Un influente capo della sicurezza nazionale israeliana propone il genocidio a Gaza

Jonathan Ofir

 20 novembre 2023 – Mondoweiss

In un editoriale intitolato “Non lasciamoci intimorire dal mondo”, il generale israeliano in congedo Giora Eiland sostiene che ogni palestinese di Gaza è un bersaglio legittimo e che persino una “grave epidemia” a Gaza “avvicinerà la vittoria”.

Dal 7 ottobre non sono certo mancati gli appelli al genocidio da parte di dirigenti israeliani, né chiari progetti, anche a livello ministeriale, di pulizia etnica totale a Gaza. E mentre il ricorso a eufemismi biblici, come il riferimento ad “Amalek” [irriducibile nemico degli ebrei nella Bibbia, ndt.] da parte del primo ministro israeliano Netanyahu potrebbe sembrare ad alcuni troppo vago, anche se la vicenda suggerisce l’uccisione di neonati, domenica il generale di divisione in congedo Giora Eiland, ex-capo del Consiglio di Sicurezza Nazionale e attuale consigliere del ministero della Difesa, ha deciso di parlare in modo più esplicito di genocidio.

In un articolo in ebraico sull’edizione cartacea del [giornale] di centro Yedioth Ahronoth intitolato “Non facciamoci intimorire dal mondo”, Eiland ha chiarito che tutta la popolazione civile di Gaza è un bersaglio legittimo e che persino “una grave epidemia nel sud della Striscia di Gaza avvicinerà la vittoria.” Le conclusioni non lasciano dubbi sulle sue opinioni:

Non sono solo i combattenti armati di Hamas ma anche tutti i funzionari ‘civili’, compresi gli impiegati degli ospedali e delle scuole, e anche tutta la popolazione di Gaza che hanno sostenuto entusiasticamente Hamas ed hanno acclamato le atrocità del 7 ottobre.”

Eiland si pronuncia contro le preoccupazioni umanitarie e ogni principio di distinzione:

Israele non sta combattendo un’organizzazione terroristica, ma lo Stato di Gaza.”

Di conseguenza per Eiland “Israele non deve fornire all’altra parte alcuna possibilità che ne prolunghi la vita.”

Eiland si fa beffe dell’idea delle “povere donne” come rappresentazione di civili non coinvolti:

Chi sono le ‘povere’ donne di Gaza? Sono tutte madri, sorelle o mogli degli assassini di Hamas.”

La definizione riprende quella dell’ex ministra della Giustizia di estrema destra Ayelet Shaked che, durante il massacro del 2014 [operazione militare “Margine protettivo” contro Gaza, ndt.], affermò che il nemico di Israele era tutto il popolo palestinese:

Dietro ogni terrorista ci sono decine di uomini e donne, senza i quali non potrebbe impegnarsi nel terrorismo. Ora ciò include anche le madri dei martiri, che li mandano all’inferno con fiori e baci. Dovrebbero seguire i loro figli, niente sarebbe più giusto. Dovrebbero andarsene, come le dimore fisiche in cui hanno allevato i serpenti. Altrimenti là verranno cresciuti altri piccoli serpenti.”

Eiland si oppone ad arrendersi alla sensibilità americana. Egli sostiene che le pressioni umanitarie (cioè, bloccare ogni necessità fondamentale per la sopravvivenza) è un mezzo legittimo di guerra:

Il governo israeliano deve assumere una linea più dura con gli americani e avere almeno la capacità di dire quanto segue: finché tutti gli ostaggi non saranno tornati in Israele, non parlateci degli aspetti umanitari.”

Bisogna resistere anche al resto della comunità internazionale, con le sue preoccupazioni umanitarie. Persino la diffusione di una grave epidemia è un legittimo mezzo di guerra:

La comunità internazionale ci mette in guardia da un disastro umanitario a Gaza e da una grave epidemia. Non dobbiamo evitarlo, per quanto possa essere difficile. Dopotutto, una grave epidemia nel sud della Striscia di Gaza avvicinerà la vittoria e ridurrà le vittime tra i soldati dell’IDF [l’esercito israeliano, ndt.].”

Ma no, Eiland non è un sadico né un genocida, tutto ciò non è altro che un mezzo per raggiungere un presunto lieto fine:

E no, qui non si parla di una crudeltà fine a se stessa, dato che non sosteniamo la sofferenza dell’altra parte come fine, ma come mezzo.”

L’editoriale vergognosamente genocidario di Eiland è stato appoggiato dal ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, che ha twittato l’articolo integrale e affermato di “essere d’accordo con ogni parola”. Smotrich è noto, tra le altre cose, per aver chiesto di “annientare Huwwara” [citttadina palestinese in cui c’è stato un pogrom antipalestinese ad opera di coloni, ndt.] in Cisgiordania, quindi non dovrebbe sorprendere che ora appoggi l’appello di Eiland a fare lo stesso a Gaza.

Un campo di concentramento

Eiland ha una lunga storia nel manifestare in modo sorprendentemente esplicito le sue opinioni sulle condizioni della Striscia di Gaza. Nel 2004, quando era capo del Consiglio per la Sicurezza Nazionale vedeva la Striscia di Gaza come “un grande campo di concentramento” mentre faceva pressione sugli USA perché espellessero i palestinesi nel deserto del Sinai come parte di una “soluzione a due Stati”.

Secondo il cablogramma di un diplomatico statunitense fatto filtrare a Wikileaks:

Ripetendo un’opinione personale che aveva in precedenza esposto a un altro funzionario del governo americano in visita, il direttore del CSN Eiland ha prospettato all’ambasciatore [USA in Israele, ndt.] Djerejian una soluzione finale diversa da quella comunemente concepita come con due Stati. La visione di Eiland, ha detto, è introdotta dall’immaginare l’assunto secondo cui la demografia e altre considerazioni rendono impraticabile la prospettiva della soluzione a due Stati tra il Giordano e il Mediterraneo. Attualmente, ha detto, ci sono 11 milioni di persone in Israele, in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, e questo numero arriverà in cinquant’anni a 36 milioni. L’area tra Beer Sheva e la punta settentrionale di Israele (compresa la Cisgiordania e Gaza) ha la maggior densità di popolazione al mondo. Gaza da sola, ha detto, è già un ‘grande campo di concentramento’ con 1.3 milioni di palestinesi. Oltretutto la terra è circondata su tre lati da deserti. I palestinesi hanno bisogno di più terra e Israele non può permettersi di cederla. La soluzione, ha affermato, si trova nel deserto del Sinai.”

È interessante vedere Eiland ammettere una simile situazione persino prima del “disimpegno” da Gaza del 2005, prima della vittoria elettorale di Hamas nel 2006 e dell’assedio genocida dal 2007, che è stato superato per gravità solo a partire dal 7 ottobre. A questo punto, vedere Gaza come un campo di concentramento sembra forse un termine troppo debole – è diventato un campo di sterminio.

Ecco la traduzione completa dell’articolo di Eiland:

Non lasciamoci intimorire dal mondo

Giora Eiland, Yedioth Ahronoth, 19 novembre 2023

Direttamente verso il crollo di Hamas

La discussione relativa all’ottemperanza da parte di Israele delle richieste internazionali per consentire l’ingresso di carburante a Gaza riflette il conflitto fondamentale tra Israele e gli USA riguardo la narrazione corretta.

Secondo quella americana a Gaza ci sono due gruppi di persone. Uno sarebbe costituito dai combattenti di Hamas, che sono terroristi brutali e devono di conseguenza morire. La grande maggioranza delle persone a Gaza fa parte di un secondo gruppo, civili innocenti che soffrono senza avere colpe. Di conseguenza Israele non solo deve evitare il più possibile di colpirle, ma anche agire per migliorarne la vita.

L’altra, e più corretta narrazione è la seguente: Israele non sta combattendo contro un’organizzazione terroristica, ma contro lo Stato di Gaza. Lo Stato di Gaza è in effetti sotto la guida di Hamas e questa organizzazione è riuscita a mobilitare tutte le risorse del suo Stato, l’appoggio della maggioranza dei suoi cittadini e l’assoluta lealtà della sua amministrazione civile attorno alla dirigenza di Sinwar [capo di Hamas a Gaza, ndt.] appoggiando pienamente la sua ideologia. In questo senso Gaza è molto simile alla Germania nazista, dove avvenne un processo simile. Dato che questa è la descrizione corretta della situazione, lo è anche il fatto di condurre la guerra di conseguenza.

Una guerra tra Stati non si vince solo sul piano militare, ma anche con la capacità di una parte di spezzare il regime dell’avversario ed è della massima importanza la sua capacità dal punto di vista economico e in primo luogo quella di fornire energia. Il collasso della Germania all’inizio del 1945 fu dovuto principalmente alla perdita dei campi di petrolio in Romania, e una volta che la Germania non ebbe abbastanza carburante per i suoi aerei e carri armati la guerra venne vinta.

Quindi Israele non deve fornire all’altra parte alcuna possibilità che ne prolunghi la vita. Oltretutto ci diciamo che Sinwar è talmente malvagio che non gli importa se tutti gli abitanti di Gaza muoiono. Una simile rappresentazione non è corretta, perché chi sono le ‘povere’ donne di Gaza? Sono tutte madri, sorelle o mogli di assassini di Hamas. Per un verso sono parte dell’infrastruttura che appoggia l’organizzazione e dall’altro, se essi fanno l’esperienza di un disastro umanitario, allora si può supporre che alcuni dei combattenti di Hamas e i comandanti più giovani inizino a comprendere che la guerra è inutile e che è meglio impedire danni irreversibili alle proprie famiglie.

Il modo per vincere la guerra più in fretta e a un costo minore per noi richiede un collasso del regime dell’avversario e non la semplice uccisione di più combattenti di Hamas. La comunità internazionale ci avverte del disastro umanitario a Gaza e di una grave epidemia. Non dobbiamo evitarlo, per quanto possa essere difficile. Dopotutto, una grave epidemia nel sud della Striscia di Gaza avvicinerà la vittoria e ridurrà le vittime tra i soldati dell’IDF. E no, qui non si parla di una crudeltà fine a se stessa, dato che non sosteniamo la sofferenza dell’altra parte come fine, ma come mezzo.

All’altra parte è concessa la possibilità di porre fine alle sofferenze se si arrende. Sinwar non si arrenderà, ma non c’è ragione per cui i comandanti della milizia di Hamas nel sud della Striscia di Gaza non si arrendano dato che non hanno né carburante né acqua, e quando l’epidemia colpirà anche loro e il pericolo per le vite delle loro donne aumenterà. Il governo israeliano deve assumere una linea più dura con gli americani e avere almeno la possibilità di dire quanto segue: finché tutti gli ostaggi non saranno tornati in Israele, non parlateci degli aspetti umanitari.

E sì, crediamo che anche la pressione umanitaria sia un mezzo legittimo per aumentare la possibilità di salvare gli ostaggi. Ma non dobbiamo, assolutamente, adottare la narrazione americana che ci “permette” di combattere solo contro i miliziani di Hamas invece di fare la cosa giusta: combattere contro l’intero regime nemico, perché è esattamente il crollo dei civili che avvicinerà la fine della guerra. Quando importanti personalità israeliane dicono ai media “Si tratta di noi o di loro”, dovremmo chiarire la questione di chi sono “loro”. “Loro” non sono solo i combattenti di Hamas con le armi, ma anche tutti i funzionari “civili”, compresi gli impiegati degli ospedali e delle scuole, e anche tutta la popolazione di Gaza che ha sostenuto entusiasticamente Hamas ed ha acclamato le atrocità del 7 ottobre.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Craig Murray: Attivare la Convenzione sul genocidio

Craig Murray

19 novembre 2023 – Consortium News

Non c’è dubbio che il bombardamento da parte di Israele dei civili palestinesi e la privazione di cibo, acqua e altre necessità vitali costituiscano motivo per appellarsi alla Convenzione sul genocidio del 1948.

Sono 149 gli Stati che aderiscono alla Convenzione sul Genocidio. Ognuno di loro ha il diritto di segnalare pubblicamente il genocidio in corso a Gaza e di denunciarlo alle Nazioni Unite.

Nel caso in cui un altro Stato contraente contesti laccusa di genocidio, e Israele, Stati Uniti e Regno Unito sono tutti Stati contraenti, allora la Corte internazionale di Giustizia è tenuta a pronunciarsi sulla responsabilità dello Stato per genocidio”.

Questi sono gli articoli salienti della Convenzione sul Genocidio:

Articolo VIII

Ogni Parte contraente può invitare gli organi competenti delle Nazioni Unite a intraprendere, ai sensi della Carta delle Nazioni Unite, le azioni che ritengono appropriate per prevenire e reprimere atti di genocidio o qualsiasi altro atto elencato nell’articolo III.

Articolo IX

Le controversie tra le Parti contraenti relative all’interpretazione, applicazione o adempimento della presente Convenzione, comprese quelle relative alla responsabilità di uno Stato per genocidio o per qualsiasi altro atto contemplato nell’articolo III, saranno sottoposte alla Corte internazionale di Giustizia su richiesta di una delle parti in causa”.

Si noti che qui parti in causa” significa gli Stati che contestano

le azioni genocidarie, non le parti coinvolte direttamente nel genocidio/conflitto. Ogni singolo Stato contraente può appellarsi alla convenzione.

Non c’è dubbio che le azioni di Israele equivalgano a un genocidio. Lo hanno affermato numerosi esperti di diritto internazionale e lintento genocida è stato espresso direttamente da numerosi ministri, generali e funzionari pubblici israeliani.

Definizione di Genocidio

Questa è la definizione di genocidio nel diritto internazionale in base alla Convenzione sul Genocidio:

Articolo II

Nella presente Convenzione per genocidio si intende qualsiasi dei seguenti atti commessi con l’intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, in quanto tale:

(a) Uccidere membri del gruppo;

(b) Causare gravi danni fisici o mentali a membri del gruppo;

(c) Infliggere deliberatamente al gruppo condizioni di vita intese a provocarne la distruzione fisica totale o parziale;

(d) Imporre misure intese a impedire le nascite all’interno del gruppo;

(e) Il trasferimento forzato di bambini del gruppo in un altro gruppo”

Non vedo ragioni per mettere in dubbio che lattuale campagna israeliana di bombardamenti contro civili e di privazione di cibo, acqua e altri beni di prima necessità per i palestinesi equivalga a un genocidio ai sensi dell’articolo II a), b) e c).

Vale la pena considerare anche gli articoli III e IV:

Articolo III

Sono punibili i seguenti atti:

(a) Genocidio;

(b) Cospirazione per commettere un genocidio;

(c) Incitamento pubblico e diretto a commettere un genocidio;

(d) Tentativo di commettere un genocidio;

(e) Complicità nel genocidio.

Articolo IV

Saranno punite le persone che commettono un genocidio o uno qualsiasi degli altri atti elencati nellarticolo III, siano essi governanti costituzionalmente competenti, funzionari pubblici o privati”.

Esistono consistenti elementi di prova che le azioni degli Stati Uniti, del Regno Unito e di altri nel fornire apertamente sostegno militare diretto da utilizzare nel genocidio rappresentino complicità nel genocidio.

Il significato dellArticolo IV è che gli individui, e non solo gli Stati, sono responsabili. Quindi il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, il presidente degli Stati Uniti Joe Biden e il primo ministro britannico Rishi Sunak hanno una responsabilità individuale. Lo stesso vale in realtà per tutti coloro che chiedono l’annientamento dei palestinesi.

L’attivazione della Convenzione sul genocidio sarebbe decisamente opportuna. Una sentenza della Corte Internazionale di Giustizia che dichiarasse Israele colpevole di genocidio avrebbe uno straordinario effetto diplomatico e causerebbe difficoltà interne nel Regno Unito e persino negli Stati Uniti nel continuare a sovvenzionare e armare Israele.

Rapporto tra CIG e CPI

La Corte Internazionale di Giustizia è la più rispettata delle istituzioni internazionali; mentre gli Stati Uniti non hanno riconosciuto la sua competenza vincolante, il Regno Unito non lo ha fatto e lUE la recepisce concretamente.

Se la Corte Internazionale di Giustizia stabilisce [il verificarsi di] un genocidio, allora la Corte Penale Internazionale non è tenuta a stabilire se il genocidio sia [o meno] avvenuto.

Questo è importante perché, a differenza della prestigiosa e indipendente CIG, la CPI è in gran parte unistituzione fantoccio dei governi occidentali che se possibile se ne terrà fuori.

Ma una decisione della Corte Internazionale di Giustizia in merito al genocidio e alla complicità nel genocidio ridurrebbe il compito della Corte Penale Internazionale all’individuazione dei responsabili. Questa è una prospettiva che può effettivamente modificare i calcoli dei politici.

C’è anche il fatto che un riferimento al genocidio costringerebbe i media occidentali ad affrontare la questione e a usare il termine, invece di limitarsi a diffondere della propaganda sul fatto che Hamas abbia basi di combattimento negli ospedali.

Inoltre una sentenza della Corte Internazionale di Giustizia farebbe automaticamente scattare un dibattito allAssemblea Generale delle Nazioni Unite e non al Consiglio di Sicurezza, bloccato dal veto occidentale.

Tutto ciò solleva la questione del perché nessuno Stato si sia ancora appellato alla Convenzione sul Genocidio. Ciò è particolarmente significativo, in quanto la Palestina è uno dei 149 Stati che aderiscono alla Convenzione sul Genocidio, e a tal fine avrebbe potuto presentarsi davanti sia alle Nazioni Unite che alla CIG.

Temo che la questione riguardante il motivo per cui la Palestina non si sia appellata alla Convenzione sul Genocidio ci porti dentro oscuri meandri. Chiunque, come me e George Galloway, si sia fatto le ossa nella politica di sinistra di Dundee degli anni 70 ha fatto propria (una lunga) esperienza legata ai rapporti con Fatah, e le mie simpatie sono sempre state fortemente rivolte a Fatah piuttosto che ad Hamas.

Lo sono ancora, insieme allaspirazione a una Palestina democratica e laica. È Fatah ad occupare il seggio palestinese alle Nazioni Unite, e la decisione che la Palestina attivi la Convenzione sul genocidio spetta al presidente palestinese Mahmoud Abbas.

Ogni giorno è sempre più difficile sostenere Abbas. Sembra straordinariamente passivo, ed è impossibile scacciare il sospetto che sia più interessato a impedire una guerra civile palestinese che ad opporsi al genocidio.

Appellandosi alla Convenzione sul Genocidio potrebbe rimettere se stesso e Fatah al centro della narrazione. Ma non fa nulla. Non voglio credere che le motivazioni di Mahmoud risiedano nella corruzione e nelle promesse da parte del segretario di Stato americano Antony Blinken di ereditare Gaza. Ma al momento non posso aggrapparmi a nessunaltra spiegazione a cui dar credito.

Ciascuno dei 149 Stati aderenti potrebbe appellarsi alla Convenzione sul Genocidio contro Israele e i suoi complici. Tra di loro ci sono Iran, Russia, Libia, Malesia, Bolivia, Venezuela, Brasile, Afghanistan, Cuba, Irlanda, Islanda, Giordania, Sud Africa, Turchia e Qatar. Ma nessuno di questi Stati ha denunciato il genocidio. Perché?

Non è perché la Convenzione sul genocidio sia lettera morta. Non è così. È stata invocata contro la Serbia dalla Bosnia-Erzegovina e la Corte Internazionale di Giustizia si è pronunciata contro la Serbia in merito al massacro di Srebrenica. Ciò ha portato immediatamente ai procedimenti giudiziari da parte della CPI.

Alcuni Stati potrebbero semplicemente non averci pensato. Per gli Stati arabi in particolare, il fatto che la stessa Palestina non si sia appellata alla Convenzione sul Genocidio può fornire una scusa. Gli Stati dellUE possono nascondersi dietro lunanimità del blocco [occidentale].

Ma temo che la verità sia che nessuno Stato si preoccupa delle migliaia di bambini palestinesi già uccisi e delle migliaia di altri che lo saranno a breve tanto da introdurre un altro fattore di contrasto nelle loro relazioni con gli Stati Uniti.

Proprio come nel vertice dello scorso fine settimana in Arabia Saudita, dove i Paesi islamici non sono riusciti a concordare un boicottaggio sul petrolio e gas nei confronti di Israele, la verità è che chi è al potere non ha davvero a cuore un genocidio a Gaza. Si preoccupa dei propri interessi.

È sufficiente che uno Stato faccia ricorso alla Convenzione sul Genocidio per cambiare la narrazione e le dinamiche internazionali. Ciò avverrà solo grazie al potere delle persone di imporre tale idea ai propri governi. Questo è il modo in cui tutti possono fare qualcosa per aumentare la pressione. Per favore, fate il possibile.

Tanto di cappello all’infaticabile Sam Husseini, il giornalista indipendente che ha insistito sulla Convenzione sul Genocidio alla Casa Bianca.

Craig Murray è un autore, conduttore televisivo e attivista per i diritti umani. È stato ambasciatore britannico in Uzbekistan dall’agosto 2002 all’ottobre 2004 e rettore dell’Università di Dundee dal 2007 al 2010. La sua attività giornalistica dipende interamente dal supporto dei lettori. Sono gradite sottoscrizioni per mantenere attivo questo blog.

Questo articolo è tratto da CraigMurray.org.uk.

Le opinioni espresse sono esclusivamente dell’autore e non riflettono necessariamente quelle di Consortium News.

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Secondo gli apparati di sicurezza israeliani molto probabilmente Hamas non non sapeva in anticipo del Nova Festival

Josh Breiner

18 novembre 2023 – Haaretz

Alti funzionari della sicurezza israeliana ipotizzano che Hamas abbia scoperto del Nova music festival dai droni o da quelli che volavano con i deltaplani e abbia diretto i terroristi verso la zona usando i propri sistemi di comunicazione

La convinzione che sta sempre più prendendo piede tra gli apparati di sicurezza israeliani è che i terroristi di Hamas che hanno commesso il massacro del 7 ottobre non sapessero in anticipo che il Nova Music Festival si teneva vicino al kibbutz Re’im e che abbiano deciso di prenderlo di mira sul momento. Secondo la polizia al rave sono state uccise 364 persone.

La valutazione si basa sugli interrogatori dei terroristi e sulle indagini della polizia che fra altre cose hanno rivelato che i terroristi intendevano infiltrarsi nel kibbutz di Re’im e in altri vicino al confine di Gaza.

Secondo una fonte della polizia l’inchiesta dimostra anche che un elicottero da combattimento delle Forze di Difesa Israeliane arrivato sul luogo ha aperto il fuoco sui terroristi colpendo anche alcuni dei partecipanti al festival.

Alti funzionari della sicurezza ipotizzano che Hamas abbia scoperto del Nova music festival dai droni o da quelli che volavano con i deltaplani e abbia diretto i terroristi verso la zona usando i propri sistemi di comunicazione. In un video di una delle bodycam dei terroristi si sente uno di loro chiedere indicazioni per dirigersi verso Re’im a un cittadino catturato.

Secondo la polizia e altri alti funzionari della sicurezza uno dei ritrovamenti che lo confermerebbe è che i primi terroristi sono arrivati sul luogo dalla Route 232 [strada parallela al confine che collega i kibbutz del Negev settentrionale, ndt.], non dalla frontiera.

Inoltre, sempre secondo fonti della polizia, il rave inizialmente era previsto per giovedì e venerdì e il sabato è stato aggiunto solo il martedì precedente su richiesta degli organizzatori. Questo cambiamento all’ultimo minuto rafforza l’ipotesi che Hamas non sapesse dell’evento.

Secondo le nostre stime, all’evento hanno partecipato circa 4.400 persone, la grande maggioranza delle quali è riuscita a scappare dopo la decisione di abbandonarlo presa quattro minuti dopo l’attacco con i razzi,” ha detto una fonte della polizia.

Le analisi della polizia mostrano che molti dei partecipanti al festival sono riusciti a scappare perché è stato deciso di interromperlo mezz’ora prima che si sentissero i primi spari.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Un gran numero di palestinesi morti e feriti a causa del bombardamento israeliano sulla scuola di Gaza che ospitava persone sfollate

Redazione di MEMO

17 novembre 2023 – Middle East Monitor

Palestine TV ha riferito che c’è stato un gran numero di morti e feriti a causa del bombardamento di venerdì che ha preso di mira una scuola di Gaza City in cui si sono rifugiate persone sfollate.[50 morti e decine di feriti fonte Al Jazeera 19 nov.ndt]

Secondo quanto riportato dall’agenzia Anadolu, un canale affiliato all’Autorità Palestinese con sede a Ramallah, in Cisgiordania, ha affermato che più di 20 persone sono state uccise e altre 100 ferite nel bombardamento della scuola Al-Falah, nel quartiere meridionale Zeitun di Gaza City, che ospita sfollati.

Da parte israeliana non ci sono stati commenti riguardo a questa notizia.

Venerdì mattina presto Palestine TV ha annunciato l’arrivo di 120 corpi dai governatorati di Gaza e Gaza Nord all’ospedale indonesiano, nella parte settentrionale della Striscia di Gaza.

Secondo gli ultimi dati, da quando Israele ha cominciato a bombardare Gaza il 7 ottobre almeno 11.500 palestinesi sono stati uccisi, tra cui 7.800 donne e minori, e oltre 29.200 sono stati feriti.

Un blocco israeliano ha anche tagliato a Gaza le forniture di carburante, elettricità e acqua e ha ridotto l’invio di aiuti a ben poco.

Nel contempo secondo dati ufficiali il numero dei morti israeliani è di circa di 1.200.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Forze israeliane uccidono tre palestinesi durante un’incursione militare su vasta scala a Jenin

Redazione di Palestine Chronicle

17 novembre 2023 – Palestine Chronicle

L’agenzia di notizie ufficiale palestinese WAFA ha informato che nelle prime ore di venerdì mattina tre palestinesi sono stati uccisi e molti altri feriti quando le forze di occupazione israeliane hanno preso di mira con attacchi con i droni il campo profughi di Jenin, nel nord della Cisgiordania occupata.

Testimoni oculari nel campo hanno dato notizia che nel quartiere di Hawashin del campo profughi un drone israeliano ha bombardato un assembramento di palestinesi, provocando la tragica uccisione di tre persone e il ferimento di altre nove, alcune in condizioni critiche.

Le vittime sono state identificate come il ventitreenne Baha Jamal Lahlouh, in trentaquattrenne Mohammed Azmi Husseiniya e Mohammed Abu Al-Hassan, di 28 anni.

Invasione su vasta scala

L’incursione israeliana a Jenin ha impegnato una significativa presenza militare, compresi unità speciali e bulldozer blindati.

Le forze di occupazione hanno attaccato vari quartieri in città e nel vicino campo profughi, schierando cecchini sui tetti di alcuni edifici.

Durante il raid le forze israeliane hanno fatto irruzione in una struttura residenziale del quartiere di Jabariyat in città, arrestando alcuni palestinesi e facendo esplodere diversi veicoli di proprietà della famiglia Rukh. L’attacco militare israeliano si è esteso ai quartieri di Jabal Abu Dhuhair, Khallet al-Soha ed alla periferia del campo profughi di Jenin.

Scavatrici Caterpillar D9 che accompagnavano i soldati israeliani hanno anche iniziato a devastare infrastrutture in città e all’ingresso del campo profughi di Jenin, provocando danni alle strade e alle auto parcheggiate.

Sono state segnalate interruzioni nelle comunicazioni in quanto le forze israeliane hanno bloccato il segnale nella città e nel campo di Jenin, ed è stata tolta l’elettricità in vari quartieri della città.

Un ospedale assediato

Inoltre l’esercito israeliano ha assediato anche l’ospedale Ibn Sina di Jenin, ha interrogato il personale medico e ha creato una situazione di tensione nella zona.

Secondo testimoni, l’ospedale è stato circondato per parecchie ore, con accurate perquisizioni da parte dell’esercito israeliano di ambulanze che si trovavano nei pressi e richieste di evacuazione dell’ospedale attraverso altoparlanti.

Testimoni oculari hanno anche raccontato che le forze israeliane hanno evacuato dall’ospedale con la forza personale medico, obbligandolo a stare con le mani in alto prima di sottoporlo a perquisizioni nel cortile dell’ospedale.

Le fonti affermano che parecchi lavoratori della sanità sono stati interrogati.

Nel contempo l’esercito israeliano di occupazione si è schierato nei pressi dell’ospedale governativo di Jenin lanciando una raffica di candelotti lacrimogeni tossici. L’uso indiscriminato di agenti chimici nei pressi dell’ospedale ha provocato problemi respiratori a molti civili a causa dell’inalazione di gas.

(traduzione di Amedeo Rossi)




Studenti dell’Università di Haifa finiscono davanti a un tribunale israeliano per i loro post sui social media

Yoav Haifawi  

16 novembre 2023Mondoweiss

Questa settimana cinque studenti dell’Università di Haifa sono stati fermati per i loro post sui social media relativi al 7 ottobre. Yoav Haifawi era presente alla loro udienza per vedere come sarebbe stata difesa la “sicurezza di Stato”.

I casi più tragici nell’ultima ondata di arresti politici tra i palestinesi nella Palestina del ’48 [cioè in Israele, ndt.] raccontano tutti una storia quasi identica. Si sono svegliati presto sabato mattina, il 7 ottobre, e hanno trovato nei feed sui loro social media alcune immagini innocenti di civili palestinesi che valicavano gli odiati muri lungo la Striscia di Gaza o gioiose immagini di festeggiamenti su veicoli militari israeliani abbandonati. Senza la minima idea di cosa sarebbe successo in seguito, hanno condiviso queste immagini su Facebook o Instagram. La didascalia più comune che accompagnava queste immagini era, con alcune variazioni, “Buongiorno!”. Poi, quando hanno sentito i notiziari e si sono resi conto del sanguinoso conflitto che stava per iniziare, si sono affrettati a rimuovere questi post.

La seconda caratteristica comune che questi sfortunati prigionieri condividono è di aver avuto amici sionisti che seguivano i loro social media, che hanno fatto degli screenshot dei post e li hanno denunciati alle autorità.

Centinaia di queste persone sono quindi cadute vittima del sistema “giudiziario” israeliano furiosamente vendicativo e sono state successivamente arrestate, più di un mese dopo a decine sono ancor detenute in dure condizioni nelle prigioni di “sicurezza” in Israele. Io ho preso visione dei loro capi d’accusa che descrivono in dettaglio tutte le atrocità che Israele attribuisce ad Hamas, con alcune esagerazioni che non appaiono neppure nella propaganda ufficiale israeliana. Ma poi arriva il colmo: postando questa o quella immagine sulla loro pagina sui social media gli accusati/le accusate hanno appoggiato queste organizzazioni terroristiche, lodato questi atti terroristici e incoraggiato altre persone a commettere attività terroristiche. Secondo l’accusa in considerazione dei terribili tempi presenti gli imputati costituiscono un concreto pericolo alla sicurezza di Stato e non dovrebbero essere rilasciati su cauzione.

Naturalmente, dopo la prima ondata di arresti causati dai post sui social media, le cose hanno cominciato a calmarsi. La nostra illusione di vivere in un Paese democratico con la libertà di parola è rapidamente evaporata. Molti hanno smesso di postare o hanno chiuso del tutto i loro profili. 

L’Università di Haifa provoca l’arresto di studenti arabi

Questa settimana abbiamo assistito a un’altra ondata di arresti per i post sui social relativi al 7 ottobre. Come avevo precedentemente riferito, organizzazioni di studenti sionisti hanno organizzato campagne per monitorare gli studenti arabi sui social media e denunciarli all’amministrazione dell’università. Sabato e lunedì di questa settimana, circa una settimana dopo che l’Università di Haifa ha finito di tenere audizioni disciplinari, la polizia ha incarcerato 5 dei suoi studenti.

Dopo la detenzione degli studenti, Yousef Taha, il direttore dell’Organismo Congiunto del Blocco degli Studenti Arabi nelle università e college (nella Palestina del ‘48), ha riferito al sito web di informazioni “Arabs 48“: 

Quello che è successo con gli studenti dell’’Università di Haifa è veramente strano, visto che settimane fa gli studenti sono stati convocati dalle commissioni disciplinari che hanno imposto loro sanzioni. Ma l’università non si è accontentata. Ha quindi inoltrato alla polizia le foto di quanto pubblicato dagli studenti, comportandosi come un ‘informatore’ che denuncia i propri studenti alla polizia. A sua volta la polizia li ha arrestati. Durante le sessioni del tribunale che si sono tenute quando è stato esteso il periodo di detenzione degli studenti, i poliziotti hanno ammesso il ruolo dell’università.”

Taha aggiunge: “Quello che l’Università di Haifa sta facendo verso gli studenti arabi è assolutamente inaccettabile, specialmente perché un’ampia percentuale dei suoi studenti proviene dalla comunità araba. Un’università non deve giocare il ruolo di informatore e causare l’incarcerazione dei propri studenti, ma dovrebbe proteggerli.”

Per quanto riguarda il numero degli studenti che sono stati perseguitati per i loro post, Taha afferma che “i casi che ci sono arrivati e di cui ci siamo occupati sono oltre 130, studenti e studentesse che hanno ricevuto convocazioni alle commissioni disciplinari o che sono stati sottoposti/e ad altre misure. Dato che alcuni studenti non ci hanno contattato ma hanno consultato avvocati privati, stimiamo che il numero totale sia oltre i 160 studenti dall’inizio della guerra.”

Dopo la loro incarcerazione i cinque studenti sono stati condotti al tribunale di Acri per la custodia cautelare. Oggi, giovedì 16 novembre, i cinque studenti e altri due detenuti per [post su] Facebook sono stati convocati per la loro seconda udienza di custodia. Ho accompagnato all’udienza la legale della difesa Afnan Khalifa.

Occupazione fai da te

Akka (il nome arabo, in Occidente conosciuta come “San Giovanni d’Acri”) è un’antica città con una storia di oltre 5 mila anni. È situata a circa 20 chilometri a nord di Haifa, sull’altra sponda dell’omonima baia. La “Nuova Haifa” è stata fondata nel 1761 da Daher al-Omar, il governatore palestinese che si era ribellato contro l’Impero Ottomano, la cui capitale era Acri. Egli iniziò la costruzione delle massicce mura, che poi permisero ai difensori locali di sconfiggere l’invasione dell’armata napoleonica. Da allora Haifa ha rubato ad Acri il ruolo di centro amministrativo ed economico della Palestina settentrionale, e Acri è diventata la sorella povera di Haifa. Nel 1948 ciò ha fatto la sua fortuna, poiché qui la pulizia etnica della popolazione arabo palestinese è stata meno vasta. Dei 50.000 abitanti di Acri circa un terzo sono arabi, ma nei dintorni dell’hinterland della Galilea c’è una chiara maggioranza araba.

Il tribunale di Acri rispecchia la composizione demografica locale. NelI’aula del giudice Ziad Salih, che ha tenuto le udienze per la custodia cautelare, erano quasi tutti arabi: la pubblica accusa, i detenuti, le loro famiglie e i loro avvocati, le guardie del tribunale. Per quanto ho potuto vedere, solo la dattilografa che ha battuto a macchina il verbale non era di madrelingua araba. Questa composizione in un tribunale israeliano che gestisce la “sicurezza di Stato” è uno spettacolo strano a vedersi. Tutti gli attori ufficiali recitano in ebraico i testi previsti da mettere a verbale. Quando vogliono veramente parlare uno con l’altro passano all’arabo e il loro tono diventa più umano e amichevole.

Sembrava che il giudice Salih non fosse a suo agio nel suo ruolo e fosse rattristato dal destino degli studenti (la maggior parte studentesse) che spediva a passare altro tempo in dure condizioni in carcere, nonostante le scarse prove contro di loro. Ma era impossibilitato a rifiutare la consuetudine dominante nel Paese secondo cui tutte le dichiarazioni di solidarietà a favore dei palestinesi sono estremamente pericolose. Mi sono chiesto quanto sarebbe importato a coloro che venivano rimandati in custodia se il giudice li avesse allegramente umiliati come fanno alcuni giudici ebrei, o compianto il loro destino.

A coronare questa strana esperienza di occupazione fai da te, mentre stavo aspettando che cominciasse l’udienza ho avuto uno strano incontro. Un ufficiale di polizia in uniforme mi si è avvicinato, cercando di concentrarsi mentre mi fissava e mi ha chiesto: “Dove l’ho già vista prima?” 

Dato che alcuni fascisti locali hanno pubblicato la mia foto su internet in seguito alla mia ultima incarcerazione, ho sviluppato un’estrema attenzione verso gli sconosciuti che sembrano riconoscermi. Ma lui ha continuato: “Lei è dell’Abna al-Balad, vero?” riferendosi al movimento palestinese di sinistra a cui appartengo. 

Lei chi è e perché mi sta facendo queste domande?” ho replicato. 

Mi ricordo di lei e apprezzo molto le sue posizioni,” ha risposto. “Anch’io ero nell’Abna al-Balad quando ero studente e prima di indossare questa uniforme.”

Tutti in custodia cautelare, eccetto una

Delle sette udienze a cui ho assistito oggi ad Acri, tutte erano relative a singoli post sui social media della mattina del 7 ottobre, in seguito volontariamente rimossi. Per sei dei sette detenuti è stata confermata la custodia cautelare, salvo una studentessa che la polizia ha deciso di mandare agli arresti domiciliari. Non era chiara la differenza, visto che aveva condiviso la stessa immagine degli altri studenti, ma ha offerto un momento di allegria per tutti noi e le lacrime di angoscia sono state temporaneamente sostituite da lacrime di gioia.

I detenuti sono apparsi in video su Skype, che oggi funzionava. La maggior parte erano studentesse e assistevano all’udienza dal carcere di Damon, dove sono detenuti molti prigionieri politici palestinesi.

Quando è apparsa in video la studentessa che stava per essere rilasciata, il giudice ha lasciato l’aula. L’avvocata Khalifa ha colto l’opportunità di chiederle delle sue condizioni in carcere. La studentessa ha detto di essere stata picchiata in prigione da due guardie, ma di non saperne i nomi. Quando le ha chiesto se avesse visto altre prigioniere picchiate, lei ha spiegato che le guardie portano le prigioniere nelle docce e lì le picchiano, così gli altri sentono i rumori ma non vedono le percosse. Poi Khalifa ha chiesto se c’erano state anche minacce. La studentessa ha detto di sì. Khalifa ha chiesto se era stata minacciata di stupro (ieri abbiamo sentito un’altra prigioniera che lo denunciava) – e lei ha detto di no. Quali minacce erano state fatte contro di lei? Ha replicato che le avevano detto (non sono sicuro se durante gli interrogatori o le guardie carcerarie) che sapevano il suo indirizzo e che anche se fosse stata rilasciata dal tribunale sarebbero andati a casa sua per vendicarsi.

È solo l’esempio più recente di come nell’Israele di oggi il confine fra “forze dell’ordine” e gang di fascisti sia labile e tutto diventi un continuum repressivo.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Il prestigioso festival del documentario di Amsterdam deve affrontare boicottaggi e proteste a seguito delle dichiarazioni anti-palestinesi

Niloufar Nematollahi

16 novembre 2023 – Mondoweiss

Oltre 20 registi si sono ritirati dallInternational Documentary Film Festival di Amsterdam in seguito alla condanna del discorso sulla liberazione della Palestina e al rifiuto di prendere posizione contro lattacco genocida di Israele contro Gaza. 

I registi stanno adottando delle iniziative contro lInternational Documentary Film Festival di Amsterdam (IDFA) in seguito alla ingannevoli dichiarazioni nel corso della presentazione del festival, allattacco allo slogan From the River to the Sea Palestine Will be Free” [Dal fiume al mare la Palestina sarà libera, ndt.] e al rifiuto di solidarizzare con i palestinesi di fronte allattacco genocida di Israele contro Gaza.

LIDFA, il più grande festival internazionale del documentario al mondo, ha una tradizione di valorizzazione dei registi palestinesi. Ma le ultime dichiarazioni ed eventi del festival sono stati visti come un doloroso tradimento.

Come ha spiegato il regista di Gaza Mohammed Almughanni

durante uno dei suoi discorsi allIDFA: Se mi riconoscete come regista che mette sulla scena il dolore dei palestinesi ma non riconoscete che i palestinesi debbano avere una vita dignitosa la vostra attenzione per i miei film non significa nulla per me. “I film non significano nulla per me se non avete a cuore una Palestina libera per i personaggi dei miei film”. In un altro discorso Almughanni ha reagito allattacco dellIDFA contro lo slogan From the River to the Sea Palestine Will be Free” dicendo: Se non volete che cantiamo per la libertà dal fiume al mare, allora da dove a dove? Da questo muro di ferro a quell’altro? Da questo filo spinato al successivo?”

Finora 21 registi hanno ritirato i loro film, e gli interventi di solidarietà con la Palestina continuano a dominare il festival.

Dichiarazioni dell’IDFA

Il 10 novembre l’IDFA ha rilasciato una dichiarazione in cui si scusava per l’esposizione di uno striscione con lo slogan From the River to the Sea Palestine Will be Free” durante un evento organizzato in occasione dell’apertura del festival dall’organizzazione attivista Lavoratori per la Palestina (WFP), con sede nei Paesi Bassi. Nella dichiarazione lIDFA manifestava gratitudine verso coloro che avevano espresso il dolore provatoa cospetto dello slogan e dellazione di protesta contro il silenzio iniziale del festival sul genocidio a Gaza. Nella dichiarazione viene citato il direttore artistico del festival Orwa Nyrabia, che definisce lo slogan offensivoe afferma che non rappresenta lIDFA e non ha avuto ne avrà la sua approvazione”.

All’inizio della giornata era stata resa nota una petizione a nome della comunità cinematografica e documentaristica israeliana che criticava gli applausi calorosiverso i manifestanti da parte di Nyrabia l8 novembre, serata di apertura del festival. Anche se, secondo la legge olandese, lo sloganFrom the River to the Sea Palestine Will be Free” non è considerato antisemita rientrando nelle libertà di espressione, la petizione fonde lidea di liberazione palestinese con lantisemitismo, sostenendo che permettere e applaudire una dichiarazione significativa come Dal fiume al mare la Palestina sarà liberasarebbe un appello a favore dello sradicamento di Israele, della patria ebraica e degli ebrei in generale”.

In seguito alla dichiarazione dellIDFA del 10 novembre i registi hanno iniziato a ritirare i loro documentari dal festival e a rilasciare dichiarazioni con la richiesta di un cessate il fuoco, condividendo il vero significato dello slogan criminalizzato ed esprimendo il loro sostegno allazione di protesta condotta la sera dellinaugurazione del festival. Anche i moderatori, gli artisti, i membri della giuria e lo staff del festival hanno presto iniziato a dimettersi e a criticare lapproccio del festival nei confronti del genocidio in Palestina e il modo in cui le voci dei manifestanti sono state messe a tacere. In una lettera condivisa con Mondoweiss, scritta da un gruppo di dipendenti del festival e rivolta ai direttori dell’IDFA, viene criticato l’uso da parte dell’IDFA nella sua dichiarazione del pronome “noi”, che sembrerebbe voler esprimere “la posizione dell’organizzazione nel suo insieme, mentre molti membri dello staff del festival sono solidali con la Palestina e non riconoscono le proprie convinzioni riflesse nelle dichiarazioni dell’IDFA.

La regista palestinese Basma al-Sharif è stata una delle prime a ritirare il suo film e la sua partecipazione come membro della giuria dell’IDFA, criticando il festival per aver condannato lo slogan invece di “denunciare il genocidio che sta avendo luogo proprio adesso a Gaza”.

“Dal fiume al mare è la terra della Palestina storica che si estende dal fiume Giordano al Mar Mediterraneo”, ha condiviso in una dichiarazione collettiva scritta da un gruppo di registi dell’IDFA allarmati dalla risposta del festival al suddetto slogan. Dal fiume al mare i palestinesi sono soggetti alle condizioni delloccupazione e dellapartheid. Dal fiume al mare I palestinesi dovrebbero unirsi nella lotta per la libertà, la giustizia e l’autodeterminazione. Dal fiume al mare vogliamo che palestinesi ed ebrei, lavoratori stranieri e rifugiati, siano uguali e liberi, aggiunge questo gruppo di documentaristi.

Maryam Tafakory, unaltra regista che si è ritirata dal festival, ha rilasciato in seguito una dichiarazione, affermando di sentirsi tradita e indignata dalla dannosa calunniacontro lo slogan da parte dellIDFA e dallenfasi della sua dichiarazione sul sogno universale di un mondo pacifico”. Per pace intendono solo il ritorno alloccupazione, al furto silenzioso della terra e allomicidioha scritto. Non esiste una via di mezzo in uno Stato di apartheid. Non c’è via di mezzo quando una parte ammette la pulizia etnica dellaltra, ha aggiunto.

Tafakory ha anche preso di mira una seconda dichiarazione rilasciata dall’IDFA il 10 novembre, poche ore dopo la prima che condannava la dichiarazione sulla libertà della Palestina. Nella seconda dichiarazione lIDFA ha chiesto un cessate il fuoco immediato, ma molti registi filo-palestinesi e palestinesi hanno ritenuto che il tono di scusa della seconda dichiarazione non riuscisse a esprimere una solidarietà con la lotta palestinese per la liberazione. La velleità dellIDFA di presentare dei film di palestinesi rifiutandosi di fare una chiara dichiarazione di solidarietà con loro è una forma di sfruttamento commerciale della lotta palestinese e una manifestazione di un modello che non è esclusivo dellIDFA ma una pratica endemica delle istituzioni artistiche occidentali che sfruttano lotte di emancipazione e popoli espropriandoli del loro pieno significato a scopo di profitto.

Protesta contro il silenzio del festival

Riflettendo sui discorsi, dichiarazioni e ritiri seguiti alla protesta durante la serata di apertura dell’IDFA, la produttrice e curatrice cinematografica Yara Yuri Safadi, che ha lavorato con il festival come moderatrice ma quest’anno ha deciso di dimettersi in seguito alla dichiarazione dell’IDFA, ha spiegato a Mondoweiss che nelle settimane precedenti il festival aveva aspettato che l’IDFA facesse un appello per un cessate il fuoco. Ma è arrivato il primo giorno del festival e l’IDFA ha mantenuto il silenzio.

Ho deciso comunque di andare alla serata inaugurale”, afferma Safadi, e ho aspettato che Orwa dicesse quelle poche parole: Gaza, Palestina, cessate il fuoco, liberazione”. Dal momento che il direttore artistico del festival non ha condiviso questi sentimenti durante il suo discorso di apertura Safadi, insieme ad altri manifestanti, ha tirato fuori due striscioni, uno con lo slogan From the River to the Sea, Palestine will be Free” e un altro con la scritta: Institutional silence is violence” [Il silenzio istituzionale è violenza, ndt.]. Safadi ha gridato cessate il fuoco adessomentre altri hanno portato uno degli striscioni sul palco, appendendo laltro alla balconata accanto a una bandiera palestinese e interrompendo il business as usual” dellevento. Safadi afferma che lappello dei manifestanti per un cessate il fuoco è stato accolto con fischi dal consiglio dellIDFA. Chi può fischiare contro una richiesta di cessate il fuoco? Chi può vietarmi di chiedere di fermare un genocidio?ha chiesto nel rievocare i fatti durante un discorso tenuto il 13 novembre.

Tuttavia durante l’azione gli altri partecipanti e lo staff dell’IDFA si sono alzati in piedi e hanno applaudito i manifestanti. Dopo aver diffuso il filmato di questo atto di protesta, Workers For Palestine, un gruppo di attivisti di recente costituzione che sostiene la liberazione della Palestina occupata allinterno delle istituzioni artistiche, sociali, accademiche e civiche dei Paesi Bassi, ha scritto: Sembra che lIDFA apprezzi i palestinesi solo quando servono come foglia di fico progressista per il loro istituto, contrapponendo allammissione al festival di opere di registi palestinesi il doloroso silenzio dell’IDFA su Gaza e il suo attacco alle voci filo-palestinesi di fronte al colonialismo di insediamento israeliano e al genocidio in corso.

Ritiro del Palestine Film Institute

Dopo una prima ondata di ritiri il numero di registi che rifiutano di presentare i propri film all’IDFA continua a crescere. Il 12 novembre, il Palestine Film Institute (PFI) ha pubblicato una petizione in cui annunciava la propria solidarietà ai manifestanti che avevano interrotto linaugurazione del festival e il suo ritiro dallIDFA. Il PFI, un istituto indipendente creato con lo scopo di sviluppare, promuovere e preservare il cinema palestinese, collabora con l’IDFA da sette anni, inclusa la creazione del Palestine Documentary Hub: un evento annuale di un giorno in cui i registi di documentari palestinesi presentano i loro progetti in corso per creare rapporti con lindustria cinematografica internazionale.

Il giorno prima del Documentary Hub di questanno, con tutto ciò che sta accadendo allIDFA, ci siamo chiesti: cosa significa presentare progetti sulla Palestina allIDFA oggi?Lo ha spiegato a Mondoweiss Mohanad Yaqubi, consulente e ideatore del programma pubblico del PFI. Alla fine il PFI ha deciso di procedere con le presentazioni da parte delle registe palestinesi Dalia Al-Kury, Elettra Bisogno e Noora Said come mezzo per rivendicare lo spazio del festival, rilasciando tuttavia la dichiarazione di ritiro dell’istituto da tutte le attività organizzate nello spazio di mercato all’IDFA. Hanno fatto le loro presentazioni, ed è stato sorprendente perché il loro contenuto mostra le profonde connessioni tra ciò che sta accadendo oggi e la narrazione palestinese, il film documentario palestinese, aggiunge Yaqubi.

Dopo il ritiro dal festival il PFI ha anche lanciato una petizione e ha invitato i registi a continuare ad agire in solidarietà con la Palestina. Il PFI ha esortato i registi a firmare la loro petizione, a ritirare i loro film dal festival e a criticare direttamente la risposta dellIDFA alle proteste filo-palestinesi o a utilizzare domande e risposte, discorsi e sezioni d’incontro per concentrarsi sulla Palestina. I registi che si sono ritirati dal festival hanno anche chiesto allIDFA di riconoscere la criminalizzazione dei contenuti delle voci e delle narrazioni palestinesi e di annunciare pubblicamente il motivo per cui le proiezioni sono state cancellate, cosa che il consiglio del festival si è fino ad ora rifiutato di fare.

Nonostante il tradizionale risalto concesso dallIDFA ai registi palestinesi Yaqubi afferma che oggi si sente tradito dal tardivo appello del festival per un cessate il fuoco e dalla sua incapacità di mostrare solidarietà ai registi palestinesi. I cineasti palestinesi hanno dovuto rivelare le loro emozioni, il che è un carico gravoso, davanti a persone e in spazi in cui confidavano per far capire allIDFA che si tratta di 75 anni di occupazione, ha detto a Mondoweiss. “Questo tradimento della fiducia è la parte più difficile.”

Il 13 novembre, il giorno dopo aver reso pubblico il proprio ritiro, il Palestine Film Institute ha annunciato una protesta davanti a una delle sedi principali del festival, il Teatro Internazionale di Amsterdam. Non possiamo continuare a fare affari come al solito, hanno scritto, invitando i registi e i membri del pubblico dellIDFA a unirsi alla loro richiesta per un cessate il fuoco immediato, la fine del genocidio e la fine delloccupazione della Palestina”.

La solidarietà continua

Più di 50 manifestanti si sono radunati davanti alla sede dell’IDFA, dove sono state lette le dichiarazioni di ritiro scritte dai registi e dagli artisti, come Tafakory e Geo Wyex. Come ha spiegato Safadi a Mondoweiss, voglio sottolineare che la maggior parte dei registi e dello staff IDFA che ci hanno sostenuto aderendo al ritiro o leggendo dichiarazioni prima e dopo le loro proiezioni e dedicando domande e risposte alla Palestina, provengono dal Sud del mondo, dal Sud Africa, Iran, o appartengono a popolazioni indigene e/o persone che si identificano come queer. Tutto il sostegno è arrivato da queste persone e dalle reti di solidarietà già esistenti che ci collegano”.

Le reti di solidarietà evidenziate da Safadi sono state verbalizzate anche in un discorso tenuto durante la protesta dal noto documentarista e membro del movimento di solidarietà con la Palestina in India, Anand Patwardhan. Dopo il suo discorso Patwardhan ha detto a Mondoweiss che, nonostante la scelta di alcuni registi di ritirarsi dall’IDFA, dovrebbe essere chiaro che diversi palestinesi e loro sostenitori come me hanno deciso di non ritirare i loro film ma di utilizzare la piattaforma IDFA per amplificare la nostra opposizione al massacro in corso a Gaza. Mi congratulo con coloro che si sono ritirati dal festival e hanno acceso un dibattito internazionale. Mi congratulo con coloro che sono rimasti per innescare il dibattito dall’interno. Mi congratulo con coloro che ci hanno concesso lo spazio per farlo. Come ha spiegato a Mondoweiss la regista palestinese Noora Said, Il PFI ha suggerito diverse azioni, non solo il ritiro. E molti registi e artisti hanno reagito scegliendo una delle diverse azioni suggerite. A volte potrebbe essere più utile per i palestinesi e i loro sostenitori protestare in modi diversi dal ritiro”.

Uno dei gruppi che hanno espresso la loro solidarietà è stato il Queer Choir Amsterdam, che durante uno degli eventi dellIDFA ha scanditoFrom the River to the Sea, Palestine will be Free”. Questo gruppo ha anche rilasciato una dichiarazione in cui sostiene che lIDFA trae costantemente profitto dalla programmazione di film sulloppressione, la violenza e la decolonizzazione, ma non ha ancora avuto il coraggio di riconoscere e denunciare un genocidio in corso”.

Solidarietà alla causa palestinese è stata espressa anche durante il raduno organizzato dal PFI il 13 novembre dopo la manifestazione. Il suono dei manifestanti che gridavano “cessate il fuoco adesso” ha riempito i corridoi del Teatro Internazionale di Amsterdam mentre si dirigevano verso l’evento di solidarietà, tenutosi in uno degli spazi all’interno dell’edificio. Durante questo evento registi come Rehad Desai, Sky Hopinka e Niles Atallah hanno espresso solidarietà alla lotta palestinese per la liberazione.

Come ha spiegato Desai a Mondoweiss, Sky, un regista nativo americano, e io, un regista sudafricano, abbiamo discusso su ciò a cui stiamo assistendo in Palestina, ovvero una riproduzione della storia coloniale, del palese sterminio dei nostri rispettivi popoli e della violenza di uno Stato illegittimo che viene equiparato a coloro che reagiscono o rispondono”.

Inoltre, in questo evento di solidarietà anche i registi palestinesi Mohammed Almughanni, Dalia Al-Kury, Mohammad Jabaly e Noora Said sono saliti sul palco per parlare delle loro esperienze come documentaristi in Palestina e dei loro sentimenti nei confronti dell’IDFA. Parlando della sua esperienza nella gestione della società di produzione video indipendente Sirdab Studio di Ramallah, dove vive, Noora Said ha parlato di come le sia vietato entrare a Gaza e di come la regista e giornalista di Gaza Roshdi Sarraj che gestiva la società sorella di Sirdab Studio, Ain Media, sia stata recentemente uccisa il 22 ottobre dagli attacchi aerei israeliani.

Durante un discorso sui suoi sentimenti nei confronti dellIDFA Al-Kury si è rivolta alle persone che stanno pagando per queste creazioni fantastiche, dicendo: Voi finanziate i nostri documentari, ma dubito che li guardiate davvero. Vi consiglio di guardare i nostri film perché se lo faceste, conoscereste la situazione della Palestina”. Lincontro si è concluso con le parole di Mohanad Yaqubi, che ha affermato: Qui facciamo documentari, non affari. E che senso hanno i documentari se non cambiano il mondo?

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)