Germania: banca pubblica blocca il conto di un gruppo ebraico di attivisti per la pace

 Pauline Ertel

28 marzo 2024 – Middle East Eye

La Berliner Sparkasse Bank ha chiesto a Jewish Voice for Just Peace in the Middle East di rivelare la lista e gli indirizzi dei suoi membri.

In Germania una banca pubblica ha congelato il conto di un’organizzazione ebraica antisionista e chiesto al gruppo di rivelare la lista di tutti i suoi membri.

Martedì Jewish Voice for Just Peace in the Middle East [Voce Ebraica per una Giusta Pace in Medio Oriente] ha annunciato che il suo conto presso la Berliner Sparkasse era stato bloccato il 26 marzo con effetto immediato. 

“Nel 2024 ancora una volta soldi ebrei sono confiscati da una banca tedesca: la Berliner Sparkasse blocca il conto di Jewish Voice,” ha dichiarato in un comunicato Jewish Voice sulle sue piattaforme social.

Il gruppo ha ricevuto una lettera dalla banca che lo informava che entro il 5 aprile doveva presentare alla Berliner Sparkasse una lista di tutti i membri, completa di indirizzi, documentazione fiscale, dichiarazione dei redditi e altri documenti interni per “aggiornare i dati dei clienti “.

La lettera, visionata da Middle East Eye, specifica anche che queste misure fanno parte di “disposizioni normative ” che obbligano la Berliner Sparkasse a “controllare a intervalli regolari i dati archiviati relativi ai nostri clienti “.

“È una lettera molto inquietante. Sembra che collaborino con l’ufficio statale di polizia giudiziaria,” ha detto a MEE Wieland Hoban, presidente di Jewish Voice.

Jewish Voice ha detto di non sapere se dietro la decisione ci siano state pressioni governative o se sia stata adottata dalla banca stessa. 

La banca ha anche minacciato di rescindere il contratto e chiudere il conto se i documenti richiesti non verranno presentati entro la scadenza. Il blocco del conto è una “misura precauzionale”, si dichiara nella lettera.

“In quanto azienda pubblica la banca è vincolata dal diritto pubblico e non può perciò congelare arbitrariamente i conti senza fornire una spiegazione, cosa che non ha fatto,” ha specificato Jewish Voice nella sua dichiarazione.

L’organizzazione ha assunto un avvocato che ha confermato che il blocco del conto è illegale e costituisce una violazione del contratto, ha detto Hoban.

‘Non nel nostro nome’

Jewish Voice è stata fondata a Berlino nel 2003 e inizialmente era la sezione tedesca dell’organizzazione European Jews for a Just Peace, fondata ad Amsterdam nel 2002. 

“Ci uniamo agli ebrei in Europa e nel mondo per asserire che la colonizzazione e l’occupazione della Palestina da parte di Israele e l’oppressione del popolo palestinese non sono compiute nel nome e nell’interesse degli ebrei di tutto il mondo. ‘Non nel nostro nome!’”, si legge nel sito web.

Jewish Voice è una delle più importanti associazioni filopalestinesi in Germania e negli ultimi mesi ha aiutato a organizzare manifestazioni, cortei, eventi e conferenze in varie città tedesche. 

L’organizzazione ha detto che la decisione è arrivata in concomitanza con le ripercussioni suscitate dalla programmazione del Palestine Congress, una conferenza di tre giorni che dovrebbe svolgersi ad aprile a Berlino. L’evento è finanziato dalla vendita dei biglietti e dalle donazioni, per le quali Jewish Voice ha offerto l’uso del proprio conto. 

“Bloccandoci il conto lo Stato vuole privare il congresso di finanziamenti,” ha detto a MEE Hoban, il relatore principale dell’evento.

“Ciò che è successo mostra a quali estremi lo Stato voglia bloccare e vessare il movimento palestinese tedesco. Persecuzioni e minacce politiche sono ovunque. Contro di noi abbiamo lo Stato, ma non ci faremo intimidire.”

MEE ha contattato la Berliner Sparkasse per un commento, ma al momento di andare in stampa non ha ricevuto risposta.

In risposta al blocco del conto attivisti e giornalisti hanno rivelato che anche il partito tedesco di estrema destra Alternative für Deutschland ha un conto presso la stessa banca berlinese. 

Congresso Palestinese di Berlino

Il Congresso Palestinese di Berlino presenta una vasta gamma di oratori, organizza tavole rotonde e seminari, fornisce una rete e organizza spazi per il movimento filopalestinese in Germania. 

“Insieme discuteremo le prospettive del nostro movimento sulla base di una risoluzione comune. Si discuteranno e si decideranno iniziative concrete da intraprendere nei posti di lavoro, nelle università, nelle scuole, nel mondo dell’arte e della cultura,” recita il sito web di Palestine Congress.

Fra gli oratori di spicco Yanis Varoufakis, ex ministro greco delle Finanze, Ali Abunimah, giornalista palestinese e fondatore del portale di informazione Electronic Intifada e il medico palestinese Ghassan Abu Sitteh, che ha passato 43 giorni operando negli ospedali di Gaza.

Fin dal suo annuncio l’evento è finito sotto un pesante attacco. La polizia ha perquisito le case degli organizzatori e i media tedeschi hanno definito la conferenza un “summit dell’odio” antisemita, un “congresso di odiatori degli ebrei” e una “vergogna” per Berlino. 

Politici e membri di alto calibro del governo berlinese, fra cui il Senato di Berlino, hanno minacciato di vietare l’evento.

Christian Hochgrebe, assessore agli Affari Interni berlinese, ha annunciato che al momento il Senato di Berlino sta raccogliendo e valutando dati. 

Lea Rosh, direttrice del gruppo di supporto del memoriale dell’Olocausto ha detto: “Abbiamo appreso con indignazione che si è pianificato un congresso che ovviamente non contribuisce al discorso critico, ma al contrario alla rete di gruppi anti-israeliani e antisemiti. Chiediamo che l’evento sia messo al bando.” 

Tuttavia gli organizzatori del congresso hanno detto che non ci sono basi legali per un potenziale bando.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Guerra a Gaza: secondo un’esperta dell’ONU ci sono“fondati motivi” per ritenere che Israele abbia commesso un genocidio

Redazione MEE

26 marzo 2024 – Middle East Eye

Francesca Albanese, relatrice speciale dell’ONU, ha chiesto un embargo sulle armi a Israele

Lunedì Francesca Albanese, l’esperta di diritti umani delle Nazioni Unite, ha presentato al Consiglio di sicurezza dell’ONU [ in realtà al Consiglio dei Diritti Umani dell’ONU a Ginevra. ndt] un rapporto in cui sostiene che nella sua guerra contro Gaza Israele ha commesso diversi atti di genocidio e che dovrebbe essere sottoposto a un embargo sulle armi.

Albanese, relatrice speciale dell’ONU sui diritti umani nei territori palestinesi, nel suo rapporto ritiene che vi siano “fondati motivi” per stabilire che Israele ha violato tre dei cinque punti elencati nella Convenzione dell’ONU sul genocidio.

Queste violazioni sono: luccisione di palestinesi, il causare loro gravi danni fisici o mentali, e linfliggere deliberatamente condizioni di vita tali da provocare, in tutto o in parte, la distruzione fisica della popolazione, azioni approvate da dichiarazioni di intenti genocidi da parte di funzionari militari e governativi.

La schiacciante natura e portata dellassalto israeliano a Gaza e le condizioni di vita devastanti inflitte rivelano lintento di distruggere fisicamente i palestinesi come popolo, afferma il rapporto.

Inoltre il rapporto accusa Israele di tentare di legittimare le sue azioni genocide etichettando i palestinesi come terroristi”, trasformando così tutto e tutti in un bersaglio o in un danno collaterale, quindi uccidibile o distruttibile”.

“È ovvio che in questo modo a Gaza nessun palestinese è al sicuro”, afferma.

Il rapporto aggiunge che lattuale guerra a Gaza non è iniziata il 7 ottobre ma che si tratta dellultima fase di un lungo processo di cancellazione coloniale da parte dei coloni, che costituisce una Nakba continua”, o catastrofe, riferendosi alla pulizia etnica della Palestina da parte delle milizie sioniste per far posto alla creazione di Israele nel 1948.

Inadempienza

Albanese esorta gli Stati membri a imporre un embargo sulle armi a Israele “poiché è chiaro che non ha rispettato le misure vincolanti imposte dalla Corte Internazionale di Giustizia (CIG)”, riferendosi alle misure provvisorie emesse dalla Corte a gennaio, dopo che il Sud Africa aveva portato Israele davanti al tribunale dellAja con laccusa di genocidio contro i palestinesi.

La Corte ha ordinato a Israele, in attesa di una sua sentenza, di adottare, misure atte a prevenire azioni che rientrino nell’articolo II della Convenzione sul genocidio.

Il rapporto chiede inoltre unindagine approfondita, indipendente e trasparentesu tutte le violazioni del diritto internazionale e un piano per porre fine allo status quo illegale e insostenibile che costituisce la causa principale dellultima escalation”.

Albanese ha aggiunto che lUnrwa, lagenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi, dovrebbe essere adeguatamente finanziata per affrontare la galoppante crisi umanitaria a Gaza. L’agenzia ha affermato di essere al “vicina al collasso” in seguito alla sospensione dei finanziamenti dopo che Israele ha affermato che 12 dei suoi dipendenti sarebbero coinvolti negli attacchi guidati da Hamas il 7 ottobre.

Israele ha imposto un divieto di visto ad Albanese dopo la sua affermazione su X che gli attacchi guidati da Hamas al sud di Israele sono stati una “risposta all’aggressione di Israele”.

La missione diplomatica israeliana a Ginevra ha respinto il rapporto, condannando le “accuse oltraggiose” di Albanese come “semplice continuazione di una campagna che cerca di minare la stessa istituzione dello Stato ebraico”.

La guerra di Israele è contro Hamas, non contro i civili palestinesi, ha affermato la missione in una nota.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Guerra a Gaza: mentre gli occhi sono puntati su Rafah, Israele sta consolidando il controllo del nord di Gaza

Ameer Makhoul

25 marzo 2024-Middle East Eye

Israele sta costruendo infrastrutture per dividere Gaza, impedire il ritorno dei palestinesi sfollati e cambiare la situazione geografica e demografica sul terreno.

Dopo la recente approvazione di un piano per invadere Rafah – dove sono rifugiati 1,4 milioni di palestinesi – il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha annunciato la scorsa settimana che l’esercito si sta preparando ad avanzare.

Il cosiddetto gabinetto di guerra “triumvirato”, composto da Netanyahu, dal ministro della Difesa Yoav Gallant e dall’ex leader dell’opposizione Benny Gantz, aveva già raggiunto un consenso su un’incursione a Rafah per prendere il controllo del corridoio di Filadelfia (chiamato anche via di Filadelfia o asse di Saladino).

In un discorso rivolto alla lobby filo-israeliana statunitense Aipac Netanyahu ha insistito sul fatto che “la strada verso la vittoria passa attraverso Rafah”: una strategia che, secondo lui, gode di “un sostegno schiacciante” all’interno della società israeliana.

Eppure, mentre le minacce dei politici israeliani di un’imminente invasione di Rafah stanno dirigendo l’attenzione del mondo verso il sud, il governo ha accelerato i passi sul territorio nel nord di Gaza per consolidare la sua occupazione e garantirne la longevità.

Una caratteristica fondamentale della sua strategia è prevenire il ritorno dei palestinesi sfollati dal sud mentre cerca di cambiare le caratteristiche geografiche e demografiche della Striscia di Gaza.

“Occupazione permanente”

Le immagini satellitari analizzate dalla CNN mostrano che una strada costruita dall’esercito israeliano per dividere Gaza in due ha raggiunto la costa mediterranea.

Secondo il rapporto della CNN un’immagine satellitare del 6 marzo “rivela che la strada est-ovest, in costruzione da settimane, si estende ora dalla zona di confine tra Gaza e Israele per tutta la larghezza di circa 6,5 km della striscia che divide il nord di Gaza, inclusa Gaza City, dal sud dell’enclave.”

Il rapporto rileva che i militari hanno utilizzato “una grande quantità di mine ed esplosivi” per ripulire l’area. Le bombe di fabbricazione americana sono state usate per distruggere le restanti case e infrastrutture nel nord di Gaza, in particolare nell’area di Beit Hanoun, che confina con il valico di Erez.

Altre aree vicino a Gaza City, soprattutto nella periferia orientale, sono diventate parte della zona cuscinetto che Israele sta costruendo a Gaza e lungo il confine.

Nel quartiere di Zaytoun, nel mezzo di negoziati senza fine per il cessate il fuoco, l’esercito israeliano sta portando avanti un “progetto pilota” di gestione civile destinato a controllare completamente la distribuzione di cibo e altre provviste. Si basa sulla convinzione che chi controlla il cibo controlla le persone.

Questo progetto è accompagnato dal severo divieto di Israele di fornire aiuti a Gaza e dall’espulsione delle organizzazioni umanitarie dall’area, una politica che Israele cerca di estendere ad altre aree di Gaza. Israele ha specificamente preso di mira e intende a distruggere l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi, Unrwa, come parte dei suoi sforzi per eliminare la questione dei rifugiati e il diritto al ritorno dei palestinesi.

Le forze israeliane cercano inoltre di reclutare agenti palestinesi con i quali cooperare con il pretesto della distribuzione di cibo e aiuti. Tuttavia, in realtà puntano ad addestrare quegli agenti al mantenimento della sicurezza e trasformarli in milizie che opprimeranno i palestinesi. Queste milizie diventeranno un’estensione dell’occupazione e trarranno beneficio dal suo sistema corrotto.

In particolare la strada di nuova costruzione nella regione settentrionale frammenta la città, trasformandola in enclave residenziali isolate. La posizione della strada, che si estende fino al mare, sembra corrispondere a quella del “molo galleggiante” progettato dagli Stati Uniti, che l’amministrazione Biden ha proposto di costruire.

In realtà Israele sta sviluppando le infrastrutture per un’occupazione permanente della Striscia di Gaza in condizioni fondamentalmente diverse da quelle esistenti fino al disimpegno del 2005. Nello specifico, Gaza non sarà più considerata un’estensione della popolazione palestinese o parte della regione geografica palestinese.

L’obiettivo è piuttosto impedire il ritorno degli abitanti sfollati, mentre chi riuscirà a rientrare non troverà più nulla a cui tornare, poiché non ci sono più case, né quartieri, né città.

Questa è una dottrina in vigore sin dalla Nakba palestinese del 1948 e dalla creazione della questione dei rifugiati palestinesi, che è ancora definita come sfollamento “temporaneo”.

Reinsediamento israeliano

Israele è in procinto di ripristinare la sua occupazione di Gaza prendendo il controllo delle strade principali, dei corridoi e delle altre vie di comunicazione. Fino al suo ritiro unilaterale nel 2005 ai palestinesi era negato l’accesso a queste aree.

L’idea di dividere la Striscia di Gaza in aree accessibili agli israeliani e altre riservate ai palestinesi risale all’occupazione del 1967.

Nel 1971 Ariel Sharon, il comandante dell’esercito israeliano della regione meridionale che in seguito divenne primo ministro, preparò un piano per dividere Gaza e il Nord Sinai in cinque aree di insediamento che impedissero la contiguità geografica tra i palestinesi del nord, del centro e del sud.

Israele avrebbe circondato quest’area da nord con insediamenti e posti di blocco e da sud con un blocco di insediamenti nel deserto settentrionale del Sinai.

Sharon lo chiamò “Piano delle cinque dita” e il governo guidato da Golda Meir lo adottò integralmente nel 1972.

Il primo è il “Dito Nord”, che comprendeva un blocco di insediamenti nell’estremo nord della Striscia di Gaza – Beit Hanoun e il valico di Erez. Mirava ad espandere le propaggini di Ashkelon (Asqalan al-Burj) alle aree all’interno di Gaza.

Il secondo è il “dito di Netzarim”, che si estende tra il valico di al-Montar, o Karni, e il mare. È lungo 8 km e separa Gaza City dalla Gaza Valley e dal centro della Striscia. Prima del 2005 l’insediamento di Netzarim era situato nella parte occidentale di Gaza, lungo la costa. Attraversava al-Rashid e Salah al-Din Road, l’autostrada principale di Gaza, e si estendeva da nord a sud della striscia costituendo un punto di controllo per il porto di Gaza.

Il terzo dito è l’asse Kissufim, un insediamento vicino a Shuhada Street, che separa Deir al-Balah dalle aree centrali di Gaza fino a Khan Younis, dove è stato istituito il blocco di insediamenti Gush Katif.

Il quarto è il kibbutz Sufa tra Khan Younis e Rafah. È stato fondato nel 1974 come postazione militare nella penisola del Sinai e trasformato in una fattoria civile nel 1977. È stato progettato per estendersi fino al mare.

Il quinto dito è il blocco degli insediamenti Yamit nel nord del Sinai, alla periferia sud di Rafah, che impedisce qualsiasi contiguità geografica tra Rafah e il Sinai.

Dodici dei suoi centri abitati e un aeroporto israeliano furono annessi nel 1982 dopo l’accordo di Camp David con l’Egitto. Successivamente fu istituito il corridoio di Filadelfia (Saladin). Invadendo Rafah Israele cerca di controllare il passaggio con l’Egitto.

Vale la pena notare che la maggior parte delle “dita” vanno da est a ovest, raggiungendo il mare, per impedire la contiguità geografica nella Striscia di Gaza. L’obiettivo di Israele era isolare Gaza dal nord e dal sud in diverse aree strategiche.

Tuttavia la maggior parte dei piani “finger” non sono durati nel tempo e si sono conclusi nel 2005 quando il governo guidato da Sharon ha deciso di ritirarsi del tutto da Gaza.

In una recente escalation il consiglio di insediamento in Cisgiordania ha tenuto una conferenza popolare per reinsediare Gaza, alla quale hanno partecipato 12 ministri del Sionismo religioso e del partito Likud.

Il consiglio ha riesaminato i piani per ricostruire blocchi di insediamenti negli stessi luoghi da cui erano stati ritirati e demoliti nel 2005, in concomitanza con l’attuazione del piano di disimpegno da Gaza e dalla Cisgiordania settentrionale.

Concentrazione sugli aiuti

Le minacce di Netanyahu di prendere d’assalto Rafah e il corridoio Filadelfia sono probabilmente una tattica negoziale per fare pressione e ricattare i leader di Hamas e l’Egitto. Ciononostante gli analisti israeliani insistono sul fatto che i veri interessi strategici di Israele risiedono nel nord di Gaza e che un confronto con l’Egitto potrebbe innescare un dilemma strategico.

Ciò significa che non esiste alcuna opzione per prendere in considerazione una soluzione globale alla guerra, ma solo accordi parziali e temporanei dopo i quali la guerra continuerà – per cui Israele non si ritirerà e le famiglie sfollate non ritorneranno.

Nella migliore delle ipotesi qualsiasi discussione sul ritorno degli sfollati a Gaza sarà insignificante e non porterà al loro effettivo ritorno. Infatti prima di qualsiasi cessate il fuoco Israele avrà completato il suo sistema di controllo e consolidato la sua presenza coloniale a Gaza. In altre parole Israele non sta portando avanti una campagna militare che si concluderà con la fine di questa guerra.

Palestinesi e arabi sono troppo concentrati sui negoziati, sui colloqui di cessate il fuoco e sulle tattiche di ostruzionismo di Israele. Ciò si traduce in una corsa continua alla ricerca di dettagli che costituiscono una serie di distrazioni, mentre le azioni di Israele sul terreno rivelano chiaramente un ritorno all’occupazione totale di Gaza e alla sua distruzione come una coesa unità geografica per il suo popolo.

L’ossessione della comunità internazionale per gli aiuti umanitari, ignorando i piani a lungo termine di Israele, porterà ulteriormente allo sfollamento indefinito dei palestinesi.

Un’altra questione riguarda la proposta del “molo galleggiante”, che secondo la Casa Bianca verrà utilizzato per consegnare a Gaza due milioni di pasti al giorno. Secondo questo piano, Israele assumerà il controllo della sicurezza del porto improvvisato, in collaborazione con l’esercito americano, che non dovrà entrare a Gaza. Eppure Netanyahu ha recentemente affermato che questo bacino potrebbe aiutare a “deportare” i palestinesi da Gaza e attraverso il quale Israele potrebbe effettuare la loro espulsione di massa.

Vale anche la pena ricordare che l’ampia strada che l’esercito israeliano sta costruendo dal sud-est di Gaza City al mare è geograficamente coerente con la proposta avanzata dal ministro degli Esteri israeliano Israel Katz ai leader dell’UE riguardo allo spostamento forzato dei palestinesi su un’isola artificiale.

Inoltre, la costante attenzione al nord di Gaza come regione a sé stante suggerisce la ricerca di un riconoscimento internazionale del fatto che il nord di Gaza sia separato dal sud. Stabilendo strutture separate di distribuzione degli aiuti per il nord e il sud – che saranno gestite da Israele – la comunità internazionale garantisce la continua presenza e occupazione di Gaza da parte di Israele.

Significa anche che gli aiuti umanitari americani potrebbero diventare un’estensione dell’occupazione israeliana e dei suoi meccanismi di controllo su Gaza. Questo progetto è stato elaborato anche sulla base del fatto che i sostenitori del governo Netanyahu impediscono l’ingresso di aiuti a Gaza attraverso il valico di frontiera Karem Abu Salem, o Kerem Shalom.

Discorso irrealistico

Inoltre, il discorso politico all’interno delle fazioni palestinesi è irrealistico e tratta la situazione come se le condizioni fossero le stesse precedenti il 7 ottobre e non fossero cambiate drasticamente. Affermano che i palestinesi devono semplicemente superare le loro divisioni anche se la Valle di Gaza è diventata un confine che limita il movimento dei palestinesi a Gaza, simile al muro dell’apartheid in Cisgiordania.

Il muro dell’apartheid ha cambiato drasticamente le caratteristiche politiche e geografiche della popolazione in Cisgiordania. È stato costruito sulle rovine della presenza urbana palestinese e di una popolazione che è stata sfollata con la forza e a cui è stato impedito per sempre il ritorno.

Portando avanti i suoi piani a Gaza, in particolare nel nord, Israele sta assicurando la sua occupazione duratura di Gaza. Palestinesi e arabi – così come la comunità internazionale – dovrebbero concentrare la loro attenzione sui drastici cambiamenti avvenuti nella situazione geografica e demografica sul terreno.

È necessaria una pressione araba diretta sugli Stati Uniti per costringere Israele a consentire l’ingresso degli aiuti umanitari a Gaza attraverso i suoi confini terrestri e a non sottostare alle condizioni del governo israeliano, poiché Gaza rimane un’area palestinese, non israeliana.

Devono inoltre assumere una posizione ferma e lanciare una massiccia campagna per fare pressione sull’amministrazione Biden affinché smetta di fornire a Israele aiuti militari e armi utilizzate per sradicare tutti gli elementi fondamentali della vita a Gaza, fornendo al contempo un’assistenza umanitaria inadeguata, che, di fatto, è priva di qualsiasi umanità.

Tale pressione esterna è necessaria poiché sia il governo Netanyahu che l’opposizione stanno bloccando tutti i passi verso una soluzione politica.

Nel frattempo, mentre consolidano la loro occupazione a Gaza, stanno sistematicamente affamando la popolazione palestinese e commettendo atti gravi che equivalgono a crimini di guerra e atti mortali di genocidio – le cui conseguenze potrebbero essere più terribili dei bombardamenti quotidiani della città e della sua gente.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la linea editoriale di Middle East Eye.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Guerra a Gaza: come i soldati israeliani hanno aggredito i palestinesi durante il raid all’ospedale di al-Shifa

Mohammed al-Hajjar, Abubaker Abed e Osama Kahlout

25 marzo 2024 Middle East Eye

I sopravvissuti all’attacco nelle vicinanze dell’ospedale raccontano di esecuzioni, torture e abusi da parte dei soldati israeliani durante l’operazione durata una settimana

Una settimana dopo il raid, i sopravvissuti all’attacco israeliano all’ospedale al-Shifa e nei suoi dintorni a Gaza City hanno raccontato le loro esperienze a Middle East Eye.

Da lunedì 18 marzo le forze israeliane hanno continuato ad attaccare e assediare l’ospedale di al-Shifa. Il complesso medico è il più grande della Striscia di Gaza, con circa 30.000 persone che vi cercavano rifugio prima dell’attuale raid.

L’edificio della chirurgia è stato distrutto giovedì e molti sfollati sono stati costretti a lasciare il complesso medico, il più grande della Striscia di Gaza. Nel frattempo, i civili nelle vicinanze dell’ospedale hanno riferito di essere rimasti intrappolati sotto il fuoco israeliano per giorni.

Sabato il gruppo per i diritti umani Euro-Med Human Rights Monitor ha dichiarato di aver documentato la scorsa settimana nell’area dell’ospedale di Gaza City “una serie di crimini sistematicamente commessi dalle forze israeliane”.

Gli abusi, secondo Euro-Med, includono esecuzioni extragiudiziali, interruzioni delle comunicazioni e intensi bombardamenti sulle case circostanti il complesso medico.

Adel AbdRabbouh, 29 anni, è stato testimone oculare dell’attacco israeliano all’ospedale la scorsa settimana, mentre si recava a visitare i cugini.

Lunedì scorso, intorno alle 11, ha visto quadricotteri, carri armati, aerei da guerra e veicoli militari circondare l’ospedale. 

Ha detto che “migliaia di proiettili” sono stati sparati contro l’ospedale, e si è visto costretto a stare fermo perché temeva di essere colpito se fosse fuggito dall’edificio.

Le persone cadevano […] come foglie sotto i proiettili israeliani; i pazienti venivano lasciati dentro soli a gemere per il dolore; le donne chiamavano i loro figli e i bambini gridavano in preda al panico. Questa la scena”, ha detto a Middle East Eye.

Poi, AbdRabbouh ha detto che circa 500 soldati israeliani hanno fatto irruzione nell’ospedale, ordinando a tutti di non muoversi.

Hanno iniziato ad arrestare coloro che potevano camminare e che non presentavano ferite mortali, ha aggiunto. 

Rassicurandoci all’inizio che non ci avrebbero fatto alcun male, hanno proceduto a uccidere almeno 300 civili. Eravamo solo giocattoli nelle loro mani”, ha detto.

Nonostante durante l’attacco avesse riportato gravi fratture e ustioni alla gamba sinistra, AbdRabbouh era tra le persone arrestate nel raid.

Ha detto a MEE anche che più di 500 persone sono state detenute, tra cui donne e bambini.

Gli uomini sono stati spogliati, picchiati, bendati e ammanettati. Siamo stati radunati nel cortile e successivamente sottoposti a interrogatorio”, ha aggiunto.

AbdRabbouh ha detto di essere stato sottoposto a tre cicli di interrogatori da parte dei soldati israeliani, ciascuno della durata di 15 minuti.

I soldati gli hanno chiesto se avesse incontrato combattenti palestinesi. Dopo 45 minuti di interrogatorio ad ognuno, sono stati lasciati nudi fuori dall’ospedale e non hanno ricevuto nulla per l’iftar tranne una bottiglietta d’acqua.

Sono rimasti in quello stato fino al mattino seguente, quando gli è stato ordinato di marciare verso Al-Rasheed Street, vicino all’Istanbul Cafe. Mercoledì mattina sono stati rilasciati e gli è stato ordinato di fuggire a sud.

Nonostante la stanchezza, le ferite e la disidratazione, abbiamo dovuto camminare per sette ore fino a Deir al-Balah. Ci sono arrivato che ero quasi morto“, ha raccontato.

“Fame pazzesca

Il fratello di AbdRabbouh, Abdul Rahman, era tra i detenuti fuggiti a sud. Ha raccontato dei due giorni di calvario dicendo che hanno patito una “fame pazzesca” fino a quando non hanno raggiunto il sud.

“Se qualcuno osava chiedere acqua veniva colpito alle gambe. Abbiamo patito una fame pazzesca per due giorni.”

Ha aggiunto di aver visto un bambino di otto anni a cui un soldato israeliano ha sparato alle gambe perché aveva chiesto di vedere la sua famiglia.

Ha detto che i soldati israeliani li hanno sottoposti ad “abusi, percosse e trattamenti disumanizzanti”.

I soldati israeliani si sono comportati come mostri”, ha detto.

Mi considero fortunato ad aver ritrovato mio fratello e di essere fuggito con lui a sud. Non sapere se saremmo stati giustiziati o risparmiati è stata la cosa più dolorosa del nostro calvario. Avrò bisogno di molti anni per riprendermi da questa traumatica esperienza “, ha aggiunto trattenendo le lacrime.

Un altro sopravvissuto, Mohammed, che ha dato solo il nome, si trovava nella sua casa vicino ad al-Shifa quando è avvenuto il raid, nelle prime ore del 18 marzo.

Ha detto che lui e i suoi figli dormivano quando è iniziato l’attacco.

“Abbiamo provato a uscire di casa ma abbiamo trovato un carro armato subito fuori dalla porta e un bulldozer militare stava radendo al suolo la casa del nostro vicino”, ha detto a MEE.

Erano tutti seduti in una stanza in mezzo al il frastuono dei bombardamenti dell’artiglieria e degli attacchi aerei. Il muro di una delle stanze è poi crollato a causa dei bombardamenti, hanno quindi dovuto nascondersi in un’altra stanza.

I miei figli erano molto spaventati e non sapevo cosa fare. Sono strisciato in cucina per prendere loro del cibo. Sono riuscito a prendere delle pagnotte e noi che eravamo in nove a casa ce le siamo divise. Continuavo a cercare di rassicurare i miei figli affinché tornassero a dormire ogni volta che si svegliavano per i bombardamenti”.

Al mattino, i soldati israeliani hanno sfondato la porta e fatto irruzione in casa. 

Hanno spogliato me e mio fratello fino alle mutande e hanno spostato mia moglie e i miei figli al piano di sotto dopo averle portato via il telefono. I miei figli imploravano i soldati di lasciarmi con loro ma loro hanno rifiutato. Hanno spinto mia figlia a terra e le hanno detto di andare con sua madre”.

Dopo che sua moglie e i figli se ne furono andati, Mohammed e suo fratello sono stati bendati, i loro polsi legati con fascette di plastica e poi sono stati lasciati in strada al freddo. “Quando ho chiesto qualcosa per coprirmi, mi hanno picchiato. Continuavano a picchiarci e ad insultarci verbalmente”.

Poi i soldati hanno portato i due fratelli insieme ad altri uomini all’ospedale di al-Shifa.

Mohammed ha detto che per tutto il tempo non potevano vedere nulla, ma potevano sentire i soldati che picchiavano altri uomini.

Hanno portato alcuni uomini in un’altra stanza e poi abbiamo sentito degli spari. I soldati sono tornati da quella stanza senza gli uomini che avevano portato con sé”.

“Ci siamo resi conto che li avevano giustiziati, quindi ci siamo seduti lì aspettando solo il nostro turno.”

Siamo rimasti così per due giorni. Niente acqua, cibo o coperte. Dopo due giorni ci hanno scansionato i volti e finalmente ci hanno detto che potevamo andare. Abbiamo camminato tra carri armati e spari per metterci in salvo”.

Cocci di vetro

Mohammed Mershed e suo fratello sono stati trattenuti vicino ad al-Shifa lontano dalla loro casa dopo che era stata bombardata.

Lunedì all’Ospedale dei Martiri al-Aqsa di Deir el-Balah ha detto a MEE: “Chiedevamo aiuto. I soldati ci hanno portato via da casa nostra e ci hanno ammanettati sulla schiena. Ci hanno costretto a sdraiarci su cocci di vetro“.

Siamo stati lasciati lì per tre giorni al freddo. Il primo giorno mia madre, le mie sorelle e i miei figli sono rimasti con noi. Poi li hanno portati via”.

Non hanno chiesto i nostri documenti d’identità né effettuato alcun interrogatorio mentre eravamo detenuti. Stavano solo giocando.”

Ho assistito alle esecuzioni sul campo. È stato orribile, è troppo doloroso da ricordare.

L’esercito israeliano ha annunciato di aver ucciso e arrestato decine di palestinesi nel corso del raid. Ha dichiarato che le persone uccise erano combattenti e che gli arrestati erano sospetti membri di Hamas. L’esercito, tuttavia, non ha fornito alcuna prova a sostegno di tali affermazioni.

Secondo il Ministero della Sanità palestinese, Al-Shifa e i suoi dintorni sono stati attaccati almeno quattro volte dall’inizio della guerra il 7 ottobre.

Israele ha ripetutamente accusato Hamas di operare all’interno degli ospedali, un’accusa che il gruppo palestinese ha costantemente negato.

Hamas ha affermato in un comunicato della scorsa settimana: “La continua aggressione israeliana contro l’ospedale al-Shifa è un tentativo di nascondere il fallimento nel raggiungere i suoi obiettivi militari”.

Secondo il Ministero della Sanità, l’assalto israeliano a Gaza ha finora ucciso più di 32.000 palestinesi. Più di 70.000 palestinesi sono rimasti feriti durante le ostilità iniziate il 7 ottobre.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)

 




Guerra a Gaza: in seguito all’astensione degli USA, l’ONU approva una risoluzione che richiede il cessate il fuoco.

Redazione di MEE

25 marzo 2024 – Middle East Eye

Per la prima volta in cinque mesi di guerra il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha votato per un cessate il fuoco a Gaza dopo che gli USA si sono astenuti anziché porre il veto

Lunedì il Consiglio di Sicurezza ONU ha approvato una risoluzione che chiede un “cessate il fuoco immediato” a Gaza per il restante mese sacro musulmano del Ramadan, dopo che gli Stati Uniti si sono astenuti dal voto rinunciando a porre il veto.

La risoluzione, appoggiata da 14 nazioni tranne gli USA, chiede anche il rilascio di tutti gli ostaggi israeliani detenuti a Gaza e “l’urgente necessità di aumentare il flusso” degli aiuti nell’enclave assediata.

Amar Bendjama, ambasciatore dell’Algeria all’ONU e uno dei promotori della risoluzione, si è felicitato per la svolta ed ha affermato che il Consiglio di Sicurezza “si è finalmente assunto le sue responsabilità in quanto organo principale per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionali”.

Questo bagno di sangue è continuato per troppo tempo”, ha detto.

Il voto di lunedì è avvenuto mentre i leader israeliani continuavano a ribadire l’intenzione di proseguire con l’offensiva sul terreno su vasta scala a Rafah, la città al confine meridionale dove attualmente sono rifugiati un milione e mezzo di palestinesi.

Dall’attacco del 7 ottobre più del 90% dei 2.300.000 abitanti di Gaza è stato sfollato e almeno 32.000 palestinesi sono stati uccisi, in maggioranza donne e bambini.

Nonostante i crescenti allarmi da parte delle agenzie umanitarie e della comunità internazionale secondo cui un assalto a Rafah sarebbe una catastrofe, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha sostenuto che Israele non può raggiungere il suo obbiettivo di una “vittoria totale” contro Hamas senza aggredire la città di confine.

In seguito al voto Netanyahu ha annullato per protesta la prevista visita di una delegazione di alto livello a Washington ed ha accusato gli USA di ritrattare quella che ha detto essere stata una “posizione di principio”.

Il Consigliere per la Sicurezza Nazionale israeliano Tzachi Hanegbi e il Ministro per gli Affari Strategici Ron Dermer, un importante uomo di fiducia di Netanyahu, avrebbero dovuto recarsi a Washington per ascoltare le contro-proposte americane riguardo all’offensiva su Rafah.

Subito dopo il voto il portavoce del Consiglio di Sicurezza Nazionale della Casa Bianca John Kirby ha detto ai giornalisti che l’astensione non rappresenta un “cambio nella politica” dell’amministrazione.

Non c’è ragione perché questo sia considerato una forma di escalation”, ha detto. “Nulla è cambiato nella nostra politica. Vogliamo ancora vedere un cessate il fuoco. Vogliamo ancora liberare tutti gli ostaggi. E vogliamo ancora vedere più assistenza umanitaria verso la popolazione di Gaza.”

La decisione di Washington di astenersi attesta settimane di critiche reciproche tra Israele e l’amministrazione Biden.

Da dicembre Biden e altri alti dirigenti USA hanno contestato Israele rispetto alla sua condotta nella guerra, ma il voto di lunedì segna il punto di critica più formale degli USA.

Gli USA hanno posto tre volte il veto rispetto alle richieste di cessate il fuoco. Inoltre Washington aveva bloccato anche un emendamento che chiedeva un cessate il fuoco che la Russia aveva cercato di includere in una risoluzione del Consiglio di Sicurezza a dicembre.

La settimana scorsa gli USA avevano annunciato ufficialmente di essere pronti a limitare il proprio supporto a Israele, presentando una risoluzione per riconoscere “la necessità” di un “immediato e prolungato cessate il fuoco”.

Tuttavia quel testo era stato bloccato da Russia e Cina, che insieme agli Stati arabi lo hanno criticato per non aver chiesto esplicitamente che Israele fermasse la campagna contro Gaza.

Discussioni sulla risoluzione

Gli Stati Uniti hanno ipotizzato una risoluzione di cessate il fuoco fin da febbraio come strumento di pressione su Israele, essendo Washington sempre più frustrata da ciò che Biden ha definito “bombardamento indiscriminato” di Israele su Gaza e dalla mancata predisposizione di un piano post-guerra per l’enclave assediata, che l’ONU ha avvertito essere sull’orlo della carestia.

Frank Lowenstein, ex inviato speciale per i negoziati israelo-palestinesi nell’amministrazione Obama, aveva in precedenza detto a MEE che le crescenti critiche degli USA alle Nazioni Unite hanno rappresentato “un avvertimento a Bibi (il primo ministro Benjamin Netanyahu)”, aggiungendo che “gli israeliani sono molto sensibili riguardo all’ONU. Lo considerano un organismo ostile e confidano sugli USA perché li proteggano in quella sede.”

La risoluzione è dovuta al lavoro dei membri non permanenti del Consiglio, che hanno negoziato con gli Stati Uniti durante il weekend per evitare un ulteriore veto, secondo fonti diplomatiche che hanno espresso un certo ottimismo sulla sua approvazione.

Diversamente dal testo di venerdì, la richiesta di cessate il fuoco nella nuova risoluzione non è collegata ai colloqui in corso, condotti dal Qatar con il sostegno di Stati Uniti ed Egitto, per fermare il conflitto in cambio del rilascio degli ostaggi da parte di Hamas.

Il nuovo testo inoltre deplora “tutti gli attacchi contro civili e obbiettivi civili come anche ogni violenza e ostilità contro civili e tutti gli atti di terrorismo”.

Israele ha criticato il Consiglio di Sicurezza per le precedenti risoluzioni che non hanno specificamente condannato Hamas.

Gli attacchi compiuti da Hamas nel sud di Israele hanno ucciso 1.200 persone ed hanno portato alla cattura di 250 ostaggi condotti a Gaza.

In risposta Israele ha lanciato una sanguinosa offensiva sull’enclave assediata che ha ridotto in macerie la maggior parte della striscia costiera mediterranea.

Un recente rapporto dell’ONU ha avvertito che la carestia è imminente nel nord di Gaza, una crisi di cui molti hanno accusato Israele per aver usato la fame come arma di guerra.

 

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)

 




Gli USA minacciano di tagliare i fondi all’Autorità Palestinese se ottiene il riconoscimento da parte dell’ONU e se appoggia la causa contro Israele presso la CPI

Redazione di Middle East Monitor

25 marzo 2024 – Middle East Monitor

Il governo degli Stati Uniti ha approvato una legge che minaccia di limitare il finanziamento all’ Autorità Nazionale Palestinese (ANP) se ottiene il riconoscimento come Stato presso le Nazioni Unite e se cerca di agire contro Israele alla Corte Penale Internazionale (CPI), insieme ad una miriade di altre restrizioni su aiuti e finanziamenti ai palestinesi sotto occupazione.

Nella risoluzione votata sabato dal Senato statunitense e firmato dal presidente Joe Biden, si afferma che “nessuno dei fondi stanziato sotto la voce ‘Fondo di supporto economico’ in questa legge può essere disponibile per assistenza all’Autorità Nazionale Palestinese se dopo la data di adozione di questa legge …i palestinesi otterranno lo stesso riconoscimento degli Stati membri oppure la piena affiliazione come Stato presso le Nazioni Unite o ogni singola agenzia [ONU] fuori da un accordo negoziato tra Israele ed i palestinesi.”

Un’altra ragione per tagliare il supporto economico per l’ANP sarebbe se “i palestinesi iniziassero un’indagine autorizzata per via giudiziaria presso la Corte Penale Internazionale (CPI), o la supportassero attivamente, che sottoponga cittadini israeliani ad una inchiesta per presunti crimini contro i palestinesi.”

Nel documento si afferma comunque che “il Segretario di Stato” degli Stati Uniti “può revocare la restrizione” riguardo al riconoscimento ONU della sovranità palestinese “se il segretario certifica alle Commissioni sugli Stanziamenti [del parlamento USA] che farlo è nell’interesse della sicurezza nazionale degli Stati Uniti.” Lo stessa autorizzazione per una revoca a quanto pare non si applica alla seconda restrizione sui procedimenti legali contro Israele presso la CPI.

Un’altra parte rilevante della legge di finanziamento da 1.200 miliardi di dollari – che è rivolta a prevenire il blocco del governo statunitense e chiudere il bilancio annuale – è la prosecuzione del divieto di finanziamento per il United Nations Relief and Works Agency for Palestine Refugees [Agenzia ONU per i rifugiati palestinesi, ndt.] (UNRWA) fino al 2025, nonostante il fatto che sia la principale agenzia sul terreno nella Striscia di Gaza nel pieno della crescente carestia e la crisi umanitaria laggiù.

Allo stesso tempo, la legge alloca 3,8 miliardi di dollari aggiuntivi per aiuti militari ad Israele dal budget di 886 miliardi di dollari per il Dipartimento della Difesa statunitense, consentendo all’occupazione [isreliana] di continuare la sua offensiva contro il territorio palestinese assediato e di commettere crimini di guerra contro la popolazione, di cui sono già state uccise oltre 32.000 persone.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Il carattere performativo della violenza israeliana

Patrizia Cecconi

24 Marzo 2024, Comune info

I cinque mesi di violenza militare più distruttiva che Gaza abbia mai conosciuto hanno oggi il loro apice nella guerra agli ospedali. Colpire con intensità il settore sanitario per provocare un orrendo sterminio è definibile violenza performativa, cioè una violenza che non descrive né prescrive un’azione ma ne realizza di fatto il compimento. La pulizia etnica attuata oggi da Israele ma cominciata molti anni fa, le gigantesche responsabilità dei grandi media, l’ipocrisia della comunità internazionale: intervista ad Angelo Stefanini, già direttore dell’OMS per i Territori Palestinesi Occupati

Angelo Stefaninii medico, accademico, fondatore del Centro di Salute Internazionale e già direttore dell’OMS per i Territori Palestinesi Occupati, il 20 febbraio ha partecipato a un convegno a Palazzo d’Accursio a Bologna che aveva per tema il cessate il fuoco a Gaza. La Comunità ebraica e altre associazioni di italiani di religione ebraica hanno protestato vivamente perché hanno ritenuto lesiva della libertà di uccidere di Israele la richiesta di cessare il fuoco.

Il convegno si è comunque svolto e l’intervento del professor Stefanini, inerente l’ambito sanitario, è risultato pari a un pugno nello stomaco per chiunque abbia una coscienza e, con essa, una sensibilità umana e il necessario senso critico per interpretare la realtà nonostante la vergognosa manipolazione mediatica. La relazione di Stefanini aveva per titolo “Gaza: la guerra agli ospedali” e, a distanza di un mese, abbiamo deciso di intervistarlo proprio sul contenuto di quella relazione che, per quanto scioccante, risulta meno grave di quanto successo in seguito come se, avendo testato la possibilità di agire impunito, Israele avesse scientemente deciso di non avere più limiti nel procedere allo sterminio indisturbato di decine di migliaia di civili, utilizzando anche armi fornite dai paesi che, con disgustosa ipocrisia, mentre lo riforniscono di strumenti micidiali, lo invitano ad ammazzare “un po’ di meno”.

Col professor Stefanini ci siamo conosciuti alcuni anni fa proprio nella Striscia di Gaza dove, con funzioni diverse, seguivamo l’équipe cardio-chirurgica del dr. Luisi del PCRF che operava i bimbi con seri problemi cardiaci che non potevano uscire dalla Striscia di Gaza sotto l’assedio israeliano, ora sotto le bombe o sotto le macerie.

Nel tuo intervento, tra l’altro, scrivi: “Il bombardamento dell’ospedale arabo di Al-Ahli il 18 ottobre… è stato da alcuni visto come un test per sondare la risposta internazionale agli inaccettabili attacchi alla sanità di Gaza”. Il 18 ottobre erano passati appena dieci giorni dall’inizio della guerra contro la resistenza e i civili palestinesi. Credi davvero che quello sia stato un test?

Considerato che questo caso è stato seguito, il 31 ottobre, dal bombardamento dell’unico ospedale oncologico, il Turkish-Palestinian Friendship Hospital e il 10 novembre dall’ospedale specialistico pediatrico Al Rantisi, appare chiaro che questi importanti centri di cura non sono stati colpiti a caso, bensì intenzionalmente come bersaglio simbolico allo scopo di distruggere i gangli più sensibili di sopravvivenza, i più vulnerabili del sistema. La violenza nei conflitti armati contro l’assistenza sanitaria è ormai un fenomeno molto diffuso in tutto il mondo. L’anno 2022 registra il triste record di 1.989 attacchi contro strutture sanitarie, il 45 per cento in più rispetto al 2021, e il numero totale peggiore da quando la Coalizione per la tutela della salute nei conflitti ha iniziato il suo macabro conteggio. Nella Striscia di Gaza non è una novità. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), nei conflitti del 2008-2009, 2012 e 2014, sono state gravemente danneggiate o distrutte più di 200 strutture sanitarie e più di 150 ambulanze, oltre 30 operatori sanitari uccisi, più di 175 feriti. Il sistema sanitario di Gaza non si è mai completamente ripreso.

Già, nella Striscia di Gaza non è una novità. Da un sondaggio approssimativo è venuto fuori che molte persone – non interessate alla Palestina, ma semplici telespettatori – hanno notato il doppio standard con cui i media trattano le due guerre al momento più considerate, con un’attenzione empatica molto forte per l’Ucraina, sia verso il popolo che verso l’esercito; mentre nei confronti di Gaza, se i cronisti mostrano empatia la mostrano solo verso gli israeliani e addirittura, mettono in dubbio lo spaventoso ammontare dei morti e dei feriti palestinesi nonostante le immagini delle distruzioni parlino da sé.

In termini comparativi, confrontando le due guerre citate, nei due mesi che vanno dal 7 ottobre al 9 dicembre 2023, gli operatori sanitari palestinesi uccisi nella Striscia di Gaza sono stati 286, cioè oltre tre volte di più di quelli ucraini (78) uccisi nell’intero anno 2022. E mi sono fermato al 9 dicembre, ma sappiamo che la mattanza è continuata, e con maggiore intensità, con sanguinosi attacchi a tutti gli ospedali.

In questi giorni, quel che sta succedendo allo Shifa Hospital dovrebbe sollevare lo sdegno e l’ira di tutte le istituzioni internazionali ma queste, al contrario, o tacciono o tutt’al più pigolano. Peggio ancora fanno vari governi, tra cui quello italiano, che senza un residuo di pudore, ripetono l’inaccettabile narrazione israeliana e dichiarano il loro immutabile sostegno a Israele.

Vedi, io sono un medico e non è mio compito entrare in questioni politiche, però posso dire che a febbraio l’ultimo ospedale ancora funzionante pienamente come tale, l’ospedale Nasser, il secondo più grande nella Striscia di Gaza, è stato messo completamente fuori servizio. Un numero imprecisato di pazienti è morto per mancanza di elettricità e interruzione dei respiratori e delle incubatrici. Il portavoce del Ministero della Sanità di Gaza, ha affermato che l’ospedale è stato trasformato dall’IDF in “una caserma militare”. Nel periodo compreso tra il 7 ottobre 2023 e l’11 febbraio 2024, sono stati 30 gli ospedali messi totalmente fuori servizio; quelli minimamente funzionanti ridotti a “ambulatori di pronto soccorso”; 53 centri sanitari demoliti e 150 danneggiati; 123 ambulanze completamente distrutte; 340 operatori sanitari uccisi e 99 arrestati. Questo solo fino all’11 febbraio e oggi siamo al 22 marzo e la situazione è ancora peggiore.

Perché questo accanimento contro i servizi sanitari?

Perché gli attacchi ai servizi sanitari non solo colpiscono direttamente il personale, ma anche l’intera popolazione che dipende da loro per l’assistenza sanitaria. Sotto una pioggia di bombe, attualmente la Striscia di Gaza ospita una popolazione di ammalati e o bisognosi di cure composta da: 10.000 malati di cancro senza accesso ai farmaci, 350.000 con malattie cardiovascolari e diabete privi di farmaci; oltre 218.000, metà dei quali bambini sotto i cinque anni, con varie forme di diarrea dovuta prevalentemente alla situazione igienica e nutrizionale attuale; circa 50.000 donne incinte senza accesso all’assistenza sanitaria, circa 183 bambini che nascono ogni giorno e oltre 5.000 nati il mese scorso, tutti bisognosi di cure e nutrizione adeguate; 388.000 casi di malattie respiratorie acute, 8.000 casi di infezione da epatite virale, 55.000 con pidocchi e scabbia, 42.000 forme varie di infezioni cutanee. La violenza, inoltre, distrugge i servizi sanitari proprio nel momento in cui sono più necessari. Basti pensare alle ferite non medicate che si infettano, ai tagli cesarei e alle amputazioni senza anestetici o antidolorifici.

Un’informazione onesta dovrebbe fornire questi dati, invece le nostre TV, e parlo di TV perché è la comunicazione televisiva quella che maggiormente “crea” la pubblica opinione, evita accuratamente di farlo e qui si torna al doppio standard di cui anche i meno attenti si sono resi conto. Come si può far intendere all’opinione pubblica l’entità non solo numerica ma anche volutamente disumana di questo sterminio?

Il chirurgo della Croce Rossa Internazionale Tom Potokar così messaggiava il mese scorso dall’European Gaza Hospital di Khan Younis: “Se potessi portare qui una persona che ha dubbi, e metterla qui, e farle sentire l’odore della carne in decomposizione, vedere i vermi che strisciano dalle ferite di una persona che ha la carne necrotica e sentire le urla dei bambini perché non c’è abbastanza antidolorifici, e vogliono la loro mamma, che non c’è perché è morta – credo che le persone potrebbero pensarla un po’ diversamente”.

Il Diritto internazionale non dovrebbe impedire questo accanimento contro i servizi sanitari?

Naturalmente i servizi sanitari sono protetti dal Diritto Internazionale. Secondo la IV Convenzione di Ginevra e i Protocolli aggiuntivi, la Risoluzione 2286 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite del 2016, l’articolo 8 dello Statuto di Roma (che ha istituito la Corte penale internazionale), le strutture e il personale sanitario non possono essere attaccati a meno che vengano utilizzate per commettere un “atto dannoso per il nemico”. In caso di dubbio, si presume che NON vengano utilizzate a tale scopo. Se pure un ospedale perdesse il suo status protetto, dice il Diritto internazionale, qualsiasi operazione militare deve adottare misure per proteggere i pazienti, il personale e gli altri civili.

Sembra che per Israele viga un diritto di eccezione anche in questo. Lo aveva già mostrato nelle aggressioni precedenti, in particolare in “margine protettivo” e in “piombo fuso” ma ora sembra aver raggiunto l’inimmaginabile, soprattutto per uno Stato che viene considerato democratico.

Secondo il chirurgo britannico-palestinese Dr Ghassan Abu Sitteh, rientrato dopo 43 giorni di sala operatoria a Gaza, e con l’esperienza professionale delle guerre precedenti, in termini quantitativi la differenza che esiste tra i precedenti attacchi israeliani a Gaza e quello in corso è quella esistente tra semplici inondazioni e uno tsunami. Nel caso attuale, inoltre, è importante notare che il bersaglio dei bombardamenti non è rappresentato da singoli, specifici edifici, ma da interi quartieri. La novità decisamente più rilevante è comunque che il riemergere della accusa israeliana ai tunnel e agli ospedali che nasconderebbero armi e centri di comando di Hamas ha reso evidente la decisione di Israele di prendere di mira il settore sanitario, comprese le ambulanze. Infatti il 3 novembre 2023 viene colpito un convoglio di ambulanze in partenza dall’ospedale al-Shifa, il più grande ospedale pubblico dell’intera Palestina occupata, con 15 persone uccise e decine ferite. L’ospedale viene in seguito circondato e bloccato e al suo interno le forze di occupazione israeliane prendono di mira le parti più critiche e vulnerabili, come l’ossigeno delle incubatrici e il sistema di riscaldamento elettrico. Il Dr. Abu Sitteh chiama questo comportamento “violenza performativa”, una violenza che “non descrive né prescrive un’azione ma ne realizza effettivamente il compimento”, e che lancia un messaggio scioccante su quanto Israele intende fare. I corpi dei bambini prematuri tenuti in mostra di proposito, privati della protezione salvavita delle incubatrici, hanno lo stesso significato: fanno parte del carattere performativo della violenza israeliana.

Questa “violenza performativa” quindi rappresenta una disumanità non casuale o mezzo militare necessario, ma una crudeltà preordinata e già fine in sé stessa?

Chi sta sul campo, come il dr. Abu Sitteh, ritiene che sia così. Esaminiamo ad esempio il tipo di ferite, è un aspetto che merita approfondimento e non soltanto dal punto di vista medico perché le ferite che gli operatori sanitari incontrano quotidianamente aiutano a far luce sul genere di violenza che colpisce la popolazione di Gaza.

Ustioni estese oltre il 50% della superficie corporea con assenza significativa di altre ferite, che indicano l’uso di bombe incendiarie senza frammenti o schegge, un tipo di arma ideata per incendiare o distruggere con il fuoco.

Ustioni da fosforo bianco molto distintive perché caratterizzate da ferite che sprigionano del fumo bianco. Il fosforo bianco è un combustibile solido che in presenza di ossigeno prende fuoco spontaneamente; si spegne solo quando è privato totalmente di ossigeno o se è consumato del tutto. A contatto con pelle esposta, produce ustioni chimiche dolenti necrotiche, a tutto spessore, dovute alle due componenti, la chimica e la termica. Poiché il fosforo bianco ha un’elevata solubilità nei grassi, le ferite si estendono spesso in profondità nei tessuti sottostanti, con il risultato, quando non di lenta morte, di un ritardo nella guarigione della ferita. Il fosforo bianco può essere anche assorbito da tutto il corpo, con effetti sistemici su sangue, reni, fegato e cuore.

Orribili amputazioni, come da ghigliottina, dovute alle bombe sperimentate e utilizzate per la prima volta sull’Al-Ahli Hospital, una nuova generazione di missili R9X Hellfire di produzione statunitense noti anche come “Ninja missile” munito di lame rotanti che vengono scagliate tutto intorno al momento dell’esplosione.

Quindi se all’ospedale Al Ahli, sono state usate queste armi, la controversia sulla responsabilità del bombardamento di quel primo ospedale dovrebbe essere chiarita e l’ipotesi che sia stato un test prende ancora più forma.

Il fatto incontestabile è che colpire il settore sanitario con tale intensità e risonanza emotiva fa supporre l’esistenza di una strategia volta a smantellare tutte le necessità della vita e, per alcuni, è la dimostrazione dell’intenzione genocidaria di chi la persegue. Dalla distruzione dei sistemi fognari, degli impianti di desalinizzazione dell’acqua, degli impianti di energia solare e dei panifici, al prendere di mira ambulanze ed équipe mediche, l’uccisione intenzionale di centinaia di medici, paramedici e infermieri, questi attacchi contribuiscono agli sforzi israeliani volti a infliggere un disastro di un tale impatto da portare avanti il progetto di pulizia etnica anche dopo la fine della guerra. Si tratta di una vera e propria guerra psicologica attraverso le sofferenze dei corpi, è la psy war o, più comunemente, propaganda, ossia “un’azione praticata con metodi psicologici per evocare in altre persone una predeterminata reazione psicologica”. La distruzione di strutture essenziali può avere un impatto devastante sul morale e lo stato d’animo della popolazione.

Quindi anche il diffondersi di malattie può rappresentare una strategia voluta?

Per secoli le malattie hanno avuto un importante ruolo nella guerra; le organizzazioni internazionali stanno cercando di lanciare l’allarme su questa situazione. L’Unicef ha avvertito: “La mancanza di acqua, cibo, medicine e protezione è una minaccia più grande delle bombe per la vita di migliaia di persone a Gaza”. La portavoce dell’OMS ha avvertito che i tassi di diarrea tra i bambini, già all’inizio di novembre, erano più di cento volte i livelli normali. Il 16 febbraio, l’UNFPA ha evidenziato che in tutta Gaza sono stati segnalati 500.000 casi di malattie trasmissibili, tra cui meningite e diarrea acuta. Sottolineando gli immensi rischi che corrono le donne incinte a Gaza, l’UNFPA ha avvertito: “Se le bombe non uccidono le donne incinte, se le malattie, la fame e la disidratazione non le raggiungono, il semplice parto potrebbe farlo”.

Ci si aspetta una forte crescita del tasso di mortalità?

Si stima che i tassi grezzi di mortalità (cioè il numero di morti ogni 1.000 persone per anno) sono in media più di 60 volte più alti rispetto a quando è iniziato ogni conflitto. Estrapolando questo dato alla situazione attuale a Gaza, dove il tasso di mortalità prima del conflitto era di 3,82 per mille nel 2021 (relativamente basso a causa della sua giovane popolazione), i tassi di mortalità potrebbero raggiungere 230 per mille nel 2024 se gli abitanti di Gaza continuano a non avere accesso a servizi igienico-sanitari, strutture mediche e alloggi permanenti. Insomma, ci troviamo di fronte alla prospettiva che quasi un quarto dei circa 2 milioni di abitanti di Gaza – quasi mezzo milione di esseri umani con un proprio nome, un proprio volto, una propria storia – muoia entro un anno. Si tratterebbe di un “eccesso in mortalità” in gran parte dovuto a cause sanitarie prevenibili e al collasso del sistema sanitario. Secondo la Prof Devi Sridhar dell’Università di Edimburgo, “Si tratta di una stima approssimativa, ma basata sui dati, che utilizza il numero spaventosamente reale di morti in conflitti precedenti e comparabili”. Il deliberato attacco alle infrastrutture sanitarie, la scarsità di forniture mediche e di carburante e il mancato accesso ai beni di prima necessità (tra cui acqua, cibo e aiuti vitali) sono tutti mezzi attraverso i quali l’annientamento dell’intero sistema sanitario di Gaza viene utilizzato come arma di guerra per amplificare la portata delle perdite umane inflitte ai civili nella Striscia. Non solo, ma questa guerra dimostra il sostegnodella società israeliana a una “soluzione finale” per la questione palestinese, prima provocando morte edistruzione, poi sfollando i sopravvissuti, quello che secondo la Corte Internazionale di Giustizia potrebbeconfigurarsi come genocidio.

Un genocidio, o un orrendo sterminio di civili attuato con un comportamento definibile violenza performativa esercitata su un popolo che chiede il suo diritto all’autoderminazione?

Sì, sono i fatti a dimostrarlo.

i Medico, ha lavorato per anni con ONG in Africa. Ha insegnato alle università di Leeds (UK), Makerere (Uganda) e Bologna, dove ha fondato il Centro di Salute Internazionale (CSI). Nella Palestina occupata è stato direttore dell’OMS (2002) e del programma sanitario italiano (2008-2011). Dal 2015, come volontario di PCRF (Palestinian Children’s Relief Fund), fino all’agosto 2023 ha compiuto missioni periodiche nella Striscia di Gaza collaborando al rafforzamento del sistema sanitario locale.




A 5 mesi dall’inizio della guerra gli abitanti sia della Cisgiordania che di Gaza giustificano l’attacco di Hamas

Amira Hass

24 marzo 2024 – Haaretz

Un sondaggio palestinese mostra un forte aumento del sostegno agli attacchi tra i gazawi, al 71% rispetto al 57% di tre mesi fa.

Secondo un nuovo sondaggio, più di cinque mesi dopo l’inizio della guerra nella Striscia di Gaza, accompagnata da pesanti restrizioni negli spostamenti e da arresti di massa in Cisgiordania, il sostegno dei palestinesi agli attacchi del 7 ottobre rimane alto e tra gli abitanti di Gaza è persino aumentato.

Il sondaggio, realizzato all’inizio di questo mese dal Centro Palestinese per la Ricerca di Politica e Sondaggi, ha anche rilevato che la maggioranza dei palestinesi non crede ancora che Hamas abbia perpetrato atrocità durante l’attacco.

Molti affermano anche di non aver visto immagini dell’attacco. A quanto pare, contrariamente alle aspettative israeliane, non vedono in Hamas il responsabile delle loro sofferenze e non lo puniscono riducendo il loro appoggio.

Ben il 71% degli intervistati gazawi sostiene che la decisione di Hamas di attuare l’attacco del 7 ottobre è stata corretta. Ciò rispetto al 57% del sondaggio precedente, condotto a dicembre. Solo il 23% ritiene sbagliata la decisione.

Un identico 71% degli abitanti della Cisgiordania la definisce corretta, anche se in calo rispetto all’82% di dicembre. Solo il 16% di chi ha risposto in Cisgiordania la ritiene sbagliata.

I ricercatori hanno intervistato 1.580 abitanti della Cisgiordania (compresa Gerusalemme est) e di Gaza tra il 5 e il 10 marzo. Per garantire la sicurezza dei ricercatori il sondaggio a Gaza è stato realizzato solo nelle aree in cui non erano in corso combattimenti, ossia Rafah, la parte centrale di Gaza e alcune zone di Khan Younis. Nessuna intervista è stata realizzata nel nord di Gaza doppiamente assediato.

Il dottor Khalil Shikaki, direttore del centro di ricerca e che ha supervisionato il sondaggio, ha affermato che il continuo appoggio all’attacco di Hamas in parte deriva dall’opinione che la guerra abbia rinnovato l’interesse internazionale per la causa palestinese. Tre quarti di chi ha risposto al sondaggio ha detto che ciò “potrebbe portare a un maggior riconoscimento del diritto a uno Stato palestinese.”

Ben il 62% dei gazawi che hanno risposto ha manifestato appoggio per la creazione di uno Stato palestinese accanto a Israele, quasi il doppio del 35% che ha detto lo stesso in dicembre. Invece in Cisgiordania l’appoggio a questa soluzione del conflitto è rimasto praticamente lo stesso, al 34%. L’approvazione per l’idea di uno Stato unico per entrambi i popoli è stata del 24%, in lieve calo rispetto al 29% di dicembre.

Una netta maggioranza di chi ha risposto ha manifestato gradimento dall’inizio della guerra nei confronti sia di Hamas che del suo leader a Gaza, Yahya Sinwar. Ma la percentuale è più alta in Cisgiordania, rispettivamente al 75% e al 68%, che a Gaza, dove sono del 62% e del 52%.

Al contrario pochi palestinesi sono soddisfatti del comportamento del presidente palestinese Mahmoud Abbas e del suo partito, Fatah. In Cisgiordania solo il 24% è contento di Fatah e solo l’8% di Abbas. A Gaza le percentuali sono rispettivamente del 32% e del 22%.

La stragrande maggioranza, il 93% in Cisgiordania e il 71 % a Gaza, vuole le dimissioni di Abbas. Inoltre circa i due terzi degli intervistati in Cisgiordania e metà di quelli di Gaza hanno affermato che dopo la fine della guerra vorrebbero vedere il ritorno del controllo di Hamas su Gaza. Questi superano di gran lunga lo scarso 10% che vorrebbe che l’Autorità Nazionale Palestinese (con o senza Abbas) controlli Gaza.

Ma quando gli viene chiesto del loro sostegno ai partiti politici e come voterebbero nelle prossime elezioni, il quadro è più complesso. Sia a Gaza che in Cisgiordania poco più di un terzo (il 35%) afferma di appoggiare Hamas, con un calo di circa 10 punti percentuali rispetto a dicembre. Più o meno un quarto dei gazawi e il 12% in Cisgiordania ha affermato di appoggiare Fatah.

Inoltre la percentuale di intervistati che voterebbero effettivamente per Hamas è scesa. In Cisgiordania è al 26%, in calo rispetto al 31% di dicembre, mentre a Gaza è al 35%, contro il precedente 41%. Un altro 20% di abitanti di Gaza e 9% della Cisgiordania ha affermato che voterebbe per Fatah.

Tuttavia la scelta più popolare per rimpiazzare Abbas come presidente rimane Marwan Barghouti, l’importante dirigente di Fatah che attualmente sta scontando molteplici condanne all’ergastolo in Israele per omicidio. (Nel 2003 Barghouti ha ricusato l’autorità giuridica del tribunale israeliano su di lui e non ha collaborato durante il processo).

Un totale del 40% di intervistati ha affermato che preferirebbe vederlo come presidente rispetto al 19% che preferirebbe il capo dell’ufficio politico di Hamas Ismail Haniyeh e il 10% che preferirebbe Sinwar.

L’appoggio al ritorno al potere di Hamas a Gaza può essere interpretato come una risposta politica e persino emotiva alle dichiarazioni israeliane riguardo all’eliminazione del suo dominio lì, soprattutto mentre la guerra prosegue. Eppure, come mostrano i risultati del sondaggio, se le elezioni si tenessero oggi e Hamas e i suoi principali dirigenti si presentassero non è chiaro se vincerebbero.

Le opinioni sui loro vicini

Circa metà degli intervistati in Cisgiordania prevede che se l’esercito israeliano lancerà un’operazione di terra a Rafah gli abitanti della città e gli sfollati che vi si ammassano cercheranno di fuggire in Egitto. Per contro la pensa così solo il 24% degli intervistati di Gaza. Questa differenza riflette la percezione dei gazawi di essere assediati senza vie di fuga, il che è difficile da capire per persone che vivono fuori dal territorio.

Questa disperazione è stata espressa anche in risposte alla domanda riguardo alle possibilità di un cessate il fuoco. Circa metà degli intervistati in Cisgiordania ha affermato di essere ottimista che un accordo di cessate il fuoco verrà firmato presto, rispetto a poco più di un quarto di gazawi, meno del 38% degli abitanti di Gaza, che si aspetta che la guerra continuerà.

In totale il 60% degli intervistati gazawi ha affermato che un membro della propria famiglia è stato ucciso durante la guerra, mentre il 68% ha detto che un familiare è rimasto ferito. Questa domanda non riflette il fatto che la grande maggioranza di queste famiglie ha avuto più di un parente ucciso o ferito.

Agli intervistati di Gaza è stato chiesto se cercherebbero rifugio sul lato egiziano della frontiera nel vedere gente che cercasse di attraversarla e la barriera divisoria crollata. Circa il 69% ha risposto negativamente e un quarto positivamente.

Il dottor Shikaki presume che questa bassa percentuale sia relativa al fatto che il 68% degli intervistati a Gaza si aspetta che l’esercito e la polizia egiziani aprirebbero il fuoco contro i palestinesi che tentassero di sfondare la linea di confine. Anche molte persone in Cisgiordania, il 55% degli intervistati, pensa che le forze di sicurezza egiziane lo farebbero. Il fatto che il 61% di chi ha risposto ritenga in entrambe le aree che le forze di sicurezza di un Paese arabo aprirebbero il fuoco contro altri civili arabi che fuggono da un’invasione di terra israeliana corrisponde all’atteggiamento amaro nei confronti dell’Egitto.

Questa amarezza si nota anche in altre risposte. Quando viene chiesto di quantificare il gradimento nei confronti di altri Paesi della regione, l’Egitto ottiene il punteggio più basso: solo il 12% degli intervistati ha affermato si essere contento delle iniziative del Paese, in netto calo rispetto al 23% del precedente sondaggio, a dicembre.

Anche qui spicca la differenza tra le due zone. Comunque il 23% degli abitanti di Gaza ha affermato di essere soddisfatto delle azioni dell’Egitto rispetto al 5% di quelli della Cisgiordania. L’Egitto è visto come un complice di Israele e un alleato nell’assedio imposto a Gaza, non come una parte che sta contribuendo a impedire a Israele di realizzare la sua ambizione di destra di espellere i palestinesi da Gaza.

La consapevolezza del fatto che l’Egitto consente la partenza di migliaia di persone in cambio di cospicue bustarelle pagate a persone legate all’apparato di sicurezza egiziano non cessa di scioccare l’opinione pubblica palestinese.

Lo Yemen ottiene il gradimento maggiore, l’88% tra gli intervistati della Cisgiordania e il 75% tra quelli di Gaza. Non è difficile immaginare che ciò sia legato al fatto che gli houthi si sono uniti agli “sforzi bellici” lanciando missili contro navi nel sud del Mar Rosso.

Al secondo posto, anche se molto dietro lo Yemen, c’è il Qatar: il 49% degli intervistati della Cisgiordania e il 67% a Gaza sono soddisfatti. È seguito da Hezbollah, Iran e Giordania. Cosa interessante, anche qui sono gli intervistati di Gaza ad essere più soddisfatti di questi due Paesi.

La Russia guida la lista degli Stati non arabi che conquistano il gradimento dei palestinesi, ma di meno di un quarto: il 17% in Cisgiordania e il 28% a Gaza. L’11% dei gazawi e il 7% degli abitanti della Cisgiordania hanno espresso il proprio gradimento nei confronti dell’ONU. Come c’era da aspettarsi, solo l’1% esprime un’opinione simile riguardo agli USA.

Benché il testo della domanda sul gradimento non ne citi le ragioni, sembra che l’appoggio o meno degli attori regionali e internazionali ad Hamas possa spiegare l’atteggiamento palestinese nei loro confronti.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Facoltà dell’Università Ebraica in Scienze della Repressione

Orly Noy

23 marzo 2024 – +972 magazine

La sospensione della docente palestinese Nadera Shalhoub-Kevorkian svuota di ogni significato i valori di pluralismo e uguaglianza proclamati dall’università.

Un’università che promuove diversità e inclusione è un’università che favorisce l’uguaglianza.” Queste sono alcune delle parole usate dall’Università Ebraica di Gerusalemme, una delle migliori istituzioni accademiche del Paese, per descrivere i suoi presunti valori e la sua visione. Ma l’università non sembra aver avuto alcun problema a gettare dalla finestra tali valori quando la scorsa settimana ha deciso di sospendere la professoressa Nadera Shalhoub-Kevorkian, un’eminente studiosa di diritto e cittadina palestinese di Israele.

La scandalosa decisione, presa senza la corretta procedura, è arrivata subito dopo il podcast di Shalhoub-Kevorkian su Makdisi Street in cui aveva esposto le sue opinioni critiche contro il sionismo, l’attacco israeliano contro Gaza e gli opinabili precedenti dello Stato riguardo ad affermazioni su avvenimenti relative alla guerra. Ma la studiosa è sotto osservazione da parte dell’università da mesi (anzi da anni), specialmente dopo che ha firmato una petizione alla fine di ottobre in cui chiedeva un cessate il fuoco a Gaza e descriveva la guerra come un “genocidio.” Shalhoub-Kevorkian, ha scritto l’università, deve “trovare un’altra casa accademica allineata con le sue posizioni.”

Indubbiamente la sospensione svuota di ogni significato alcuni corsi “illuminati” che offre. Anzi cosa può insegnare ai suoi studenti in un corso intitolato “La Corte Suprema in uno Stato Democratico” un’università che sospende un decano della facoltà senza una discussione? Cosa può insegnare su “libertà, cittadinanza e genere” un’istituzione accademica che si allinea con i sentimenti più estremi e aggressivi? Cosa può insegnare su “Diritti umani, femminismo e cambiamenti sociali” un’istituzione che zittisce e bullizza brutalmente la voce critica di una donna, una docente e un’appartenente a una minoranza perseguitata?

In una dichiarazione in cui parecchi anni fa presentava la sua visione dell’istituzione accademica il preside dell’università, il professor Asher Cohen, che con il rettore, il professor Tamir Sheafer, ha autorizzato la sospensione di Shalhoub-Kevorkian, sostiene che l’università ha “guidato un processo di inclusione di popolazioni che compongono la società israeliana. Noi crediamo in un campus diversificato, pluralistico e ugualitario, dove utenti di diverse formazioni possono familiarizzarsi con i valori della coesistenza.” Queste sono parolone da parte di chi sembra incapace di prendere in considerazione voci politiche critiche che differiscono dalle sue.

Nella stessa dichiarazione Cohen si gloria della profonda responsabilità dell’università “per la società israeliana e specialmente per Gerusalemme.” Questa è la stessa Gerusalemme dove metà della città è sotto occupazione e dove ogni giorno oltre 350.000 palestinesi sono oppressi, le loro case sono demolite e i loro bambini strappati dal letto nel cuore della notte e arrestati arbitrariamente senza che nessuno dei capoccioni nella torre d’avorio di Cohen pronunci una sola parola su di loro.

C’è molto da dire sui quartieri palestinesi di Silwan e Sheikh Jarrah, entrambi a poche centinaia di metri dal campus del Monte Scopus, che affrontano un’occupazione delle loro terre e proprietà da parte dei coloni appoggiati dallo Stato. Ma è particolarmente incredibile che l’Università Ebraica non abbia mai ritenuto opportuno protestare contro la violenta oppressione contro il villaggio di Issawiya, le cui case sono chiaramente visibili dalle finestre degli edifici del campus, a pochi metri di distanza. È possibile che nelle sere che Cohen passa nel suo ufficio non riesca a sentire proprio sotto la sua finestra i rumori degli spari della polizia israeliana che da tempo sono la colonna sonora del villaggio?

Se solo il grande peccato (e lo è davvero) dell’Università Ebraica fosse l’inconsapevolezza! La sospensione di Shalhoub-Kevorkian va ad aggiungersi a una lunga lista di persecuzioni politiche e indottrinamento militaristico promossi dall’istituzione nel corso degli anni.

Dopo tutto questa è la stessa università che nel gennaio 2019 ha assecondato una violenta campagna di incitamento condotta da un gruppo di studenti di destra contro la dottoressa Carola Hilfrich, sostenendo falsamente che lei aveva redarguito uno studente per essere arrivato al campus in uniforme militare. Invece di difenderla dalle false accuse l’università ha emesso una vergognosa lettera di scuse per l’“incidente.” Questa è la stessa università che, nonostante le proteste di studenti e docenti, solo pochi mesi dopo ha scelto di trasformare il campus praticamente in un piccolo campo militare ospitando corsi dell’unità di intelligence dell’esercito israeliano, una delle molte redditizie collaborazioni con l’esercito.

Questa è la stessa università che ha ripetutamente perseguitato e zittito organi studenteschi palestinesi, mentre conferisce crediti accademici a studenti che fanno i volontari per il gruppo di estrema destra Im Tirtzu. E questa è la stessa università che, negli ultimi cinque mesi, non ha detto nulla di come Israele abbia sistematicamente distrutto le scuole e le istituzioni di istruzione superiore di Gaza, tradendo vergognosamente non solo i colleghi di Gaza assediati, bombardati e affamati, ma i principi dell’accademia stessa.

Spiegando la loro decisione in una lettera alla parlamentare Sharren Haskel, il presidente Cohen e il rettore Sheafer hanno accusato Shalhoub-Kevorkian di esprimersi in un modo “vergognoso, antisionista e provocatorio” dall’inizio della guerra, deridendola per aver definito genocidio le politiche di Israele a Gaza. Ma non è la sola a farlo. Non solo il popolo palestinese e centinaia di milioni di persone in tutto il mondo considerano un genocidio la catastrofe a Gaza, ma anche la Corte Internazionale di Giustizia, il massimo tribunale al mondo, ha preso seriamente questa pesante accusa e deliberato che non la si può semplicemente ignorare.

È come se Cohen e Sheafer fossero sorpresi non solo di apprendere che Shalhoub-Kevorkian è palestinese, ma che è anche antisionista, non sia mai! Se il sionismo fosse un prerequisito per l’ammissione all’università i suoi dirigenti sarebbero obbligati a informare ogni docente e studente prima che ne varchino i cancelli. Non sbaglieremmo nel dire che, a parte limiti legali, la ragione è che l’Università Ebraica beneficia della presenza dei palestinesi per presentarsi al mondo accademico internazionale come un modello di pluralismo, progressismo e inclusione. Intanto può continuare a perseguitare quei palestinesi a casa, lontano dagli occhi del mondo.

Questa vergognosa iniziativa sta già echeggiando clamorosamente nel mondo accademico e nei media a livello globale, bollando l’Università Ebraica con la vergogna che si merita. Nel frattempo il solo corso appropriato che riesco a trovare nel modulo dell’università è quello offerto dal Dipartimento di Scienze Politiche: Macchiavelli, il filosofo della tirannide.

Orly Noy è una giornalista di Local Call, un’attivista politica e traduttrice di poesia e prosa in farsi. È presidente del consiglio di amministrazione di B’Tselem e attivista del partito politico Balad. I suoi scritti trattano delle linee che intersecano e definiscono la sua identità di mizrahi, donna di sinistra, donna, migrante temporanea che vive dentro un’immigrata permanente e il continuo dialogo fra loro.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Il leader palestinese imprigionato Marwan Barghouti è stato picchiato dalle guardie

Redazione di Middle East Monitor

19 marzo 2024 – Middle East Monitor

Il famoso prigioniero politico palestinese Marwan Barghouti è stato aggredito con manganelli dalle guardie carcerarie israeliane e ha subito una emorragia a un occhio, hanno affermato la Commissione palestinese per gli affari dei detenuti e gli ex prigionieri e la famiglia di Barghouti, come riferito da Al-Arabi Al-Jadeed.

Barghouti, sessantaquattrenne, che è membro del comitato centrale di Fatah [storico partito politico palestinese che governa l’Autorità Palestinese, ndt.] è soggetto ad isolamento, torture ed umiliazioni, ha affermato sua moglie Fadwa Barghouti.

Fadwa ha spiegato che la vita di suo marito e di altri noti prigionieri sono in grave pericolo, aggiungendo che l’amministrazione carceraria israeliana “li brutalizza deliberatamente al fine di fiaccare il loro morale.”

Marwan è soggetto a continui attacchi, di cui abbiamo saputo [attraverso gli avvocati] il 6 e il 12 marzo e che gli hanno causato una emorragia in un occhio, mentre le forze repressive della prigione lo hanno costantemente minacciato,” ha aggiunto lei, spiegando che Marwan è stato spostato cinque volte durante gli ultimi tre mesi, ed ogni volta è stato aggredito e le sue condizioni carcerarie sono state rese più difficili.

In quattro prigioni è stato messo in isolamento, ha affermato, avvertendo che è stata scatenata una “vera e propria guerra” contro i prigionieri palestinesi e i loro leader, cosa che danneggia il loro morale.

Da parte sua, la campagna “Marwan Barghouti e tutti i prigionieri politici palestinesi liberi” ha affermato in una dichiarazione che i legali che hanno visitato la prigione di Megiddo hanno appreso del brutale attacco a Barghouti e ad altri importanti prigionieri da parte delle unità speciali di repressione della prigione, aggiungendo che molti di loro sono stati messi in isolamento.

La campagna ha affermato che è stata contattata da molte figure internazionali, inclusi diplomatici, parlamentari e istituzioni per i diritti umani, ed anche dai leader del movimento Fatah e delle fazioni Azione Nazionale e Islamica, che chiedono di fornire protezione al popolo palestinese, inclusi i prigionieri politici nelle carceri israeliane.

Barghouti è stato arrestato nel 2002 e in seguito è stato condannato a cinque ergastoli per le accuse di “uccisione e ferimento di israeliani.”

In parallelo con il massacro contro la Striscia di Gaza che ha ucciso più di 31.000 palestinesi, Israele ha incrementato le incursioni e gli arresti nella Cisgiordania occupata, arrestando più di 7.000 persone, contemporaneamente alla campagna di persecuzione dei prigionieri nelle carceri israeliane che dal 7 ottobre 2023 ha provocato la morte di almeno 13 prigionieri.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)