Gli spudorati raid israeliani su Jenin alimentano una più accanita resistenza palestinese

Mariam Barghouti

27 febbraio 2024 +972 Magazine

Dal 7 ottobre le continue incursioni israeliane nel campo profughi di Jenin hanno ucciso quasi 100 palestinesi, tra cui molti civili. Ma mentre aumenta la repressione i figli della Seconda Intifada stanno imbracciando le armi

Nelle prime ore del 23 febbraio le forze armate israeliane hanno bombardato un veicolo nel campo profughi di Jenin, uccidendo tre residenti palestinesi del campo. L’obiettivo dell’attacco operato con i droni era il 27enne Yasser Mustafa Hanoun, comandante sul campo della Brigata Jenin – ufficialmente il braccio armato della Jihad islamica palestinese (PIJ), ma che negli ultimi anni ha operato come gruppo ombrello per una varietà di giovani palestinesi che vanno dal PIJ a Hamas, Fatah e persino al Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP), di sinistra e laico. Hanoun è stato ucciso sul colpo, in un attentato che ha ucciso anche Saeed Jaradat, 17 anni, e Majdi Nabhan, 20 anni, ferendo altri 15.

Negli ultimi mesi e in concomitanza con il continuo bombardamento israeliano della Striscia di Gaza, la Cisgiordania ha subito un forte aumento delle violente incursioni da parte delle forze israeliane. Se il 2023 è stato in Cisgiordania l’anno più mortale in circa due decenni con più di 500 vittime, almeno un quinto proveniva dalla sola Jenin.

Con la stessa tendenza dal 7 ottobre soldati e coloni israeliani hanno ucciso nel territorio 410 palestinesi, di cui 93 solo a Jenin. L’anno scorso la città ha dovuto spianare un appezzamento di terreno appena fuori dal campo profughi per farne un nuovo cimitero, poiché il cimitero comune era diventato troppo pieno e troppo in fretta.

Il campo profughi di Jenin è un microcosmo degli attacchi israeliani ai palestinesi che osano resistere alle sue politiche di esproprio e sfollamento. Mentre l’esercito israeliano sta pianificando un’operazione di “controinsurrezione” a lungo termine a Gaza come fase successiva alla guerra, Jenin getta luce su ciò che potrebbe esserci in serbo.

Il punto sono i palestinesi, non i palestinesi che resistono

Le incursioni dell’esercito israeliano a Jenin e nel suo campo profughi si sono susseguite quasi ininterrottamente dal 7 ottobre. L’invasione di gran lunga più vasta si è verificata tra il 12 e il 15 dicembre, quando i soldati israeliani hanno assediato l’intero campo per 60 ore: il raid più lungo e violento del suo genere da quando il campo fu quasi distrutto durante l’“Operazione Scudo Difensivo” nel 2002, nel pieno della Seconda Intifada.

Dopo aver portato a termine l’offensiva, il portavoce dell’esercito israeliano ha affermato di aver arrestato 14 persone ricercate e “eliminato 10 terroristi” nel campo. Ma secondo testimoni oculari e residenti, almeno 12 palestinesi sono stati uccisi – 10 dei quali erano civili e non combattenti, compreso un bambino – mentre almeno altri 42 sono rimasti feriti da colpi di arma da fuoco, gas lacrimogeni e droni d’attacco israeliani.

Non esiste qualcosa come ‘questo è un combattente e questo no’ ”, ha detto a +972 Sami, un uomo sulla trentina che ha scelto di usare uno pseudonimo per paura di misure punitive da parte dell’esercito israeliano, in merito all’incursione che ha avuto luogo la sera del 13 dicembre. “Siamo tutti un bersaglio”, ha aggiunto, mentre le jeep militari pattugliavano le strade appena fuori dal campo profughi.

Alcune ore dopo il ritiro dell’esercito, la mattina del 15 dicembre, Umm Imad Ghrayeb, 72 anni, camminava per le strade fangose e in rovina del campo per la prima volta da tre giorni. Non sapeva da dove cominciare a raccontare le ore di orrore che aveva dovuto sopportare.

Eravamo solo noi anziani e mio marito non riusciva nemmeno ad alzarsi”, ha raccontato Ghrayeb a +972. “[L’esercito] ha sfondato la porta di casa nostra, anche se l’avevamo lasciata aperta per dimostrare che non abbiamo nulla da nascondere”.

Come è successo a molte altre famiglie, i soldati hanno chiuso Ghrayeb e suo marito in una stanza mentre l’esercito ha trasformato la casa in una base militare. Nel frattempo, intorno alle case continuavano spari e bombardamenti. “Tutto quello che potevamo sentire erano colpi forti, uno dopo l’altro”, ha ricordato Ghrayeb.

L’attacco di dicembre non è stata una semplice operazione di ricerca e arresto, e nemmeno un’operazione contro i combattenti della resistenza come affermato dall’esercito israeliano. Secondo quanto riferito, almeno 1.000 palestinesi – tutti uomini e ragazzi, per lo più giovani, comprese persone con malattie croniche – sarebbero stati arrestati nel corso delle 60 ore di invasione. La maggior parte è stata infine rilasciata, ma non prima di essere portata al campo militare di Salem a nord-ovest di Jenin o sottoposta a brutali interrogatori sul campo.

Quelli sottoposti a quest’ultima pratica venivano spesso bendati, spogliati e lasciati in faticose posizioni da seduti spesso all’aperto al freddo e alla pioggia. Alcuni detenuti hanno riferito che mentre erano detenuti i soldati li hanno coperti con la bandiera israeliana; i video hanno successivamente confermato queste testimonianze.

Da una casa del campo i soldati hanno pubblicato video sui loro account TikTok e sui social media in cui si mostravano fumare allegri il narghilè in un soggiorno con uomini palestinesi bendati costretti a star seduti sul pavimento.

Più che voler descrivere gli abusi subiti, gli abitanti del campo continuano a porsi la stessa domanda: “Perché?” Tenendo i palmi uniti e riuscendo comunque a mantenere un sorriso, Ghrayeb ha ricordato con voce tremante: “Tutto quello che abbiamo fatto è stato pregare: ‘Oh caro Dio, aiutaci’. Cos’altro potevamo fare?”

Se ce ne andiamo, chi resta?”

Mentre i residenti del campo di Jenin stavano subendo una campagna del terrore, i combattenti della resistenza palestinese hanno affrontato i soldati israeliani all’esterno del campo. Si sono radunati anche giovani disarmati provenienti da zone vicine, alcuni lanciando pietre, altri facendo la guardia e altri ancora imprecando ad alta voce contro i soldati.

Quando ho chiesto ad alcuni giovani palestinesi perché fossero in strada durante l’incursione pur sapendo che non avrebbero potuto entrare nel campo assediato, molti hanno risposto con un sentimento collettivo: “Almeno ci stiamo provando” e “Forse potremmo attirare l’attenzione dei soldati su di noi, per contribuire a mitigare la forza della violenza sul campo”.

Con i combattenti della resistenza armata non più all’interno del campo la popolazione dei rifugiati è rimasta senza protezione e alla mercé dei soldati israeliani. L’esercito ha assediato la zona, bloccato la circolazione delle merci e tagliato la fornitura di elettricità e acqua. “Non è consentito l’ingresso dei beni di prima necessità per esseri umani”, ha detto a +972 Eli, che ha scelto anche lui di usare uno pseudonimo, mentre osservava da lontano le jeep militari.

Guarda il campo”, diceva Sami mentre la sera del 13 dicembre si faceva più fredda, con i militari che si avvicinavano a un gruppo di giovani riuniti vicino a una clinica adiacente al campo. “Nessuno può entrare. Nessuna ambulanza. Niente latte per i neonati. Nemmeno il pane”, diceva.

Oltre a ciò, i soldati israeliani, compresi i cecchini, hanno ostacolato l’ingresso nel campo dei giornalisti e delle ambulanze nel campo. Ogni tentativo di avvicinarsi al campo veniva accolto dagli israeliani con violenta ostilità, incluso il lancio di proiettili veri direttamente contro il personale medico e i giornalisti.

Nel frattempo all’interno del campo le forze israeliane hanno danneggiato gravemente numerosi edifici imperversando di strada in strada. Nash’at Samara, insieme alla moglie e ai figli, si trovava a casa di suo fratello fuori dal campo quando è iniziata l’incursione; ha potuto rientrare nel suo quartiere solo dopo il ritiro dell’esercito. Non è tornato a una casa, ma alle rovine di una casa: era stata fatta saltare in aria, le piastrelle della cucina erano staccate dai muri e gli averi della famiglia erano stati saccheggiati.

“Perché hanno distrutto la nostra casa?” chiedeva a +972 mentre camminava tra le macerie della sua cucina. Guardando il cibo sul pavimento, diceva con una voce addolorata: “La resistenza si combatteva nelle strade, o fuori, non nelle case, e certamente non nel frigorifero”.

Il punto era umiliarci”, ha detto dell’invasione Walid Abu el-Fahed, 45 anni, il giorno che le forze israeliane si sono ritirate, percorrendo la scia di distruzione che avevano lasciato nel campo.

Più che umiliazione, tuttavia, queste pratiche servono a cacciare i palestinesi. Per l’esercito israeliano, le invasioni e le operazioni militari nelle case civili, negli ospedali o nelle scuole, oltre alle demolizioni di case e ai pogrom dei coloni, sono diventate una pratica sempre più comune che contribuisce all’espropriazione deliberata e allo sfollamento dei palestinesi.

Nell’arco di 116 giorni, tra ottobre 2023 e gennaio di quest’anno, Israele ha sfollato in Cisgiordania 2792 palestinesi. Si tratta di un aumento del 775% delle persone rimaste senza casa rispetto al numero dei palestinesi sfollati in tutti i primi nove mesi del 2023. Inoltre, come a Gaza, la maggioranza dei palestinesi uccisi in Cisgiordania non sono combattenti della resistenza ma civili, di cui quasi un terzo sono bambini e minori.

Tuttavia, nonostante le difficoltà, molte famiglie scelgono ancora di rimanere nelle proprie case. “Restiamo perché dobbiamo restare nella nostra patria”, spiega Abu el-Fahed guidando per le strade demolite dai bulldozer del campo profughi di Jenin mentre i suoi figli giocano sul sedile posteriore dell’auto. “Se io me ne vado con i miei figli, e lei se ne va con i suoi figli, e lui se ne va con i suoi figli”, comincia a chiedere Abu el-Fahed, “allora chi rimane?”

Nascita della resistenza

Sono nato con l’occupazione e i soldati, e morirò con l’occupazione e i soldati”, ha detto Eli mentre l’invasione e l’assedio continuavano per la terza notte. “Sparare, uccidere, sangue: questa è la vita dell’intera popolazione palestinese”, ha continuato depresso.

L’ultima volta che Israele ha condotto un’operazione così massiccia, tuttavia, è stato al culmine della Seconda Intifada, nel 2002. I danni di quell’incursione – parte dell’“Operazione Scudo Difensivo”, durante la quale le forze israeliane hanno invaso diverse città palestinesi in Cisgiordania nel corso di un mese –, la distruzione delle infrastrutture e delle istituzioni palestinesi ammonta secondo la Banca Mondiale ad una cifra stimata in più di 330 milioni di euro.

Oltre alle perdite materiali, l’incursione ha creato una generazione di palestinesi traumatizzati che non solo sono stati profondamente scossi dagli eventi di quell’anno, ma da allora hanno dovuto crescere con ulteriori violenze militari israeliane. All’epoca, le associazioni per i diritti umani avevano avvertito dell’impatto negativo che l’invasione del 2002 avrebbe avuto su quei bambini.

Più di due decenni dopo l’esercito israeliano continua ancora a effettuare raid regolari e intensi nelle città palestinesi della Cisgiordania. Anche la costruzione di colonie è in aumento, e con esse il tasso e la gravità degli attacchi ai palestinesi dei coloni che continuano a godere di un’impunità quasi totale ai sensi del sistema giudiziario israeliano. Gli arresti arbitrari e le umiliazioni dei palestinesi ai posti di blocco militari israeliani restano la norma, e gli omicidi extragiudiziali sono diventati il modus operandi degli ultimi anni.

Per i palestinesi in Cisgiordania l’intensificarsi degli attacchi israeliani è avvenuto soprattutto all’indomani dell’“Intifada dell’Unità” del maggio 2021, durante la quale i palestinesi tra il fiume e il mare si sono ribellati contro il governo israeliano e le forze di occupazione. Successivamente Israele ha lanciato l’“Operazione Break the Wave” (Spezzare l’onda), una serie di operazioni militari in tutta la Cisgiordania che hanno visto l’uso di forza letale contro i civili e missioni di assassinio extragiudiziale, illegali secondo il diritto internazionale.

Non sorprende, quindi, che la determinazione dei giovani palestinesi a prendere parte agli scontri militari con l’esercito israeliano non abbia fatto che crescere. Dopo l’Intifada dell’Unità un gran numero di palestinesi ha preso a impegnarsi nella resistenza armata, spesso unendosi a battaglioni locali non allineati con i tradizionali partiti politici palestinesi.

Ricordatevi, i ragazzi del 2002 ora sono la resistenza”, ha detto a +972 Abu el-Fahed, residente a Jenin, alcune ore dopo il ritiro dei militari dell’incursione di dicembre. Ricorda ancora la brutalità e la paura di quelle settimane. “[Israele] ha cercato di spostarci nel 2002”, dice. “Ci hanno distrutto la casa sopra la testa, ci hanno detenuti in massa e ci hanno ucciso”.

Questa inevitabile realtà non è né segreta né nuova per i palestinesi in generale, e per quelli di Jenin in particolare. “Ciò che distruggono lo ricostruiremo e i nostri figli saranno dei leader”, ha detto Abu el-Fahed.

Tuttavia, per poter crescere leader i bambini devono rimanere in vita. Israele ha portato avanti l’operazione di dicembre con il pretesto di prendere di mira sospetti combattenti palestinesi, usando gli attacchi di Hamas del 7 ottobre nel sud di Israele come scusa per giustificare l’incursione letale, ma almeno un quinto delle persone uccise a Jenin sono bambini e minorenni.

“Veniamo uccisi comunque”

Continuando la tendenza, il 30 gennaio le forze israeliane sotto copertura hanno effettuato un omicidio mirato nell’ospedale Ibn Sina di Jenin. Poco dopo l’alba, i soldati della famigerata unità Duvdevan – travestiti da personale medico e pazienti palestinesi – sono entrati nell’ospedale, hanno estratto le armi davanti al vero personale e ai pazienti e hanno marciato verso il terzo piano dell’ospedale.

Lì le forze sotto copertura hanno assassinato extragiudizialmente Basel al-Ghazzawi, un combattente di 18 anni della Brigata Jenin che stava ricevendo cure per le ferite riportate in un precedente attacco a Jenin dell’esercito israeliano. Da un anno e mezzo Israele cercava di assassinarlo.

Sono stati uccisi anche altri due uomini che erano in visita ad al-Ghazzawi: suo fratello Mohammed al-Ghazzawi, di 23 anni, uno dei cofondatori della Brigata Jenin, e il loro amico Mohammad Jalamnah, 27 anni, che è un combattente senior della Brigata. Secondo giornalisti locali sul posto, l’unità israeliana sotto copertura ha ucciso i tre uomini con pistole silenziate.

Nonostante gli uomini fossero combattenti attivi nella Brigata Jenin, il loro assassinio all’ospedale Ibn Sina non solo è illegale perché si tratta di un omicidio extragiudiziale, ma viola anche la Convenzione di Ginevra. Ancora più allarmante, questo attacco segnala un’escalation degli spudorati crimini di Israele in Cisgiordania.

Nell’ottobre 2022 ho intervistato un protagonista combattente della resistenza palestinese, Nidal Khazem, chiedendogli perché avesse scelto di imbracciare le armi nonostante il rischio che ciò rappresenta per la sua vita. Khazem ha detto con molta calma: “[L’esercito israeliano] viene qui, uccide i nostri amici e la nostra famiglia, abusa e umilia le donne e ci nega l’accesso [al culto] ad Al-Aqsa”. Questo sentimento è condiviso dalla maggior parte dei combattenti della resistenza che ho intervistato negli ultimi due anni in Cisgiordania, e tutti ripetevano la stessa opinione: “Verremo uccisi comunque”.

Khazem è stato ucciso diversi mesi dopo, nel marzo 2023, in un assassinio extragiudiziale compiuto da forze israeliane sotto copertura appartenenti a Duvdevan. Anche Yousef Shriem, un altro combattente della resistenza e amico intimo di Khazem, è stato ucciso. Anche un terzo ragazzo di 13 anni è stato ucciso mentre attraversava Jenin in bicicletta durante l’operazione.

Nel luglio 2023, appena tre mesi dopo l’uccisione di Khazem e Shreim, Israele ha effettuato un’altra incursione distruttiva nel campo di Jenin utilizzando droni, un elicottero armato e artiglieria pesante a terra. Nel corso di due giorni l’esercito israeliano ha provato, senza riuscirci, a mantenere il pieno controllo del campo profughi, finendo sotto il fuoco dei combattenti della resistenza con una frazione delle loro capacità e risorse militari. Durante i raid letali contro campi profughi palestinesi, paesi, città e villaggi, l’esercito israeliano ha ucciso più civili che militanti palestinesi. Israele non solo non è stato in grado di fermare la crescita dei gruppi di resistenza armata nel campo profughi di Jenin, ma ha provocato l’ascesa di una maggiore resistenza armata in diversi distretti tra cui Tulkarem, Nablus, Ramallah, Hebron, Tubas e Gerico.

L’unica difesa che sembrano avere i palestinesi sono i gruppi di resistenza armata, nonostante le loro piccole dimensioni e la mancanza di armi. Nel tentativo di sradicarli, Israele sta aprendo la strada alla creazione di una comunità palestinese completamente indifesa – composta da anziani, minori e malati – che resta un bersaglio facile per uno degli eserciti più avanzati del mondo. Incapace di limitare la resistenza o di prendere di mira efficacemente i combattenti, tuttavia, l’esercito israeliano si è ridotto a tentativi di omicidio extragiudiziale nei momenti in cui i combattenti sono più vulnerabili e non impegnati in battaglia.

Quello che hanno fatto nel campo è una replica di Gaza: dall’umiliazione degli uomini spogliati nudi all’attacco alla moschea e alla distruzione di case”, ha riassunto Abu El-Fahed, indicando gli edifici grigi che un tempo erano case del campo.

L’obiettivo è uno: liberare la Palestina”

A differenza di Gaza, tuttavia, i gruppi armati palestinesi in Cisgiordania non dispongono di un unico organismo organizzato per lo scontro armato. Sono invece gruppi di uomini della comunità, vicini di casa, parenti e amici d’infanzia che si ritrovano ad affrontare non solo un esercito potente, ma anche un esercito che opera con politiche discriminatorie che producono persecuzioni e apartheid.

Cosa pensi che significhi essere [affiliato a] Hamas o Jihad islamica palestinese?” chiede un combattente di Hamas sulla trentina, che chiameremo “A”, seduto a metà ottobre in un piccolo soggiorno nel campo profughi di Jenin. E dice: “Significa poter acquistare un’arma”, mentre un altro combattente accanto a lui annuisce in segno di approvazione.

L’altro uomo, “B”, all’inizio dell’anno scorso aveva disertato dalle forze di sicurezza palestinesi dell’Autorità Palestinese – di cui era ufficiale. Sebbene i due appartengano a fazioni politiche rivali, uno di Fatah e l’altro di Hamas, sono insieme in un unico battaglione sotto l’egida della Brigata Jenin.

“Per la Jihad islamica palestinese non è una questione di potere o denaro”, ha detto a +972 un terzo combattente “C”, che ha appena 20 anni ed è il più giovane del gruppo, seduto accanto ai due uomini. “L’obiettivo è uno: liberare la Palestina per poter vivere liberamente. Ecco perché combatto con [la Jihad], ma non per loro.

Tutti gli uomini hanno sottolineato che, si tratti di Hamas, Fatah, PIJ o qualsiasi altra fazione, alla fine fanno tutti parte della stessa comunità che cerca di difendersi dai continui e intensi attacchi alla loro vita da parte delle autorità, dell’esercito e dei coloni israeliani.

Capisci che per noi sono queste le vie di confronto”, spiega A. “Siamo persone umili, dobbiamo racimolare i soldi per permetterci un’arma con cui reagire”.

Per i combattenti della resistenza palestinese a Jenin e altrove in Cisgiordania, l’affiliazione politica come procedura per tracciare linee di divisione è cosa del passato. Non si tratta più del quadro Hamas contro Israele o di attacchi di lupi solitari, ma di una comunità riunita sotto l’ombrello dell’opposizione all’occupazione israeliana che ha raggiunto l’apice delle sue pratiche violente nel genocidio in corso dei palestinesi.

Anche se la linea politica è diversa da quella di Gaza, alla fine Israele tratta i palestinesi ovunque allo stesso modo. “Siamo una serie di bersagli per [il Ministro della Sicurezza nazionale israeliano Itamar] Ben Gvir e [il primo ministro Benjamin] Netanyahu”, ha spiegato “D”, un combattente sulla quarantina che teneva d’occhio le due jeep israeliane nelle vicinanze, pronte a caricare il centro città in qualsiasi momento.

L’esercito israeliano sta fallendo a Gaza ed è venuto a ottenere risultati a Jenin”, ha continuato. “È così che i media israeliani possono mostrare alla gente che stanno raggiungendo gli obiettivi”.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Nuovi rapporti confermano mesi di torture, abusi e violenze sessuali da parte di Israele contro i prigionieri palestinesi

Yumna Patel

27 febbraio 2027 Mondoweiss

Per mesi i prigionieri palestinesi hanno dato testimonianze di torture per mano delle autorità militari e carcerarie israeliane. Nuovi rapporti fanno luce sugli abusi perpetrati all’interno dei centri di detenzione israeliani, in particolare sulla violenza sessuale.

La settimana scorsa sono apparsi due nuovi rapporti riguardanti la tortura e il crudele trattamento dei palestinesi nelle carceri e nei centri di detenzione israeliani dopo il 7 ottobre, comprese testimonianze di violenza sessuale contro donne e ragazze palestinesi. I rapporti hanno rinnovato il dibattito sulle dure condizioni dei palestinesi prigionieri in Israele, sulle quali gli stessi detenuti palestinesi e alcune associazioni per i diritti umani lanciano l’allarme da mesi.

Il 19 febbraio esperti dei diritti umani delle Nazioni Unite hanno espresso il loro allarme per quelle che hanno descritto come “vergognose violazioni dei diritti umani” perpetrate dalle forze israeliane contro donne e ragazze palestinesi a Gaza. Oltre alle esecuzioni extragiudiziali e arbitrarie di donne e bambini a Gaza, gli esperti delle Nazioni Unite hanno sottolineato il trattamento delle detenute palestinesi nelle carceri israeliane.

Secondo quanto riferito, molte sono state sottoposte a trattamenti inumani e degradanti, sono state private di assorbenti mestruali, cibo e medicine e sono state duramente picchiate. In almeno un’occasione, le donne palestinesi detenute a Gaza sarebbero state tenute in gabbia sotto la pioggia e al freddo, senza cibo”, si legge nella nota.

Siamo particolarmente angosciati dalle notizie secondo cui le donne e le ragazze palestinesi in detenzione sono state sottoposte anche a molteplici forme di violenza sessuale, come essere spogliate nude e perquisite da ufficiali maschi dell’esercito israeliano. Almeno due detenute palestinesi sarebbero state violentate, mentre altre sarebbero state minacciate di stupro e violenza sessuale”, hanno detto gli esperti, aggiungendo che foto di detenute palestinesi in “circostanze degradanti” sarebbero state scattate dall’esercito israeliano e caricate online.

Nel loro insieme, questi presunti atti possono costituire gravi violazioni dei diritti umani internazionali e del diritto umanitario, e rappresentare crimini gravi ai sensi del diritto penale internazionale che potrebbero essere perseguiti ai sensi dello Statuto di Roma”, hanno detto gli esperti. “I responsabili di questi presunti crimini devono essere incriminati e le vittime e le loro famiglie hanno diritto a pieno risarcimento e giustizia”, hanno aggiunto.

Lo stesso giorno delle dichiarazioni degli esperti delle Nazioni Unite, Physicians for Human Rights Israel (PHRI, Medici per i Diritti Umani di Israele) ha pubblicato un rapporto di 41 pagine sulla condizione dei detenuti palestinesi nelle carceri israeliane dal 7 ottobre, che l’organizzazione ha detto essere diventate “un apparato di vendetta e punizione.”

Il rapporto PHRI descrive nel dettaglio le estese violazioni dei diritti dei prigionieri da parte del Servizio penitenziario israeliano (IPS) e di altri organismi di sicurezza israeliani a partire dal 7 ottobre, compreso l’isolamento dei prigionieri dal mondo esterno, la mancanza di accesso all’assistenza sanitaria, la negazione della luce del giorno o dell’ora d’aria e il sovraffollamento delle celle prive di arredi e risorse di base come materassi e coperte, nonché di acqua ed elettricità.

Oltre a tali condizioni, il PHRI descrive nel dettaglio anche il “trattamento crudele, inumano e degradante” dei prigionieri, comprese le molestie sessuali e la violenza. “In decine di casi… le guardie sono entrate in uno o due alla volta nelle celle e hanno picchiato brutalmente [i prigionieri] con i manganelli… le persone in carcere hanno anche riferito di aggressioni fisiche che includevano pugni, schiaffi e calci quando uscivano dalle loro celle o mentre venivano trasferiti in un’altra struttura, anche contro persone malate e disabili”, afferma il rapporto PHRI.

Persone entrate di recente in detenzione hanno raccontato che le guardie dell’IPS li hanno costretti a baciare la bandiera israeliana e chi si rifiutava veniva violentemente aggredito”.

Similmente a decine di rapporti redatti in precedenza da associazioni per i diritti dei prigionieri palestinesi e da esperti in diritti umani, il rapporto PHRI sottolinea che i modelli di abuso e tortura indicano che “non si tratta di episodi isolati di guardie ribelli, ma di modelli di violenza sistematica”.

Dopo il 7 ottobre vengono alla luce gli abusi

All’indomani degli attacchi di Hamas del 7 ottobre, mentre Israele iniziava la sua campagna militare su Gaza, un’altra campagna è partita nella Cisgiordania occupata. I raid militari israeliani, consueti eventi notturni nel territorio, sono diventati molto più frequenti.

Nel giro di poche settimane migliaia di palestinesi, compresi i lavoratori giornalieri di Gaza intrappolati [in Israele], sono stati arrestati nel cuore della notte. Con la stessa rapidità con cui la popolazione carceraria ha cominciato ad aumentare, hanno cominciato ad arrivare le testimonianze dei palestinesi di soldati israeliani violenti che picchiavano i fermati e le loro famiglie e saccheggiavano le case.

Allo stesso tempo ha iniziato ad emergere una tendenza inquietante. Sui social media hanno iniziato a circolare video e foto che mostravano le forze israeliane sottoporre detenuti palestinesi ad abusi fisici, sessuali e verbali. Le riprese sono state filmate e pubblicate online con orgoglio dagli stessi soldati.

Il 31 ottobre uno dei primi video di questo tipo ha iniziato a circolare sui social media.

Mostrava un gruppo di uomini palestinesi distesi a terra, bendati con mani e piedi legati, molti dei quali parzialmente o completamente nudi. Gli uomini venivano portati in giro, presi a calci e picchiati da soldati militari israeliani in uniforme. Alcuni uomini piangevano di dolore, altri giacevano inerti, i corpi nudi ammucchiati uno sopra l’altro.

L’allarmante video ha provocato un’onda d’indignazione all’interno della comunità palestinese. Molti utenti online hanno paragonato le scene inquietanti alle famigerate foto dei corpi ammucchiati dei prigionieri iracheni torturati dalle forze armate statunitensi nella prigione di Abu Ghraib in Iraq quasi 20 anni fa.

Sono emerse voci contrastanti su dove siano avvenute le torture: alcuni indicavano che avessero avuto luogo nella Cisgiordania occupata, mentre altri dicevano che fossero scene di palestinesi detenuti nelle aree fuori dalla Striscia di Gaza. Mondoweiss non ha potuto verificare il luogo esatto dei fatti. Tuttavia, due associazioni per i diritti dei prigionieri hanno verificato che si tratta di un video autentico, girato in Cisgiordania dopo il 7 ottobre.

Secondo quanto riportato dai media israeliani, gli uomini palestinesi torturati erano lavoratori della Cisgiordania arrestati nella zona delle colline a sud di Hebron dopo aver presumibilmente tentato di entrare in Israele senza permesso.

In una rara ammissione di colpa l’esercito israeliano ha affermato di stare indagando sull’incidente, dichiarando: “la condotta [dei soldati] che emerge da queste scene è grave e non corrisponde ai valori dell’IDF”.

Ma la montagna di prove di torture, abusi e molestie nei confronti dei detenuti palestinesi per mano delle forze israeliane accumulata negli ultimi mesi continua a contraddire chiaramente le dichiarazioni dell’esercito israeliano sui suoi “valori” e sulla moralità dei suoi soldati. .

Secondo gli ultimi dati di Addameer, un’organizzazione per i diritti dei prigionieri palestinesi con sede a Ramallah dal 7 ottobre, l’esercito israeliano ha rastrellato e arrestato più di 6.000 palestinesi.

Video e denunce di abusi fisici e torture hanno cominciato ad emergere già alla fine di ottobre ma le denunce non sono cessate e hanno continuato ad accumularsi sia in Cisgiordania che nella Striscia di Gaza. Mentre un gran numero di palestinesi vengono sottoposti a detenzione arbitraria, coloro che sono potuti uscire hanno condiviso varie testimonianze di derisioni e molestie sino alle percosse fisiche e alle aggressioni sessuali.

Dal 7 ottobre almeno otto prigionieri palestinesi sono morti nelle carceri israeliane. Le associazioni per i diritti umani sospettano fortemente che si tratti di crimini, anche se è impossibile confermarlo poiché Israele si rifiuta di rilasciare i loro corpi.

Questo è il momento più pericoloso e violento degli ultimi anni per essere arrestati in Cisgiordania”, ha detto a Mondoweiss Abdullah al-Zghari, portavoce dell’Associazione dei prigionieri palestinesi. “Loro [Israele] stanno arrestando tutti, persone di età diverse, giovani e anziani, bambini, donne, ragazze, ex prigionieri, tutti”.

È evidente dal modo in cui arrestano le persone, dal tipo di aggressioni e abusi a cui abbiamo assistito, che questa è una campagna di vendetta”, ha detto al-Zghari.

Stanno portando avanti la loro vendetta per quanto accaduto il 7 ottobre”.

In un rapporto approfondito di gennaio, Addameer ha dipinto un quadro simile, affermando che gli arresti di massa e l’intensificarsi della brutalità contro i prigionieri palestinesi in risposta ad atti di resistenza palestinese sono tattiche comuni utilizzate da Israele fin dall’inizio della sua occupazione.

Con il tempo, l’intensità della brutalità e degli arresti non fa che aumentare come forma di

punizione e come modo per sopprimere la resistenza, con l’obiettivo di controllare tutti gli aspetti della vita palestinese e punire un’intera società”, ha affermato Addameer.

Arresto arbitrario e abusi: “Sono stato picchiato per cent’anni della mia vita”

Comune a tutti i resoconti sulla campagna di arresti e incarcerazioni di massa di Israele delle organizzazioni per i diritti umani è la natura del tutto arbitraria con cui i palestinesi vengono presi di mira, arrestati e maltrattati.

Mentre Israele considera tutti i palestinesi sotto detenzione come “prigionieri di sicurezza”, quasi 3.500 dei circa 9.000 prigionieri sono detenuti nelle carceri israeliane senza essere mai stati accusati di un crimine o sottoposti a processo. Quel numero comprende persone comuni nonché attivisti, giornalisti e operatori per i diritti umani.

Altre centinaia di palestinesi arrestati ma poi rilasciati hanno raccontato di essere stati arbitrariamente fermati ai posti di blocco e successivamente arrestati e maltrattati fisicamente e verbalmente.

Questo è il caso del diciannovenne Mahmoud Dweik, un adolescente palestinese della città di Hebron nel sud della Cisgiordania occupata.

Il 4 novembre Dweik era in giro con i suoi amici per Hebron quando una jeep militare israeliana ha fermato la loro macchina. I soldati israeliani hanno iniziato a perquisire il veicolo e i telefoni dei ragazzi.

La perquisizione dei soldati ha portato alla luce prove sufficienti per arrestare i tre giovani: un bastone e un taglierino trovati in una cassetta degli attrezzi nel bagagliaio dell’auto e la foto di un posto di blocco israeliano sul telefono di Mahmoud, scattata più di un anno prima.

I soldati hanno poi portato Mahmoud e i suoi due amici in un accampamento militare in cima alla collina che domina la città di Hebron. E allora sono iniziate le violenze.

Circa 40 soldati, in gruppi, si sono alternati a picchiarci dall’inizio del nostro sequestro, dalle 19:00 fino alle 5 del mattino”, si legge in una testimonianza scritta da Mahmoud, condivisa con Mondoweiss da suo padre Badee. Il giovane adolescente l’ha descritta come una “festa di botte”.

“Sono stato picchiato [abbastanza] per cent’anni della mia vita”, ha detto Mahmoud, aggiungendo che i soldati hanno usato mani, piedi, fucili e bastoni per picchiare i ragazzi. Dopo circa otto ore di abusi i ragazzi sono stati portati in una stazione di polizia israeliana nell’insediamento illegale di Kiryat Arba, nel cuore della città vecchia di Hebron. I ragazzi hanno trascorso un’ora alla stazione di polizia prima di essere trasportati nuovamente al campo militare dove erano stati picchiati.

Abbiamo dormito per terra senza coperte o altro per proteggerci. Abbiamo semplicemente dormito all’aperto”, ha detto Mahmoud. Poche ore dopo, i ragazzi sono stati riportati alla stazione di polizia di Kiryat Arba. Ogni speranza di essere rilasciati e tornare a casa è stata delusa quando, poco dopo, i tre amici sono stati portati nella prigione militare di Ofer fuori Ramallah, nella Cisgiordania centrale.

Un viaggio che avrebbe dovuto durare due ore è stato tirato per le lunghe sino a più di 12 ore, ha detto Mahmoud, descrivendo il trasporto in “gabbie” all’interno di veicoli militari israeliani, dove stavano seduti su massacranti panche di ferro. Non è stato dato loro alcun cibo e l’acqua è stata fornita solo una volta.

Quando è arrivato in prigione è stato spogliato dei suoi vestiti e perquisito dalle guardie carcerarie, che lo hanno costretto a “piegarsi su e giù più volte con la faccia rivolta al muro”, ha detto Mahmoud.

Alla fine Mahmoud è stato accusato di “possesso di materiale sul telefono che minaccia la sicurezza dello Stato di Israele”. Il materiale in questione era la foto del posto di blocco militare che Mahmoud aveva scattato con il suo cellulare più di un anno e mezzo prima. Dopo 12 giorni di prigione, è stato rilasciato dietro pagamento di una cauzione di 1.000 shekel (250 euro).

Mahmoud dice di essere stato rilasciato a un posto di blocco vicino alla città di Ramallah nel cuore della notte senza telefono, con indosso solo i boxer e un paio di pantaloni da carcerato troppo grandi.

Grazie alla gentilezza di sconosciuti Mahmoud si è potuto vestire e prendere in prestito un telefono per chiamare suo cugino che viveva a Ramallah. Ha trascorso la notte a casa di suo cugino prima di tornare a Hebron il giorno successivo dove si è ricongiunto con i genitori.

“Sono stati i giorni più infernali della mia vita”, ha detto.

Di tendenza sui social media: i soldati documentano i propri abusi

Quando un palestinese viene arrestato dalle forze israeliane spesso passano diversi giorni prima che la sua famiglia venga a conoscenza di dove e in quali condizioni il congiunto è detenuto.

Questo rimane un dato di fatto, ma dal 7 ottobre sempre più famiglie palestinesi sono venute ad avere notizie dei loro cari attraverso i social media, imbattendosi in foto e video di membri della loro famiglia degradati, torturati e umiliati, registrati e pubblicati dai soldati israeliani.

Wajd Jawabreh, 33 anni, è madre di tre ragazze di età inferiore ai 10 anni e residente in un campo profughi nella zona di Betlemme. Il 31 ottobre Jawabreh era a casa e dormiva con suo marito, Khader Lutfi e le figlie, quando le forze israeliane hanno fatto irruzione in casa e arrestato suo marito.

Circa 30 minuti dopo il suo arresto a Wajd, già sconvolta, è stato inviato il link a un video sui social media. Ciò che ha visto è stato un colpo al cuore.

Nel video si vedeva suo marito, Khader, bendato e con le mani legate, in ginocchio davanti a un soldato israeliano, e si può sentire il soldato, che sembra essere quello che ha filmato il video, urlare imprecazioni a Khader, dicendo in arabo: “Buongiorno stronzo”, mentre gli dà un calcio nello stomaco.

Sono rimasta scioccata e sopraffatta. Mi ha spezzato il cuore. Non riuscivo a smettere di piangere”, ha detto Wajd a Mondoweiss a dicembre, più di un mese dopo l’arresto di Khader. “È davvero difficile vedere la persona con cui hai condiviso la vita in quelle condizioni.”

Wajd ha detto a Mondoweiss che il video è stato “girato con uno scopo”, ovvero umiliare suo marito, che è molto stimato nella loro comunità. “Da quando ho visto il video fino ad ora ho cercato di non lasciare che il video spezzasse la mia determinazione, perché è ciò che vuole l’occupazione”.

Il video di Khader è stato ampiamente diffuso sui social media, accumulando centinaia di migliaia di visualizzazioni. Wajd ha detto che ha cercato più di ogni altra cosa di assicurarsi che le sue figlie non lo vedessero mai, e che ogni nuova visione e condivisione del video la feriva ancora di più.

Non voglio che mio marito venga visto o ricordato in questo modo. Voglio che venga ricordato come la persona gentile e forte che è”, ha detto.

L’umiliazione e la vergogna che Wajd ha provato guardando il video di suo marito picchiato e umiliato sono proprio l’obiettivo di quei contenuti, dicono le associazioni per i diritti dei palestinesi.

Gli israeliani stanno cercando di umiliare i prigionieri e i detenuti dopo quello che è successo a Gaza [il 7 ottobre]. Li stanno mettendo alla prova in modi disgustosi, li spogliano dei loro vestiti, li picchiano nudi a terra, li rilasciano senza vestiti in modo che provino vergogna e umiliazione nelle loro comunità”, ha detto Abdullah al-Zghari a Mondoweiss.

Anche questo fa parte della tortura e della paura collettive instaurate dall’occupazione nella popolazione palestinese: far sì che le persone abbiano paura di essere arrestate. Questa è la prova di quanto ci disumanizzino e non ci considerino come esseri umani”, ha detto.

Torture e violenze sessuali nelle carceri

Se gli abusi sui detenuti palestinesi iniziano al momento dell’arresto, i rapporti delle associazioni per i diritti umani e degli stessi prigionieri indicano che alcune delle peggiori torture e maltrattamenti avvengono mentre i palestinesi sono chiusi nelle carceri e nei centri di detenzione israeliani.

Testimonianze strazianti sono ripetutamente emerse da parte dei palestinesi di Gaza che sono stati imprigionati durante l’invasione di terra da parte di Israele, con i detenuti che hanno raccontato di essersi visti negare l’accesso al cibo, all’acqua e ai bagni. Video e foto hanno mostrato segni profondi e tagli sui polsi e le caviglie dei detenuti di Gaza rilasciati, che hanno affermato di essere stati legati per giorni senza alcun sollievo o riposo. In alcuni casi, secondo quanto riferito, le forze israeliane hanno utilizzato i cani dell’esercito per minacciare i detenuti.

A gennaio, durante una visita a Gaza, Ajith Sunghay, capo dell’Ufficio delle Nazioni Unite per i diritti umani nei territori palestinesi occupati, ha dichiarato di aver visitato un certo numero di detenuti palestinesi che erano stati detenuti “in luoghi sconosciuti” per un periodo compreso tra 30 e 55 giorni.

Hanno raccontato di essere stati picchiati, umiliati, sottoposti a maltrattamenti e a ciò che può costituire tortura. Hanno riferito di essere stati bendati per lunghi periodi, alcuni di loro per diversi giorni consecutivi”, ha detto Sunghay. “Un uomo ha detto di aver avuto accesso a una doccia solo una volta durante i 55 giorni di detenzione. Ci sono segnalazioni di uomini che sono stati successivamente rilasciati ma solo in mutande e senza indumenti adeguati per questo clima freddo”.

Si stima che circa 600 palestinesi di Gaza siano detenuti nelle carceri israeliane. Di contro altre centinaia sono trattenute nei campi di detenzione israeliani, anche se il numero esatto di quest’ultima categoria è sconosciuto. Nei campi di detenzione Haaretz ha riferito che i prigionieri dormono praticamente nudi ed esposti al rigido freddo invernale, sono costantemente bendati e sottoposti a continue torture quasi ad ogni ora del giorno.

Nel dicembre 2023, è stato riferito, un numero non dichiarato di detenuti di Gaza “è morto” all’interno dei campi di detenzione israeliani. Tali rapporti non includevano gli almeno altri otto palestinesi non originari di Gaza che sono morti nelle carceri israeliane dal 7 ottobre.

Mentre i prigionieri di Gaza stanno probabilmente affrontando torture e abusi estremi a causa della loro identità, pratiche simili di tortura e abusi di ogni tipo, inclusa la violenza sessuale, sono stati impiegati anche contro palestinesi provenienti da altre parti dei territori occupati che sono detenuti nelle carceri israeliane.

Citando un avvocato palestinese che ha visitato i detenuti palestinesi ogni settimana dal 7 ottobre Amnesty International ha affermato: “Ai detenuti palestinesi è stato negato il diritto all’attività fisica all’aperto e una delle forme di umiliazione a cui sono sottoposti durante il conteggio dei detenuti è di essere costretti a inginocchiarsi sul pavimento.”

L’avvocato Hassan Abadi ha aggiunto che ai palestinesi detenuti “sono stati confiscati e talvolta bruciati tutti gli effetti personali inclusi libri, diari, lettere, vestiti, cibo e altri oggetti. Le autorità carcerarie hanno confiscato gli assorbenti alle detenute palestinesi nel carcere di al-Damon”. Secondo Abadi, una cliente da lui difesa gli ha detto che quando è stata arrestata e bendata un ufficiale israeliano “l’ha minacciata di stupro”.

Nel suo rapporto di gennaio, Addameer ha dettagliato diversi casi di minacce sessuali e violenze da parte delle forze israeliane contro uomini e donne palestinesi in detenzione. L’associazione ha affermato che tale violenza è strutturalmente impiegata dall’occupazione israeliana che è “ben consapevole dello stigma nei confronti degli uomini e delle donne palestinesi e dell’importanza dell’integrità e dell’onore del loro corpo. Ciò è particolarmente importante nelle società arabe”.

Molte testimonianze provenienti da donne vittime includono aspetti di molestie sessuali, minacce di stupro e perquisizioni forzate delle donne all’interno delle carceri e spesso persino

davanti ai propri figli durante le intrusioni domestiche. Questi sono tutti metodi di coercizione attuati per far sentire le donne impotenti e dare all’occupazione un senso di controllo sulle donne e sul loro corpo. È un abuso di potere e di autorità e gioca sulla paura delle vittime”, ha affermato l’associazione.

Addameer ha segnalato il caso di un prigioniero maschio di Gerusalemme, denominato “O.J.” nel rapporto, il quale afferma di essere stato sottoposto ad una perquisizione durante la quale gli agenti israeliani “hanno accarezzato ripetutamente le sue parti intime con la scusa di una perquisizione approfondita. Una volta denudato lo avrebbero fatto sedere e alzarsi più volte. Inoltre, mentre era nudo e veniva perquisito, l’ambiente in cui era tenuto aveva finestre senza vetri, così che il vento freddo entrava nella stanza.”

In un altro caso documentato da Adammeer, le forze israeliane hanno fatto irruzione nella casa di una donna a Gerusalemme, l’hanno minacciata di stupro, le hanno sputato in faccia e l’hanno costretta a spogliare del tutto la sua nipotina appena nata di due settimane.

Questi atti di costrizione di uomini e donne a denudarsi toccandoli in modo inappropriato con la scusa della perquisizione di sicurezza sono compiuti con l’intento di mettere in imbarazzo e molestare sessualmente uomini e donne palestinesi”, ha detto Addameer.

Nel rapporto di Medici per i Diritti Umani, un prigioniero di nome “A.G.” che è stato detenuto nella prigione israeliana di Ktzi’ot, ha detto che le forze speciali israeliane sono entrate nella loro cella e hanno picchiato tutti, urlando insulti sessualmente espliciti tra cui “voi puttane”, “vi scoperemo tutti”, “scoperemo le vostre sorelle e mogli”, ecc. A.G. è stato poi portato in un bagno dove le forze israeliane urinavano su di loro.

A.G. ha anche descritto dettagliatamente episodi di perquisizioni violente, in cui le guardie carcerarie “bloccavano insieme individui nudi e infilavano un dispositivo di ricerca in alluminio nelle natiche. In un caso, le guardie hanno fatto passare una tessera magnetica fra le natiche di una persona. Ciò è avvenuto davanti agli altri detenuti e alle guardie, che hanno espresso il loro divertimento”.

Con il pretesto della guerra a Gaza, il Ministero della Sicurezza Nazionale, il suo ministro e il Ministero della Difesa, con il sostegno attivo e passivo di altri membri e ministri della Knesset, hanno promosso abusi senza precedenti dei diritti dei palestinesi in custodia militare e in detenzione. ” conclude il rapporto PHRI.

Lo Stato ha ripetutamente insistito sul fatto che si tratta di misure necessarie adottate nell’ambito delle ordinanze di emergenza per mantenere la sicurezza nazionale. Eppure, in realtà, queste misure violano il diritto locale e internazionale, nonché i trattati internazionali”.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Guerra a Gaza: Il “massacro” israeliano uccide oltre 100 palestinesi in cerca di cibo a Gaza City

Mohammed al-Hajjar a Gaza City, Palestina occupata e Nader Durgham a Beirut

29 febbraio 2024 Middle East Eye

I testimoni raccontano a MEE di essere stati attaccati indiscriminatamente mentre si concentravano intorno a un convoglio di aiuti.

Almeno 104 palestinesi sono stati uccisi e altre centinaia sono stati feriti giovedì quando le forze israeliane hanno sparato contro le persone che si trovavano presso un convoglio di aiuti in al-Rasheed Street a Gaza City, ha dichiarato il Ministero della Sanità palestinese, definendo l’incidente un “massacro”. I residenti di Gaza City si erano riuniti in cerca di cibo, avendo le forze israeliane tagliato fuori completamente l’area dagli aiuti. Le ONG e gli esperti delle Nazioni Unite hanno espresso il timore di una carestia nel nord di Gaza e ci sono state segnalazioni di persone, tra cui bambini, morte di fame. Fares Afana, capo del servizio ambulanze dell’ospedale Kamal Adwan di Gaza, ha detto che i medici hanno trovato “decine o centinaia” di corpi stesi a terra appena giunti sul posto.

Ha detto che alcuni feriti hanno dovuto essere trasportati negli ospedali su carri trainati da asini, poiché non c’erano abbastanza ambulanze per accogliere tutti i morti e i feriti.

Gli ospedali nel nord di Gaza, la maggior parte dei quali sono fuori uso a causa dei ripetuti attacchi israeliani, non sono in grado di gestire il grande afflusso di pazienti.

Ahmad, un 31enne che ha fornito solo il suo nome di battesimo, ha raccontato a Middle East Eye che i camion degli aiuti hanno raggiunto la strada alle 4 del mattino e che le forze israeliane hanno sparato contro le persone che cercavano di raggiungere il convoglio. Ahmad è stato colpito al braccio e alla gamba.

“Gli spari sono stati indiscriminati, la gente è stata colpita alla testa, ai piedi, allo stomaco”, ha detto. Un uomo è stato ucciso e travolto da un carro armato. “L’esercito israeliano ha accusato i palestinesi di essere responsabili di una calca di massa, affermando che: “I residenti hanno circondato i camion e hanno saccheggiato i rifornimenti consegnati. A causa delle spinte, dei calpestamenti e dell’investimento dei camion, decine di gazawi sono rimasti uccisi e feriti”. I video dall’alto mostrano la disperazione dei palestinesi accalcati intorno ai camion. Tuttavia, oltre alle testimonianze, i filmati mostrano chiaramente che durante l’incidente sono stati esplosi pesanti colpi d’arma da fuoco.

Fonti israeliane hanno riferito all’Agenzia France Press che le truppe hanno sparato contro i palestinesi, e una di esse ha detto che i soldati ritenevano che la folla “rappresentasse una minaccia”. Kamel Abu Nahel, il cui piede è stato travolto da uno dei camion, ha detto: ” Se volete mandare gli aiuti in questa maniera, non inviateli.” “Stiamo morendo per avere la farina per i nostri figli”, ha aggiunto. L’attacco arriva mentre il bilancio dei morti palestinesi nella guerra ha superato i 30.000, secondo il Ministero della Sanità palestinese. Reagendo all’attacco, da Oxfam hanno detto di essere “sconvolti” dalle notizie. “Israele prende deliberatamente di mira i civili dopo averli affamati [ed] è una grave violazione delle leggi umanitarie internazionali e della nostra umanità”, ha detto il gruppo di aiuto internazionale. “Il rischio di genocidio è reale.”

Ammar Helo, un palestinese di 30 anni sopravvissuto all’attacco, ha dichiarato a MEE che continuerà a scendere in strada ogni volta che arriveranno i camion degli aiuti, nonostante rischi la sua vita: “Non abbiamo pane, non abbiamo farina, abbiamo mangiato cibo per gli animali”, ha detto. I sopravvissuti hanno raccontato a MEE che anche il cibo per animali si sta esaurendo nel nord. “Giuro che tutta Gaza è distrutta, giuro che un terremoto divino sarebbe stato meglio”.

(Traduzione dall’inglese di Carlo Tagliacozzo)