Biden non ha un legame affettivo con Israele, si tratta di politica Il New Yorker chiede: “Perché il Paese più potente nella storia dell’umanità sta sostanzialmente prendendo ordini da una Nazione che dipende da lui per gli aiuti?” e poi evita la risposta più ovvia.

Philip Weiss  

8 aprile 2024 – Mondoweiss

Il New Yorker [prestigioso settimanale statunitense, ndt.] ha chiesto ad Aaron David Miller, a lungo mediatore per la pace, perché Joe Biden stia assecondando i crimini di guerra di Israele, e Miller ha risposto che ciò è dovuto al fatto che ha un legame affettivo con Israele.

Joe Biden, unico tra i presidenti americani contemporanei, ha un rapporto affettivo con l’idea di Israele, il popolo di Israele, la sicurezza di Israele.”

Questa è la versione ufficiale. Questa settimana lo ha detto su NPR [National Public Radio, rete radiofonica USA, ndt.] anche Richard Haass, un sostenitore di Israele e decano di politica internazionale: “L’amministrazione sta cercando di equilibrare l’appoggio a Israele con i suoi dissensi sulla politica israeliana. Penso che il presidente in particolare provi un legame affettivo con Israele.”

Ed è quello che una volta Jeffrey Goldberg [giornalista e capo redattore di The Atlantic, importante rivista USA, ndt.] ha detto che Barack Obama non aveva. Gli elettori ebrei “si preoccupano riguardo al fatto che i candidati alla presidenza sentano l’importanza di Israele nelle loro kishkes, viscere.” È un’analisi falsa. Grandi politici non hanno un legame emotivo con i Paesi stranieri che ostacolano la loro politica. I politici imparano a gettare chiunque sotto l’autobus.

Biden prende questa posizione perché ha bisogno della lobby israeliana nelle elezioni del 2024. Il potere della comunità ebraica ufficiale nell’imporre l’appoggio di Biden ai crimini di guerra è una cosa che Chotiner [l’intervistatore del New Yorker, ndt.] e Miller sono incapaci di discutere.

L’intervista del New Yorker è utile come ulteriore indice della crisi di Israele nel discorso pubblico negli USA. Chotiner insiste sul carattere brutale dell’attacco israeliano: “Questo Paese che consideriamo alleato e parte dei nostri valori democratici condivisi” sta “intenzionalmente facendo morire di fame la popolazione palestinese.”

Miller è anche d’aiuto quando rileva che la posizione di Biden perché Netanyahu si dimetta non migliorerebbe le cose, perché tutto Israele appoggia le politiche genocide.

Non è che Benny Gantz, membri del gabinetto di guerra e la maggioranza dell’élite politica non siano completamente in sintonia con la strategia di guerra di Netanyahu.”

Poi Chotiner passa alla domanda fondamentale: ““Perché il Paese più potente nella storia dell’umanità sta sostanzialmente prendendo ordini da un Paese che dipende da lui per gli aiuti?”

Quando Miller risponde che si tratta di emotività, Chotiner sottolinea che lo stesso Miller non è altrettanto sensibile alle vittime palestinesi che a quelle ebraiche, e Miller lo riconosce.

Chotiner: “Mentre stavo ascoltando quello che dicevi a proposito degli orrori del 7 ottobre ho percepito nella tua voce un’emozione che non ho sentito in nessun altro momento in questa conversazione. Non voglio criticare ciò, ma mi domando se la gente che fa politica in America non abbia questa stessa commozione quando si tratta della vita di palestinesi. Pensi che sia corretto?”

Miller: “Penso che sia corretto dire, sì che… Se penso che Joe Biden abbia lo stesso profondo sentimento ed empatia per i palestinesi di Gaza che per gli israeliani? No, non ce l’ha.” Non c’è dubbio che ci sia parecchio razzismo in atto nelle istituzioni statunitensi. Basta vedere l’enorme reazione al massacro da parte di Israele di sette operatori umanitari (cittadini australiani, britannici, americani e canadesi) mentre centinaia di operatori umanitari palestinesi sono stati uccisi senza un barlume di questa indignazione.

Ma le istituzioni statunitensi hanno messo da parte il razzismo di fronte ad altri grandi movimenti politici, come quello contro l’apartheid in Sudafrica e il mutamento culturale di Black Lives Matter [movimento contro la violenza della polizia nei confronti delle minoranze negli USA, ndt.].

Ed hanno ripetutamente trattato i palestinesi come feccia.

Ci sono molte ragioni per l’esaltazione del sionismo da parte di Washington, ma la principale è il ruolo politico della lobby israeliana. Persino gli ebrei progressisti vedono la creazione di Israele come il più grande risultato del popolo ebraico nell’ultimo secolo, e hanno costruito istituzioni per appoggiare Israele e che hanno una considerevole influenza nel partito Democratico.

Miller è cresciuto in quella comunità. È membro di una facoltosa famiglia di Cleveland che ha incluso molti lobbisti filo-israeliani, tra cui il suo defunto padre. “Era un uomo di fiducia dei primi ministri e di altri dirigenti israeliani,” ha scritto il giornale ebraico di Cleveland. Il cugino di Miller, il defunto grande avvocato per i diritti umani Michael Ratner, nelle sue memorie postume del 2021 ha descritto il sentimento filo israeliano della famiglia: “In casa nostra la raccolta fondi per Israele non è mai cessata… All’epoca avevo 13 anni, la nostra famiglia aveva investito in vari progetti in Israele.”

Segui i soldi. Oggi Biden vede il genocidio a Gaza colpire gli elettori democratici, e forse persino costargli l’elezione, come ha avvertito James Carville, ma non può girare le spalle a Israele perché ha bisogno dei soldi della lobby. Lo scorso anno Biden ha avuto un incontro di tre ore alla Casa Bianca con il super donatore Haim Saban, che lo ha definito “impeccabile” sulla politica israeliana, e recentemente ha ospitato una grande raccolta fondi per Biden in California.

Quando i fratelli Koch [potente famiglia di industriali statunitensi, ndt.] influenzano la politica la si chiama corruzione, ma i media non fanno altrettanto quando lo fa Israele.

I sentimenti personali di Biden riguardo a Israele sono irrilevanti. La verità è che Biden è stato ripetutamente umiliato da Israele e si è rifiutato di fare qualcosa a questo riguardo. Nel 1982, quando era un giovane senatore, sbatté i pugni sul tavolo, fece la predica a Menachem Begin riguardo alle colonie e minacciò di tagliare l’aiuto degli USA. I suoi portavoce negarono questa vicenda quando correva per le elezioni del 2020 in modo che ciò non lo danneggiasse. Nel 2010 Netanyahu lo umiliò annunciando nuove colonie mentre l’allora vice presidente Biden atterrava in Israele. L’aperto disprezzo nei confronti della politica di Obama provocò il fatto che Biden rinviasse un incontro con Netanyahu, ma poi mise da parte il suo orgoglio e vi partecipò.

La politica è molto più importante dei sentimenti. Biden sa che i Democratici sono stati straordinariamente dipendenti dalla comunità ebraica per la raccolta fondi e quindi non possono fare niente che possa scoraggiare l’attaccamento percepito di quella comunità a Israele.

“C’è scarsa volontà tra i democratici di discutere pubblicamente un cambiamento sostanziale della politica di lungo corso verso Israele” in larga parte a causa “dell’influenza dei grandi donatori,” ha scritto nel 2019 sul New York Times Nathan Thrall [noto editorialista e scrittore statunitense di origini ebraiche, ndt.].

Delle decine di assegni personali di oltre 500.000 dollari versati al più grande PAC [Political Action Committee, che si occupa di raccogliere i fondi per le campagne elettorali, ndt.] per i Democratici nel 2018, il PAC della Maggioranza al Senato, circa tre quarti sono stati firmati da donatori ebrei. Ciò fomenta teorie cospirative antisemite e per qualcuno è l’elefante nella stanza. Benché il numero di donatori ebrei noti per dare la priorità alle politiche filo-israeliane su ogni altra questione sia piccolo, ce ne sono pochi, se non nessuno, che spingano nella direzione opposta…”

Dopo che Netanyahu umiliò Obama alla Casa Bianca nel 2011 dandogli lezioni su Gerusalemme, Ben Rhodes, il principale consigliere di Obama sulla politica estera, dovette poi prostrarsi davanti alla lobby filo-israeliana. Disse che dovette contattare per telefono “una lista di importanti donatori ebrei… per rassicurarli delle credenziali filoisraeliane di Obama.”

Una volta Tom Friedman [famoso giornalista filoisraeliano del New York Times, ndt.] spiegò la questione: “Se ho il timbro di approvazione dell’AIPAC [principale organizzazione della lobby filoisraeliana negli USA, ndt.] e tu no… Non devo fare molte telefonate per avere tutto il denaro di cui ho bisogno per correre contro di te. (Mentre) tu dovrai fare 50.000 telefonate.”

C’è una lunga storia della lobby filoisraeliana che ha danneggiato i politici che si sono messi di traverso. Clinton fece di George Bush un presidente con un solo mandato in parte correndo alla sua destra sulle colonie a cui Bush si era opposto. Come affermò Friedman, il figlio di Bush, George W., ne ricavò la lezione politica secondo cui i Repubblicani non avrebbero mai più dovuto essere contro Israele e divenne presidente con l’appoggio dei neocons, la cui intera visione del mondo era modellata sull’appoggio USA a Israele.

La convinzione secondo cui i neocons sono la ragione per cui Bush iniziò la guerra in Iraq è ampiamente sostenuta, anche da Tom Friedman, ma quando alcuni studiosi lo affermarono in un libro del 2007, The Israel Lobby, molti nella comunità ebraica ufficiale denunciarono l’idea come antisemita. “Gli ebrei sono responsabili di ogni guerra,” lo ridicolizzò Jeffrey Goldberg.

Chotiner e Miller sanno tutto ciò e non ne vogliono parlare. Se vuoi condannare le persone per una cattiva politica dovresti iniziare dal tuo stesso orticello. Questa è sempre stata la ragione per cui mi sono concentrato sulla lobby filoisraeliana, è un’istituzione nata nella mia comunità, su cui ho una particolare competenza.

Ora Chotiner ha l’obbligo di intervistare un esperto della lobby ebraica, come John Mearsheimer o Stephen Walt [autori di La Israel lobby e la politica estera americana, Mondadori, 2009], che hanno messo in pericolo la loro carriera per denunciare questa influenza. Loro risponderebbero a questa domanda fondamentale: perché una superpotenza fa tutto il possibile per agevolare il genocidio di un popolo dell’etnia sbagliata da parte di un piccolo Paese?

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Israele/Territori Palestinesi Occupati: la morte in detenzione di Walid Daqqah è un crudele esempio del disprezzo di Israele verso il diritto alla vita dei palestinesi

 

Amnesty International

8 aprile 2024 – Amnesty International

In seguito alla morte in detenzione di Walid Daqqah, uno scrittore palestinese di 62 anni che era il prigioniero palestinese di più lunga data nelle carceri di Israele, avendovi trascorso 38 anni, Erika Guevara-Rosas, direttrice senior di Amnesty International per la ricerca, la sensibilizzazione, la politica e le campagne, ha dichiarato:

È straziante che Walid Daqqah sia morto sotto detenzione israeliana, nonostante i tanti appelli per il suo immediato rilascio per motivi umanitari in seguito alla sua diagnosi del 2022 di cancro al midollo osseo e al fatto che avesse già scontato la sua originaria condanna.

La morte di Walid Daqqah è un crudele esempio della sistematica negligenza medica di Israele e del suo disprezzo per i diritti dei prigionieri palestinesi. Secondo la sua avvocata, per Daqqah e la sua famiglia gli ultimi sei mesi in particolare sono stati un incubo senza fine, durante il quale è stato sottoposto a tortura o altri maltrattamenti, comprese percosse e umiliazioni da parte del Servizio Penitenziario Israeliano. Dal 7 ottobre non gli è stato concesso di telefonare a sua moglie. La sua richiesta finale di condizionale per motivi umanitari è stata respinta dalla Corte Suprema israeliana, che di fatto lo ha condannato a morire dietro le sbarre.

Anche sul letto di morte le autorità israeliane hanno continuato a mostrare agghiaccianti livelli di crudeltà contro Walid Daqqah e la sua famiglia, non solo negandogli adeguate cure mediche e cibo idoneo, ma anche impedendogli di dire addio a sua moglie Sanaa Salameh e alla loro bimba di quattro anni Milad. La morte di Walid significa che ha potuto vedere sua figlia Milad una sola volta di persona nell’ottobre 2022, dopo una estenuante battaglia legale.”

Sanaa Salameh, la moglie di Walid Daqqah che si è spesa senza sosta per il suo rilascio, non ha potuto abbracciare suo marito morente un’ultima volta. Le autorità israeliane ora devono restituire immediatamente il corpo di Walid Daqqah alla sua famiglia in modo che gli possa dare una pacifica e dignitosa sepoltura e devono permettere ai familiari di piangere la sua morte senza intimidazioni”, ha detto Erika Guevara-Rosas.

L’avvocata, che è stata l’ultima a visitare Walid Daqqah il 24 marzo nella clinica del carcere di Ramleh, ha detto ad Amnesty International di essere stata scioccata dalla sua gravissima perdita di peso e dalla sua evidente fragilità. Negare ai prigionieri l’accesso a un’adeguata assistenza medica viola gli standard internazionali sul trattamento dei detenuti e può configurarsi come tortura.

Antefatti

Il 25 marzo 1986 le forze israeliane arrestarono Walid Daqqah, allora 24enne, cittadino palestinese di Israele. Nel marzo 1987 un tribunale militare israeliano lo condannò all’ergastolo dopo averlo accusato di essere stato al comando di un gruppo affiliato al FPLP (Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina) che aveva rapito e ucciso il soldato israeliano Moshe Tamam nel 1984. Daqqah non fu accusato di aver compiuto l’omicidio, ma di aver comandato il gruppo, accusa da lui sempre respinta, e la sua condanna si basò sulle disposizioni di emergenza risalenti al 1945, che richiedono per la condanna un grado probatorio molto inferiore rispetto al diritto penale israeliano.

Amnesty International ha condotto una campagna in favore di Walid Daqqah dallo scorso agosto, chiedendo alle autorità israeliane di rilasciarlo per motivi umanitari, citando un parere medico indipendente secondo cui Walid Daqqah aveva i giorni contati e il fatto che aveva già scontato la sua condanna a 37 anni nel marzo 2023, ma una precedente sentenza del tribunale lo aveva condannato a due ulteriori anni di carcere – per il suo coinvolgimento nel far pervenire dei telefoni cellulari ad altri prigionieri per aiutarli a contattare le famiglie – rinviando la data del suo rilascio a marzo 2025, un giorno che tragicamente non vedrà.

Durante la sua detenzione Walid Daqqah ha ampiamente scritto dell’esperienza palestinese nelle carceri israeliane. È stato mentore e educatore per generazioni di giovani prigionieri palestinesi, bambini compresi. I suoi scritti, che comprendono lettere, saggi, una celebre commedia e un racconto per giovani adulti, sono stati un atto di resistenza contro la disumanizzazione dei prigionieri palestinesi. “L’amore è la mia modesta ed unica vittoria contro il mio carceriere”, ha scritto una volta.

Gli scritti dal carcere di Walid Daqqah sono una testimonianza di uno spirito mai spezzato da decenni di incarcerazione e oppressione.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




138 giornalisti uccisi a Gaza

Redazione di Middle East Monitor

2 aprile 2024 – Middle East Monitor

Ieri l’ufficio stampa del governo ha annunciato che 138 giornalisti sono stati uccisi a Gaza dal 7 ottobre 2023.

L’ufficio stampa ha affermato che “il numero di giornalisti martiri è aumentato dopo l’uccisione del giornalista Mohammad Abu Sakhil durante la criminale incursione nel complesso ospedaliero Al-Shifa a Gaza.”

Il ministero della Sanità a Gaza ha riferito che ieri le forze di occupazione hanno abbandonato la struttura dell’Al-Shifa e le aree circostanti nella Striscia di Gaza assediata, due settimane dopo aver lanciato una operazione militare su larga scala contro il sito, lasciandosi dietro numerosi corpi in decomposizione, che sono stati schiacciati dai veicoli militari, dilaniati da cani randagi o di persone che sono state uccise in esecuzioni sommarie con le mani legate dietro la schiena, molti dei quali non sono identificabili.

Decine di corpi sono stati trovati dentro e attorno alla struttura sanitaria,” ha affermato il ministero.

Dal 7 ottobre 2023 Israele ha ucciso 32.845 palestinesi e ne ha feriti 75.392.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Guerra contro Gaza: brutale il contrasto tra come la Gran Bretagna tratta i rifugiati palestinese e quelli ucraini

Richard Burden

2 aprile 2024 – Middle East Eye

Il governo britannico deve togliere i crudeli ostacoli per i profughi palestinesi che cercano rifugio in Gran Bretagna e contribuire anche a porre fine alle estorsioni a danno dei disperati al valico di Rafah

Rifugiati di Gaza con familiari in Gran Bretagna affrontano sia ostacoli kafkiani da parte del governo inglese che estorsioni sul confine tra Rafah e l’Egitto. Una famiglia che conosco ha fatto l’esperienza di entrambi. Tuttavia, prima di affrontare queste vicende, chiariamo una cosa: il modo per porre fine alle sofferenze a Gaza è un cessate il fuoco immediato e un accesso senza restrizioni nella Striscia.

È assolutamente inaccettabile aspettarsi che i palestinesi lascino la propria patria, benché molti degli estremisti che dominano l’attuale governo israeliano vorrebbero spingerne quanti più possibile oltre il confine con l’Egitto.

La stragrande maggioranza dei palestinesi che vivono a Gaza proviene da famiglie di rifugiati che scapparono lì cacciati dalle proprie case verso nord quando venne creato Stato di Israele nel 1948. I palestinesi la chiamano Nakba, o catastrofe.

Il massacro di Gaza è già più che terribile. Il mondo non deve consentire che l’orrore si trasformi nella Nakba 2.0.

Nessuno suggerisce neppure che la risposta per il popolo ucraino sia andarsene dalla patria di fronte all’aggressione russa. Ma ciò non ha impedito a molti Paesi, compreso il nostro, di aprire le porte per fornire un rifugio sicuro alle famiglie che scappano dal massacro in Ucraina.

Ciò non è altro che la cosa giusta da fare a livello umano e riflette lo spirito della Convenzione Internazionale sui Rifugiati del 1951, di cui Il Regno Unito è uno dei firmatari.

Netto e brutale

Ma il contrasto tra il modo in cui la Gran Bretagna tratta i rifugiati ucraini e quelli che fuggono da Gaza è netto e brutale. Per poter entrare nel Regno Unito chi fugge da Gaza deve dimostrare sia di avere il permesso di ingresso per più di sei mesi che un coniuge o un figlio con meno di 18 anni qui.

Se hai un fratello o una sorella che vive in Gran Bretagna, o sei un anziano vulnerabile con un figlio o una figlia adulti che vivono qui, le norme del Regno Unito ti dicono di scordartelo.

Tali condizioni non sono imposte alle persone che fuggono dall’Ucraina. Infatti, in base al programma “Case per l’Ucraina”, i cittadini britannici sono stati aiutati perché accogliessero in casa loro profughi ucraini, indipendentemente dal fatto che essi abbiano rapporti familiari. E a ragione.

Quando interrogati in parlamento, i ministri britannici spesso dicono che verificheranno casi individuali di palestinesi che scappano da Gaza che i parlamentari porteranno alla loro attenzione. Tuttavia finora ci sono poche prove che le loro parole significhino un granché nella pratica.

Niente obbliga il governo britannico a comportarsi in questo modo. È una decisione politica deliberata da parte sua ed è tempo che i ministri cambino direzione.

Molti membri del parlamento e della Camera dei Lord di vari partiti hanno firmato la lettera aperta della baronessa Bennett al ministro degli Interni che invoca l’introduzione di un regime di visti per i palestinesi modellato su “Case per l’Ucraina”.

Anche due mozioni simili sono state presentate alla Camera dei Comuni.

Tutti questi tentativi meritano il nostro appoggio. Sono necessarie anche azioni, non solo parole, da parte dei ministri britannici.

Estorsione

Ma queste cose sono solo una parte della vicenda. In primo luogo per uscire da Gaza ai rifugiati palestinesi deve essere permesso attraversare il valico tra Rafah e il deserto del Sinai egiziano.

Benché il confine sia direttamente amministrato dall’Egitto, anche Israele ha molta voce in capitolo su chi lo può attraversare e chi no. Dal 7 ottobre non c’è nessun altro modo per lasciare Gaza.

I palestinesi che cercano di andare in Gran Bretagna devono prima inserire il loro nome in una lista fornita alle autorità egiziane e israeliane dal consolato generale britannico a Gerusalemme. Se non sei un cittadino inglese o se non soddisfi i rigidi criteri del governo britannico sulla concessione dei visti non sarai inserito in quella lista.

Anche se la Gran Bretagna inserisce il tuo nome nella lista, ciò non garantisce il permesso di attraversare il valico di Gaza da parte delle autorità egiziane e israeliane.

Se ci sei o sei un palestinese che cerca di andare in un qualunque altro Paese dovrai anche pagare un pesante balzello perché ti sia consentito attraversare fisicamente il valico di Rafah. Di recente ai membri di una famiglia palestinese che conosco sono state fatte pagare quasi 9.000 sterline [oltre 10.000 euro, ndt.] per consentire a una madre con i figli di entrare in Egitto.

So di famiglie a cui è stata chiesta una quantità di denaro anche superiore. I miei amici sono stati sufficientemente fortunati ad avere la disponibilità di quel denaro. Sarebbe semplicemente al di là delle possibilità della stragrande maggioranza dei palestinesi di Gaza, una striscia di terra devastata dalla povertà molto prima dell’ultima invasione israeliana e che non ha avuto un’economia funzionante negli ultimi sei mesi di guerra.

Sembra che nessuno sappia quanto denaro richiesto ai palestinesi al valico di Rafah sia rappresentato da tributi ufficiali del governo egiziano e quanto sia dovuto alla corruzione alla frontiera. In ogni caso si tratta di un’estorsione a danno di persone che a Gaza hanno già vissuto orrori indicibili.

Il governo britannico non solo deve togliere i brutali ostacoli che mette sul percorso dei rifugiati palestinesi che cercano rifugio in Gran Bretagna, soprattutto quando hanno una famiglia o altri rapporti qui. Deve anche, insieme ad altri Paesi, imporre una pressione documentabile sull’Egitto perché finisca l’estorsione a Rafah, sia che derivi da tasse di uscita ufficiali che da iniziative di funzionari corrotti.

Il comune senso del decoro non richiede niente di meno.

Le opinioni espresse in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle Esta Eye.

Richard Burden è un ex-parlamentare laburista, ministro ombra e presidente del Gruppo Parlamentare Multipartito Gran Bretagna-Palestina. Per oltre 45 anni Burden ha militato in appoggio dei diritti umani e la giustizia in Israele e Palestina. È anche amministratore fiduciario dell’organizzazione benefica Balfour Project e vice presidente degli Amici Laburisti della Palestina e del Medio Oriente (LFPME).

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Israele ha distrutto l’ospedale al-Shifa per accelerare la distruzione delle strutture sociali di Gaza

Faris Giacaman 

2 Aprile 2024 – Mondoweiss

Israele vuole provocare un crollo dellordine sociale a Gaza, e non può riuscirci senza cancellare i suoi ospedali.

La caduta dell’ospedale al-Shifa sarà ricordata come uno dei momenti più cruciali della campagna genocida di Israele a Gaza, non per la scatenata volontà di distruzione mostrata, ma perché ha offerto una straordinaria immagine del vero motivo per cui Israele ha deciso di demolire sistematicamente gli ospedali di Gaza.

Nei tempi di guerra gli ospedali di Gaza non sono serviti solo come luoghi per la cura dei feriti e dei malati, ma sono diventati istituzioni sociali fondamentali, ospitando un microcosmo dellintero ordine sociale di Gaza. Sono diventati centri nevralgici per giornalisti e difensori dei diritti umani, hanno offerto spazio alle squadre della protezione civile di Gaza per organizzare e coordinare le attività di salvataggio, sono diventati una base operativa per le forze di polizia di Gaza e hanno ospitato decine di migliaia di rifugiati sfollati in cerca di riparo dai bombardamenti. Gli ospedali sono diventati tutto questo perché costituivano le ultime istituzioni civili rimaste che avrebbero dovuto godere di un minimo di protezione dalla guerra.

In altre parole, essi ospitavano tutti i meccanismi che fanno funzionare una società. Al posto della demolizione delle infrastrutture di resistenza di Gaza, un traguardo che rimane irraggiungibile per lesercito israeliano, uno degli obiettivi della guerra di Israele a Gaza è stato quello di provocare il collasso delle strutture sociali.

La normalizzazione degli attacchi contro gli ospedali

Tutto è iniziato con il primo assalto israeliano contro al-Shifa il 15 novembre. Nei giorni precedenti lincursione lospedale era stato messo sotto assedio mentre il personale sanitario e i medici venivano colpiti attraverso le finestre e nel cortile principale dellospedale. Quando altri si precipitavano fuori nel tentativo di salvarli, anche loro venivano abbattuti, finché nessuno ha più osato lasciare gli edifici. I feriti venivano lasciati morire dissanguati, per poi marcire ed essere mangiati dagli animali randagi. Quando lesercito israeliano è entrato, ha ripulito lospedale dal personale, dai pazienti e dai rifugiati sfollati. La propaganda israeliana ha cominciato a inondare i media con immagini di armi nascoste dietro una macchina per la risonanza magnetica, una delle poche fragili prove” a sostegno delluso dellospedale come centro di comando e controllo” militare.

Ma nonostante il fatto che le affermazioni di Israele su al-Shifa si siano rivelate infondate linvasione ha costituito un importante precedente per quella che è stata considerata una condotta ammissibile durante la guerra. Ciò che prima era impensabile ora è diventato una cosa normale, ponendo le basi per ciò che sarebbe successo.

Favorire la distruzione delle strutture portanti della società

Verso la fine dellanno, dopo il ritiro dellesercito da alcune aree del nord di Gaza, compresa la zona circostante al-Shifa, il personale medico e i pazienti sono tornati allinterno dell’ospedale. Al-Shifa ha rapidamente ripreso il suo status di centro nevralgico per gli sfollati e gli attori della società civile. Ma con linizio del nuovo anno la carestia e la fame hanno cominciato a manifestarsi. La privazione sistematica degli aiuti alimentari e la presa di mira dei richiedenti aiuto nelle rotatorie Kuwait e Nabulsi nel nord di Gaza hanno portato a diversi massacri che hanno messo in crisi la popolazione locale.

Poi, in quello che è stato universalmente considerato un risultato straordinario, il 17 marzo un convoglio di 13 camion di aiuti è finalmente arrivato nel nord senza incidenti. La differenza è che questa volta la consegna degli aiuti è stata coordinata direttamente dalle forze di polizia di Gaza. La figura chiave che ha organizzato la consegna è stato il direttore delle operazioni di polizia, Faiq Mabhouh, che come la maggior parte dei dipendenti civili di Gaza ha naturalmente coordinato le operazioni da al-Shifa. Il giorno successivo, il 18 marzo, Israele ha lanciato la sua seconda incursione nellospedale.

Non sorprende che Israele abbia riciclato le solite affermazioni infondate, affermando che loperazione era basata su informazioni di intelligence preciseche indicavano che lospedale ospitava centinaia di militari dai quali venivano condotti attacchi terroristici. Il primo giorno dell’attacco le forze israeliane hanno assassinato Mabhouh, uccidendo altre decine di persone all’interno del complesso medico. Fin dallinizio Mondoweiss ha dimostrato la vera ragione dietro lattacco: sferrare un colpo alle infrastrutture civili di Gaza con lobiettivo di provocare il caos e minarne la capacità operativa.

Mabhouh aveva supervisionato diversi comitati popolari in coordinamento con le comunità locali per organizzare la consegna degli aiuti alla popolazione affamata. Stava diventando chiaro che il governo di Hamas stesse tentando di ristabilire un punto d’appoggio nel nord di Gaza e di riportare l’ordine, cosa di cui si erano già intravisti dei segnali a febbraio. Naturalmente per Israele qualsiasi impiegato governativo a Gaza, anche se in settori civili come la polizia, era, a tutti gli effetti, agente di Hamas, non diverso dai combattenti della resistenza delle Brigate Qassam. Inclusi anche i membri dei comitati e delle organizzazioni civiche responsabili della distribuzione degli aiuti, che Israele ha continuato a prendere di mira nel nord di Gaza mentre iniziava lassedio di al-Shifa.

Quasi due settimane dopo, il 31 marzo, dopo l’uccisione da parte dellesercito israeliano di oltre 70 dei loro membri, i comitati popolari e le comunità hanno annunciato che avrebbero interrotto il coordinamento e la distribuzione degli aiuti nel nord di Gaza. I comitati hanno rilasciato una dichiarazione affermando che lesercito li aveva sistematicamente presi di mira e che stava deliberatamente seminando caos e fameimpedendo a organizzazioni internazionali come la Croce Rossa, lUNRWA e il Programma Alimentare Mondiale di fornire aiuti. Quando lesercito israeliano si è ritirato da al-Shifa, il Gaza Media Office ha dichiarato che durante il raid durato due settimane almeno 400 palestinesi erano stati uccisi e 900 feriti. Gli edifici non distrutti sono stati incendiati e danneggiati irreparabilmente. L’esercito ha promesso che al-Shifa non avrebbe ripreso la sua operatività.

La realizzazione della zona di uccisione

Nel corso delle due settimane in cui è proseguito l’assedio di al-Shifa hanno iniziato ad emergere notizie di atrocità e massacri su larga scala avvenuti nell’ospedale. Al termine dellincursione innumerevoli testimonianze hanno riportato dettagliatamente esecuzioni sul posto, mentre le squadre della Protezione Civile hanno riferito di aver trovato cadaveri con le gambe legate sepolti sotto la sabbia.

Un giorno prima del ritiro dellesercito Haaretz ha pubblicato uninchiesta che fornisce nuove informazioni su come lesercito ha operato durante la guerra, realizzando zone di uccisionein cui i soldati hanno ricevuto istruzioni di sparare a vista a chiunque. L’articolo definisce tali zone come un’area in cui si insedia una pattuglia, di solito una casa abbandonata, con la zona circostante che diventa unarea militare chiusa, ma non delimitata da segnali ben visibili. Naturalmente, queste zone di uccisionesi trovano anche nel mezzo di quartieri residenziali, molti dei quali non evacuati.

L’articolo fornisce un quadro utile per comprendere come si è probabilmente svolta linvasione di al-Shifa.

Inizia con un riferimento al famigerato attacco dell’inizio di gennaio contro quattro uomini disarmati a Khan Younis da parte di un drone israeliano, affermando che lincidente è stato uno dei tanti in cui sono stati uccisi civili palestinesi in quanto dichiarati senza prove terroristi” dallesercito.

L’inchiesta raccoglie le testimonianze di numerosi soldati israeliani, “alti” ufficiali dellesercito e numerosi comandanti di ruolo e di riserva dellesercito da cui risulta che tutti mettono in dubbio laffermazione che fossero tutti terroristi, implicando che la definizione di terrorista è aperta a unampia gamma di interpretazioni. È del tutto possibile che dei palestinesi che non hanno mai impugnato unarma in vita loro una volta morti siano stati elevati al rango di terroristi”, almeno dalle IDF[esercito israeliano, ndt.]”.

Non è che facciamo l’inventario dei cadaveri, ma nessuno può determinare con certezza chi è un terrorista e chi è stato colpito una volta entrato nella zona di combattimento, ha detto ad Haaretz un ufficiale della riserva. Un altro ufficiale riservista ha affermato che in pratica, terrorista è chiunque sia stato ucciso dai militari nelle aree in cui operano. L’ufficiale ha detto che i rapporti dell’esercito israeliano sul numero di combattenti della resistenza presumibilmente uccisi erano sorprendentie che non c’è bisogno di essere un genio per rendersi conto che non ci sono centinaia o decine di uomini armati che corrono per le strade.”

Al contrario, le testimonianze dei soldati affermano che molte di queste persone erano probabilmente non combattenti disperati in cerca di cibo che si erano imbattuti in aree che pensavano fossero state evacuate dallesercito. “Quando si recavano in luoghi del genere venivano uccisi in quanto percepiti come potenzialmente pericolosi per l’incolumità delle nostre forze”, ha detto ad Haaretz un comandante.

Eppure la definizione dellesercito di minacciapercepita è altrettanto ampia. “Non appena le persone entrano [in una zona di uccisione], soprattutto maschi adulti, l’ordine è di sparare e uccidere, anche se quella persona è disarmata”, ha detto ad Haaretz un ufficiale riservista. Un altro soldato che era stato nel nord di Gaza ha detto che la sensazione che avevamo era che lì non esistessero realmente regole di ingaggio, mentre un alto funzionario dellestablishment della difesa ha detto ad Haaretz che sembra che molti reparti combattenti stiano scrivendo le proprie regole di ingaggio.”

Queste testimonianze di soldati sono coerenti con i resoconti dei testimoni oculari e delle organizzazioni per i diritti umani nel nord di Gaza, che descrivono anche in dettaglio la prassi di sparare intenzionalmente ai bambini con proiettili veri e luso dei palestinesi come scudi umani durante il raid ad al-Shifa. Anche se nulla di tutto ciò porti di fatto nuove rivelazioni per la comprensione delle atrocità di Israele, le testimonianze dei soldati sono preziose nel rivelare luso delle zone di uccisionecome quadro operativo per la conduzione di attività sul campo.

Questo ci riporta allassalto ad al-Shifa. Secondo Ynet [quotidiano israeliano, ndt.] lesercito israeliano ha affermato di aver condotto unoperazione precisache ha distinto tra terroristi e civili, ma che la priorità della sicurezza dei soldati israeliani è sempre rimasta fondamentale. Ecco perché, secondo lesercito, di fronte al rischio per la sicurezza delle nostre forze quando viene rilevata una minaccia apriamo il fuoco per eliminare i terroristi”.

In altre parole, lintero ospedale di al-Shifa e larea circostante sono stati trasformati in una gigantesca zona di uccisione.

(traduzione dallinglese di Aldo Lotta)




Sette operatori umanitari a Gaza, compresi cittadini del Regno Unito, degli Stati Uniti e dell’Australia, uccisi in un attacco israeliano, afferma l’organizzazione benefica

Bethan McKernan, a Gerusalemme, e Ben Doherty

2 aprile 2024 – The Guardian

L’esercito israeliano indaga in seguito al fatto che in un convoglio colpito nel centro di Gaza si trovavano degli operatori di World Central Kitchen 

Sette persone che lavoravano per World Central Kitchen [ONG americana, ndt.], un’organizzazione benefica che promuove sforzi per alleviare l’incombente carestia a Gaza, sono rimaste uccise in un attacco aereo israeliano, dice l’organizzazione, gettando nel caos gli sforzi di soccorso umanitario nel territorio palestinese, in quanto l’organizzazione ha detto che avrebbe sospeso le operazioni.

Secondo una dichiarazione rilasciata giovedì mattina gli operatori facevano parte di un gruppo che viaggiava su tre veicoli corazzati che riportavano il logo dell’organizzazione umanitaria. World Central Kitchen (WCK) ha detto che gli uccisi erano originari di Regno Unito, Australia, Polonia e Palestina e uno aveva doppia cittadinanza USA e canadese.

Secondo un giornalista dell’Associated Press che si trovava nella struttura, i corpi degli operatori umanitari sono stati portati in un ospedale della città di Rafah nel sud di Gaza, sul confine egiziano. Le registrazioni dell’ospedale hanno riportato che tre cittadini del Regno Unito erano morti.

L’organizzazione ha affermato: “Nonostante i movimenti fossero stati concordati con l’esercito israeliano il convoglio è stato colpito alla partenza dal deposito di Deir al-Balah, dove la squadra aveva scaricato più di 100 tonnellate di aiuti umanitari in cibo portati a Gaza via mare.”

Erin Gore, presidente di WCK, ha detto: “Questo non è solo un attacco contro WCK, è un attacco alle organizzazioni umanitarie che avviene nella più tremenda delle situazioni in cui il cibo viene usato come arma di guerra. Questo è imperdonabile.”

L’organizzazione interromperà le operazioni nella regione e dice che prenderà una decisione sul futuro della sua attività, sollevando timori che il recente corridoio marittimo da Cipro per la consegna di aiuti disperatamente necessari a Gaza possa fallire a fronte dei ripetuti ostacoli da parte israeliana.

Giovedì pomeriggio Cipro ha detto che le navi recentemente giunte a Gaza stanno tornando indietro con 240 tonnellate di aiuti non consegnati.

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha deplorato le uccisioni, che ha detto essere state provocate da un attacco aereo israeliano. Ha decritto l’incidente come tragico e non intenzionale.

Succede in tempi di guerra. Stiamo indagando accuratamente sui fatti, siamo in contatto con i governi (delle vittime straniere) e faremo di tutto per garantire che non avvenga di nuovo”, ha detto in una videodichiarazione.

L’esercito israeliano ha espresso “sincero dispiacere” per le morti mentre non ha ammesso del tutto di accettarne la responsabilità, aggiungendo che è in corso un’indagine.

Una dichiarazione dell’esercito afferma: “Le IDF (esercito) compiono molti sforzi per rendere possibile la consegna sicura di aiuti umanitari e hanno lavorato a stretto contatto con WCK nei suoi sforzi vitali per fornire cibo e aiuto umanitario alla popolazione di Gaza.”

I tentativi delle agenzie umanitarie di fornire assistenza dove c’è più necessità a Gaza sono stati gravemente ostacolati da un insieme di impedimenti logistici, da un collasso dell’ordine pubblico e dalla farraginosa burocrazia imposta da Israele. Il numero di camion di aiuti entrati nel territorio via terra negli ultimi cinque mesi è stato molto al di sotto dei 500 al giorno che entravano prima della guerra.

A febbraio più di 100 persone sono state uccise quando le forze israeliane hanno aperto il fuoco in un punto di distribuzione degli aiuti a Gaza City. L’esercito israeliano ha detto che per la maggior parte sono morti nella calca, ma funzionari palestinesi e testimoni lo hanno smentito dicendo che la maggioranza di quelli portati in ospedale presentava ferite da proiettili.

L’ONU ha detto che nel territorio costiero almeno 576.000 persone– un quarto della popolazione – sono sulla soglia della carestia ed è aumentata la pressione su Israele perché accresca il flusso di aiuti.

Le navi con gli aiuti arrivate lunedì trasportavano 400 tonnellate di cibo e prodotti – sufficienti per un mese di pasti – in una spedizione finanziata dagli Emirati Arabi Uniti e organizzata da WCK, ma gli operatori avevano scaricato solo 100 tonnellate prima che l’attacco costringesse l’organizzazione ad ordinare che le imbarcazioni tornassero a Cipro.

Il mese scorso un’altra nave di WCK ha consegnato 200 tonnellate di aiuti in un’esperienza pilota resa possibile da volontari di WCK e da altri a Gaza che hanno costruito un molo con le macerie di edifici distrutti dai bombardamenti israeliani negli scorsi cinque mesi. L’esercito israeliano è stato coinvolto nel coordinamento di entrambe le consegne.

Washington, il principale alleato di Israele, ha caldeggiato la via marittima come nuovo modo per fornire aiuti disperatamente necessari al nord di Gaza, che è ampiamente separato dal resto del territorio dalle forze israeliane.

Israele ha impedito all’UNRWA, la principale agenzia dell’ONU a Gaza, di effettuare consegne nel nord dopo aver sostenuto che molti dei suoi dipendenti erano coinvolti nell’attacco di Hamas che ha scatenato la guerra, ora nel suo sesto mese. Altre organizzazioni umanitarie dicono che spedire convogli di camion al nord è troppo pericoloso a causa delle mancate garanzie da parte dell’esercito di un passaggio sicuro.

In base ai dati israeliani il 7 ottobre circa 1.200 israeliani sono stati uccisi e altri 250 presi in ostaggio, mentre più di 32.000 palestinesi sono stati uccisi nella successiva offensiva israeliana, secondo il locale Ministero della Salute nel territorio governato da Hamas.

José Andrés, il fondatore di WCK, ha dichiarato a X che l’organizzazione umanitaria “ha perso parecchie nostre sorelle e fratelli in un attacco aereo delle IDF a Gaza.”

Ha scritto: “Ho il cuore spezzato e sono addolorato per le loro famiglie ed amici e per l’intera nostra famiglia di WCK. Queste sono persone…sono angeli…Ho lavorato al loro fianco in Ucraina, a Gaza, in Turchia, in Marocco, alle Bahamas, in Indonesia. Hanno un volto…hanno un nome.”

Ha detto che il governo israeliano avrebbe dovuto “fermare queste uccisioni indiscriminate.”

Il Primo Ministro australiano, Anthony Albanese, ha identificato la persona uccisa di nazionalità australiana come Zomi Frankcom e ha definito il suo lavoro “straordinariamente importante.”

Albanese ha detto che il suo governo avrebbe convocato l’ambasciatore israeliano riguardo ad un incidente che ha detto essere “al di là di ogni ragionevole circostanza”, aggiungendo: “l’Australia si attende una piena assunzione di responsabilità per la morte di operatori umanitari, che è assolutamente inaccettabile.”

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Il parlamento israeliano approva una legge che spiana la strada alla chiusura di Al Jazeera

Redazione di Al Jazeera

1 aprile 2024 – Al Jazeera

Il primo ministro Benjamin Netanyahu promette di usare la nuova legge per chiudere gli uffici locali di Al Jazeera.

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha promesso di “agire immediatamente per interrompere” nel Paese le attività di Al Jazeera dopo l’approvazione del parlamento israeliano di una legge che concede ai ministri poteri di chiudere le reti di informazione straniere ritenute un rischio per la sicurezza.

Al Jazeera ha danneggiato la sicurezza di Israele partecipando attivamente al massacro del 7 ottobre e ha incitato contro i soldati israeliani,” ha scritto Netanyahu su X lunedì.

Intendo agire immediatamente in conformità con la nuova legge per fermare le attività del canale,” ha detto.

La rete qatarina ha respinto quelle che ha descritto come “accuse diffamanti” e ha accusato Netanyahu di “incitamento [all’odio]”.

In seguito al suo incitamento e a queste false accuse ignobili Al Jazeera ritiene il primo ministro israeliano responsabile della sicurezza del proprio personale e delle sedi della rete nel mondo,” ha detto in una dichiarazione.

Al Jazeera ribadisce che tali accuse infamanti non ci dissuaderanno dal continuare la nostra copertura coraggiosa e professionale e ci riserviamo il diritto di intraprendere ogni azione legale.”

Netanyahu cercava da tempo di chiudere l’emittente qatarina adducendo un pregiudizio contro Israele.

La legge approvata dalla Knesset con una votazione di 71 a 10 dà al primo ministro e al ministro delle Comunicazioni l’autorità di ordinare la chiusura di reti televisive straniere che operano in Israele e confiscare le loro apparecchiature se si ritiene che pongano “un pericolo alla sicurezza dello Stato”.

Lunedì Karine Jean-Pierre, la portavoce della Casa Bianca, ha detto che la decisione israeliana di chiudere Al Jazeera sarebbe “preoccupante”.

Gli Stati Uniti sostengono il lavoro estremamente importante dei giornalisti in tutto il mondo e ciò include coloro che ci stanno informando sul conflitto a Gaza,” ha detto Jean-Pierre ai reporter.

Quindi noi crediamo che il lavoro sia importante. La libertà di stampa è importante. E se quei reportage sono veritieri ciò ci riguarda.”

Il Comitato per la Protezione dei Giornalisti (CPJ), che controlla che i media siano liberi, ha detto che la nuova legge israeliana “pone una significativa minaccia per i media internazionali”.

Ciò contribuisce a un clima di autocensura e ostilità verso la stampa, una tendenza in crescita dall’inizio della guerra tra Israele e Gaza,” ha detto il CPJ.

Una lunga campagna

Dall’inizio della guerra di Israele a Gaza in ottobre il governo israeliano ha approvato con il consenso dei tribunali norme di guerra che consentono di chiudere temporaneamente media stranieri giudicati una minaccia per gli interessi nazionali.

L’approvazione della legge arriva circa cinque mesi dopo che Israele ha affermato che avrebbe bloccato il canale libanese Al Mayadeen. Si era astenuto dal chiudere contemporaneamente Al Jazeera.

Lunedì, dopo il voto, il ministro delle Comunicazioni di Israele, Shlomo Karhi [del principale partito di governo, il Likud, ndt.], ha detto che intende procedere con la chiusura e che Al Jazeera agisce come “un braccio della propaganda di Hamas incoraggiando la lotta armata contro Israele”.

È impossibile tollerare un organo di stampa con credenziali dell’Ufficio Stampa governativo e con uffici in Israele che agisca dall’interno contro di noi, e certamente non in tempo di guerra,” ha proseguito.

Il suo ufficio ha detto che l’ordine avrebbe cercato di bloccare le trasmissioni del canale in Israele e di impedirne le attività nel Paese. L’ordine non si applicherebbe alla Cisgiordania occupata o a Gaza.

Israele si è spesso scagliato contro Al Jazeera che ha uffici nella Cisgiordania occupata e a Gaza. Nel maggio 2022 l’esercito israeliano ha ucciso la giornalista di Al Jazeera Shirin Abu Akleh mentre stava coprendo un attacco dell’esercito israeliano nella città cisgiordana di Jenin.

Una relazione commissionata dalle Nazioni Unite ha concluso che per ammazzarla le forze israeliane hanno usato “una forza letale senza giustificazioni”, violando il suo “diritto alla vita”.

Durante la guerra a Gaza sono stati uccisi dai bombardamenti israeliani parecchi giornalisti e loro familiari.

Il 25 ottobre un raid aereo ha ucciso la famiglia di Wael Dahdouh, capo dell’ufficio [di Al Jazeera] a Gaza: moglie, figlio, figlia, nipote e almeno altri otto parenti.

La legge è stata approvata mentre Netanyahu fronteggia enormi proteste contro la sua gestione della guerra a Gaza e il fallimento della sicurezza che non ha scoperto in anticipo l’attacco del 7 ottobre guidato da Hamas nel sud di Israele.

Secondo le autorità israeliane almeno 1.139 persone sono state uccise in quegli attacchi e circa 250 ostaggi sono stati portati a Gaza.

Secondo le autorità palestinesi la guerra israeliana contro Gaza ha ucciso almeno 32.782 persone, in maggioranza donne e bambini.

Domenica decine di migliaia di persone si sono riunite davanti all’edificio del parlamento israeliano a Gerusalemme Est nella più grande manifestazione antigovernativa dall’inizio della guerra.

I manifestanti hanno chiesto al governo di garantire un cessate il fuoco che liberi gli ostaggi detenuti da Hamas e ha invocato elezioni anticipate.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Perché gli israeliani si sentono così minacciati da un cessate il fuoco?

Meron Rapoport

29 marzo 2024-+972Magazine

Fermare la guerra di Gaza significa riconoscere che gli obiettivi militari di Israele sono irrealistici – e che Israele non può sottrarsi a un processo politico con i palestinesi.

La decisione americana di non porre il veto a una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che chiedeva un cessate il fuoco immediato a Gaza – la prima volta dall’inizio della guerra che avevano consentito l’approvazione di una risoluzione del genere – ha provocato ondate di shock in Israele. Il successivo annullamento da parte di Benjamin Netanyahu di un previsto incontro israeliano con l’amministrazione Biden a Washington non ha fatto altro che aumentare l’impressione che Israele fosse rimasto isolato sulla scena internazionale e che Netanyahu stesse mettendo a repentaglio la risorsa più importante del paese: la sua alleanza con gli Stati Uniti.

Eppure, nonostante ci siano state critiche diffuse sulla gestione di queste questioni delicate da parte di Netanyahu, anche i suoi oppositori – sia nel campo “liberal” che nella destra moderata – sono stati unanimi nel respingere il voto delle Nazioni Unite. Yair Lapid, capo del partito di opposizione Yesh Atid, ha affermato che la risoluzione è “pericolosa, ingiusta e Israele non la accetterà”. Il ministro Hili Tropper, stretto alleato del rivale di Netanyahu Benny Gantz – che secondo i sondaggi vincerebbe facilmente se le elezioni si tenessero oggi – ha detto: “La guerra non deve finire”. Questi commenti non differivano molto dalle reazioni rabbiose di leader di estrema destra come Bezalel Smotrich o Itamar Ben Gvir.

Questo rifiuto quasi unanime del cessate il fuoco rispecchia il sostegno trasversale dei partiti per un’invasione della città di Rafah, nel sud della Striscia di Gaza, anche se Netanyahu non sostiene che l’operazione otterrà la tanto attesa “vittoria totale” da lui promessa.

Ad alcuni l’opposizione al cessate il fuoco potrà sembrare strana. Molti israeliani accettano l’affermazione secondo cui Netanyahu sta continuando la guerra per promuovere i suoi interessi politici e personali. Le famiglie degli ostaggi israeliani, ad esempio, stanno diventando sempre più critiche nei confronti del “trascinare i piedi” di Netanyahu e amplificano le loro richieste per un “accordo adesso”.

Anche all’interno dell’establishment della sicurezza israeliana sempre più persone affermano apertamente che “eliminare Hamas” non è un obiettivo raggiungibile. “Dire che un giorno ci sarà una vittoria completa a Gaza è una completa menzogna”, ha recentemente affermato l’ex portavoce dell’IDF Ronen Manelis. “Israele non può eliminare completamente Hamas in un’operazione che dura solo pochi mesi”.

Quindi, se cresce l’opinione che Netanyahu stia continuando la guerra per interessi personali; se diventa sempre più chiara l’inutilità di continuare la guerra, sia per quanto riguarda il rovesciamento di Hamas che il rilascio degli ostaggi; se diventa evidente che la continuazione della guerra rischia di danneggiare le relazioni con gli Stati Uniti, come si può spiegare il consenso in Israele sul “pericolo” di un cessate il fuoco?

Questioni di fondo

Una spiegazione è il trauma inflitto dal massacro di Hamas del 7 ottobre. Molti israeliani si dicono che, finché Hamas esiste e gode del sostegno popolare, non c’è alternativa alla guerra. Una seconda spiegazione riguarda l’innegabile talento retorico di Netanyahu, che, nonostante la sua debolezza politica, è riuscito a instillare lo slogan della “vittoria totale” anche tra coloro che non credono a una parola di quello che dice, e tra coloro che capiscono, consciamente o inconsciamente, che questa vittoria non è possibile.

Ma c’è un’altra spiegazione. Fino al 6 ottobre il consenso tra l’opinione pubblica ebraico-israeliana era che la “questione palestinese” non avrebbe dovuto preoccuparli troppo. Il 7 ottobre ha sfatato questo mito. La “questione palestinese” è tornata all’ordine del giorno in tutta la sua sanguinosa rilevanza.

Sono venute alla luce due possibili risposte alla fine di questo status quo: un accordo politico che riconosca realmente la presenza di un altro popolo in questa terra e il suo diritto a una vita di dignità e libertà, o una guerra di sterminio contro il nemico al di là del muro. Il pubblico ebraico, che non ha mai veramente interiorizzato la prima opzione, ha scelto la seconda.

Alla luce di ciò, l’idea stessa di un cessate il fuoco sembra minacciosa. Costringerebbe l’opinione pubblica ebraica a riconoscere che gli obiettivi presentati da Netanyahu e dall’esercito – “rovesciare Hamas” e liberare gli ostaggi attraverso la pressione militare – sono semplicemente irrealistici. L’opinione pubblica dovrebbe ammettere quello che potrebbe essere percepito come un fallimento, addirittura una sconfitta, nei confronti di Hamas. Dopo il trauma e l’umiliazione del 7 ottobre, per molti è difficile digerire una simile sconfitta.

Ma c’è una minaccia più profonda. Un cessate il fuoco potrebbe costringere l’opinione pubblica ebraica ad affrontare questioni più basilari. Se lo status quo non funziona, e una guerra costante con i palestinesi non può ottenere la vittoria desiderata, allora ciò che resta è la verità: che l’unico modo per gli ebrei di vivere in sicurezza è attraverso un compromesso politico che rispetti i diritti dei palestinesi.

Il rifiuto totale del cessate il fuoco e la sua presentazione come una minaccia per Israele dimostrano che siamo lontani dal riconoscimento di questa verità. Ma stranamente potremmo anche essere più vicini di quanto si pensi. Nel 1992, quando gli israeliani furono costretti a scegliere tra una frattura con gli Stati Uniti – a causa del rifiuto dell’allora primo ministro Yitzhak Shamir di accettare lo schema presentato dagli americani per i colloqui con i palestinesi – o la ricucitura della frattura, scelsero la seconda opzione. Yitzhak Rabin fu eletto primo ministro e un anno dopo furono firmati gli accordi di Oslo.

Riuscirà l’attuale spaccatura con l’amministrazione americana a convincere gli ebrei israeliani ad abbandonare l’idea di una guerra perpetua e ad accettare di dare una possibilità ad un accordo politico con i palestinesi? Non è molto chiaro. Ma quello che è certo è che Israele si sta rapidamente avvicinando a un bivio in cui dovrà scegliere: o un cessate il fuoco e la possibilità di dialogo con i palestinesi, o una guerra senza fine e un isolamento internazionale come non ha mai conosciuto. Perché la possibilità di tornare indietro, allo status quo del 6 ottobre, è chiaramente impossibile.

Questo articolo è stato pubblicato in collaborazione con The Nation e Local Call.

(traduzione dall’inglese di Giuseppe Ponsetti)