Un palestinese rilasciato dal carcere israeliano descrive i pestaggi, la violenza sessuale e la tortura

Gideon Levy e Alex Levac

28 aprile 2024 – Haaretz

Amer Abu Halil, un abitante della Cisgiordania che è stato attivista di Hamas ed è stato incarcerato senza processo, racconta la quotidianità in tempo di guerra che ha vissuto nel carcere israeliano di Ketziot

Non vi è somiglianza tra il giovane seduto insieme a noi per ore nel suo cortile questa settimana e il video del suo rilascio dalla prigione la settimana scorsa. Nella clip lo stesso giovane – con la barba, trasandato, pallido e scarno – sembra camminare a stento; ora è ben curato e sfoggia una giacca rossa con un fazzoletto a quadretti infilato nel taschino. Per 192 giorni in prigione è stato costretto a indossare gli stessi abiti – forse questo spiega la sua attuale estrema eleganza.

E non vi è neppure somiglianza tra ciò che lui racconta in un ininterrotto fiume di parole che è difficile arrestare – resoconti sempre più scioccanti, uno dopo l’altro, supportati da date, esemplificazioni fisiche e nomi – e ciò che sapevamo finora riguardo a quanto accade nelle strutture carcerarie israeliane dall’inizio della guerra. Dal momento del suo rilascio lunedì della scorsa settimana non ha mai dormito di notte per la paura di essere nuovamente arrestato. E vedere un cane per strada lo terrorizza.

La testimonianza di Amer Abu Halil, della città di Dura vicino Hebron, già attivista di Hamas, su quanto avviene nel carcere di Ketziot nel Negev è persino più scioccante dello spaventoso racconto riportato su queste colonne un mese fa da un altro prigioniero, Munther Amira di 53 anni, detenuto nella prigione di Ofer. Amira paragonava la sua prigione a Guantanamo, Abu Halil chiama Abu Ghraib il suo carcere, evocando la famigerata struttura nell’Iraq di Saddam Hussein utilizzata in seguito dagli alleati dopo la caduta di Saddam.

Tra i candidati alle sanzioni USA il Servizio Penitenziario Israeliano dovrebbe essere il prossimo della lista. È palesemente l’ambito in cui gli istinti sadici del ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben Gvir trovano sfogo.

Siamo stati accompagnati in visita a casa di Abu Halil a Dura questa settimana da due ricercatori sul campo di B’Tselem, l’organizzazione israeliana per i diritti umani: Manal al-Ja’bari e Basel al-Adrah. Il trentenne Abu Halil è sposato con la 27enne Bushra ed è padre di Tawfiq di 8 mesi, nato mentre lui era in prigione. Abu Halil lo ha incontrato per la prima volta la scorsa settimana, ma per lui è ancora emotivamente difficile tenere in braccio il neonato.

Abu Halil è laureato in comunicazioni all’università Al-Quds di Abu Dis, adiacente a Gerusalemme, dove è stato attivo nel settore scolastico di Hamas ed è un ex portavoce dell’agenzia palestinese per le comunicazioni cellulari e wireless Jawwal.

Dal suo primo arresto nel 2019 ha passato un periodo totale di 47 mesi nelle carceri israeliane, molti dei quali in “detenzione amministrativa” – in cui il detenuto non è sottoposto a processo. Una volta lo ha trattenuto anche l’Autorità Nazionale Palestinese, ma non ha riferito dell’interrogatorio. Come alcuni dei suoi fratelli Amer è attivista di Hamas, ma non è “una figura di spicco di Hamas”, dice nelle poche parole in ebraico apprese in carcere.

I fratelli: Umar, di 35 anni, vive in Qatar; Imru, che soffre di un tumore, è detenuto nel carcere di Ofer per la sua attività in Hamas e ha passato sette anni in carceri israeliane e 16 mesi in una prigione palestinese; il 23enne Amar è seduto con noi in una veste bianca e una kefiah – è imam della moschea di Dura e spera di ricoprire presto lo stesso ruolo in una moschea in Nord Carolina, dove vorrebbe emigrare. Dal 2013 tutti i fratelli – Amer, Amar, Imru e Umar, non si sono mai seduti insieme a un pranzo di festa. Qualcuno di loro era sempre in carcere.

Una volta Amer Abu Halil è stato convocato per un interrogatorio dal servizio di sicurezza (interna) Shin Bet con una telefonata a suo padre: “Perché ultimamente non sei andato a pregare in moschea?” gli ha chiesto l’agente dello Shin Bet. “La tua tranquillità è sospetta”. “Quando sono tranquillo mi sospettate, quando non lo sono, ugualmente”, ha detto a chi lo interrogava. Ecco come lo hanno “incastrato”, come si suol dire.

È passato da un interrogatorio all’altro fino al 4 dicembre 2022 quando la sua casa è stata devastata nel cuore della notte, lui è stato nuovamente arrestato e nuovamente posto in detenzione amministrativa senza processo. Questa volta è stata per 4 mesi, rinnovati per due volte, ogni volta per ulteriori 4 mesi. Abu Halil doveva essere scarcerato nel novembre 2023. Ma è scoppiata la guerra e nelle carceri è avvenuto un cambiamento radicale. I termini previsti per il rilascio di tutti i prigionieri di Hamas, tra i quali Abu Halil, sono stati prorogati automaticamente e radicalmente.

Nell’ultimo periodo lavorava come cuoco nel braccio del carcere riservato a Hamas. Il giovedì prima dello scoppio della guerra pensava di preparare dei falafel per i 60 detenuti del reparto, ma poi ha deciso di rimandare i falafel a sabato. Venerdì ha tenuto il sermone per le preghiere del pomeriggio ed ha parlato di speranza.

Sabato si è svegliato alle 6 del mattino per preparare i falafel. Ma i detenuti non avevano più il permesso di prepararsi il cibo o tenere sermoni. Poco più tardi Channel 13 trasmette immagini di fuoristrada di Hamas che attraversano Sderot e una pioggia di razzi sparati da Gaza cade nell’area del carcere, che si trova a nord di Gerusalemme, in Cisgiordania. “Allahu akbar” – “Dio è grande” – dicono i prigionieri di conseguenza, come una benedizione. Si sono rifugiati sotto i letti per ripararsi dai razzi; per un attimo hanno pensato che Israele fosse stato conquistato.

Intorno a mezzogiorno sono arrivati gli agenti penitenziari ed hanno requisito tutte le televisioni, le radio e i telefoni cellulari che erano stati fatti entrare di contrabbando. Il mattino seguente non hanno aperto le celle. L’ammanettamento, le percosse e le violenze sono cominciati il 9 ottobre. Il 15 ottobre numerose forze sono entrate nel carcere ed hanno confiscato tutti gli oggetti personali nelle celle, compresi orologi e addirittura l’anello che portava Abu Halil ed era appartenuto al defunto padre. Quello è stato l’inizio di 192 giorni durante i quali non ha potuto cambiarsi d’abito. La sua cella, prevista per ospitare cinque persone, ne conteneva 20, poi 15 e più di recente 10. Molti di loro dormivano sul pavimento.

Il 26 ottobre numerose forze dell’unità Keter del Servizio Penitenziario, un’unità di intervento tattico, accompagnate da cani di cui uno slegato, sono entrate nel carcere. I guardiani e i cani si sono scatenati attaccando i detenuti le cui urla hanno gettato nel terrore l’intera prigione, ricorda Abu Halil. I muri si sono presto imbrattati del sangue dei reclusi. “Voi siete Hamas, voi siete ISIS, avete stuprato, ucciso, rapito e adesso è arrivato il vostro turno”, ha detto una guardia ai prigionieri. I colpi che sono seguiti sono stati brutali, i detenuti sono stati incatenati.

Le percosse sono diventate quotidiane. A volte le guardie chiedevano ai prigionieri di baciare una bandiera israeliana e declamare “Am Yisrael Chai!” – “Il popolo di Israele vive”. Gli si ordinava anche di ingiuriare il profeta Maometto. La solita chiamata alla preghiera nelle celle è stata proibita. I prigionieri avevano paura di pronunciare qualunque parola con la iniziale “h” per timore che le guardie sospettassero che avessero detto “Hamas”.

Il 29 ottobre è stata interrotta la fornitura di acqua corrente nelle celle, tranne che tra le 14 e le 15,30. E a ogni cella veniva concessa solo una bottiglia per riempirla d’acqua per l’intero giorno, che doveva essere spartita tra 10 compagni, compreso l’uso del bagno dentro la cella. Le porte dei bagni erano state eliminate dalle guardie; i detenuti si coprivano con una coperta quando facevano i loro bisogni. Per evitare il fetore nella cella cercavano di trattenersi fino a che l’acqua fosse disponibile.

Durante l’ora e mezza in cui vi era acqua corrente i prigionieri assegnavano cinque minuti nel bagno ad ogni compagno di cella. In assenza di prodotti per la pulizia, pulivano la toilette e il pavimento con il poco shampoo che gli era fornito, usando le mani nude. Non vi era elettricità. Il pranzo consisteva in una piccola scodella di yogurt, due piccole salsicce mezze crude e sette fette di pane. Alla sera ricevevano una ciotolina di riso. A volte le guardie consegnavano il cibo gettandolo in terra.

Il 29 ottobre i detenuti nella cella di Abu Halil hanno chiesto uno straccio per pulire il pavimento. La risposta è stata mandare nella loro cella la terribile unità Keter. “Ora farete come i cani”, ha ordinato la guardia. Le mani dei prigionieri sono state ammanettate dietro la schiena. Anche prima di essere ammanettati è stato loro ordinato di muoversi solo con la schiena curva. Sono stati portati in cucina dove sono stati denudati e costretti a sdraiarsi uno sopra l’altro, una pila di 10 prigionieri nudi. Abu Halil era l’ultimo. Sono stati picchiati con bastoni e gli hanno sputato addosso.

Poi una guardia ha cominciato a infilare carote nell’ano di Abu Halil e degli altri prigionieri. Ora, seduto in casa raccontando la sua storia, Abu Halil abbassa lo sguardo e il flusso di parole rallenta. E’ molto in imbarazzo nel parlarne. Poi, continua, i cani si sono avventati su di loro attaccandoli. Infine gli è stato permesso di mettersi le mutande prima di essere riportati in cella, dove hanno trovato i loro vestiti gettati in un mucchio.

L’altoparlante nella stanza non taceva un secondo, con insulti al leader di Hamas Yahya Sinwar o una prova suono nel mezzo della notte sulle note di “Svegliatevi maiali!”, per privare del sonno i prigionieri. Le guardie druse insultavano e offendevano in arabo. Sono stati sottoposti a controlli con un metal detector mentre erano nudi e lo strumento è stato usato anche per colpire i testicoli. Durante un controllo di sicurezza il 2 novembre sono stati costretti a cantare “Am Yisrael am hazak” (“Il popolo di Israele è un popolo forte”), una variazione sul tema. I cani hanno urinato sui loro sottili materassi, lasciando un’orribile puzza. Un prigioniero, Othman Assi di Salfit, nella Cisgiordania centrale, ha implorato un trattamento meno severo: “Sono disabile”. Le guardie gli hanno detto: “Qui nessuno è disabile”, ma hanno acconsentito a togliergli le manette.

Ma il peggio doveva ancora arrivare.

5 novembre. Era una domenica pomeriggio, ricorda. L’amministrazione ha deciso di spostare i prigionieri di Hamas dal blocco 5 al blocco 6. I detenuti delle celle 10, 11 e 12 sono stati fatti uscire con le mani legate dietro la schiena e la solita camminata curva. Cinque guardie, i cui nomi Abu Halil riferisce, li hanno portati nella cucina. Sono stati nuovamente denudati. Questa volta sono stati presi a calci sui testicoli. Le guardie gli si avventavano addosso e colpivano, ancora ed ancora. Una brutalità senza tregua per 25 minuti. “Noi siamo Bruce Lee”, gridavano le guardie. Li hanno sbattuti e spinti come palle da un angolo all’altro della stanza, poi li hanno spostati nelle loro nuove celle del blocco 6.

Le guardie sostenevano di aver sentito Abu Halil dire una preghiera per Gaza. A sera l’unità Keter è entrata nella sua cella e ha cominciato a picchiare tutti, compreso il 51enne Ibrahim al-Zir di Betlemme, che è ancora in prigione. Aveva un occhio quasi fuori dall’orbita per i colpi. Poi i prigionieri sono stati fatti stendere a terra mentre le guardie li calpestavano. Abu Halil ha perso conoscenza. Due giorni dopo c’è stato un altro pestaggio ed è nuovamente svenuto. “Questa è la vostra seconda Nakba”, hanno detto le guardie, riferendosi alla catastrofe subita dai palestinesi quando fu fondato Israele. Una delle guardie ha colpito Abu Halil alla testa con un elmetto.

Tra il 15 e il 18 novembre sono stati picchiati tre volte al giorno. Il 18 novembre le guardie hanno chiesto chi di loro fosse di Hamas e nessuno ha risposto. I colpi non hanno tardato ad arrivare. Poi è stato chiesto “Chi di voi è Bassam?” Di nuovo nessuno ha risposto, perché nessuno di loro si chiamava Bassam – e di nuovo è stata chiamata l’unità Keter. Sono arrivati la sera. Abu Halil dice che questa volta è svenuto prima che lo colpissero, per lo spavento.

In quel periodo Tair Abu Asab, un prigioniero di 38 anni, è morto nel carcere di Ketziot. Si sospetta che sia stato picchiato a morte dalle guardie per aver rifiutato di chinare la testa come ordinato. 19 guardie sono state trattenute per essere interrogate col sospetto di aver aggredito Abu Asab. Tutte sono state rilasciate senza accuse.

In risposta ad una richiesta di commento, questa settimana il portavoce del Servizio Penitenziario ha inviato a Haaretz la seguente dichiarazione:

L’Autorità Penitenziaria è una delle organizzazioni di sicurezza di Israele ed agisce secondo la legge, sotto la stretta supervisione di molte autorità di controllo. Tutti i prigionieri sono trattenuti secondo la legge e con rigorosa protezione dei loro diritti fondamentali sotto la supervisione di un personale penitenziario professionale e qualificato.

Non conosciamo le denunce descritte (nel vostro articolo) e per quanto ne sappiamo non sono corrette. Tuttavia ogni prigioniero e detenuto ha il diritto di lamentarsi tramite i canali riconosciuti e i loro reclami verranno esaminati. L’organizzazione opera sulla base di una chiara politica di tolleranza zero di ogni azione che violi i valori del Servizio Penitenziario.

Riguardo alla morte del prigioniero dovreste contattare l’unità per le indagini degli agenti carcerari.”

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)