La censura militare israeliana blocca il più alto numero di articoli in oltre un decennio

Haggai Matar

20 maggio 2024 – +972 Magazine

Il brusco aumento della censura nei media nel 2023 si verifica mentre il governo israeliano pregiudica ulteriormente la libertà di stampa, soprattutto durante la guerra a Gaza.

Nel 2023 la censura militare israeliana ha bloccato la pubblicazione di 613 articoli di organi di informazione in Israele, segnando un nuovo record a partire da quando +972 Magazine ha iniziato a raccogliere dati nel 2011. La censura ha anche eliminato parte di ulteriori 2.703 articoli, la cifra più alta dal 2014. Complessivamente l’esercito ha impedito la pubblicazione di informazioni in media 9 volte al giorno.

Questi dati sulla censura sono stati forniti dal censore militare in risposta ad una richiesta sulla libertà di informazione avanzata da +972 Magazine e dal Movimento per la Libertà di Informazione in Israele.

La legge israeliana impone a tutti i giornalisti che lavorano in Israele o per una pubblicazione israeliana di sottoporre ogni articolo che abbia a che fare con “questioni di sicurezza” alla censura militare per il controllo preventivo alla pubblicazione, come previsto dai “regolamenti di emergenza” promulgati dopo la creazione di Israele e tuttora in vigore. Questi regolamenti consentono alla censura di eliminare totalmente o parzialmente gli articoli ad essa sottoposti, come anche quelli già pubblicati senza il suo controllo. In nessun’altra “democrazia occidentale” che si definisca tale esiste una simile istituzione.

Per evitare interferenze arbitrarie o politiche l’Alta Corte nel 1989 ha stabilito che la censura può intervenire solo quando vi sia “una quasi certezza che possa derivare un reale danno alla sicurezza dello Stato” dalla pubblicazione di un articolo. Tuttavia la definizione da parte della censura di “questioni di sicurezza” è molto ampia, dettagliata in 6 pagine fitte di sottotemi relativi all’esercito, alle agenzie di intelligence, al commercio di armi, ai detenuti amministrativi, ad aspetti degli affari esteri di Israele, ed altro ancora. Come riferito da The Intercept (agenzia no profit americana di informazioni online, ndtr.), all’inizio della guerra la censura ha distribuito linee guida più specifiche riguardo a quali tipi di nuovi argomenti debbano essere sottoposti al controllo prima della pubblicazione.

Cosa sottomettere alla censura è una scelta del direttore di una pubblicazione e gli organi di informazione non possono rivelare l’interferenza della censura – per esempio segnalando dove un articolo è stato censurato – cosa che lascia nell’ombra la maggior parte della sua attività. La censura ha l’autorità di incriminare i giornalisti e di multare, sospendere, chiudere o addirittura sporgere denunce penali contro organi di informazione. Tuttavia non vi sono casi conosciuti di tale attività negli ultimi anni e la nostra richiesta al censore di specificare le denunce presentate lo scorso anno non ha ricevuto risposta.

Per ulteriori informazioni sulla censura militare israeliana e sulla posizione di +972 Magazine nei suoi confronti si può leggere la lettera che abbiamo indirizzato ai nostri lettori nel 2016.

L’informazione relativa alla censura è di particolare importanza, soprattutto in periodi di emergenza”, ha detto a +972 l’avvocato Or Sadan del Movimento per la Libertà di Informazione. “Durante la guerra abbiamo osservato l’ampio divario tra gli organi di informazione israeliani e internazionali, come anche tra i media tradizionali e i social media. Benché sia ovvio che vi siano informazioni che non possono essere rivelate al pubblico in periodi di emergenza, è opportuno per il pubblico essere a conoscenza dell’ampiezza delle informazioni tenute nascoste.

La rilevanza di tale censura è chiara: c’è una gran quantità di informazioni che i giornalisti hanno ritenuto adatte alla pubblicazione, riconoscendo la loro importanza per il pubblico, che la censura ha scelto di non autorizzare”, continua Sadan. “Speriamo e crediamo che la rivelazione di questi numeri, anno dopo anno, creeranno qualche disincentivo all’uso incontrollato di questo strumento.”

Una tendenza in tempo di guerra

Anche se il censore ha respinto la nostra richiesta di fornire un’analisi delle cifre della censura per mese, per organo di informazione e per ambiti di interferenza, è chiaro che la ragione del picco dell’ultimo anno è l’attacco di Hamas del 7 ottobre e il conseguente bombardamento israeliano di Gaza. L’unico anno in cui vi è stato un analogo livello di censura è il 2014, quando Israele scatenò quello che allora fu il più vasto attacco alla Striscia: in quell’anno la censura intervenne in un numero maggiore di articoli (3.122), ma ne eliminò leggermente meno (597) rispetto al 2023.

L’anno scorso i rappresentanti della censura hanno anche effettuato visite di persona negli studi televisivi di notizie, come è accaduto precedentemente in periodi in cui il governo ha dichiarato lo stato di emergenza e continuava a monitorare le reti di informazione e social per violazioni della censura. Il censore ha rifiutato di dettagliare l’ampiezza del proprio coinvolgimento nelle produzioni televisive e il numero degli interventi retroattivi effettuati riguardo ad articoli pubblicati in precedenza.

Sappiamo comunque, grazie alle informazioni rivelate da The Seventh Eye (l’unica rivista israeliana indipendente che monitorizza la libertà di informazione, ndtr.), che nonostante l’attiva accondiscendenza dei media israeliani – il numero delle presentazioni alla censura è quasi raddoppiato l’anno scorso fino a 10.527 – il censore ha identificato ulteriori 3.415 articoli contenenti informazioni che avrebbero dovuto essere sottoposte a controllo e 414 che sono stati pubblicati in violazione delle sue disposizioni.

Anche prima della guerra il governo israeliano aveva sviluppato una serie di misure per indebolire l’indipendenza dei media. Questo ha portato Israele ad una discesa di 11 posti nell’annuale Indice Mondiale della Libertà di Stampa per il 2023, seguita da un’ulteriore discesa di quattro posti nel 2024 (adesso si trova al posto 101 su 180).

Da ottobre la libertà di stampa in Israele è peggiorata ulteriormente e il censore si è trovato nel mirino di battaglie politiche. Secondo i rapporti dell’emittente pubblica di Israele, Kan, il primo ministro Benjamin Netanyahu ha spinto per una nuova legge che obbligherebbe il censore a bloccare in maniera più estesa le notizie ed ha anche suggerito che i giornalisti che pubblicano rapporti sul gabinetto di sicurezza senza l’approvazione della censura dovrebbero essere arrestati. Il capo della censura militare, general maggiore Kobi Mandelblit, ha anche sostenuto che Netanyahu gli aveva fatto pressione perché ampliasse la censura sui media, persino in casi che non avevano alcuna giustificazione in termini di sicurezza.

In altri casi le misure restrittive del governo israeliano sui media hanno interamente bypassato la censura e le sue attività. A novembre il ministro delle comunicazioni Shlomo Karhi ha escluso Al-Mayadeen dalla diffusione sulla TV israeliana e in aprile la Knesset ha approvato una legge per vietare le attività di media stranieri su raccomandazione delle agenzie per la sicurezza. Il governo ha applicato la legge all’inizio di questo mese quando il gabinetto ha votato all’unanimità per chiudere Al Jazeera in Israele e la chiusura sembra che sarà estesa anche alla Cisgiordania. Lo Stato sostiene che il canale qatariota metta in pericolo la sicurezza dello Stato e collabori con Hamas, cosa che il canale nega.

La decisione non danneggerà l’operatività di Al Jazeera al di fuori di Israele, né impedirà interviste con israeliani via Zoom (rivelazione: a volte chi scrive rilascia interviste a Al Jazeera via Zoom) e gli israeliani possono ancora accedere al canale tramite reti private virtuali e antenne satellitari. Ma i giornalisti di Al Jazeera non potranno più inviare corrispondenze dall’interno di Israele, cosa che ridurrà la possibilità del canale di dare rilievo a voci israeliane nei suoi reportage.

L’Associazione per i Diritti Civili in Israele e Al Jazeera hanno presentato una petizione all’Alta Corte contro la decisione e anche l’Unione dei Giornalisti ha rilasciato una dichiarazione contro la decisione del governo (rivelazione: chi scrive è membro del consiglio di amministrazione dell’Unione).

Nonostante questi attacchi ai media, le minacce più gravi poste dal governo e dall’esercito israeliano, in particolare durante la guerra, sono quelle ai giornalisti palestinesi. I dati sul numero di giornalisti palestinesi a Gaza uccisi dagli attacchi israeliani dal 7 ottobre vanno da 100 (secondo il Comitato per la Protezione dei Giornalisti) a oltre 130 (secondo il Sindacato dei Giornalisti Palestinesi). Quattro giornalisti israeliani sono stati uccisi negli attacchi del 7 ottobre.

L’aumentata interferenza del governo nei media israeliani non assolve la stampa ufficiale dalla mancanza di informazione sulla campagna dell’esercito di distruzione di Gaza. La censura militare non impedisce alle pubblicazioni israeliane di descrivere le conseguenze della guerra per i civili palestinesi a Gaza o di presentare il lavoro dei giornalisti palestinesi all’interno della Striscia. La scelta di negare al pubblico israeliano le immagini, le voci e le storie di centinaia di migliaia di famiglie in lutto, orfani, feriti, senza casa e persone affamate è una scelta che i giornalisti israeliani fanno in prima persona.

In collaborazione con Local Call

Haggai Matar è un giornalista israeliano vincitore di premi e un attivista politico ed è direttore esecutivo di +972Magazine.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Di questo passo Israele non arriverà al centesimo compleanno

Meirav Arlosoroff

19 maggio 2024, Haaretz

Nel loro ultimo saggio gli esperti di politiche di governo Eugene Kandel e Ron Tzur segnalano come l’élite israeliana fuggirà dal paese quando vedrà che le varie “tribù” non riescono a mettersi d’accordo su un contratto sociale

Il 76esimo Giorno dell’Indipendenza di Israele, la scorsa settimana, è stato il Giorno dell’Indipendenza più triste e cupo dalla fondazione dello Stato. Invece di festeggiare, le persone si chiedevano: e dopo? Israele uscirà dalla crisi e vivrà fino a celebrare il centenario?

La risposta è no, non nella direzione in cui sta andando. È questa la conclusione di uno straordinario documento che delinea una nuova visione di Israele, redatto dal prof. Eugene Kandel e da un altro esperto di politiche di governo, Ron Tzur.

Per sei anni Kandel ha guidato il Consiglio Economico Nazionale presso l’ufficio del primo ministro ed è stato molto vicino al primo ministro Benjamin Netanyahu. Tzur è stato un alto funzionario sia della Commissione per l’Energia Atomica che della Commissione per il Servizio Civile.

Come dice Tzur, “Noi condividiamo una rara conoscenza degli architetti del sistema”.

Scrivono che “Nello scenario di business as usual dell’attuale configurazione politica c’è una buona probabilità che Israele non sopravviverà come Stato ebraico sovrano nei prossimi decenni”.

E sostengono che “Dopo il tentativo del governo lo scorso anno di indebolire il sistema giudiziario, seguìto al sud dal massacro di Hamas, è emerso il quadro di un totale fallimento del sistema, della gestione e delle azioni dell’amministrazione… e non si tratta della debacle di un singolo settore… piuttosto di un collasso.”

Kandel e Tzur cercano quindi di spingere l’opinione pubblica ad agire perché sia chiaro che è necessario un cambiamento drastico. “Nell’odierno regime politico israeliano non c’è alcuna possibilità di porre fine alla guerra interna”, scrivono. “Dopo il terribile disastro e il conseguente collasso funzionale, non è più possibile agire all’interno dello stesso quadro e aspettarsi risultati migliori.”

Kandel e Tzur osservano la divisione di Israele in fazioni che si combattono per imporre all’intero Stato la loro visione del mondo. Molte persone sperano che questa guerra di identità finisca, ma il divario è troppo ampio. Quindi gli autori prospettano che una volta finita la guerra di Gaza la lotta intestina riprenderà con massima forza.

Ad esempio, se uno dei due schieramenti ottiene la maggioranza alla Knesset, cercherà di imporre la sua visione del mondo a tutti gli altri, come è accaduto con il tentativo di revisione giudiziaria. Non c’è spazio per il compromesso. Tutto ciò alimenta la disintegrazione della società e porterà inevitabilmente ad un abbandono di massa dello Stato.

Tre sfide

Il documento presenta le tre sfide esistenziali di Israele. La prima è economica: l’esistenza di tre gruppi che vengono finanziati a discapito degli altri. Questi sono gli ultraortodossi – gli haredim – la comunità araba e i coloni. Nessuno dei tre è in grado o disposto a finanziare da sé il proprio stile di vita.

Secondo Kandel e Tzur, nel 2018 l’intero sussidio dal bilancio nazionale per gli haredim è stato di 20 miliardi di shekel (oltre 5 milioni di euro) e per la comunità araba di 25 miliardi di shekel. (I coloni non sono considerati un gruppo nel bilancio nazionale) In realtà, a causa delle differenze di dimensione dei popoli, le spese per gli ultra-ortodossi sono quasi il doppio: ogni famiglia Haredi riceve 120.000 shekel (30.000 € ca) all’anno in finanziamenti o sussidi e ogni famiglia araba 65.000 shekel.

Questo denaro viene pagato dalle famiglie ebree non Haredi, 20.000 shekel all’anno, ma si prevede che questa cifra aumenterà perché si prevede che la comunità ultra-ortodossa triplicherà le sue dimensioni entro il 2065. Quindi i 20.000 shekel aumenteranno fino a 60.000, alle previsioni odierne. A ciò si aggiunge il previsto aumento del bilancio della difesa – un peso irragionevole imposto alla popolazione maggiormente produttiva e contribuente di Israele.

La seconda sfida è lo scontro di valori. L’ex presidente Reuven Rivlin ha coniato il concetto delle “quattro tribù” e ha invocato un nuovo contratto sociale su cui tutte e quattro siano d’accordo. Ma Kandel e Tzur non sono d’accordo con Rivlin; dicono che ci sono solo tre tribù e che non c’è alcuna possibilità che si accordino su un contratto sociale.

Le tre tribù principali sarebbero: la prima costituita dal popolo dello Stato ebraico-democratico-liberale che vuole vivere come in una democrazia occidentale. Gli autori stimano che la grande maggioranza degli israeliani, compresi gli arabi israeliani e molti ebrei religiosi, si identifichino con questa tribù.

I membri della seconda tribù sostengono uno Stato della Torah. Gli ultra-ortodossi, la fazione di destra della comunità religiosa sionista (gli hardalim) e la fazione di destra degli ebrei religiosi non haredi probabilmente sceglierebbero di vivere secondo le leggi di questa tribù. Preferirebbero le sentenze dei rabbini ai valori e alle leggi democratiche.

I membri della terza tribù si oppongono all’esistenza di uno Stato ebraico e preferirebbero uno Stato per tutti i cittadini. Kandel e Tzur stimano che gran parte della comunità araba, nonostante il nazionalismo arabo, preferisca i valori della tribù democratico-liberale.

In ogni caso Kandel e Tzur ritengono che il divario non possa più essere colmato. Scrivono che, una volta iniziato lo scontro sulla revisione giudiziaria, è diventato chiaro a molti che “le concezioni di identità e le visioni dei due principali gruppi ebraici si scontrano e sono addirittura inconciliabili”. Si è imposta la mentalità “noi o loro”.

Questo scontro è totale, poiché ogni fazione ha la sensazione che l’altro gruppo stia imponendo i propri valori con la forza.

“La guerra per la nazione, per l’identità e i valori di ognuno contro tutti gli altri rappresenta una minaccia esistenziale per il Paese, perché una tale guerra non può essere fermata senza un marcato cambiamento nei sentimenti di tutte le parti”, scrivono gli autori. Ci deve essere “un ritorno alla sensazione che non vi sia alcun pericolo per i valori di nessuno dei diversi gruppi identitari”.

Kandel e Tzur aggiungono che sarebbero felici si raggiungesse un compromesso “basato sul dialogo in una visione condivisa, soprattutto dopo la terribile perdita che abbiamo subito il 7 ottobre”. Ma dicono che anche prima di quella tragedia “la nostra analisi non dava molte speranze in un compromesso tra valori opposti, e, a nostro avviso, ancor meno dopo la fine dei combattimenti”.

Sostengono che i dati demografici della comunità ultraortodossa determineranno l’indirizzo di uno Stato nazionalista basato sulla Torah. Si prevede che gli israeliani produttivi, che credono nei valori liberali sia eticamente che economicamente, perderanno.

Kandel e Tzur prevedono un’emigrazione di massa dell’élite produttiva israeliana, quasi una corsa agli sportelli. Tra un decennio o due in Israele ci sarà una corsa. L’élite semplicemente fuggirà.

“Questo genere di processo può ribollire per anni, ma se accade è probabile che sia acuto e veloce, come una corsa agli sportelli. Quando arriva la decisione di andarsene, c’è un vantaggio nel farlo prima della grande ondata,” scrivono gli autori.

“Sarà più facile per i primi andarsene senza danni finanziari, mentre coloro che tenteranno di emigrare più tardi subiranno delle perdite poiché l’economia si contrarrà, il valore dei loro beni diminuirà e verranno imposte restrizioni al trasferimento di denaro all’estero. … Sono le persone che reggono l’alta tecnologia, la medicina, il mondo accademico e parti importanti dell’establishment della difesa. La maggior parte di loro ha interessanti opportunità di lavoro all’estero, e alcuni hanno già preso in considerazione l’opzione di immigrare”.

Senza questa élite, Israele subirà un declino socioeconomico e nella sicurezza. La partenza di 20.000 menti critiche sarebbe sufficiente perché Israele rimanga senza alta tecnologia, mondo accademico e sicurezza.

“Molti politici hanno affermato dalla tribuna parlamentare che il paese potrebbe farcela senza i piloti, gli esperti dell’alta tecnologia e i membri di altri gruppi dell’elite'”, scrivono gli autori. “Oggi più che mai, l’arroganza di queste affermazioni è chiara, perché la spina dorsale esistenziale di Israele dipende da un gruppo relativamente piccolo di persone. Senza di esse non è semplicemente possibile sostenere il paese nel tempo”.

L’abbandono di questa élite significherà la fine della crescita economica, ed eroderà il tenore di vita. E non basta. “Il 7 ottobre ci ha dimostrato il terribile costo da pagare quando la percezione del nemico è che Israele sia debole”, scrivono Kandel e Tzur. “Un ulteriore indebolimento potrebbe comportare sfide alla sicurezza più estreme e gravi”, persino “il collasso di Israele e la fine del sogno sionista”.

L’apatia del pubblico

Sì, la fine del sogno sionista. Questa è la previsione di Kandel e Tzur, e la cosa scioccante è la terza sfida: poche persone si accorgono di questo pericolo esistenziale, e dunque nessun politico muove un dito per prevenirlo.

Questa è una minaccia esistenziale più grande dell’Iran, scrivono gli autori. Similmente al destino di Gerusalemme – abbandonata dalla comunità laico-liberale, rimasta una città povera che ha bisogno del denaro statale per sopravvivere – Israele è suscettibile di abbandono. Ma nel caso di Israele non ci sarà un ente superiore che possa erogare budget.

Quindi Kandel e Tzur mirano ora a risvegliare gli elettori israeliani affinché comprendano che dipende solo da loro. Invece di preoccuparsi delle dicotomie sinistra-destra, laico-religioso, l’elettore israeliano dovrebbe concentrarsi sulla questione centrale: come evitare che lo Stato di Israele imploda a causa delle ampie spaccature interne.

Gli autori elencano tre obiettivi a cui gli elettori israeliani dovrebbero aspirare. Il primo è un profondo cambiamento nelle priorità politiche, un cambiamento che non avverrà a meno che gli elettori non lo impongano ai funzionari da loro eletti. “Non voteremo mai più per coloro che ci distruggono”, dice Tzur.

“Noi non siamo la base di nessuno, né di destra né di sinistra, e ne abbiamo abbastanza di essere trattati da imbecilli. Voteremo solo per chi ci spiegherà cosa intende fare, come intende costituire un governo ampio, ripristinare la fiducia della gente, consolidare la società, riabilitare il servizio pubblico e rafforzare l’economia e la difesa”.

C’è bisogno di un cambiamento profondo anche nel modo in cui Israele è governato. “L’attuale struttura governativa e politica incoraggia e perpetua gli schemi distruttivi in cui si trova Israele”, scrivono gli autori.

“Il sistema esistente induce i funzionari eletti ad agire in modo divisivo e indirizzato al conflitto, per alzare la bandiera della ‘vittoria’ di una parte sull’altra. … La soluzione deve garantire che nessun gruppo abbia la capacità di imporre i propri valori a chiunque altro.” È inoltre necessario un profondo cambiamento economico affinché tutti i segmenti della società possano sostenersi da soli.

La radicale soluzione di Kandel e Tzur sarà presto pubblicata insieme ad altre proposte in un progetto del Jerusalem Institute for Policy Research. Il progetto è stato gestito da Ehud Prawer, ex capo del gruppo Società e Popolazione presso l’ufficio del primo ministro – un altro israeliano con grande esperienza nell’amministrazione di governo.

Come dice Tzur: “Non siamo disposti ad arrenderci. Entrambi siamo diventati nonni l’anno scorso e siamo entrambi completamente impegnati a continuare qui la catena generazionale non solo delle nostre famiglie ma dell’intero popolo. Da nessun’altra parte.”

Ma nessuna soluzione sarà possibile se gli elettori israeliani non cambieranno la loro percezione e non si renderanno conto che le minacce all’esistenza di Israele provengono dall’interno. I politici devono proporre piani coraggiosi per confrontarsi con loro.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




La Spagna non permetterà che le armi destinate ad Israele si fermino nei suoi porti

Redazione di Middle East Monitor

17 maggio 2024 – Middle East Monitor

Secondo l’agenzia Reuters oggi il ministro degli Esteri José Manuel Albares ha affermato che la Spagna non autorizzerà navi che trasportano armi per Israele facciano scalo nei suoi porti, dopo che lo Stato ha rifiutato a una nave di attraccare nel porto di Cartagena, a sud-est.

Venerdì il ministro spagnolo ha spiegato in una conferenza stampa: “Questa è la prima volta che lo abbiamo fatto perché è la prima volta che abbiamo individuato una nave che trasportava un carico di armi destinato ad Israele che voleva attraccare in un porto spagnolo.”

Albares ha sottolineato che la sua Nazione “farà la stessa cosa per ogni nave che trasporti armi in Israele che voglia attraccare in un porto spagnolo. Il ministero degli Esteri rifiuterà sistematicamente queste operazioni di attracco per una chiara ragione. Il Medio Oriente non ha bisogno di più armi, ha bisogno di più pace.”

Albares ha fatto notare che la nave è stata la prima a cui è stato impedito di attraccare in un porto spagnolo, osservando che questo è coerente con la decisione del governo di non rilasciare licenze per esportare armi verso Israele dal 7 ottobre, perché la Spagna non vuole contribuire alla guerra.

La Spagna è stato uno dei più espliciti e insistenti critici europei del modo in cui Israele ha portato avanti la sua guerra contro Gaza, affermando che rifiuta “l’uccisione indiscriminata di palestinesi a Gaza e in Cisgiordania.”

Madrid si è impegnata a riconoscere lo Stato di Palestina entro luglio.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Un’organizzazione legata a Israele guida la reazione contro le proteste studentesche

James Bamford

16 maggio 2024 – The Nation

L’Israeli-American Council ha lavorato per anni con le agenzie di intelligence israeliane. Lo scorso mese i suoi dirigenti hanno giurato di far sgombrare l’accampamento all’UCLA.

Era ormai tempo di reagire contro i campus dei college americani. E il poco noto Israeli-American Council [Consiglio Israelo-Americano] (IAC), un’organizzazione che ha stretti rapporti con l’intelligence israeliana e composta per lo più da israeliani espatriati, ha deciso che avrebbe guidato la carica in tutto il Paese. Domenica 28 aprile, quando alcuni membri del gruppo sono arrivati sul prato della Dickson Plaza all’UCLA, il presidente dell’IAC, Elan Carr, è salito sul palco. Politico repubblicano, ex-membro del consiglio nazionale dell’AIPAC [principale organizzazione della lobby filo-israeliana negli USA, ndt.] e consigliere speciale dell’amministrazione Trump per monitorare e combattere l’antisemitismo, ha avuto una scarsa considerazione nei confronti di chiunque avesse screditato Israele. Nel passato ha paragonato l’appello al boicottaggio economico di Israele alle azioni dei nazisti. E ha affermato che il gruppo Jewish Voice for Peace [Voci ebraiche per la pace, organizzazione di ebrei statunitensi antisionisti, ndt.], i cui membri hanno preso parte alle proteste, “è coinvolto nell’antisemitismo.”

Tra quanti si sono rivolti alla folla di contromanifestanti che sventolavano bandiere israeliane proprio davanti all’accampamento dei dimostranti filo-palestinesi, c’era il console generale di Israele per il Pacifico sudoccidentale, Israel Bachar. Ha parlato anche Jonathan Greenblatt, presidente dell’Anti-Defamation League [altra importante associazione della lobby filoisraeliana, ndt.]. Poi è arrivato Carr, che ha annunciato l’inizio della lotta. “Ci riprenderemo le nostre strade. Ci riprenderemo i nostri campus, dalla Columbia University all’UCLA o ovunque tra l’una e l’altra,” ha affermato. La domanda è: data la lunga storia di stretti rapporti dell’IAC con le organizzazioni dell’intelligence israeliana, per chi si stanno riprendendo i campus?

Durante il raduno un sostenitore di Israele ha estratto un coltello a serramanico e ha squarciato un manifesto filopalestinese mentre altri si scontravano con manifestanti filopalestinesi e il volto di un dimostrante si è coperto di sangue. Quella mattina presto alcuni contromanifestanti hanno tentato di arrampicarsi sulle barricate dell’accampamento filopalestinese e una guardia di sicurezza è stata cosparsa con uno spray urticante. Danielle Carr, un’assistente universitaria, ha detto di aver assistito a un’aggressione “veramente incredibile” contro i dimostranti filopalestinesi.

In precedenza il gruppo aveva allestito un enorme schermo chiaramente visibile dall’accampamento. Avrebbero iniziato una tecnica di guerra psicologica simile a quella utilizzata dall’esercito USA contro i presunti terroristi a Guantanamo. Un ispettore dell’FBI assegnato al campo di detenzione ha raccontato in un memorandum di aver visto una volta un “detenuto seduto per terra nella stanza degli interrogatori avvolto in una bandiera israeliana, con musica a tutto volume e una luce stroboscopica lampeggiante.” L’ispettore è uscito dalla stanza, notando in un rapporto che la sua opinione era che “tali tecniche non fossero autorizzate né approvate dalle regole dell’FBI.”

A quanto pare queste regole non si applicano all’IAC. Durante il raduno hanno sparato a tutto volume l’inno nazionale israeliano e poi sullo schermo gigante sistemato dai contromanifestanti hanno proiettato a volume altissimo duri video dei miliziani di Hamas. Secondo il Los Angeles Times i video includevano anche “un fiume di inquietanti suoni assordanti – lo stridio di un’aquila, il pianto di un bambino – con uno stereo e sparato a tutto volume in continuazione una versione in ebraico della canzone “Baby Shark” [canzoncina per bambini, ndt.] a notte fonda in modo che chi era accampato non potesse dormire. “Sfortunatamente abbiamo sperimentato maltrattamenti e il terrore notturni che possono veramente sconvolgere,” ha detto a un giornalista un dottorando ventottenne che era nell’accampamento.

Poi solo due giorni dopo i contromanifestanti filoisraeliani sono tornati per adempiere all’impegno dell’IAC di sgomberare l’accampamento con quelle che la prorettrice dell’università Mary Osako ha definito “orribili violenze.” Alle 22:48 il gruppo filoisraeliano si è avvicinato all’accampamento e ha scandito “Harbu Darbu”, un inno di guerra israeliano che chiede vendetta per il 7 ottobre. Lo scrittore di Los Angeles Piper French ha affermato che i sostenitori di Israele hanno proiettato “immagini raccapriccianti degli attacchi del 7 ottobre. Hanno anche fatto sentire in continuazione una canzone per bambini che i soldati dell’esercito israeliano pare abbiano fatto ascoltare per ore e ore a volume altissimo ai prigionieri palestinesi come forma di tortura,” così come una canzone israeliana sulla campagna delle Forze di Difesa Israeliane a Gaza. Poi sono ritornati dopo mezzanotte.

Hanno subito iniziato a demolire le barriere che proteggevano i manifestanti filopalestinesi ed hanno aggredito brutalmente quelli che si trovavano all’interno. “Le violenze sono state istigate da decine di persone che nei video si vedono manifestare contro l’accampamento,” afferma un’inchiesta del New York Times dopo aver rivisto più di 100 filmati. “Le immagini mostrano contromanifestanti che aggrediscono per varie ore studenti nell’accampamento filopalestinese, anche picchiandoli con bastoni, usando spray chimici e lanciando fuochi d’artificio come proiettili… Uno è stato lanciato in direzione di un gruppo di dimostranti che stavano trasportando un ferito fuori dall’accampamento.”

Altri a volto coperto hanno attaccato con assi di legno, tubi di plastica, pali di ferro, spray urticanti e anti-orso. Secondo Piper French “una folla di uomini… ha agitato bastoni di legno chiodati e proferito minacce di morte e stupro. Hanno preso a pugni e colpito con mazze quattro studenti di giornalismo, ne hanno buttato a terra uno e lo hanno colpito a lungo.” Venticinque manifestanti filopalestinesi sono stati portati in ospedale.

E non c’è stato nessun intervento da parte della polizia locale, che stranamente ha aspettato più di tre ore e mezza prima di interrompere la violenza di una parte sola. “Un’orda di vigilantes antipalestinesi ha attaccato l’accampamento degli studenti,” ha affermato un articolo sul sito web di Jewish Voice for Peace. “La sicurezza del campus, LAPD, e il personale sono rimasti a guardare mentre la folla che sventolava bandiere israeliane ha assalito l’accampamento, colpendo studenti con oggetti contundenti, lanciando contro di loro fuochi artificiali e li ha aggrediti con armi chimiche, provocando decine di feriti gravi.” La violenza è continuata “per ore e ore, senza che qualcuno intervenisse,” ha affermato Bharat Venkat, un professore associato. “Ho pensato che sarebbe stato ucciso uno studente.”

Tra i poliziotti c’era Aaron Cohen, un ben noto istruttore della polizia civile che insegna le tattiche israeliane di contro-intelligence. A un certo punto si è mascherato con una kefiah, la tradizionale sciarpa palestinese a scacchi, che ha nascosto il suo volto tranne gli occhi, e si è infiltrato nell’accampamento. Secondo il suo sito web, Cohen in precedenza ha lavorato per l’israeliana mista’aravim, o unità “araba”, un gruppo “specificamente addestrato per infiltrarsi tra la popolazione araba locale e… incaricata di arresti ad alto rischio di terroristi, raccolta di informazioni e assassinii mirati, che utilizza il camuffamento e la sorpresa come sua arma principale.”

In seguito ha detto: “Così la notte scorsa ho fatto una piccola indagine speciale… Quindi ho tirato fuori la vecchia kefiah, che è diventata il nuovo simbolo nazista degli intellettuali, me la sono messa intorno al volto nel modo giusto … e sono entrato nell’UCLA appena ha fatto buio e mi sono infiltrato proprio in quell’accampamento. Ho passato circa un’ora lì in giro nel perimetro.” Ha detto di essere stato invitato a entrare nell’ufficio dello sceriffo “dietro il filo divisorio con il loro gruppo di risposta rapida,” una chiara indicazione degli stretti rapporti tra ex membri dell’intelligence israeliana e le forze dell’ordine USA.

L’Israeli-American Council è nato nel 2006 sul tovagliolo di carta di un ristorante, molto prima delle proteste e manifestazioni nel campus dell’UCLA. È stata un’idea del console generale israeliano a Los Angeles dell’epoca, Ehud Danoch. Voleva riunire la grande popolazione di espatriati israeliani negli USA, quindi formare un potente gruppo di pressione in appoggio alle politiche del governo israeliano. Tra i suoi principali fondatori c’era Adam Milstein, ex presidente nazionale e attuale membro del consiglio di amministrazione nato in Israele e immobiliarista multimiliardario, nonché criminale, di Los Angeles.

Nel 2008 si dichiarò colpevole e venne incarcerato per due accuse di evasione delle tasse federali. Faceva parte di una complessa trama guidata da un gran rabbino di New York, estesa da Israele a New York e Los Angeles. Utilizzava false associazioni benefiche, tra cui una yeshiva, scuola ebraica ortodossa, per evadere tasse e riciclare milioni di dollari. Gli investigatori la definirono “un’impressionante struttura e un’attività sinistra.” E l’IRS [agenzia delle entrate USA, ndt.] disse: “Non si è trattato di un caso riguardante la religione, la tradizione o le donazioni benefiche. Si è trattato solo di un caso di avidità.” Subito dopo il suo rilascio Milstein fece una richiesta piuttosto strana al ministero della Giustizia. Voleva andare in Israele dove, tra le altre cose, avrebbe voluto “incontrare il primo ministro israeliano” Benjamin Netanyahu. Il ministero della Giustizia accolse la sua richiesta.

L’IAC è stato generosamente finanziato e guidato per anni dal supermiliardario di Las Vegas Sheldon Adelson, il principale donatore della campagna elettorale di Trump nel 2020. L’organizzazione è anche riuscita ad avere stretti legami con l’intelligence israeliana. Per anni il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu è stato sempre più preoccupato per il crescente attivismo filopalestinese nei campus dei college statunitensi e soprattutto del movimento per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni contro Israele. Più il movimento prendeva piede nei campus, più Netanyahu era preoccupato di perdere i miliardi in aiuti dell’America e il suo fondamentale appoggio alle Nazioni Unite. Di conseguenza ha nominato Gilad Erdan, suo stretto collaboratore, come responsabile del tenebroso ministero degli Affari Strategici, con la principale priorità di lanciare operazioni sotto copertura negli USA per reprimere il movimento filopalestinese e dare segretamente la caccia in ogni modo possibile ai suoi sostenitori.

Il quartier generale di Erdan era nascosto al 29esimo piano di un grattacielo di uffici, la Champion Tower, nel quartiere di Bnei Brak a Tel Aviv. E nel 2016 la vice di Erdan nel ministero, la direttrice generale Sima Vaknin-Gil, disse a una commissione governativa che l’obiettivo del suo ministero era perseguitare il movimento di boicottaggio filopalestinese negli USA in modo che la “narrazione del mondo non fosse che Israele equivale all’apartheid.” In un altro punto del discorso chiarì come il ministero avrebbe raggiunto quell’obiettivo: “Per fare ciò,” affermò, “dobbiamo utilizzare trucchi e furbizie.” Che sarebbero stati tradotti in operazioni sotto copertura e attività clandestine negli Stati Uniti.

Per le operazioni negli USA era fondamentale un’unità molto sofisticata di intelligence che prendesse di mira americani innocenti in tutto il Paese. Venne descritta nel 2016 ai membri dell’IAC da Sagi Balasha, un ex ufficiale superiore israeliano ed ex presidente dell’IAC dal 2011 al 2015. Poi tornò in Israele e rilevò Concert, un’organizzazione di copertura controllata dal ministero degli Affari Strategici, dove lui chiamava Vaknin-Gill “la mia collaboratrice”. E tra i suoi progetti c’era Israel Cyber Shield [Scudo Informatico di Israele]. “Iniziammo creando un progetto chiamato Israel Cyber Shield,” ha affermato. “In realtà è un’unità di intelligence civile che raccoglie dati, analizza e agisce contro gli attivisti del movimento BDS, della sua gente, organizzazioni o eventi. E noi gli forniamo tutto quello che raccogliamo. Stiamo utilizzando il sistema di dati più sofisticato, il sistema di intelligence sul mercato israeliano.”

E secondo Vaknin-Gil tutto quello che raccolgono include sorveglianza su studenti, frequentatori di chiese e lavoratori in tutto il Paese, ogni gruppo che possa appoggiare o simpatizzare con la causa palestinese e con il boicottaggio. Descrivendo i vari aspetti delle operazioni sotto copertura ha detto: “La principale è l’intel, intelligence…Quello che abbiamo fatto è stato mappare e analizzare tutto il fenomeno (filopalestinese) a livello globale. Non solo gli Stati Uniti, non solo i campus, ma i campus e l’intersezionalità, i sindacati e le chiese.” E la segretezza era fondamentale: “Siamo un altro governo che lavora su suolo straniero, e dobbiamo essere molto, molto cauti,” ha affermato. C’erano buone ragioni per la discrezione di Israele. Tra i principali obiettivi c’è stata Linda Sarsour, una dirigente sia del movimento filopalestinese che di Black Lives Matter, che ha aderito al boicottaggio nel 2016.

È stata anche una delle principali organizzatrici della Marcia delle Donne in seguito all’insediamento del presidente Donald Trump. Secondo un’inchiesta del giornale israeliano Haaretz tra il materiale che l’unità Cyber Shield è riuscita a ottenere segretamente da Sarsour c’era un file protetto con una password “contenente informazioni sui suoi genitori, e un altro con più di 10 pagine tutte identificate come ‘riservate’… Il dossier finiva con una sintesi che evidenziava i suoi evidenti punti deboli.” Una volta raccolti, i dati poi venivano consegnati per essere utilizzati da un’altra unità israeliana segreta che prendeva di mira americani, nota come Act.iL, che poi poteva sfruttare i “punti deboli” di Sarsour. Act.iL è nata in modo inusuale.

Il 4 giugno 2017 il governatore di New York Andrew Cuomo nominò Erdan “Gran Cerimoniere Onorario” della parata per celebrare Israele, nonostante il fatto che egli fosse il capo delle operazioni sotto copertura di Netanyahu negli Stati Uniti. Ma Cuomo aveva passato buona parte del suo incarico di governatore ad assecondare i sostenitori di Israele tra i quasi due milioni di votanti ebrei e invitò vicino a sé Erdan alla marcia attraverso il centro di Manhattan. Ore dopo Erdan ripagò Cuomo per quell’onore lanciando la sua nuova operazione: una rete di fabbriche segrete di troll [agenti provocatori informatici, ndt.] in tutti gli USA diretta da Israele. L’idea era di incoraggiare studenti filoisraeliani a scaricare un’app israeliana con cui avrebbero potuto rispondere a “missioni” dirette dal governo israeliano per prendere di mira e perseguitare segretamente chi, come Sarsour, criticava Israele e i sostenitori dei palestinesi.

Rapidamente l’app ebbe oltre 20.000 potenziali troll in rete, molti dei quali ebrei americani, e un budget di 1.1 milioni di dollari. Benché sviluppata e controllata dal ministero degli Affari Strategici di Erdan, ottenne il generoso sostegno di Adelson e Milstein di IAC, che facevano parte del suo consiglio direttivo. La sala operativa delle attività era appena fuori Tel Aviv e il responsabile era Yarden Ben-Yosef, un maggiore della riserva in quello che definiva “un’unità d’élite dell’intelligence”. “Lavoriamo con il ministero degli Affari Esteri e con quello degli Affari Strategici, ci consultiamo con loro e gestiamo progetti comuni,” disse a una rivista israeliana. “Anche con le agenzie di intelligence,” aggiunse. “Parliamo tra di noi. Lavoriamo insieme.”

Nel 2018 l’operazione aveva aperto fabbriche di troll dirette da Israele in tutti gli USA e stava realizzando 1.580 missioni alla settimana. A un certo punto la fabbrica di troll di Boston creò una missione per prendere di mira una chiesa locale che stava proiettando un documentario che secondo loro era eccessivamente critico con Israele. Il testo della mail proposto faceva un confronto con gli scontri dei suprematisti bianchi a Charlottesville, in Virginia, e definiva il narratore del film “un noto antisemita”. Quello che spesso succedeva in questi casi era che la sala operativa allora dirigeva i troll nel bombardamento sulle reti sociali. Poi nascondevano i propri link per Israele e attaccavano i bersagli, in questo caso i fedeli cristiani. L’idea era di “cancellare” il documentario.

Tra gli estimatori del successo della fabbrica di troll c’era Shoham Nicolet, uno dei fondatori di IAC e all’epoca suo presidente. “Nicolet,” secondo un giornalista israeliano che era presente, “era visibilmente estasiato quando parlava al gruppo dalla nuova sala operativa via Skype. ‘Immaginate altre 20 sale come questa, non solo negli Stati Uniti ma in tutto il mondo,” si entusiasmava.”

Una volta che la sala operativa ebbe ottenuto i file riservati di Linda Sarsour, insieme a come sfruttare i suoi punti deboli, i troll americani dell’organizzazione vennero indirizzati per attaccarla. Utilizzando i dati prepararono una lettera distribuita attraverso i troll nel tentativo di impedire la sua presenza in college e università, cosa che in buona misura avvenne. Successivamente Ben-Yosef confermò ad Haaretz che Act.iL riceveva materiale dall’unità di Israel Cyber Shield: “La nostra collaborazione con (ICS) è simile a quella che abbiamo con altri gruppi, e include la condivisione di dati,” affermò.

Un’altra organizzazione legata all’IAC che prende di mira studenti americani critici con Israele o sostenitori della Palestina è la Israel on Campus Coalition [Coalizione di Israele nei campus] (ICC). Con sede a Washington, è sostenuta da Milstein dell’IAC, che fa parte del suo consiglio direttivo e contribuisce a finanziarla attraverso la sua fondazione di famiglia. L’ICC agisce a favore di Israele come una sorta di centro di sorveglianza clandestino di studenti in tutto il Paese. Come per le fabbriche di troll, riceve in forma riservata informazioni su studenti filopalestinesi da studenti filoisraeliani che collaborano nei college e università in tutto il Paese. Molte di queste informazioni sono poi incluse in una “sintesi di intelligence” e riportate al ministero degli Affari Strategici. In base a questo lavoro di intelligence l’ICC attacca poi gli studenti presi di mira. “Abbiamo costruito questa massiccia campagna politica nazionale per annientarli,” si è vantato una volta in una registrazione fatta a sua insaputa Jacob Baime, il direttore esecutivo dell’organizzazione.

Per colpire migliaia di studenti in tutto il Paese la sala operativa dell’ICC è tappezzata di monitor a schermo piatto e alcune delle più avanzate tecnologie di intelligence sul mercato. Per un certo periodo ha utilizzato il programma Radian6, che monitora conversazioni in rete in tempo reale da più di 150 milioni di fonti sui social media. “Lo elimineremo gradualmente nel corso del prossimo anno e introdurremo una tecnologia più sofisticata sviluppata in Israele,” ha affermato Baime. Tuttavia la segretezza è fondamentale: “Il 90% delle persone che dedica molta attenzione a questo spazio non ha la più pallida idea di quello che stiamo realmente facendo, che a me piace,” ha affermato. “Lo facciamo in modo sicuro e anonimo, e ciò è fondamentale.”

Ora l’IAC ha annunciato l’ultimo fronte nella sempre più ampia guerra di Israele contro gli studenti americani: reprimere le proteste e manifestazioni che intendono porre fine al genocidio israeliano a Gaza e alla sua brutale occupazione militare della Palestina. È una guerra a lungo combattuta in segreto dal ministro degli Affari Strategici Erdan e a lungo sostenuta da Milstein, il cofondatore di IAC. Nel 2017 su The Times of Israel [quotidiano israeliano in lingua inglese, ndt.] egli arrivò fino al punto di definire la lotta per i diritti dei palestinesi e per il boicottaggio di Israele “un sofisticato movimento di odio impegnato alla distruzione del popolo ebraico.” Quell’anno in un discorso al Center for Entrepreneurial Jewish Philanthropy summit [Vertice Filantropia Imprenditoriale Ebraica] disse: “Dobbiamo insegnare loro che chiunque ci attacchi pagherà un prezzo, dovrà risponderne. Dobbiamo passare all’offensiva.” A giudicare dalle ore di percosse e violenze contro gli studenti dell’UCLA la scorsa settimana da parte di contromanifestanti che brandivano pali di ferro dopo il raduno dell’IAC, sembra che Milstein e Erdan, ora ambasciatore di Israele all’ONU, abbiano finalmente esaudito i loro desideri.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Le macabre rassicurazioni USA che autorizzano il genocidio da parte di Israele

Ramona Wadi

14 maggio 2024 – Middle East Monitor

La scorsa domenica l’ambasciatore USA in Israele Jack Lew ha difeso l’azione genocida e la complicità con essa quando ha spiegato che “fondamentalmente niente è cambiato nel rapporto basilare” tra USA e Israele. Si tratta di parole che ovviamente il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu non aveva bisogno di sentire, ma che tuttavia affermano, per quanto riguarda Washington, la superiorità della narrazione sionista sulle leggi internazionali.

Strategicamente prima del rapporto del Dipartimento di Stato, che senza dubbio è stato riempito di intenzionale inconsistenza retorica, Lew ha ricordato al mondo che gli USA hanno ritardato l’invio di un solo carico di armi. Gli USA non possono negare che le loro armi siano state utilizzate da Israele per commettere un genocidio a Gaza, ma ovviamente aggiungere la narrazione sionista come contesto del motivo per cui le armi sono state utilizzate giustifica futuri invii di armi.

In definitiva il rapporto si è basato sulla costruzione e distruzione di verità sul genocidio da parte di Israele, perché quando si tratta di Israele persino la verità è ipotetica.

“Quello che il presidente ha detto è che non pensa che sia una buona idea fare una massiccia campagna di terra in un’area densamente popolata,” Lew ha proposto come spiegazione. “Ma ha specificamente affermato che le bombe da 900 chili non dovrebbero essere utilizzate in quel contesto.” Finora, ha aggiunto Lew, l’operazione militare israeliana a Rafah non ha “oltrepassato la zona che riguarda il nostro disaccordo.” Ma ovviamente non c’è alcuna area di disaccordo tra Israele e gli USA. Neppure il genocidio. Anzi, tali macabre rassicurazioni esprimono l’autorizzazione statunitense del genocidio israeliano.

È persino peggio il fatto che Lew non stia minimizzando il blocco alla consegna delle armi da parte di Biden, ma che la realtà che sta dietro all’immagine patinata aggiunta per il consumo dei media e dell’opinione pubblica rimanga la stessa. Ciò nonostante il fatto che molta della pretesa inconcludenza del rapporto del Dipartimento di Stato, che è stato pubblicato dopo il simbolico e irrilevante gesto di Biden, abbia chiaramente denunciato una mancanza di cooperazione da parte delle autorità israeliane riguardo al fatto che siano state commesse o meno violazioni delle leggi internazionali. Dato che agli occhi degli americani le azioni di Israele non parlano da sé, nonostante la quantità di prove, e che come sempre Israele rifiuta di collaborare, gli USA non vedono alcuna ragione di sospendere permanentemente l’invio di armi allo Stato di apartheid.

Non si dimentichi che gli USA hanno invaso Paesi e creato Stati falliti in base a prove false. “Portare la democrazia” era una giustificazione sufficiente. Quando si tratta di Israele, tuttavia, le prove non sono mai sufficienti, benché continuino ad accumularsi corpi di palestinesi uccisi e l’esercito israeliano si vanti apertamente dei bombardamenti e derida i palestinesi perché non sono capaci di vivere in mezzo alla devastazione creata dall’entità israeliana colonialista di insediamento. Solo l’assoluto potere politico consente a Israele di commettere apertamente un genocidio a Gaza, mentre gli USA dicono che non ci sono prove sufficienti.

Ovviamente Rafah non porterà alcun disaccordo tra Israele e gli USA. Proprio come Israele vuole portare a termine il suo piano genocida, lo stesso fanno gli USA. Allo stesso modo l’ONU non è mai tornato sui suoi passi dopo il piano di partizione del 1947. Perché invece non creare un giorno di solidarietà per i palestinesi, in cambio del fatto di averli obbligati a diventare rifugiati, vittime di pulizia etnica e ora ad affrontare per mesi un genocidio? L’ONU ha sostenuto Israele attraverso risoluzioni che gli chiedevano di tenerne conto. Gli USA appoggiano Israele con armi e sostegno diplomatico. Sempre lo stesso, giorno dopo giorno. Si tratterebbe di uno squallido intrigo, se non fosse per il fatto che questa ripetizione significa più palestinesi uccisi da Israele solo in nome della protezione di un progetto colonialista che in primo luogo non avrebbe mai dovuto nascere.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Il capo delle Nazioni Unite condanna l’attacco contro il personale ONU e chiede una ‘indagine completa’

Redazione di Middle East Monitor

13 maggio 2024 – Middle East Monitor

L’agenzia Anadolu riferisce che lunedì il segretario generale ONU Antonio Guterres ha condannato tutti gli attacchi contro il personale delle Nazioni Unite e ha chiesto un’indagine completa sull’uccisione di un membro dello staff nella Striscia di Gaza.

Il vice portavoce delle Nazioni Unite Farhan Haq ha affermato durante una conferenza stampa che “il segretario generale è stato profondamente rattristato per aver appreso della morte di un membro dello staff del dipartimento di sicurezza delle Nazioni Unite e del ferimento di un altro membro quando il loro veicolo ONU è stato colpito questa mattina mentre viaggiavano verso l’Ospedale Europeo a Rafah.”

Secondo Haq Guterres condanna tutti gli attacchi contro il personale ONU e ha chiesto un’indagine completa sull’incidente.

Osservando che la situazione [di guerra] a Gaza colpisce non solo i civili ma anche gli operatori umanitari, Haq ha affermato che il segretario ONU ha reiterato le richieste per un cessate il fuoco umanitario urgente e il rilascio degli ostaggi trattenuti a Gaza.

Haq ha inoltre affermato che l’ONU continua a raccogliere informazioni sull’incidente e ha aggiunto che dal 7 ottobre ad oggi a Gaza sono stati uccisi 196 dipendenti ONU.

Ha sottolineato che le Nazioni Unite stanno mantenendo i contatti con i funzionari per assicurare che dopo la fine del conflitto i colpevoli rendano conto [del proprio operato].

Alla domanda se il veicolo recasse il logo delle Nazioni Unite, Haq ha risposto che tutti i veicoli dell’organizzazione internazionale sono contrassegnati.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Cosa accadrà quando l’Olocausto non impedirà più al mondo di vedere Israele così com’è?

Hagai El-Had

13 maggio 2024 – Haaretz Opinion

Per chiunque volesse osservarla, la verità era già abbondantemente chiara nel 1955: “Trattano gli arabi, quelli che si trovano ancora qui, in un modo che di per sé basterebbe a mobilitare il mondo intero contro Israele”, scriveva Hannah Arendt.

Ma era il 1955, appena un decennio dopo lOlocausto la nostra grande catastrofe e, allo stesso tempo, la veste protettiva del sionismo. Quindi no, ciò che la Arendt vide a Gerusalemme allepoca non fu sufficiente a mobilitare il mondo contro Israele.

Da allora sono trascorsi quasi 70 anni. Nel frattempo, Israele è diventato dipendente sia dal regime di supremazia ebraica sui palestinesi sia dalla sua capacità di sfruttare la memoria dellOlocausto in modo che i crimini che commette contro di loro non mobilitino il mondo contro di sé.

Il primo ministro Benjamin Netanyahu non sta inventando nulla: né i crimini, né lo sfruttamento dell’Olocausto per mettere a tacere la coscienza del mondo. Ma è primo ministro da quasi una generazione. Durante questo periodo Israele, sotto la sua guida, ha compiuto un altro grande passo verso un futuro in cui il popolo palestinese sarà cancellato dalla scena della storia certamente se la scena in questione è la Palestina, la sua patria storica.

Tutto questo non solo è stato realizzato gradualmente prima un dunam [mille metri quadri di terreno, ndt.] e una capra, poi un insediamento coloniale e una fattoria ma alla fine è stato anche dichiarato pubblicamente, dalla Legge Fondamentale su Israele come Stato-Nazione del popolo ebraico del 2018 alla politica di base dellattuale governo, e prima di tutto attraverso la dichiarazione: Il popolo ebraico ha diritto esclusivo e inalienabile su tutte le parti della Terra dIsraele”. E la verità è che il consenso è molto più ampio e diffuso del sostegno allo stesso Netanyahu. Dopotutto, chi in Israele non ha apprezzato la brillante mossa, alla vigilia del 7 ottobre 2023, di attuare una normalizzazione con l’Arabia Saudita al fine di imprimere nella coscienza dei palestinesi il fatto che sono una nazione sconfitta?

Ma i palestinesi, questo popolo testardo, non hanno abbandonato la scena. In qualche modo, nel corso di tutti questi anni, attraverso loppressione, gli insediamenti coloniali e i pogrom in Cisgiordania, e le ripetute fasidel conflitto con Gaza, la violenza dellesercito, la mancata resa dei conti di fronte alla giustizia, gli espropri a Gerusalemme, nel Negev e nella Valle del Giordano, e in effetti ovunque un palestinese cerchi di conservare la sua terra, dopo molti anni, molto sangue e molti crimini, il trucco riciclato dellhasbara israeliana[termine ebraico: gli sforzi propagandistici per diffondere all’estero informazioni positive sullo Stato di Israele e le sue azioni ndt.], o della diplomazia pubblica, ha cominciato a perdere efficacia, da quando la semplice verità è che no, non tutti coloro che vedono i palestinesi come esseri umani dotati di diritti sono antisemiti.

Nel frattempo è arrivata la guerra a Gaza, con la distruzione di proporzioni bibliche che abbiamo portato sulla Striscia e sulle decine di migliaia di palestinesi uccisi. C’è stato così tanto sangue e distruzione che la questione se si tratti di genocidio ha cominciato a essere seriamente discussa presso la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia.

Riprendendo le parole di Arendt, quello che stiamo facendo ai palestinesi quelli che si trovano ancora a Gaza non sta ancora mobilitando il mondo contro Israele. Ma il mondo sta ormai osando esprimere il proprio pensiero ad alta voce.

Tutto questo non ci sta ancora facendo riconsiderare il modo in cui trattiamo gli arabi. Cerchiamo invece ancora una volta di infondere nuova vita alla logora nuvola dell’hasbara. Se nel 2019 Netanyahu ha dichiarato che l’indagine della Corte Penale Internazionale è un “provvedimento antisemita” (il che non ha fermato le indagini) e nel 2021 ha affermato che si tratta di “puro antisemitismo” (e non ha fermato le indagini), poi una settimana fa ha iniziato a inveire contro un “crimine di odio antisemita”.

Netanyahu, come al solito, inserisce qualche parola di verità tra una menzogna e laltra. Nel suo discorso alla vigilia del Giorno della Memoria presso il memoriale dell’Olocausto di Yad Vashem è stato sincero nel descrivere la Corte Penale Internazionale come un organismo “istituito in risposta all’Olocausto e ad altri orrori, per garantire che ‘Mai più'”. Ma se si pensa per un attimo al contesto spazio- temporale, tutto ciò che Netanyahu ha aggiunto con eccezionale faccia tosta in riferimento a tale dichiarazione è stato menzognero, soprattutto quando ha affermato che se fosse stato emesso un mandato di arresto contro di lui, “Questo passo lascerebbe una macchia indelebile sullidea stessa di giustizia e di diritto internazionale”.

La verità è che la macchia che scuote le fondamenta del diritto internazionale è il fatto che anche dopo anni di indagini, per quanto ne sappiamo, non è ancora stato emesso un mandato di arresto contro Netanyahu o altri criminali di guerra israeliani. Questo nonostante il fatto che da decenni Israele perpetra, alla luce del sole, crimini contro i palestinesi, crimini che rientrano nella politica del governo, crimini approvati dallAlta Corte di Giustizia, protetti dalle opinioni dei procuratori generali e insabbiati dall’avvocatura militare e sebbene tutto ciò sia palese e conosciuto, riportato e pubblicato, nessuno è stato ritenuto responsabile di ciò, né in Israele né allestero, almeno finora.

Ci stiamo avvicinando al momento, e forse è già qui, in cui il ricordo dell’Olocausto non impedirà al mondo di vedere Israele così com’è. Il momento in cui i crimini storici commessi contro il nostro popolo smetteranno di costituire la nostra Cupola di Ferro, proteggendoci dallessere chiamati a rispondere dei crimini che stiamo commettendo nel presente contro la nazione con cui condividiamo la patria storica.

Anche se in ritardo, è ora che quel momento arrivi. Israele non disporrà dell’Olocausto, ma la sua immagine sarà difesa dal genio arabo israeliano dell’hasbara Yoseph Haddad e dalla creatrice di contenuti Ella Travels [influencer popolari sui social media israeliani impegnati nella difesa di Israele, ndt.]

Coraggio. Forse faremmo meglio ad aprire gli occhi e adottare un atteggiamento diverso nei confronti dei palestinesi: vederli come esseri umani uguali. Questa sarebbe certamente una lezione di gran lunga migliore per lOlocausto. Arendt probabilmente sarebbe d’accordo.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Il college più ricco di Cambridge vota per disinvestire dalle società produttrici di armi

Imran Mulla

12 Maggio 2024Middle East Eye

Fonti vicine al sindacato studentesco del Trinity affermano che il consiglio universitario, responsabile di importanti decisioni finanziarie e di altro tipo, ha votato a marzo per revocare gli investimenti del Trinity nelle società produttrici di armi.

Middle East Eye è in grado di rivelare che il Consiglio universitario del college più ricco dell’Università di Cambridge, il Trinity College di Cambridge, ha votato per il disinvestimento da tutte le società produttrici di armi.

MEE ha appreso da tre fonti ben informate vicine al sindacato studentesco del Trinity che il consiglio universitario, responsabile di importanti decisioni finanziarie e di altro tipo, ha votato per revocare gli investimenti del Trinity dalle società di armi all’inizio di marzo.

Secondo le fonti il college ha deciso di non annunciare che avrebbe disinvestito dalle compagnie di armi dopo che all’interno del college, l’8 marzo, un attivista ha deturpato un ritratto del 1914 di Lord Arthur Balfour, autore della famigerata Dichiarazione Balfour.

L’incidente ha suscitato un’ampia copertura mediatica nel Regno Unito e la condanna da parte di parlamentari britannici, tra cui il vice primo ministro Oliver Dowden.

Secondo il verbale ufficiale dell’incontro del sindacato degli studenti del Trinity College di sabato 11 maggio, il presidente del comitato del sindacato studentesco ha affermato che l’organismo si era incontrato con gli studenti e il college sugli investimenti del Trinity nelle società produttrici di armi israeliane.

“L’ultimo aggiornamento è che il Trinity sarà ed è in procinto di disinvestire; tuttavia il college non rilascerà una dichiarazione pubblica sulla questione”; il Presidente ha dichiarato:

“Questo perché il college non vuole essere visto giustificare gli sfregi inferti (nell’ultimo semestre) al ritratto di Arthur Balfour” e sostiene che al sindacato studentesco è stato detto che il college avrà disinvestito da tutte le società produttrici di armi “entro l’estate “.

Un altro membro del comitato del sindacato studentesco ha aggiunto: “Ci è stato detto che il consiglio del college ha votato a favore del disinvestimento”.

Il Trinity è amministrato dal Consiglio del college.

Il Trinity College di Cambridge non ha confermato smentito che il voto abbia avuto luogo, ma ha detto a MEE che: “Il Trinity College continua a rivedere regolarmente i suoi investimenti”.

MEE ha rivelato a febbraio che Trinity aveva investito 61.735 sterline (78.089 dollari) nella più grande azienda di armi israeliana, Elbit Systems, che produce l’85% dei droni e delle attrezzature terrestri utilizzate dall’esercito israeliano.

MEE ha anche riferito che il college aveva milioni di dollari investiti in altre società che armavano, sostenevano e traevano profitto dalla guerra di Israele a Gaza.

In risposta all’inchiesta il 28 febbraio il Centro Internazionale di Giustizia per i Palestinesi (ICJP), un’associazione per i diritti umani con sede nel Regno Unito, ha emesso un avviso legale al Trinity College avvertendo che i suoi investimenti potrebbero renderlo potenzialmente complice dei crimini di guerra israeliani.

L’ICJP ha emesso un ulteriore avvertimento al Trinity il 30 aprile, ma non ha ancora ricevuto risposta dal college. Il 7 maggio l’associazione per i diritti umani ha presentato una denuncia formale alla Charity Commission [un organismo statale che controlla le organizzazioni di beneficienza, n.d.t.] chiedendo un’indagine sugli investimenti del Trinity.

MEE ha rivelato a febbraio che il college aveva anche investimenti per un valore di circa 3,2 milioni di dollari in Caterpillar, una società di macchinari pesanti con sede negli Stati Uniti che è stata a lungo bersaglio di campagne di boicottaggio per la vendita di bulldozer all’esercito israeliano, e in numerose altre società coinvolte nella guerra israeliana – tra cui General Electric, Toyota Corporation, Rolls-Royce, Barclays Bank e L3Harris Industries

Trinity non si è impegnato a disinvestire da tutte queste società.

Mira Naseer, responsabile legale dell’ICJP, ha rilasciato una dichiarazione in risposta alle ultime notizie:

“Questa è una vittoria importante per il movimento. Gli studenti di tutto il mondo hanno condotto una campagna instancabile per sollecitare le loro università a disinvestire dalle aziende produttrici di armi potenzialmente complici del genocidio di Israele e ora stiamo iniziando a vedere i risultati. Il fatto che il Trinity sia il college più ricco di Cambridge è una vera vittoria simbolica e altri college e università devono ora seguire l’esempio.

“Ma è importante ricordare che le aziende in cui Trinity investe non solo sono potenzialmente complici dell’ultimo attacco israeliano a Gaza, ma hanno anche una comprovata attività nella fornitura di attrezzature che sono state utilizzate nelle demolizioni di case, nell’illegale muro di separazione israeliano in Cisgiordania e intorno a Gerusalemme e altri strumenti dell’apartheid. È bello vedere che Trinity ha disinvestito dalle compagnie produttrici di armi, ma è solo il primo passo.”

Giovedì è stata pubblicata una lettera aperta scritta da accademici di Cambridge e firmata da oltre 1.700 dipendenti, ex studenti e studenti dell’università, in cui si esprime sostegno ai manifestanti che la scorsa settimana hanno allestito un accampamento di protesta che invita l’università a porre fine a qualsiasi potenziale complicità nella guerra di Israele a Gaza.

Lunedì circa un centinaio di studenti si sono riuniti sul prato fuori dal King’s College di Cambridge, dove hanno eretto delle tende e chiesto all’istituto di impegnarsi a disinvestire dalle società coinvolte nella guerra di Israele.

Si sono uniti agli studenti di oltre 100 università in tutto il mondo che hanno creato movimenti di protesta simili.

Gli organizzatori dell’accampamento hanno detto a MEE che chiedono che l’Università di Cambridge riveli tutti i suoi rapporti con aziende e istituzioni “complici nella pulizia etnica in corso in Palestina”.

Giovedì il Primo Ministro britannico Rishi Sunak ha convocato i vicerettori di 17 università per una “tavola rotonda sull’antisemitismo” a Downing Street e li ha esortati ad assumersi una “responsabilità personale” nella protezione degli studenti ebrei.

Lo stesso giorno il Trinity College di Dublino, la più prestigiosa università irlandese, dopo un sit-in di studenti che protestavano contro la guerra a Gaza ha annunciato che avrebbe disinvestito dalle società israeliane coinvolte nell’occupazione della Palestina.

Dagli eventi del 7 ottobre, quando un attacco guidato da Hamas al sud di Israele ha ucciso 1.171 persone e ne ha catturate e portate a Gaza prigioniere più di 200, l’enclave è stata sotto assedio totale e privata dei beni di prima necessità, mentre affrontava una devastante campagna di bombardamenti da parte di Israele.

Più di 35.000 palestinesi sono stati uccisi e circa 1,7 milioni sono stati sfollati in quello che la Corte Internazionale di Giustizia a gennaio ha descritto come un plausibile genocidio.

Secondo i funzionari sanitari sono rimaste ferite anche quasi 77.000 persone. Le cifre non includono decine di migliaia di morti che si ritiene siano sepolti tra le rovine di case, negozi, rifugi e altri edifici distrutti dalle bombe.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Come i presidenti delle università israeliane stanno avvalorando la causa del boicottaggio

Mayssoun Sukarieh

6 maggio 2024 – Mondoweiss

La condanna da parte dei presidenti delle università israeliane delle proteste in solidarietà con Gaza negli USA sta smascherando la complicità delle università israeliane nell’occupazione, nell’apartheid e nel genocidio.

Il 26 aprile 2024 i presidenti di nove università israeliane di ricerca— Ben-Gurion, Weizmann Institute of Science, Hebrew University, the Open University, Ariel, Tel-Aviv, Haifa e Technion-Israel Institute of Technology — hanno rilasciato una dichiarazione collettiva in risposta agli accampamenti degli studenti in solidarietà con i palestinesi che stavano dilagando nei campus universitari negli Stati Uniti e altrove. La dichiarazione è una significativa condanna degli studenti manifestanti negli USA impegnati in “gravi violenze, antisemitismo [e] opinioni contrarie a Israele,” che dipinge questi studenti come “detestabili gruppi di incitatori,” che sarebbero “organizzati e sostenuti” da “organizzazioni terroristiche.” 

I presidenti affermano che “studenti israeliani ed ebrei e membri delle facoltà” presso le università statunitensi vengono minacciati “di aggressioni fisiche” dai campi di protesta. Hanno richiesto ai presidenti delle università americane di adottare “misure oltre agli strumenti convenzionali disponibili alle amministrazioni delle università” per rispondere con efficacia a queste “situazioni estreme,” e invitano studenti e docenti israeliani ed ebrei negli USA a “entrare nelle università israeliane” dove promettono loro “una casa accademica e privata accogliente.”

È importante prestare grande attenzione a questa dichiarazione per parecchi motivi. Primo, perché aiuta a evidenziare una verità fondamentale sulle università israeliane. Negli ultimi vent’anni il PACBI (la campagna palestinese per il boicottaggio accademico e culturale di Israele) ha chiesto il boicottaggio internazionale degli istituti di istruzione superiore israeliani perché “queste istituzioni sono profondamente complici del sistema israeliano di oppressione che nega ai palestinesi i loro diritti fondamentali garantiti dal diritto internazionale,” e “sono parte integrante dell’impalcatura ideologica e istituzionale del regime israeliano di occupazione, colonialismo e apartheid contro il popolo palestinese.” Più recentemente il libro di Maya Wind del 2024 Towers of Ivory and Steel: How Israeli Universities Deny Palestinian Freedom, [Torri d’avorio e acciaio: come le università israeliane negano la libertà palestinese] ha decisamente messo in dubbio la percezione in Occidente delle “università israeliane come bastioni progressisti di pluralismo e democrazia,” sostenendo, in accordo con il PACBI, che queste università “costituiscono le colonne portanti del colonialismo d‘insediamento israeliano” e “sostengono attivamente l’occupazione militare israeliana… e l’apartheid.” 

Negli ultimi sette mesi i presidenti delle università israeliane hanno mostrato il loro forte e fazioso sostegno alla guerra dello Stato di Israele a Gaza. La loro dichiarazione del 26 aprile fa eco alla condanna di due giorni prima da parte del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu dei manifestanti universitari USA, che ha descritto come “bande antisemite” che “invocano l’annientamento di Israele,” “aggrediscono gli studenti ebrei” e “attaccano il corpo decente ebreo” in modi che “ricordano ciò che successe nelle università tedesche negli anni ‘30.” Netanyahu ha definito le proteste “immorali” e ha insistito che devono essere “fermate” e “condannate inequivocabilmente.” 

La dichiarazione dei presidenti israeliani del 26 aprile non è stato un evento isolato ma una delle varie dichiarazioni fatte dall’inizio della guerra di Israele a Gaza. Tramite tali dichiarazioni i presidenti hanno sollevato la preoccupazione che “molti campus dei college [negli USA] siano diventati terreni fertili per la proliferazione di sentimenti anti-israeliani e antisemiti.”  

Pur facendo gesti simbolici di sostegno all’importanza della libertà accademica e di parola i presidenti delle università israeliane hanno spiegato chiaramente quali discorsi siano per loro accettabili. Condannano l’espressione “dal fiume al mare” poiché “auspica l’annientamento dello Stato di Israele,” e “intifada” poiché “sostiene le attività terroristiche contro i cittadini israeliani”, così come qualsiasi esternazione in cui Israele “è rappresentato in modo fuorviante come l’oppressore.” Essi approvano “dichiarazioni chiare di solidarietà e sostegno per Israele,” che credono “siano, nella loro essenza, affermazioni umane, illuminate e progressiste di solidarietà.” 

I presidenti delle università israeliane hanno continuamente rappresentato la guerra a Gaza in termini manichei: “Non ci sono ‘brave persone in entrambi i campi,’” sostengono in una dichiarazione, e in un altra affermano che la guerra è una lotta fra “luce” e “tenebre”. I presidenti insistono che le università negli USA “devono assumersi la responsabilità delle opinioni che perpetuano,” e che “ciò che è richiesto sono azioni chiare e ferme” per “guidare lo sviluppo morale ed etico” degli studenti universitari americani cosicché possano correttamente “separare il bene dal male”.

In particolare durante la guerra i presidenti non hanno proferito una singola espressione di preoccupazione per i palestinesi. In un comunicato insistono che “non ci può essere alcun sostegno per massacri deliberati della popolazione civile,” e invocano una “posizione comune contro la barbarica violenza perpetrata contro la popolazione civile.” Ma si riferiscono all’attacco di Hamas del 7 ottobre contro Israele, non all’aggressione di sette mesi attuata da Israele a Gaza che ha portato alla morte di oltre 34.000 palestinesi, in maggioranza donne e bambini. Non ci sono stati commenti da parte dei presidenti delle università israeliane né sulla distruzione da parte dello Stato israeliano di tutte le università né sull’uccisione di decine dei loro colleghi accademici in tutta Gaza. 

Negli ultimi sette mesi i presidenti delle università israeliane hanno perciò fornito con le loro stesse parole una prova diretta a sostegno delle argomentazioni sostenute dal PACBI negli ultimi vent’anni. In nessun senso questi presidenti hanno cercato di prendere una posizione di critica o dissenso verso le azioni dello Stato israeliano o seguito un percorso di pretesa neutralità riguardo allo Stato israeliano; piuttosto quella che è stata manifestata è una fervente e costante faziosità. Per opporsi ad apartheid, occupazione e genocidio in Palestina dobbiamo opporci alle università di ricerca israeliane.

 

Neutralità istituzionale’

Un secondo tema è che queste dichiarazioni devono essere considerate insieme a quelle che sono state fatte recentemente da un numero crescente di presidenti di università negli USA e nel Regno Unito in risposta alle richieste di studenti e corpo docente di disinvestire dalle aziende implicate nell’occupazione, nell’apartheid e nel genocidio israeliani e di boicottare le istituzioni Israeliane di istruzione superiore.  

Negli ultimi sette mesi molti di questi presidenti hanno abbracciato rivendicazioni di “neutralità istituzionale.” La neutralità istituzionale, sostiene Daniel Diermeier della Vanderbilt University, “è l’impegno di un’università e dei suoi dirigenti di astenersi dal prendere posizioni pubbliche su temi controversi a meno che riguardino direttamente la missione e la funzione dell’università,” ed è “un valore fondamentale” che è “vitale” e “indispensabile” dato che “tiene le università fuori dalla politica,” pur rimanendo concentrate sulla “ricerca della conoscenza e della verità.”  

Nel Regno Unito il King’s College London ha abbracciato una politica di “imparzialità basata sui valori,” che definisce come “una questione attiva di moderazione di principio” in cui l’università e i suoi dirigenti dovranno evitare di prendere posizioni pubbliche o rilasciare dichiarazioni pubbliche su “temi sociali e geopolitici,” eccetto ove questi “impattino direttamente sulla sicurezza e l’incolumità del nostro personale e dei nostri studenti.” Poco lontano dal KCL, Michael Spence, presidente e rettore dell’University College London, insiste “che il sostegno alla libertà accademica e al dibattito richiede che un’università non adotti una posizione istituzionale in relazione a ogni dato argomento, incluso quello del conflitto armato.” 

Negli USA il presidente e rettore della Stanford University ha rilasciato una dichiarazione subito dopo l’inizio della guerra di Israele a Gaza per enfatizzare l’importanza di “mantenere la neutralità dell’università,” e di riaffermare che “è politica generale (dell’università) non rilasciare dichiarazioni su eventi di cronaca non direttamente collegati al campus.” Persino alla Columbia University la presidente Minouche Shafik ha sostenuto che l’università è devota al principio di “neutralità istituzionale,” anche quando stava chiamando, non solo una, ma due volte, il dipartimento di polizia di New York per arrestare ed espellere gli studenti che manifestavano nel campus.

Tali affermazioni di neutralità dell’università sono state aspramente criticate da manifestanti, studenti e personale che le hanno etichettate come “menzogna”, “posizione artificiosa” e “cortina fumogena” per occultare la “complicità” dell’università nella guerra di Israele a Gaza e “una posizione molto chiara che ha preso [un’università] che non intende fare nulla per fermare il genocidio.” In una risposta a Daniel Diermeier uno studente della Vanderbilt University ha citato la frase dell’arcivescovo Desmond Tutu che “se sei neutrale in situazioni di ingiustizia, hai scelto la parte dell’oppressore.” Un attivista di Students for Justice in Palestine presso la Chapman University ha invocato le parole di Elie Wiesel che “la neutralità aiuta l’oppressore, mai la vittima,” e che il “silenzio incoraggia il tormentatore, mai il tormentato.” A un open day il gruppo per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni presso il Trinity College di Dublino, in Irlanda, ha distribuito volantini che “chiedevano agli aspiranti studenti: ‘Volete frequentare un’università che è neutrale sul genocidio?’” 

Ma c’è anche una domanda fondamentale sollevata dalle ripetute dichiarazioni collettive dei presidenti delle università di ricerca in Israele. Come possono le università negli USA, nel Regno Unito e altrove continuare a promuovere e impegnarsi in collaborazioni dirette con le università israeliane che non sono affatto neutrali in relazione alla guerra a Gaza, mentre allo stesso tempo fingono di avere una posizione di neutralità istituzionale su questo stesso tema? Semplicemente le due cose non possono coesistere. 

Infine c’è una questione più ampia per tutti noi impegnati come lavoratori e studenti nel settore dell’istruzione superiore: il ruolo delle università in relazione a occupazione, apartheid e genocidio indipendentemente da dove queste università sono situate. Le università occidentali fingono una neutralità assai dubbia, anche quando la loro ricerca, insegnamento, istituzioni, finanziamenti e fondi pensione che hanno legami con corporazioni e altre istituzioni coinvolte nel sostenere occupazione, apartheid e genocidio in Palestina raccontano un’altra storia. Le università israeliane sono coinvolte in un sostegno diretto, aperto e fazioso dello Stato israeliano, perseguendo quello che la Corte Internazionale di Giustizia ha sostenuto costituisca, come minimo “un plausibile genocidio.” Ma questi non sono i soli modelli che le università possono recepire. Il modello di università pubblica ha da tempo portato avanti una visione alternativa dell’università come spazio vitale per critica e dissenso nella società contemporanea e come attore importante nella continua lotta per la giustizia sociale. Questa è “l’importanza di dire la verità al potere” che Craig Calhoun, ex presidente della London School of Economics, sostiene nella sua conferenza sulla libertà accademica e conoscenza pubblica. 

Le università non sono mai state, non sono e non dovrebbero mai essere neutrali sui temi sociali del momento,” sottolinea John Grant. O, come disse una volta il defunto Stuart Hall, in una citazione ampiamente ripetuta, “o l’università è un’istituzione critica o non è niente.” 

In conclusione questa è una lotta a sostegno del popolo della Palestina, ma è anche una battaglia per l’anima dell’università.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio) 




Israele chiude Al Jazeera e continua a uccidere giornalisti

Tamara Nassar

11 maggio 2024 The Electronic Intifada

Il genocidio di Israele a Gaza ha distrutto la facciata della libertà di stampa.

Mentre il New York Times riceve un Premio Pulitzer per i suoi reportage internazionali (nonostante le rivelazioni che hanno smentito gli articoli pubblicati che accusavano Hamas di usare lo stupro di massa come arma di guerra), e mentre lélite dei principali media occidentali si riuniva alla cena incontro stampa della Casa Bianca con il Presidente Joe Biden (nonostante il suo incessante sostegno al genocidio israeliano a Gaza), continuano gli attacchi senza freni di Israele contro i giornalisti.

La settimana scorsa il gabinetto del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha votato la chiusura dell’attività della rete Al Jazeera in Israele.

La mossa fa seguito a una recente legge approvata dalla Knesset, il parlamento israeliano, che consente la chiusura temporanea delle emittenti straniere se il governo israeliano ritiene che rappresentino una minaccia per la sicurezza nazionale nel contesto dei bombardamenti in corso sui palestinesi a Gaza.

Domenica scorsa la polizia israeliana ha fatto irruzione negli uffici di Al Jazeera a Gerusalemme, revocando gli accrediti stampa e vietando alla rete di mandare in onda le sue trasmissioni.

Al Jazeera ha condannato la chiusura delle sue operazioni da parte di Israele come “atto criminale”, affermando che costituisce una violazione del diritto internazionale e umanitario.

“Al Jazeera afferma il suo diritto di continuare a fornire notizie e informazioni al suo pubblico nel mondo“, ha affermato la rete.

Le aggressioni dirette e l’uccisione di giornalisti, gli arresti, le intimidazioni e le minacce da parte di Israele non scoraggeranno Al Jazeera nel suo impegno a coprire gli avvenimenti, mentre più di 140 giornalisti palestinesi sono stati uccisi dall’inizio della guerra a Gaza”.

Al Jazeera è il principale organo di informazione internazionale a trasmettere quelle che sono diventate le immagini distintive del genocidio di Israele a Gaza, con i suoi giornalisti che coraggiosamente riferiscono sul terreno nell’enclave costiera, anche dalle aree settentrionali.

È anche la principale piattaforma che trasmette video delle operazioni di resistenza, spesso in esclusiva, delle Brigate Qassam, il braccio armato di Hamas.

Riprese effettuate con droni

Nelle ultime settimane Al Jazeera ha anche trasmesso numerosi video che afferma essere stati ripresi da droni israeliani a Gaza.

La rete con sede in Qatar non rivela esplicitamente la fonte di tali filmati. Gli analisti ipotizzano che i droni vengano probabilmente acquisiti dai gruppi di resistenza a Gaza o, come hanno dimostrato, catturando i quadricotteri in volo, oppure abbattendoli e conservandone i dati.

I video servono come documentazione dei potenziali crimini di guerra perpetrati dall’esercito israeliano.

Un video in particolare, girato da un drone in volo, mostrava l’uccisione spietata di quattro palestinesi che attraversavano un quartiere nella zona meridionale di Khan Younis per osservare le conseguenze dell’invasione di terra israeliana nell’area.

Il drone filma l’incalzante inseguimento dei quattro uomini mentre continua a sparare missili contro di loro finché non vengono tutti uccisi.

Un altro video trasmesso da Al Jazeera mostra soldati israeliani che giustiziano due uomini che tentano di camminare verso nord e che chiaramente non rappresentano alcuna minaccia. Un bulldozer israeliano poi ne interra i corpi.

Filmati più recenti trasmessi da Al Jazeera mostrano soldati israeliani che usano un palestinese come scudo umano. L’uomo è costretto ad entrare in una scuola abbandonata per perlustrarne i locali sotto la sorveglianza di due droni israeliani.

Lo stesso segmento di video presenta anche ulteriori filmati ripresi da un drone israeliano che rivelano veicoli corazzati israeliani di stanza in quella che sembra essere una base militare improvvisata all’interno di una scuola abbandonata nel quartiere Shujaiya di Gaza City.

Nel corso del genocidio a Gaza l’esercito israeliano ha ucciso e ferito numerosi giornalisti e personale di Al Jazeera, nonché le loro famiglie.

A dicembre un attacco di droni israeliani ha ucciso un cameraman di Al Jazeera e ferito Wael al-Dahdouh, capo dell’ufficio della rete. Il 25 ottobre Israele aveva ucciso la moglie, il figlio, la figlia e il nipote di al-Dahdouh nel campo profughi di Nuseirat, nel centro della Striscia di Gaza.

Giornalisti massacrati

Un attacco aereo israeliano nel campo profughi di Jabaliya, nel nord di Gaza, ha ucciso sabato il fotografo Baha Okasha insieme ad alcuni membri della sua famiglia, portando a 143 il numero dei giornalisti palestinesi uccisi nella Striscia nel corso del genocidio di Israele, secondo l’ufficio stampa di Hamas a Gaza.

Il Comitato per la Protezione dei Giornalisti afferma di poter confermare la morte di almeno 92 giornalisti palestinesi e tre giornalisti libanesi.

A partire dal 7 ottobre gli attacchi israeliani hanno ucciso anche quattro collaboratori di The Electronic Intifada, nonché membri delle loro famiglie.

Tra questi figura Mohammed Hamo, giornalista e traduttore di stanza a Gaza, ucciso a novembre insieme ai suoi familiari.

Hamo aveva scritto un articolo per The Electronic Intifada nell’agosto 2023 su un fotografo di Gaza che era stato catturato dai soldati israeliani mentre stava seguendo la Grande Marcia del Ritorno nel maggio 2018.

Le forze israeliane avevano sparato contro Hatim Abu Sharia e il suo collega per poi catturarli, accusando Abu Sharia di essere entrato illegalmente in Israele e di aver fotografato strutture militari senza autorizzazione. Era stato condannato a cinque anni di reclusione ed è stato rilasciato nel 2023.

La settimana scorsa Abu Sharia è stato ucciso in un attacco aereo israeliano insieme a molti membri della sua famiglia. Adesso il giornalista Hamo e l’oggetto del suo articolo sono stati entrambi uccisi nel genocidio in corso.

Questo è il “conflitto più pericoloso per i giornalisti nella storia recente”, hanno affermato a febbraio gli esperti delle Nazioni Unite.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)