Le proteste nei campus: potrebbe essere il momento in cui Israele perde l’Occidente

David Hearst

29 aprile 2024 – Middle East Eye

Il movimento di protesta contro la guerra a Gaza ha rivitalizzato la causa nazionale palestinese e una nuova generazione di ebrei americani si sta opponendo all’identificazione con il sionismo.

Dal punto di vista militare l’offensiva del Tet, un attacco di sorpresa lanciato dai vietcong e dall’esercito nordvietnamita in Vietnam nel gennaio 1968, fu un fallimento.

Intendeva provocare un’insurrezione generale nel Vietnam del Sud che non scoppiò mai. Dopo la sorpresa iniziale l’esercito sudvietnamita e le forze USA si riorganizzarono e inflissero gravissime perdite alle migliori truppe vietcong.

Ma ebbe conseguenze molto importanti sulla guerra in Vietnam.

Il generale Tran Do, il comandante nordvietnamita della battaglia di Hue [una delle principali città del Paese e dove più duri furono i combattimenti, ndt.], ricordò: “Ad essere onesti, non raggiungemmo il nostro principale obiettivo, che era scatenare una rivolta in tutto il Sud. Eppure infliggemmo gravissime perdite agli americani e ai loro fantocci e questo fu un grande risultato per noi. Quanto ad avere un impatto sugli Stati Uniti, non era nelle nostre intenzioni, ma si dimostrò un risultato fortunato.”

L’offensiva del Tet si dimostrò un punto di svolta nell’appoggio dell’America alla guerra.

Il Pentagono venne sottoposto a critiche senza precedenti per le sue ottimistiche affermazioni sull’andamento della guerra e mentre i vietcong persero 30.000 soldati, l’anno seguente gli Usa subirono 11.780 caduti, dimostrando così le capacità di resistenza militare del Nord.

Si aprì un’ampia frattura nella credibilità tra l’allora presidente Lyndon B. Johnson (KBJ) e l’opinione pubblica. Lo stesso LBJ perse fiducia nei comandi militari e li sostituì.

Nel 1968 la Columbia University divenne uno degli epicentri delle proteste contro la guerra, spinte dai legami dell’università con l’industria bellica. Gli studenti occuparono cinque edifici e tennero in ostaggio per 36 ore Henry Coleman, il preside. C’è l’immagine iconica di uno studente che fuma un sigaro nel suo ufficio.

Venne fatta entrare la polizia. Ci furono centinaia di studenti arrestati, feriti, uno sciopero e poi le dimissioni del rettore della Columbia, Grayson Kirk. Le proteste contro la guerra raggiunsero l’apice fuori dalla Convenzione Nazionale Democratica di Chicago e in seguito vennero viste come una delle ragioni dell’elezione di Richard Nixon.

Nel contempo il movimento contro la guerra si era esteso come un incendio a tutto il mondo.

Ci fu un’enorme manifestazione a Berlino ovest. Il Vietnam fu una delle scintille che provocarono settimane di scontri di piazza nella rivolta di operai e studenti del maggio ’68 a Parigi e in tutta la Francia. Ancor oggi si possono vedere fori di proiettile nel Marais, [quartiere] di Parigi.

Il movimento di protesta del maggio ’68 ebbe politicamente vita breve. L’insurrezione di Parigi finì in dieci settimane, benché a un certo punto l’Eliseo arrivò talmente vicino a perdere il controllo della situazione che il presidente in carica, De Gaulle, scappò dal Paese.

Il presidente francese si rifugiò nel caldo abbraccio della Nato. Dove altro avrebbe potuto andare? Scappò nel quartier generale dell’esercito francese in Germania insieme agli alleati della Nato.

Il giorno dopo mezzo milione di lavoratori sfilarono a Parigi scandendo “De Gaulle addio”. De Gaulle riuscì a vincere le successive elezioni, ma lo shock della notizia fu profondo. Tutto questo in Francia cambiò un’intera generazione.

Il 1968 oggi

Sono molti i paralleli tra il movimento di protesta del ’68 contro la guerra del Vietnam e le attuali proteste globali contro la guerra a Gaza.

Come nell’offensiva del Tet, l’evasione di massa dalla prigione di Gaza organizzata dalle Brigate al-Qassam il 7 ottobre è andata fuori controllo in poche ore. Ciò è stato dovuto in parte all’inaspettatamente rapido collasso della brigata Gaza dell’esercito israeliano nel sud di Israele.

Un attacco contro obiettivi militari, in cui sono stati uccisi centinaia di soldati israeliani, si è trasformato in una serie di massacri contro civili, sia abitanti di kibbutz che spettatori di un festival musicale in cui si sono imbattuti Hamas e altri gruppi scatenati oltre il confine. Secondo le fonti ufficiali di uno Stato del Golfo, l’attacco del 7 ottobre è stato la madre di ogni errore di calcolo.

Ma la risposta israeliana, la distruzione sistematica di Gaza durata sette mesi, una campagna genocida contro ogni cittadino e famiglia nella Striscia indipendentemente dall’affiliazione, la distruzione delle loro case, ospedali, scuole, università, ha determinato un punto di svolta nell’opinione pubblica mondiale.

Ancora una volta l’appoggio a questa guerra è fornito da un presidente democratico USA in un anno elettorale. Ancora una volta la Columbia è stata al centro della rivolta, con un accampamento di protesta contro l’attacco israeliano che ha provocato un’ondata di azioni simili nei campus dei college in tutti gli USA.

Columbia, Yale e Harvard sono tutte nel mirino di questa rivolta studentesca a causa dei legami delle università con Israele.

Alla Columbia gli studenti chiedono che l’università ponga fine agli investimenti nei giganti della tecnologia Amazon e Google che hanno un contratto di 1.2 miliardi di dollari per una super cloud di dati con il governo di Tel Aviv.

A Yale gli studenti stanno chiedendo che l’università disinvesta da “ogni impresa di produzione bellica che contribuisce all’aggressione israeliana contro la Palestina”. Yale ha scambi di studenti con sette università israeliane. Harvard ha programmi con tre di queste università, mentre la Columbia ha rapporti con quattro di esse.

Come nel 1968 molte di queste proteste sono state represse con la forza. Il preside della Columbia Nemat Minouche Shafik ha ordinato alla polizia di New York di disperdere l’accampamento di 50 tende sul South Lawn [il prato che si trova nella parte sud del campus, ndt.], il che ha portato all’arresto di 100 studenti della Columbia e del Barnard College, compresa la figlia della parlamentare statunitense Ilhan Omar.

Gli studenti sono stati anche sospesi dalle lezioni ed è stato detto loro che non potranno terminare il semestre accademico. A Yale 50 manifestanti sono stati arrestati con l’accusa di “violazione aggravata di proprietà privata”. In Ohio i dimostranti sono stati picchiati e colpiti con i taser. Circa 900 manifestanti sono stati arrestati in tutto il Paese dal primo scontro alla Columbia, il 18 aprile.

Niente di tutto ciò è nuovo.

Nel 1970 la Guardia Nazionale dell’Ohio aprì il fuoco contro i manifestanti uccidendone quattro e ferendo nove studenti in quello che è noto come il massacro della [università] Kent State. Allora come adesso la brutalità della polizia contro gli studenti ha solo provocato la diffusione delle proteste.

Ore dopo che l’amministrazione aveva chiuso un accampamento a Princeton, centinaia di studenti hanno occupato un cortile interno portando libri, computer portatili e lavagne per organizzare una “università popolare per Gaza”. Alcuni docenti si sono uniti e hanno guidato dibattiti e discussioni.

La polizia è stata chiamata in 15 università in tutti gli USA e ci sono proteste in altre 22 università e college.

Le proteste negli USA si sono estese a università britanniche, anche se hanno ricevuto minore attenzione mediatica.

Al Trinity College, Cambridge, il ritratto di Lord Balfour, il ministro degli Esteri britannico responsabile della dichiarazione che riconosceva il diritto degli ebrei a una patria in Palestina, è stato imbrattato e sfregiato prima di essere tolto dall’università.

Londra ha appena assistito alla sua tredicesima manifestazione nazionale dall’inizio della guerra. Per la loro persistenza e le dimensioni le proteste contro la guerra a Gaza sono comparabili solo con la manifestazione di oltre un milione di persone contro la decisione di Tony Blair di invadere l’Iraq, che nel 2003 è stata la più grande di questo genere.

Il movimento di protesta sta avendo un profondo effetto sulla stessa Gaza perché per una volta il popolo palestinese che affronta questo massacro non si sente solo.

Il giornalista e creatore di contenuti Bisan Owda ha detto: “Continuate così, perché voi siete la nostra unica speranza. E vi promettiamo che terremo duro e vi diremo sempre la verità. E per favore non lasciate che la loro violenza vi spaventi. Non hanno nessun’altra opzione se non farvi tacere e terrorizzarvi perché state demolendo decenni di lavaggio del cervello.”

Il bersaglio è il sionismo

Owda ha ragione. Se i bersagli del movimento di protesta del 1968 erano il Pentagono o il paternalismo repressivo dello Stato gollista, oggi sono il sionismo e chi arma Israele negli USA, in GB e in Germania.

Questa è la lobby filo-israeliana che etichetta e calunnia i politici come antisemiti per il loro appoggio alla Palestina. Sono loro che fanno sì che università codarde e in preda al panico caccino docenti dal loro lavoro. Si vedono come democratiche ma mettono mano alla strumentazione fascista. Danneggiano lo stato di diritto, la libertà di parola e il diritto a protestare.

Alla testa della rivolta contro il sionismo c’è una nuova generazione di ebrei che partecipano in numero sempre crescente a queste proteste.

Uno studente della Columbia e due del Barnard hanno spiegato perché: “Abbiamo scelto di essere arrestati nel movimento per la liberazione dei palestinesi perché siamo ispirati dai nostri antenati ebrei che lottarono per la libertà 4.000 anni fa. Quando la polizia è entrata nel nostro accampamento abbiamo formato una catena e cantato canzoni dell’epoca dei diritti civili che molti nei nostri predecessori più recenti hanno cantato negli anni ’60. Veniamo da un passato di attivismo progressista ebraico che ha superato linee di razza, classe e religione per trasformare le nostre comunità.

L’arresto e la brutalizzazione di oltre 100 studenti filopalestinesi della Columbia è l’azione peggiore di violenza nel nostro campus da decenni. Nel momento in cui la Columbia ha chiesto alla polizia di arrestare centinaia di studenti che protestavano, la nostra università ha normalizzato una cultura in cui le differenze politiche sono accolte con violenza e ostilità… Mentre scriviamo questo, studenti israeliani che ci passano vicino ci chiamano ‘animali’ in ebraico perché pensano che nessuno di noi li capirà, ripetendo le affermazioni del ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant secondo cui i palestinesi di Gaza sono ‘animali umani’.”

La guerra a Gaza sta provocando un dibattito senza precedenti tra gli ebrei, con importanti intellettuali come la giornalista canadese Naomi Klein che afferma che il sionismo è un “falso idolo che ha preso l’idea della terra promessa e l’ha trasformata in un atto di compravendita a favore di uno Stato etnico militarista.”

Klein ha scritto: “Fin dall’inizio ha prodotto un orrendo genere di ‘libertà’ che vedeva i bambini palestinesi non come esseri umani ma come minacce demografiche, così come nel Libro dell’Esodo il faraone temeva la crescente popolazione israelita e quindi ordinò la morte dei loro figli.

Il sionismo ci ha portati all’ attuale catastrofe ed è tempo di dire chiaramente: ci ha sempre portati qui. È un falso idolo che ha guidato troppi del nostro popolo lungo un sentiero profondamente immorale che ora li fa giustificare il fatto di gettare via comandamenti fondamentali: non uccidere, non rubare, non desiderare i beni altrui.”

La Palestina è ovunque

Questi avvenimenti avranno delle conseguenze.

Nel futuro immediato il movimento contro la guerra a Gaza ha rivitalizzato la causa nazionale palestinese come non mai. Nei campi profughi in Libano sbiadite scritte sui muri che commemorano le battaglie di Fatah e dell’OLP sono state sostituite da nuovi e rilucenti simboli che celebrano l’attacco del 7 ottobre. Il triangolo invertito che rappresenta Hamas che attraversa in paracadute la barriera di Gaza è ovunque.

Ogni manifestazione in tutto il mondo è guidata dalla diaspora palestinese che ha reagito in modo opposto a quello che era stato immaginato da Israele e dai suoi sostenitori. Il primo ministro Benjamin Netanyahu aveva pensato che se avesse ucciso gli anziani i loro figli e figlie avrebbero dimenticato la lotta.

Invece Netanyahu ha ricreato e rafforzato ovunque il legame dei palestinesi con la loro terra perduta. Se chiedi ai palestinesi del campo profughi giordano di Hitten dove sia la loro casa la risposta assolutamente maggioritaria è a Gaza o in Cisgiordania.

Questa ondata di solidarietà ha distrutto allo stesso modo anni di progetti per eliminare ogni legame tra la causa palestinese e il mondo arabo. Gli avvenimenti hanno contribuito. Le primavere arabe, la loro repressione e le guerre civili che ne sono seguite hanno soppiantato la Palestina come principale fonte di notizie per almeno un decennio.

Il tentativo israeliano di bypassare la causa nazionale palestinese tendendo direttamente la mano agli Stati del Golfo più ricchi stava per aver successo quando Hamas ha messo in atto il suo attacco.

Sette mesi dopo la Palestina è ovunque. Ogni sondaggio lo dimostra. Invece lo stesso Israele è sul banco degli imputati della giustizia internazionale, sotto indagine sia alla Corte Penale Internazionale, che sta per emettere mandati di arresto per Netanyahu e altri, e alla Corte Internazionale di Giustizia per genocidio.

Queste sono le conseguenze immediate, ma ce ne sono due a lungo termine che potrebbero essere ancora più importanti.

Il primo è che per la prima volta nella storia di questo conflitto Gaza, sia il suo popolo che i suoi combattenti, hanno evidenziato una determinazione a resistere e a lottare che l’OLP e Yasser Arafat non hanno mai dimostrato. Per la prima volta nella loro storia i palestinesi hanno una dirigenza che non rinuncerà alle sue principali richieste e che ispira rispetto.

La seconda conseguenza è che negli USA, l’unico Paese che può porre fine a questo conflitto ritirando il supporto militare, politico ed economico a Israele, sta crescendo una nuova generazione. È ancora oggi l’unica Nazione che Israele ascolta e che prende sul serio.

Tra loro gli ebrei sono orripilati da quello che si sta facendo nel loro nome. Orripilati da come la loro religione è stata trasformata in un’apologia della pulizia etnica. Orripilati da come la loro orgogliosa e sofferta eredità sia stata ridotta a una licenza di uccidere. Orripilati dal potere esercitato da Israele sul Congresso USA, sul parlamento britannico e su ogni importante partito in Europa.

Gli ebrei stanno sfidando l’affermazione secondo cui il sionismo è titolare della loro storia. Per questo sono in vario modo accusati di essere traditori, “kapo” (gli ebrei incaricati dalle SS naziste di controllare il lavoro forzato), odiatori di se stessi o semplicemente “animali”. Ma per me sono la principale fonte di speranza in questo paesaggio desolato. La guerra del Vietnam durò altri sette anni dopo l’offensiva del Tet. Neanche l’occupazione israeliana di Gaza avrà facilmente fine.

Ma potremmo aver raggiunto il punto di svolta nell’appoggio a Israele negli USA, in Gran Bretagna e in Europa, e ciò ha un significato storico.

Le opinioni esposte in questo articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

David Hearst è co-fondatore e caporedattore di Middle East Eye. È commentatore, esperto della regione e analista sull’Arabia Saudita. È stato l’editorialista per l’estero del Guardian e corrispondente in Russia, Europa e a Belfast. È arrivato al Guardian da The Scotsman [quotidiano britannico edito a Edimburgo, ndt.], dove era corrispondente per l’istruzione.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Contro l’ipocrisia dell’accademia e della politica

Contro l’ipocrisia dell’accademia e della politica

Wind M., Towers of Ivory and Steel. How Israeli Universities Deny Palestinian Freedom [Torre d’avorio e acciaio. Come le università israeliano negano la libertà ai palestinesi], Verso Books, 2024, London/New York, 288 pagine.

Recensione di Amedeo Rossi

 Mentre nelle università statunitensi ed europee si intensificano le proteste contro la collaborazione con le istituzioni accademiche e il complesso militare industriale israeliani, il libro di Maya Wind rappresenta uno strumento fondamentale per denunciare quello che le istituzioni occidentali molto spesso si rifiutano di vedere.

L’autrice, antropologa israeliana che insegna all’università canadese della British Columbia e in precedenza attivista nel suo Paese, in questo lavoro estremamente approfondito smentisce ogni ipocrisia relativa alla neutralità del sapere e del lavoro accademico in Israele. Il libro evidenzia anche quanto sia fuorviante l’opposizione al boicottaggio riguardante il bando MAECI per la collaborazione con le università israeliane nei settori della tecnologia del suolo, dell’acqua e dell’ottica di precisione. Wind dimostra come sia tradizionalmente pervasiva la vicinanza tra istituzioni accademiche, governi e forze di sicurezza israeliane e le università siano parte integrante del progetto di colonizzazione ed espulsione dei palestinesi dalla loro terra. Si tratta di un argomento già trattato in altre ricerche, anche italiane, ma il fatto di essere israeliana ha consentito all’autrice l’accesso ad archivi, documenti e fonti in ebraico che, come evidenzia anche l’abbondanza di note e riferimenti, le consentono un’indagine più diretta. E lo fa con nomi e cognomi degli accademici che partecipano a questa stretta collaborazione.

Il volume si divide in due parti, “Complicità” e “Repressione”, e inizia con un breve saggio della studiosa palestinese Nadia Abu El-Haj e si chiude con un testo dello storico statunitense Robin D. G. Kelley.

Wind chiarisce subito quale sia il suo intento: “Le università israeliane sono complici nella violazione dei diritti dei palestinesi? Questo libro intende rispondere a questa domanda svelando come le università israeliane siano coinvolte nel sistema di oppressione israeliano.”

Questa complicità risale alle origini della colonizzazione sionista. L’Università Ebraica (1918) è stata ideata per essere “un avamposto strategico del movimento sionista e avanzare pretese simboliche e politiche su Gerusalemme”, mentre il Technion (1925) e l’Istituto Weizmann (1934) “sono state fondate per lo sviluppo scientifico e tecnologico” del futuro Stato di Israele, afferma l’autrice, a partire dall’applicazione in ambito militare delle loro competenze.

La sua analisi non inizia dalle facoltà scientifiche legate direttamente al complesso militare-industriale, ma dalle discipline umanistiche, im particolare archeologia, orientalistica, diritto e criminologia. L’archeologia, scrive Wind, “costruisce prove per sostenere le rivendicazioni israeliane sulla terra attraverso la cancellazione della storia araba e musulmana e convalida l’uso israeliano di scavi per espandere le colonie israeliane ed espropriare terra palestinese.” La disciplina ha avuto fin da prima della fondazione dello Stato la funzione di legittimare la rivendicazione su base biblica della Palestina come terra ebraica. Ma l’archeologia viene utilizzata anche come mezzo per cacciare i palestinesi dalla Cisgiordania, e quindi fa pienamente parte del sistema di occupazione. Wind cita il caso degli abitanti di Susiya, nel sud della Cisgiordania, dove esercito e coloni, con l’attiva collaborazione dell’Università Ebraica di Gerusalemme, da anni minacciano di espulsione gli abitanti anche in base al ritrovamento di un’antica sinagoga. L’orientalistica funge da base ideologica per certificare l’inferiorità dei popoli arabi, diffondendo i pregiudizi dell’Occidente. A proposito di nomi e cognomi, un tipico esempio è il professore di etica dell’università di Tel Aviv Asa Kasher, che ha elaborato un’interpretazione delle leggi internazionali e di guerra ad uso e consumo delle politiche israeliane e delle prassi militari che legittimano l’uccisione dei civili palestinesi. Nel 2002 ha fatto parte di un’apposita commissione che ha stabilito il numero di civili che è lecito uccidere nelle esecuzioni “mirate” di militanti palestinesi per salvare la vita di un israeliano. Gli esperti hanno concordato come accettabile una media di 3,14 civili per ogni ipotetica vittima israeliana. Presso l’università di Haifa Kasher ha redatto la “Dottrina etica per combattere il terrorismo”, con i risultati che si sono visti a Gaza, anche prima del 7 ottobre. Ha anche stilato le linee guida per censurare i suoi colleghi dissidenti. Non sono solo gli accademici a contribuire attivamente al sistema di dominazione messo in atto da Israele, ma addirittura gli stessi edifici universitari. Wind cita tre casi: l’Università Ebraica a Gerusalemme, quella di Haifa nel nord e la Ben Gurion nel Negev (Naqab), a sud. Oltre ad essersi impossessata dei libri sequestrati nelle biblioteche della Cisgiordania attraverso un vero e proprio saccheggio, l’Università Ebraica è stata costruita su terreni del villaggio palestinese di Sheikh Badr. Essa svolge un ruolo attivo nel progetto di “ebraizzazione” di Gerusalemme e nelle vessazioni a danno degli abitanti palestinesi di Issawiyeh, che si trova nei pressi del campus. Le altre due università sono impegnate, soprattutto con il lavoro dei demografi, nell’elaborare le modalità di espulsione degli abitanti palestinesi con cittadinanza israeliana e della loro sostituzione con immigrati ebrei. L’università di Haifa ha promosso la legge che consente ai “comitati di accoglienza” di negare la residenza a persone non gradite in comunità che intendano rimanere esclusivamente ebraiche. All’interno di queste università viene comunemente accolto un folto contingente di militari e membri dei servizi di sicurezza, che rappresentano una concreta intimidazione nei confronti degli studenti palestinesi ed ebrei di sinistra. Infine l’autrice cita l’università di Ariel, che si trova nell’omonima colonia, illegale in base alle leggi internazionali, ma con cui alcune istituzioni accademiche italiane, come Firenze e Milano, hanno stretto rapporti di collaborazione annullati solo dopo le proteste degli studenti e delle associazioni filo-palestinesi. Questa università “ha trasformato…la percezione [di Ariel] da parte dell’opinione pubblica israeliana da una colonia illegale e fortemente militarizzata a un sobborgo di Tel Aviv […] L’istituzione conferisce lauree come mezzo per estendere la sovranità israeliana e procedere nell’annessione dei Territori Palestinesi Occupati,” scrive Wind.

Più evidente e nota è la collaborazione delle facoltà scientifiche con l’apparato militare, con l’occupazione e il processo di espulsione dei palestinesi. Questo vale non solo per le ricerche tecnologiche direttamente legate all’industria militare, ma in generale per il mondo universitario israeliano.

Nella seconda parte del libro, a smentita della presunta democraticità del mondo accademico israeliano, Wind evidenzia la metodicità della repressione nei confronti dei docenti, non solo di origine palestinese, ma anche ebrei critici con le politiche del governo, spesso obbligati ad andare a insegnare all’estero, come Ilan Pappé e Neve Gordon. Ma la questione di fondo è che non possono esistere libertà e sviluppo “etico” delle conoscenze in un contesto coloniale. Nel caso del bando MAECI, non ci sono legittimi dubbi solo riguardo al doppio uso civile/militare dell’ottica di precisione, ma anche gli altri due settori coinvolgono direttamente le politiche e le pratiche della dominazione israeliana. Infatti le tecnologie del suolo e dell’acqua rientrano a pieno titolo nelle politiche di dominazione dei palestinesi. E, come ricorda Wind, sia che si tratti di tecnologie belliche che di ricerche ed elaborazioni teoriche, le “scoperte” israeliane hanno un’evidente applicazione pratica e vengono pubblicizzate come prodotti “testate sul campo”, cioè sui palestinesi. Il modello stesso di stretta collaborazione tra accademia, esercito e industrie belliche è stato ormai adottato anche in Italia.

C’è da augurarsi che venga tradotto al più presto in italiano questo libro, uno strumento fondamentale per chi sostiene il boicottaggio accademico di Israele. E andrebbe accolto l’appello di Maya Wind nelle conclusioni: È nostro dovere chiedere di interrompere i rapporti con l’accademia israeliana fino a quando non prenderà parte al processo di decolonizzazione.”