Gli abitanti dei kibbutz bloccano gli aiuti umanitari a Gaza.

Jonathan Ofir  

18 giugno 2024 – Mondoweiss

La complicità con il genocidio non è confinata alla destra israeliana. Membri dell’organizzazione progressista che lo scorso anno ha capeggiato le proteste contro Netanyahu ora bloccano gli aiuti umanitari a Gaza

Nel corso degli ultimi mesi i principali mezzi di informazione hanno parlato del problema degli israeliani che bloccano gli aiuti umanitari a Gaza. A marzo Clarissa Ward della CNN ha raccontato degli attivisti israeliani di estrema destra che cercano di bloccare con i propri corpi i valichi verso Gaza attraverso cui è stato trasportato l’aiuto umanitario. Ward ha respinto le affermazioni dei manifestanti secondo cui i sacchi di riso erano stati riempiti con proiettili, spiegando inutilmente che i gazawi stanno morendo di fame.

Venerdì l’amministrazione Biden ha emanato una sanzione selettiva contro la principale organizzazione che blocca gli aiuti, “Tzav 9”, che significa “Ordine 9”, un nome che allude all’ordine di mobilitazione dei riservisti dell’esercito israeliano.

Il portavoce del Dipartimento di Stato Matthew Miller ha affermato:

Per mesi singoli individui di Tzav 9 hanno ripetutamente cercato di impedire la consegna di aiuti umanitari a Gaza, compreso  il blocco di strade, a volte in modo violento, lungo il loro percorso dal Giordano a Gaza, anche in Cisgiordania… Non tollereremo azioni di sabotaggio e violenze che prendano di mira questa indispensabile assistenza umanitaria… Continueremo ad usare ogni mezzo a nostra disposizione per promuovere il fatto che vengano chiamati a risponderne quanti cercano o intraprendono tali atti odiosi e ci aspettiamo e sollecitiamo le autorità israeliane a fare altrettanto.

Ma l’idea implicitamente sostenuta qui che “Tzav 9” sia l’unico attore negativo da condannare è assolutamente fuorviante. Il blocco dell’aiuto umanitario è solo un contributo di questi attivisti, il principale responsabile dell’uso della fame come arma contro tutta la popolazione di Gaza è il governo israeliano. È un l’attore fondamentale di questo genocidio.

Nel suo reportage Clarissa Ward ha correttamente notato che un recente sondaggio dell’Israeli Democracy Institute [centro di ricerca progressista, ndt.] ha mostrato che il 68% – oltre due terzi – degli ebrei israeliani è contrario all’aiuto umanitario a Gaza. Il sondaggio in effetti ha evidenziato l’80% tra i votanti di destra (che costituiscono circa i 2/3 della popolazione). E non importa se Hamas e l’UNRWA sono esclusi dalla fornitura di aiuti, vi si oppongono comunque. In altre parole i manifestanti di “Tzav 9” sono solo la punta dell’iceberg.

Di fatto a questi attivisti di destra ora si è unito un altro gruppo significativo: gli abitanti di kibbutz che stanno anche loro bloccando con i propri corpi l’aiuto umanitario a Gaza.

In Israele la società dei kibbutz è tradizionalmente nota per il suo spirito socialista di sinistra. Ma da sempre è ed è stata funzionale all’occupazione colonialista israeliana e all’apartheid. Come ha detto recentemente il presidente del Movimento dei Kibbutz Nir Meir, “i coloni non si sbagliano. La destra ha ragione: questo è il modo per impossessarsi delle terre e la loro affermazione secondo cui in ogni posto che noi israeliani lasciamo al nostro posto verranno gli arabi è corretta. La destra ha anche ragione nel suo progetto: è con la colonizzazione e solo con essa che può essere imposta la sovranità.”

Domenica il quotidiano israeliano di centro Maariv ha informato che ora circolano video di membri di kibbutz che stanno anche loro bloccando l’aiuto umanitario. Il video mostra due uomini del kibbutz Sdeh Boker (proprio il kibbutz di Ben-Gurion) e attivisti di “Koah Kaplan” — la “Forza Kaplan”, l’organizzazione che protesta contro l’attuale governo. Prende il nome da via Kaplan a Tel-Aviv, dove si svolgono le principali manifestazioni [contro Netanyahu, ndt.]. Il video di Maariv, secondo cui sarebbe di febbraio, mostra il blocco di camion da parte di membri del kibbutz al valico di Kerem Shalom verso Gaza, e “Tsav 9” ha confermato che negli ultimi mesi “Forza Kaplan” ha fatto parte del tentativo di bloccarli.

Ecco quanto dicono nel video i due attivisti:

Sono Boaz Sapir del kibbutz Sdeh Boker, sono qui per trasmettere un chiaro messaggio… il messaggio è che non ci sono destra o sinistra, che tutti gli ostaggi ritornino, vivi.”

Sono Gilad Shavit, del kibbutz Sdeh Boker, insieme a Boaz… vengo a portare il messaggio che gli ostaggi sono di tutta la Nazione di Israele, tutta la Nazione di Israele vuole il ritorno degli ostaggi, ma per un po’ il governo lo ha dimenticato. Non è possibile, non forniremo nessuna assistenza (umanitaria) ad Hamas finché i rapiti non verranno restituiti, questo è il nostro messaggio.”

Quello stesso messaggio è stato pronunciato fin dall’inizio del genocidio dall’uomo che è stato recentemente eletto alla guida del partito Laburista israeliano, Yair Golan.

Golan è entrato nel partito laburista da sinistra, essendo stato membro del Meretz, che non è riuscito a superare la soglia di sbarramento nelle elezioni del novembre 2022. Il 13 ottobre Golan ha sostenuto addirittura che bisogna far morire di fame i gazawi:

Innanzitutto interrompere tutte le forniture di elettricità a Gaza. Penso che in questa battaglia sia vietato consentire un’operazione umanitaria. Dobbiamo dire loro: ascoltate, finché non saranno rilasciati (gli ostaggi) per quanto ci riguarda potete morire di fame. È assolutamente legittimo.”

Nel suo articolo Maariv pone l’ovvia domanda: “Il governo americano metterà in atto sanzioni contro gli attivisti della ‘Forza Kaplan’?”

Penso che sappiamo tutti la risposta. L’amministrazione Biden non sanzionerà un movimento che rappresenta la “democrazia” israeliana, dato che esso lotta apertamente contro il governo, a dimostrazione del fatto che in Israele esiste il pluralismo politico.

Biden vuole cavarsela con gesti simbolici come in marzo, quando ha sanzionato quattro coloni “che minacciano la pace, la sicurezza o la stabilità in Cisgiordania”. Il docente della Columbia University Rashid Khalidi ha sottolineato:

È un po’ come se ci fosse un furioso incendio e ci buttassero sopra un bicchier d’acqua e nello stesso tempo stessero fornendo benzina per alimentare le fiamme… Sanzionare qualche individuo che fa parte di una spinta alla colonizzazione sostenuta dal governo israeliano per 56 anni è in sé e per sé assurdo. O sanzioni chi lo ha guidato con molti miliardi di dollari, cioè il governo israeliano e le donazioni americane esentasse, o non fingere di opporti alle colonie.”

Gli USA dovrebbero impedire un genocidio, non giocare con le sanzioni contro questa o quella organizzazione. Israele nel suo complesso sta commettendo questo genocidio. Invece Biden sta solo andando dietro al frutto facile da cogliere degli attivisti di estrema destra, un atto simbolico, mentre continua la sua politica di incrollabile appoggio al genocidio israeliano.

Gli abitanti dei kibbutz, spesso additati dai democratici progressisti come il meglio della società israeliana, non sono diversi da “Tzav 9” quando si tratta di bloccare l’aiuto salvavita ai palestinesi di Gaza. E le loro parole e azioni rivelano solo quanto la società israeliana sia nel suo complesso genocidaria.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




“Rischi catastrofici”: allarme dall’UNRWA per 330.000 tonnellate di rifiuti accumulati a Gaza

Redazione di The Palestine Chronicle

13 Giugno 2024 – The Palestine Chronicle

L’accesso umanitario senza ostacoli e il cessate il fuoco ora sono fondamentali per ripristinare condizioni di vita umane”.

L’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati Palestinesi (UNRWA) ha messo in guardia dai “catastrofici” rischi ambientali e sanitari nella Striscia di Gaza, a causa dell’accumulo di rifiuti nelle aree popolate dell’enclave assediata. “Al 9 giugno, oltre 330.000 tonnellate di rifiuti si sono accumulate nelle aree popolate di Gaza o nelle loro vicinanze, con rischi ambientali e sanitari catastrofici”, ha dichiarato giovedì l’UNRWA in un comunicato. “I bambini rovistano quotidianamente tra i rifiuti”. L’agenzia ONU ha ribadito il suo appello per un cessate il fuoco immediato: “L’accesso umanitario senza ostacoli e il cessate il fuoco adesso sono fondamentali per ripristinare condizioni di vita umane”. In precedenza, l’agenzia aveva dichiarato che i palestinesi di Gaza “hanno vissuto sofferenze incessanti per oltre 8 mesi”, sottolineando che “nessun luogo è sicuro. Le condizioni sono deplorevoli. Cibo, acqua e forniture mediche sono ben lungi dall’essere sufficienti”.

Difficoltà nelle missioni di aiuto

Nel suo ultimo rapporto sulla situazione, l’UNRWA ha dichiarato che tra l’1 e il 6 giugno, delle 17 missioni coordinate di assistenza umanitaria nel nord di Gaza, otto (47%) sono state agevolate dalle autorità israeliane, a tre (18%) è stato negato l’accesso, quattro (23%) sono state ostacolate e due (12%) annullate, “per motivi operativi o di sicurezza”. Citando l’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA), l’UNRWA ha affermato che delle 74 missioni di assistenza umanitaria coordinate nelle aree del sud di Gaza le autorità israeliane ne hanno agevolate 52 (70%), 3 (4%) sono state negate, 12 (16%) sono state ostacolate e 7 (10%) sono state annullate. “Molte missioni classificate come ostacolate hanno subito ritardi prolungati, alcuni dei quali hanno raggiunto le nove ore in luoghi sensibili e insicuri, mettendo il personale umanitario a rischio di sicurezza”, si legge nel rapporto.

Un numero impressionante di morti

Secondo il Ministero della Sanità di Gaza 37.232 palestinesi sono stati uccisi e 85.037 feriti nel genocidio in corso a Gaza dal 7 ottobre. Inoltre almeno 11.000 persone sono disperse, presumibilmente morte sotto le macerie delle loro case in tutta la Striscia. Le organizzazioni palestinesi e internazionali affermano che la maggior parte delle persone uccise e ferite sono donne e bambini. La guerra israeliana ha provocato una carestia acuta, soprattutto nel nord di Gaza, causando la morte di molti palestinesi, soprattutto bambini. L’aggressione israeliana ha anche provocato lo sfollamento forzato di quasi due milioni di persone da tutta la Striscia di Gaza, con la stragrande maggioranza degli sfollati costretti nella città meridionale di Rafah, densamente affollata e vicina al confine con l’Egitto, in quello che è diventato il più grande esodo di massa della Palestina dalla Nakba del 1948. Israele afferma che 1.200 soldati e civili sono stati uccisi durante l’operazione “Inondazione di Al-Aqsa” del 7 ottobre. I media israeliani hanno pubblicato rapporti che suggeriscono che molti israeliani sono stati uccisi quel giorno da “fuoco amico”.

(traduzione dall’inglese di Giacomo Coggiola)




“Che Gaza bruci”: il diluvio di retorica genocida dei soldati israeliani

Younis Tirawi e Eran Maoz

13 giugno 2024 Zeteo

Dentro il genocidio-lampo di Israele, la seconda parte della nostra indagine su Zeteo

Il comandante militare israeliano Gur Rosenblat è esplicito: tutta Gaza, “non solo l’organizzazione di Hamas”, deve essere eliminata e i suoi 2 milioni di abitanti cacciati. La Striscia, scrive sui social, dovrebbe “cessare di esistere”.

Anche se Rosenblat, capo della Brigata di fanteria settentrionale israeliana e vicedirettore generale del Ministero dell’Istruzione del paese, chiarisce in un post su Facebook del 13 ottobre di non parlare in veste ufficiale, non tenta di mascherare i suoi appelli al genocidio. “Persone che sono bestie umane e i loro sostenitori devono pagare un prezzo altissimo, se non con la vita, almeno con l’espulsione”, scrive.

Solo tre giorni dopo un account Instagram con il nome utente @gvrrvznblt, che afferma di essere Rosenblat, ha pubblicato una foto con la didascalia: “Perché non uccidiamo dieci, ventimila gazawi al giorno bombardandoli per ogni giorno in cui i rapiti [gli ostaggi israeliani] non tornano? …follia”.

Nell’invocare una “vittoria decisiva” su Facebook il 20 novembre Rosenblat chiarisce che “soltanto la cancellazione completa e definitiva” di Gaza City, prima della guerra la città più popolosa dell’enclave palestinese, e il “trasferimento dei suoi abitanti nella parte meridionale della Striscia… può portare a qualche cambiamento”.

Una “specie di seconda o terza Nakba”, aggiunge. “Proprio come [il villaggio palestinese di] Sheikh Munis, sulle cui rovine fu fondata Tel Aviv [nel 1948], e molti altri insediamenti arabi furono cancellati, così anche la città di Gaza deve essere cancellata”.

Rosenblat non è solo. Dal 7 ottobre abbiamo trovato sui social media centinaia di post di personale militare israeliano, compresi i comandanti, pieni di odio, di retorica disumanizzante spesso genocida. I post contribuiscono ad accumulare una serie crescente di prove che certificano ciò che le associazioni per i diritti umani e altri hanno definito un modello sistematico di crimini di guerra commessi dalle forze israeliane nella Striscia di Gaza. Inoltre mettono a nudo il vero intento della guerra di Israele contro Gaza. Non è una “guerra difensiva” volta a garantire “il minimo danno ai civili”, come amano affermare Israele e i suoi alleati. Proprio le parole dei soldati suggeriscono che far danno ai civili con morte, distruzione e sfollamento sia, di fatto, l’obiettivo.

Nella prima parte della nostra indagine per Zeteo avevamo considerato le foto disumanizzanti che i soldati hanno condiviso da Gaza. Nella seconda parte documentiamo la retorica genocida che è diventata un tema davvero imperante tra i soldati israeliani, compresi quelli schierati a Gaza. Se non diversamente specificato, i soldati che hanno condiviso i post non hanno risposto alle nostre richieste di commento.

Un progetto per “ridurli in polvere”

L’8 ottobre, su una pagina Facebook, uno che afferma di essere il Colonello riservista Elad Schvartz aveva pubblicato un video con un messaggio per i leader israeliani. “Se entro quattro ore tutti gli ostaggi non verranno rilasciati…, inizieremo a bruciare Gaza”, dice l’ufficiale senior della 91a divisione, vestito con la sua uniforme militare. “Quartiere dopo quartiere.”

A circa 40 miglia di distanza soldati che sembrano appartenere al 5060° Battaglione di Riserva che opera nella città occupata di Hebron, in Cisgiordania, hanno lanciato il loro sentito appello a bruciare le città palestinesi nei territori occupati: “Che il vostro villaggio bruci, che il vostro villaggio bruci”, cantano diversi soldati in un video pubblicato su Instagram da un soldato israeliano.

Gli appelli che chiedevano la distruzione su vasta scala di un popolo e della sua terra non erano solo retorica. Come il mondo ha visto negli ultimi otto mesi sono serviti da piano per la distruzione, documentato non solo dai palestinesi di Gaza ma anche dagli stessi soldati israeliani sul terreno della Striscia che sembravano desiderosi di vantarsi con i loro follower di ciò che avevano pianificato di fare – e di quando lo hanno fatto.

Ciò è stato particolarmente vero per i combattimenti che hanno avuto luogo nel quartiere densamente popolato di Shuja’iyya, a Gaza City dove molti palestinesi avevano cercato rifugio all’inizio della guerra. Quando a dicembre l’esercito israeliano ha fatto irruzione nella zona i blackout nelle comunicazioni hanno reso difficile sapere esattamente cosa stava succedendo. Sarebbe divampata una battaglia feroce.

Almeno due account Instagram che affermavano essere di soldati della brigata Givati hanno condiviso quello che sembrava essere il filmato di un drone che mostrava gli edifici del quartiere in fiamme. Nel video si sente una voce non identificata, presumibilmente un soldato dire che stanno partendo per “l’operazione ottava notte di Hannukah” per bruciare Shuja’iyya. “La faremo vedere ai nostri nemici, che imparino la deterrenza… Li ridurremo in polvere,” aggiunge la voce.

Mohammed Abo Al-Kombz, originario di Shuja’iyya, ha detto a Zeteo che intere parti del quartiere e delle aree vicine sono state date alle fiamme, ciò che sembra essere coerente con quello che si vede nel video.

L’esercito israeliano non ha risposto alle nostre specifiche domande sul filmato o se avesse effettuato un’operazione come quella menzionata nel video. Ma il fatto che il video sia stato caricato sui social media dai soldati israeliani sembra illustrare il messaggio che volevano inviare: “annientare” i palestinesi “riducendoli in polvere”.

Il 19 dicembre il capitano Roi Azran ha pubblicato su Facebook un video di Shuja’iyya che mostrava la distruzione del quartiere. “Ecco Gaza, figlia di puttana. Tutta Shuja’iyya andrà in fiamme”, dice qualcuno nel video.

A gennaio un account Instagram con nome utente alon_dayann che dichiarava essere del soldato israeliano Alon Dayan ha pubblicato un video con un linguaggio simile. “Buongiorno, figli di puttana”, si sente dire un soldato nel video prima di sparare contro quelle che sembrano essere case di civili. La didascalia del video recita in ebraico: “Possa Gaza bruciare con tutti i suoi abitanti”.

Sharon Ohana dei Corpi Combattenti del Genio militare dell’esercito israeliano, in un post di dicembre su Facebook, sembra prefigurare ciò che verrà. Il “destino” di Shuja’iyya, Khan Younis e Rafah “deve essere lo stesso destino della Striscia settentrionale [di Gaza] all’inizio della guerra: sporco e polvere, fuoco e macerie di cemento”, scrive Ohana a dicembre. “… Dobbiamo radere al suolo tutta Gaza!”

Davvero il post di Ohana è solo un brutto scherzo? Ohana chiarisce esplicitamente che non lo è. “ ‘Insieme la spianeremo’ non è uno scherzo ma una dichiarazione inequivocabile scritta con il sangue dai migliori ufficiali dell’IDF attenti alla sicurezza e non per niente…”

Mentre la battaglia infuriava a Shuja’iyya altre unità israeliane stavano invadendo la città di Khan Younis nel sud di Gaza. Il soldato israeliano Peleg Harush ha pubblicato un video su Instagram il 5 dicembre che mostra volute di fumo provenienti da quelle che sembrano essere case di palestinesi. “Ah… Gaza sta bruciando. Bruciate vivi, bastardi”, dice in ebraico una voce nel video.

In un altro post di gennaio dallo stesso account, un soldato che sembra essere Harush invia un messaggio ai residenti di Gaza in ebraico: “Tutto è in rovina, distrutto, bruciato, a pezzi. Non avete nessun posto dove tornare, gazawi. A tutti i cari abitanti di Gaza, non siete cari. Non valete niente… Vi faremo passare un brutto quarto d’ora… Soffrirete ogni secondo per quello che ci avete fatto… Morirete.”

Una cultura dell’impunità

Per un paese che definisce il suo esercito come “il più morale… del mondo”, si potrebbe pensare che tali post avrebbero suscitato dure azioni disciplinari nel tentativo di proteggerne l’immagine generale. Ma come mostra la nostra indagine l’esercito israeliano, almeno pubblicamente, ha adottato poche misure per impedire ai suoi soldati di condividere tali contenuti.

Ciò che abbiamo riscontrato invece è stata una cultura dell’impunità.

Se non diversamente specificato l’esercito israeliano non ha risposto alle domande di Zeteo su soldati o post specifici. Ma un portavoce militare israeliano ha detto a Zeteo in una dichiarazione che “tutti i video, le immagini e i post sui social media” che gli abbiamo segnalato “non sono coerenti con i valori dell’IDF e non riflettono la sua politica”.

Nei “numerosi casi esaminati sembra che l’espressione o il comportamento dei soldati nei filmati siano inappropriati e che altrettanto impropriamente siano stati maneggiati”, ha detto il portavoce, sottolineando, tuttavia, che “l’atto documentato con la dichiarazione che lo accompagna è stato eseguito per scopi militari e in conformità con gli ordini” come nel caso della distruzione di “infrastrutture nemiche”.

“Le autorità competenti erano a conoscenza di molti degli incidenti elencati nella contestazione, ed erano stati esaminati e trattati a livello disciplinare e di comando prima della presentazione della contestazione”, ha detto il portavoce. L’esercito israeliano non ha spiegato cosa comportasse nello specifico l’azione disciplinare.

“I casi che non erano già noti sono stati subito trasferiti per un ulteriore esame e procedura”, ha aggiunto il portavoce. “Nei casi in cui sorga il sospetto di un reato che giustifichi l’apertura di un’indagine, l’indagine viene aperta dalla Polizia Militare.”

Il portavoce militare israeliano Daniel Hagari ha dichiarato ad ABC News all’inizio di quest’anno che l’esercito israeliano è “l’esercito del popolo. E rispettiamo l’essenza, i valori e il diritto internazionale”.

Molti dei post scoperti dalla nostra indagine rimangono online, nonostante le prove che contravvenissero alla politica militare relativa ai social media.

Nel caso di Harush che in un post ha detto: “Figli di puttana possiate bruciare vivi”, l’esercito israeliano ci ha detto a febbraio che il comportamento del soldato era inappropriato ed è stato gestito di conseguenza, senza fornire ulteriori dettagli. Eppure in un post di metà aprile Harush ha scritto “Gaza siamo tornati”, senza aver cancellato gli altri suoi post.

In molti modi i post riflettono in gran parte la società israeliana dopo il 7 ottobre. Una “febbre da genocidio” ha invaso le onde radio, l’industria dell’intrattenimento, i negozi di alimentari e i quartieri del paese, ha scritto a maggio Diana Buttu, collaboratrice di Zeteo. All’inizio dell’anno la stragrande maggioranza degli ebrei israeliani intervistati per un sondaggio ha affermato di ritenere che l’esercito stesse usando “una forza adeguata o troppo scarsa” a Gaza. Molti dei post sui social media trovati nell’ambito di questa indagine avevano ricevuto decine di commenti e like di sostegno.

Post per il genocidio nonostante l’ordine della Corte Interazionale di Giustizia

La decisione dell’esercito israeliano di consentire, anche indirettamente, l’esistenza di questi posti si è già rivelata decisiva. A gennaio la Corte mondiale ha ordinato al governo israeliano di adottare misure per prevenire e punire qualsiasi “incitamento diretto e pubblico al genocidio”, che è punibile ai sensi della Convenzione sul Genocidio. Il Sudafrica, che ha portato il caso contro Israele davanti alla Corte Internazionale di Giustizia, ha citato diversi post simili di soldati israeliani, incluso almeno uno di quelli da noi precedentemente riportati, come prova di incitamento al genocidio.

L’ordinanza specifica della Corte Internazionale relativa alla prevenzione dell’”incitamento al genocidio”, che faceva parte di un pacchetto di misure provvisorie emesse dalla Corte, era una delle due che ha ricevuto il sostegno dell’allora giudice israeliano Aharon Barak. Eppure, nonostante l’ordinanza della Corte, continuano ad emergere nuovi post dal linguaggio genocida.

Ad aprile un account Instagram che affermava essere di Yehuda Ben Moha, co-fondatore di Eyal Battalion, ha condiviso un video che mostrava quelli che secondo lui erano camion che trasportavano farina, con la didascalia: “Avrei messo del veleno per i ‘non coinvolti’. Anche i camionisti egiziani non li sopportano”. Ben Moha ha rifiutato di commentare il post e l’account è stato reso privato dopo che abbiamo chiesto un commento.

Il 17 aprile un account Facebook che affermava di essere del tenente colonnello Maoz Schwartz del battaglione 7007 ha pubblicato una foto che sembrava mostrare palestinesi sfollati con la forza che fanno il bagno in mare. “Sono su una spiaggia e i nostri ostaggi stanno deperendo in cattività?? Che possano [i gazawi] soffocare! Niente spiaggia, niente piscina, niente!” scrive. “[Tutta] Gaza è una grande area di terroristi, compresi quelli che nella foto fanno il bagno in mare”.

La narrazione militare cade a pezzi

I nostri sforzi investigativi non solo hanno messo in luce gli allarmanti comportamenti dei soldati israeliani, ma hanno anche avuto un ruolo nella causa legale intentata dal Sud Africa contro Israele presso la Corte Internazionale. Tuttavia, il nostro lavoro ha anche attirato la sgradita attenzione dei media israeliani, che hanno rivolto il loro fuoco non contro i soldati impegnati in comportamenti barbari ma contro di noi per averli denunciati.

Portare alla luce quei materiali non è stato facile. Il nostro lavoro non solo ha attirato l’attenzione internazionale sulla situazione reale, ha anche innescato importanti discussioni sulle responsabilità e la giustizia, evidenziando la necessità di un esame più approfondito e completo delle pratiche e delle politiche di fatto all’interno dell’esercito israeliano. Man mano che emergono prove sempre più evidenti, la necessità dell’assunzione di responsabilità diventa sempre più pressante.

In definitiva i post che abbiamo scoperto rivelano un netto contrasto con la narrazione attentamente curata che Israele cerca di diffondere. Nonostante l’esercito israeliano abbia ripetutamente affermato di prendere precauzioni per ridurre al minimo i danni ai civili, le testimonianze di soldati e ufficiali sul campo raccontano una storia decisamente diversa, caratterizzata da distruzione indiscriminata e da una pervasiva cultura dell’impunità che, a nostro avviso, ha fornito ai soldati essenzialmente una tacita approvazione a continuare con le loro azioni senza timore di conseguenze. Le prove raccolte finora sono solo una piccola parte di ciò che c’è.

Ma “l’incitamento al genocidio” è ormai evidente a tutto il mondo.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)

 

 




Ormai Israele ha reso l’antisemitismo un vuoto slogan

Mustafa Fetouri

13 giugno 2024 – Middle East Monitor

Molti nel sud del mondo pensano che Israele abbia sequestrato l’olocausto e lo abbia sovrapoliticizzato per i propri scopi politici fin dalla sua creazione nel 1948. I popoli del sud (del mondo) non condividono in realtà il peso della colpa per quello che i cristiani europei fecero al popolo ebraico e a coloro che tentarono di aiutarlo in tutto il continente.

Certamente la Germania nazista ha assassinato sei milioni di ebrei, ma ha anche assassinato secondo le stime altri cinque milioni di non ebrei, compresi Zingari, Rom, Slavi [Russi, Polacchi, ecc., n.d.t.], persone disabili e omosessuali. Storicamente lo Stato tedesco ha una lunga storia di uccisioni di massa, molto prima che comparisse Hitler, e la sua vicenda coloniale dalla Namibia alla Tanzania testimonia tali atrocità. Questo è uno dei motivi per cui il termine “olocausto” difficilmente evoca le emozioni che scatena ad esempio in Europa. Le vittime del colonialismo nel sud del mondo vedono non solo i doppi standard e l’ipocrisia, ma anche un tentativo di separare le loro vittime coloniali da altre e dimenticarsene. La maggior parte degli africani, per esempio, considera la questione palestinese come una vicenda sostanzialmente coloniale condotta dalle vittime dell’olocausto contro palestinesi innocenti, con molte analogie con la lotta di liberazione africana.

Ma nel corso degli anni il termine “olocausto” si è imposto con riferimento solo ed esclusivamente alle vittime ebree, ignorando le altre. Questo fatto, sostenuto e ben propagandato dagli alleati occidentali di Israele, ha reso l’intera tragedia ebraica una questione privata che non deve essere collegata o paragonata a nessun’altra, limitando se non negando totalmente la solidarietà.

L’olocausto, invece di essere commemorato in tutto il mondo come una tragedia umana perpetrata da criminali di guerra, è diventato uno strumento israeliano utilizzato per suscitare compassione e screditare gli altri. Chiunque osi criticare le politiche e le pratiche israeliane può essere definito e bollato come un “negazionista dell’olocausto” e soprattutto antisemita – il moderno termine onnicomprensivo, o meglio formula magica, che può condurre alla fine di una carriera e addirittura al licenziamento dalla scuola!!

Israele ha strumentalizzato l’olocausto per giustificare la propria esistenza e tutto ciò che fa per difendersi. Sostiene di essere il legittimo e solo erede della tragedia ebraica, attribuendosi il totale monopolio sull’uso del termine e sul come viene usato. Per esempio, Israele sarà molto adirato e propenso a reagire con estrema rabbia se chiunque, anche incidentalmente, paragoni l’olocausto come pratica di assassinio di massa ad altri assassinii di massa in tutto il mondo, figuriamoci in Palestina.

Sotto il governo di un polacco immigrato illegale e criminale di nome Menachem Begin, che è stato primo ministro dal 1977 al 1981, Israele e i suoi alleati occidentali hanno perfezionato l’arte dell’utilizzo fuorviante e ipocrita dell’olocausto, Shoah in ebraico, come sistema per giustificare qualunque cosa faccia Israele ai suoi nemici, comprese le singole persone che si oppongono alle sue politiche.

Accanto all’evocazione manipolatoria ed ipocrita dell’olocausto ad ogni difficoltà che Israele si trova ad affrontare, vi è l’altro termine molto più pericoloso e disumanizzante: antisemitismo, che di recente è stato usato quasi ogni giorno nel contesto del genocidio israeliano a Gaza che ha ucciso quasi 40.000 persone, e che continua.

L’eccessivo uso di “antisemitismo” per descrivere qualunque persona, Stato e organizzazione mondiale, comprese le Nazioni Unite, ha reso questo termine nient’altro che un vuoto slogan usato per intimidire e costringere altri al silenzio. Persino ebrei credenti e praticanti rischiano di venire accusati di “odiare sé stessi” se si esprimono contro gli orrendi crimini di Israele in Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme est. Anche la critica dell’occupazione di parti del Libano e della Siria costituisce una linea rossa.

Abba Eban, un famoso studioso e diplomatico israeliano nato in Sudafrica, stanco dell’uso estenuante del termine olocausto contro i critici, una volta ha detto che “è tempo che noi (israeliani) ci reggiamo sui nostri piedi e non su quelli di sei milioni di morti.”

Mentre Ben Gurion, il padre fondatore di Israele, una volta descrisse le vittime dell’olocausto come “macerie umane”, riproponendo la stessa cosa di Abba Eban – anche se un po’ più aspramente – che l’eccessiva evocazione dell’olocausto non favorirà Israele molto di più del definire gli avversari antisemiti.

Nel contesto dell’attuale sterminio di massa di Israele a Gaza la prima reazione delle elite e dei governi occidentali è stata assicurargli un inequivocabile sostegno alle sue pretese di autodifesa, nonostante l’uccisione di migliaia e migliaia di bambini palestinesi. Queste elite ipocrite, nel loro cieco appoggio ad Israele, impiegheranno prontamente la parola magica “antisemitismo” contro ogni opinione contraria e, per mettere Israele ancor più al riparo da qualunque accusa, non esiteranno a rievocare il nazismo ed i suoi crimini contro il popolo ebraico.

I leader israeliani, nella loro prima reazione all’attacco di Hamas del 7 ottobre, non solo hanno paragonato Hamas ai nazisti e i suoi capi a Hitler, ma hanno fatto riferimento alla Torah [in cui più volte il “dio degli eserciti” invita i suoi fedeli a sterminare i loro nemici, n.d.t.] e sono andati oltre definendo l’intera popolazione palestinese a Gaza animali umani meritevoli di morire, semplicemente perché sono solamente dei sub-umani e anche perché hanno assalito proprio il Paese che ospita i sopravvissuti dell’olocausto – in una parola, antisemiti.

Secondo la più ampia concezione che Israele ha di sé stesso e della propria identità, ogni ebreo ovunque nel mondo dovrebbe essere anzitutto sionista, poi israeliano, in terzo luogo ebreo e in ultimo cittadino di un altro Paese. Soprattutto lui o lei dovrebbe essere sempre pronto/a a definire gli avversari o altri differenti punti di vista come “antisemiti” e odiatori degli ebrei, anche se hanno usato espressioni del tutto neutrali e aperte alla discussione.

Questo rende l’idea di lealtà ad Israele superiore ad ogni altra lealtà, facendo degli ebrei in America, per esempio, o in ogni altra parte del mondo, una comunità discriminata e sempre sospettata e presa di mira.

Tutti i Paesi europei hanno leggi severe che penalizzano ogni forma di antisemitismo, tuttavia proprio queste leggi in realtà contribuiscono ad esacerbare i sentimenti anti-ebraici. Questo serve a rafforzare il bizzarro concetto, spacciato dallo stesso presidente Biden, secondo cui nessun ebreo è al sicuro se non fosse per la creazione di Israele!

Eppure il frenetico eccesso di utilizzo dell’accusa di antisemita non spaventa e terrorizza come soleva fare soprattutto in Europa, semplicemente perché la gente ha visto e sperimentato come Israele deliberatamente distorce il significato dell’accusa per mettere a tacere il dissenso, anche entro i propri confini.

La quantità di menzogne, alterazione dei fatti e false notizie che la propaganda israeliana ha prodotto dal 7 ottobre in poi ha reso le persone più sfiduciate nei confronti di Israele rispetto a prima, provocando, grazie alle azioni e alle politiche stesse di Israele, l’estendersi di sentimenti anti ebraici espressi in diversi modi.

Eppure Israele si lamenta dell’aumento di espressioni di antisemitismo in Europa e altrove, mentre continua a presentarsi come la povera vittima, dimenticando che il suo monotono uso del termine “antisemitismo” contribuisce in larga parte ai sentimenti anti ebraici che innegabilmente sono in aumento dati i quotidiani massacri di palestinesi.

Firmando questo articolo non sarò sorpreso se alcuni lettori mi bolleranno come “antisemita” o “negazionista dell’olocausto” o odiatore degli ebrei o tutte le tre accuse insieme!

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




I media informano che due importanti democratici del Congresso statunitense approvano la vendita di armi a Israele per 18 miliardi di dollari

Redazione di Middle East Monitor

11 giugno 2024 – Middle East Monitor

L’agenzia Reuters informa che il Washington Post ha riferito ieri, citando tre politici anonimi, che due importanti [parlamentari] democratici del Congresso statunitense hanno accettato di appoggiare una grande vendita di armi ad Israele che include 50 caccia F-15 per un valore di più di 18 miliardi di dollari.

Il Washington Post ha riferito che il deputato Gregory Meeks e il senatore Ben Cardin hanno autorizzato l’affare sotto pesanti pressioni dell’amministrazione Biden dopo che i due legislatori avevano bloccato la vendita per mesi.

Ogni questione o preoccupazione che il presidente Cardin aveva è stata affrontata attraverso le nostre consultazioni in corso con l’amministrazione (Biden) ed è per questo che ha ritenuto opportuno che l’affare andasse avanti,” ha affermato al Washington Post Eric Harris, il direttore per le comunicazioni delle Commissioni Affari Esteri del Senato.

Meeks ha detto al giornale che egli è stato a stretto contatto con la Casa Bianca e l’ha sollecitata per fare pressione su Israele riguardo agli sforzi umanitari e alle perdite civili. Secondo il Washington Post egli ha affermato che gli F15 non saranno consegnati prima di molti “anni da adesso.”

Nessuno degli uffici dei due parlamentari ha risposto immediatamente ad una richiesta di commenti.

Biden è stato posto sotto crescente pressione dai membri del partito democratico riguardo al suo incondizionato supporto ad Israele di fronte agli otto mesi di assalto a Gaza che ha ucciso più di 37.000 palestinesi e fatto sfollare quasi l’intera popolazione di 2,3 milioni di persone.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Israele ha trasformato le ‘zone sicure’ in campi di sterminio come aveva già fatto lo Sri Lanka

Neve Gordon e Nicola Perugini

11 giugno 2024 – Al Jazeera

Ma c’è una differenza importante fra i due casi: il genocidio a Gaza non sta avvenendo di nascosto.

Mentre i nostri occhi erano puntati sul “Blocco 2371” a Rafah, la piccola zona nel sud di Gaza che il 22 maggio l’esercito israeliano aveva designato come “zona umanitaria sicura” ma che ha bombardato solo quattro giorni dopo, massacrando almeno 45 civili che si erano rifugiati nelle tende, ci è tornato alla mente il cablogramma confidenziale di 15 anni fa intercettato da WikiLeaks in cui si descriveva il dramma dei civili negli ultimi giorni della guerra civile in Sri Lanka.

Inviato nel maggio 2009 dall’ambasciata degli Stati Uniti a Colombo al Dipartimento di Stato americano a Washington, il dispaccio raccontava come il vescovo di Mannar avesse telefonato per chiedere all’ambasciata di intervenire in favore di sette preti cattolici intrappolati in una cosiddetta “No Fire Zone” che era stata istituita come spazio sicuro dall’esercito dello Sri Lanka.

Il vescovo stimava che ci fossero ancora fra i 60.000 e i 75.000 civili confinati in quella particolare zona, situata su un piccolo lembo di terra costiera grande circa il doppio di Central Park a Manhattan. Dopo la telefonata del vescovo l’ambasciatore americano parlò con il ministro degli Esteri dello Sri Lanka chiedendogli di allertare i militari che la maggior parte delle persone rimaste nella “No Fire Zone” erano civili. Sembra che temesse che, a causa degli intensi bombardamenti dell’artiglieria, la fascia costiera sarebbe diventata una trappola mortale.

Non diversamente dagli sforzi dell’esercito israeliano per spingere i civili palestinesi da tutta la Striscia di Gaza nella cosiddetta “zona umanitaria sicura” a Rafah, a un certo punto l’esercito dello Sri Lanka aveva esortato la popolazione civile a riunirsi nelle aree designate come “No Fire Zone” lanciando volantini dagli aerei e facendo annunci con megafoni.

Mentre circa 330.000 sfollati interni si assembravano in queste zone, le Nazioni Unite costruirono campi improvvisati e, insieme a diverse organizzazioni umanitarie, iniziarono a fornire cibo e assistenza medica alla popolazione disperata.

Sembra però che anche le Tigri Tamil, il gruppo armato che combatteva l’esercito dello Sri Lanka, si fossero ritirate in queste “No Fire Zones”. I combattenti avevano precedentemente allestito una complessa rete di bunker e fortificazioni in queste aree e da lì condussero la loro resistenza finale contro i militari.

Mentre l’esercito dello Sri Lanka affermava di essere impegnato in “operazioni umanitarie” volte a “liberare i civili”, l’analisi delle immagini satellitari e di numerose testimonianze rivelò che i militari colpivano continuamente con mortai e fuoco di artiglieria le “No Fire Zones”, trasformando questi spazi dichiarati sicuri in campi di sterminio.

Tra i 10.000 e i 40.000 civili intrappolati morirono nelle cosiddette zone sicure, mentre molte altre migliaia furono quelli gravemente feriti che spesso giacevano a terra per ore e giorni senza ricevere cure mediche perché praticamente ogni ospedale – sia permanente che di fortuna – era stato colpito dall’artiglieria.

Le somiglianze tra lo Sri Lanka del 2009 e Gaza del 2024 sono sorprendenti.

In entrambi i casi i militari hanno sfollato centinaia di migliaia di civili, ordinando loro di riunirsi in “zone sicure” dove non sarebbero stati colpiti.

In entrambi i casi, i militari hanno bombardato le “zone dichiarate sicure”, uccidendo e ferendo indiscriminatamente un gran numero di civili.

In entrambi i casi i militari hanno bombardato anche unità mediche responsabili di salvare la vita dei civili.

In entrambi i casi i portavoce militari hanno giustificato gli attacchi, ammettendo di aver bombardato le zone sicure, ma sostenendo che le Tigri Tamil e Hamas erano responsabili della morte dei civili poiché si erano nascosti tra la popolazione civile usandola come scudo.

In entrambi i casi i Paesi occidentali, pur criticando l’uccisione di innocenti, hanno continuato a fornire armi ai militari. Nel caso dello Sri Lanka, Israele era tra i principali fornitori di armi.

In entrambi i casi l’ONU ha affermato che le parti in conflitto stavano commettendo crimini di guerra e contro l’umanità.

In entrambi i casi i governi hanno mobilitato squadre di esperti che hanno utilizzato acrobazie legali per giustificare i massacri. La loro interpretazione delle regole di ingaggio e dell’applicazione dei concetti fondamentali del diritto internazionale umanitario, tra cui distinzione, proporzionalità, necessità e le nozioni stesse di zone sicure e avvertimenti, sono state messe al servizio della violenza eliminatoria.

Ma c’è anche una differenza importante tra i due casi.

Il genocidio a Gaza non avviene di nascosto.

Mentre in Sri Lanka c’è voluto del tempo per raccogliere le prove delle violazioni e condurre indagini indipendenti, l’attenzione globale su Gaza e le immagini trasmesse in diretta di bambini decapitati e corpi carbonizzati nel “Blocco 2371” possono impedire il ripetersi degli orrori dello Sri Lanka.

I media hanno già mostrato come la “zona sicura” a sud di Wadi Gaza sia stata colpita da bombe di quasi mille chilogrammi uccidendo migliaia di palestinesi.

La Corte Penale Internazionale (CPI) ha raccolto le prove e ora ha emesso mandati di arresto contro il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il ministro della Difesa Yoav Galant per i loro presunti crimini di guerra e contro l’umanità.

La Corte Internazionale di Giustizia (CIG) ha rilevato l’impiego da parte di Israele di incessanti violenze contro i civili e ordinato al governo di “fermare immediatamente” la sua offensiva a Rafah, specificando che le sue azioni non sono state sufficienti “ad alleviare l’immenso rischio [incluso quello di non essere protetti dalla Convenzione sul Genocidio] a cui è esposta la popolazione palestinese a seguito dell’offensiva militare a Rafah”.

Israele ha risposto alla sentenza della più alta corte al mondo continuando a bombardare le zone sicure. Il massacro del Blocco 2371 è avvenuto solo 48 ore dopo l’ordine della CIG. Meno di due settimane dopo un altro attacco aereo israeliano contro una scuola gestita dalle Nazioni Unite nel campo di Nuseirat, anch’esso indicato come “zona sicura”, ha ucciso almeno 40 persone, principalmente donne e bambini. Il 9 giugno un’operazione israeliana per liberare quattro prigionieri israeliani nello stesso campo è costata la vita a 274 palestinesi e il ferimento di centinaia di altri.

Tutti gli occhi sono puntati su Rafah e sul resto della devastata Striscia di Gaza, eppure Israele continua imperterrito a perpetrare i suoi crimini sotto i riflettori, mentre Stati Uniti, Regno Unito, Francia e Germania continuano a fornirgli armi.

La CIG e la CPI si sono espresse così come Sudafrica, Spagna, Irlanda, Slovenia e Norvegia. Gli accampamenti universitari e il movimento di solidarietà globale chiedono ai loro governi di applicare un embargo sulle armi e di reclamare un cessate il fuoco mentre testimoniano come Israele abbia trasformato le zone sicure che ha creato in campi di sterminio.

Come in altre situazioni di estrema violenza coloniale l’accelerazione da parte di Israele delle sue pratiche di sterminio a Gaza e il suo goffo tentativo di dipingerle come rispettose della legge sono sintomi del tramonto del suo progetto di espropriazione. Le ex potenze coloniali come Regno Unito, Francia e Germania dovrebbero saperlo. Gli Stati Uniti dovrebbero saperlo. Tutti gli occhi sono su Gaza. Tutti gli occhi sono anche su di loro.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la posizione editoriale di Oltre La Linea.

Neve Gordon è docente di Diritto Internazionale presso la Queen Mary University a Londra. È anche l’autore di Israel’s Occupation [L’occupazione israeliana, Diabasis ed.] e coautore di The Human Right to Dominate [Il diritto umano di dominare, Nottetempo ed.]

Nicola Perugini insegna Relazioni Internazionali all’Università di Edimburgo. È coautore di The Human Right to Dominate [Il diritto umano di dominare, Nottetempo ed.] e Human Shields. A History of People in the Line of Fire (2020) [Scudi umani. Una storia dei popoli sulla linea di fuoco].

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Le forze israeliane uccidono sei palestinesi in una incursione in Cisgiordania

Redazione di Al Jazeera

11 giugno 2024 – Al Jazeera

L’attacco a Kafr Dan vicino a Jenin avviene mentre l’esercito israeliano intensifica i suoi attacchi mortali nella Cisgiordania occupata.

Il ministero palestinese della Sanità ha affermato che le forze israeliane hanno ucciso sei palestinesi durante una incursione nel villaggio di Kafr Dan, vicino a Jenin, nella Cisgiordania occupata mentre Israele intensifica gli attacchi sul territorio durante la guerra contro Gaza.

L’agenzia di notizie ufficiale palestinese Wafa ha riferito che martedì una unità di forze speciali israeliane è entrata nel villaggio ed ha assediato una casa prima di bombardarla.

Secondo il ministero della Sanità i sei uomini assassinati avevano un’età compresa tra i 21 e i 32 anni,. Uno di loro, Ahmad Smoudi, era il fratello di un ragazzo di 12 anni ucciso dalle forze israeliane a Jenin nel 2022.

Il battaglione di Jenin delle brigate al-Quds – l’ala militare della Jihad islamica palestinese – ha affermato già nella giornata di martedì di essere stato impegnato in un “agguerrito” combattimento contro le truppe israeliane a Kafr Dan.

L’esercito israeliano ha sostenuto di aver portato avanti un’operazione di “controterrorismo” nel villaggio, uccidendo quattro palestinesi armati. L’esercito ha aggiunto di aver usato nell’attacco elicotteri da combattimento e di non aver avuto vittime.

Lunedì l’esercito israeliano aveva ucciso quattro palestinesi ad ovest di Ramallah e altri tre a Jenin venerdì.

L’esercito israeliano ha condotto regolarmente incursioni mortali in Cisgiordania negli ultimi anni – un trend che è aumentato con l’inizio della guerra contro Gaza.

Secondo le autorità palestinesi della sanità da ottobre, quando a Gaza è scoppiata la violenza, Israele ha ucciso in Cisgiordania 544 palestinesi, inclusi 133 minori.

I palestinesi in Cisgiordania hanno anche affrontato violenti attacchi da parte dei coloni israeliani, che nei mesi passati hanno aggredito gli agricoltori e hanno effettuato incursioni nelle città palestinesi, spesso con la protezione dell’esercito israeliano.

Rawhi Fattouh, del Consiglio Nazionale Palestinese, ha affermato che le incursioni israeliane nella Cisgiordana sono la “continuazione dei massacri, della pulizia etnica e del genocidio che hanno come obiettivo il popolo palestinese a Gaza.

Questo governo razzista [israeliano] cerca con tutti i mezzi di far scoppiare la situazione in Cisgiordania e nella regione e di trasformare il conflitto in una lotta religiosa e ideologica che trascinerebbe la regione in una spirale di violenza, uccisioni e massacri,” ha affermato Fattouh in una dichiarazione.

Egli chiede alla comunità internazionale di intervenire e di “porre fine a questa follia.”

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Cosa rivela l’uscita di Gantz sulla fallita strategia israeliana a Gaza

 Meron Rapoport

11 giugno 2024 – +972 magazine

Il 7 ottobre è fallita la pluridecennale ‘politica di separazione’ israeliana nei confronti di Gaza. Gantz e Gallant lo sanno, ma Netanyahu e l’estrema destra non vogliono ancora ammetterlo.

A prima vista è difficile capire la spaccatura nel governo israeliano sul “giorno dopo” a Gaza che ha portato domenica Benny Gantz ad abbandonare la coalizione. Annunciando la sua decisione In una conferenza stampa Gantz ha accusato il primo ministro Benjamin Netanyahu di “impedire… una vera vittoria” non presentando un piano attuabile per la governance della Striscia dopo la guerra.

Gantz, che è entrato a far parte del governo e del gabinetto di guerra dopo il 7 ottobre in qualità di ministro senza portafoglio, per mesi ha esortato Netanyahu affinché esponesse il suo piano per il “giorno dopo”. Il primo ministro, che ha un interesse personale e politico nel prolungare la guerra, fino ad ora si è rifiutato di produrne uno, anzi, ha solo insistito ripetutamente di respingere sia la continua esistenza di un “Hamastan” che la sua sostituzione con un “Fatahstan” gestito dall’Autorità Palestinese (ANP).

Comunque neppure Gantz ha un piano attuabile. La sua proposta di rimpiazzare Hamas con un “sistema civile di governance internazionale” che include alcuni componenti palestinesi, pur mantenendo nel complesso il controllo israeliano sulla sicurezza, è così inverosimile che il suo significato pratico è di continuare la guerra per sempre. In altre parole esattamente quello che vogliono Netanyahu e i suoi alleati di estrema destra.

Lo stesso si può dire del ministro della DIfesa Yoav Gallant, che era il più stretto alleato di Gantz nel consiglio di guerra. A quel che si dice lo scorso mese Gallant se ne sarebbe andato da un incontro del gabinetto di sicurezza quando altri ministri l’hanno rimproverato per aver preteso che Netanyahu escludesse un prolungato controllo israeliano civile o militare su Gaza. Ma la proposta alternativa del ministro della Difesa è essenzialmente la stessa di Gantz: insediare un governo gestito da “entità palestinesi”, ma non Hamas, con il sostegno internazionale che nessun interlocutore, palestinese, arabo, o internazionale accetterebbe. 

È vero che Gantz e Gallant hanno anche chiesto che Netanyahu dia la priorità a un accordo con Hamas per liberare gli ostaggi, mentre il primo ministro sta temporeggiando. Ma a un’analisi attenta anche questo apparente disaccordo scompare qualsiasi accordo comporterebbe una significativa, o addirittura totale, ritirata israeliana da Gaza e un cessate il fuoco di mesi, se non permanente. Tale scenario darebbe come risultato una di due possibilità: un ritorno al governo di Hamas o il reinsediamento dell’ANP, entrambe inaccettabili per Gantz e Gallant da un lato e da Netanyahu e dai suoi alleati di estrema destra dall’altro.

Allora perché la destra israeliana vede come una minaccia esistenziale le proposte fondamentalmente incoerenti di Gantz e Gallant? La risposta va più in profondità rispetto al disaccordo sulla questione del “giorno dopo” a Gaza. Quello che Gantz e Gallant stanno implicitamente riconoscendo, e Netanyahu e i suoi alleati si rifiutano di ammettere, è che la pluridecennale “politica di separazione” israeliana è crollata in seguito agli attacchi del 7 ottobre. Non più in grado di mantenere l’illusione che la Striscia di Gaza sia separata dalla Cisgiordania e perciò da qualsiasi futuro accordo politico palestinese, i leader israeliani si trovano in un vicolo cieco.

Dalla separazione all’annessione

La politica israeliana di separazione risale agli inizi degli anni ’90 quando, sullo sfondo della prima Intifada e della guerra del Golfo, il governo cominciò a imporre ai palestinesi un regime di permessi che limitavano gli spostamenti tra Cisgiordania e Gaza. Tali restrizioni si intensificarono durante la Seconda Intifada e culminarono sulla scia del “disimpegno” israeliano da Gaza nel 2005 e con la successiva salita al potere di Hamas.

La maggioranza degli israeliani pensò che Israele avesse lasciato Gaza e perciò non avesse più nessuna responsabilità per quello che succedeva nella Striscia. Gran parte della comunità internazionale respinse questa posizione e continuò a considerare Israele una potenza occupante a Gaza, ma il governo israeliano si sottrasse sempre alle proprie responsabilità nei confronti degli abitanti dell’enclave. Al massimo il governo era disposto a concedere ai palestinesi permessi di viaggio per entrare in Cisgiordania o in Israele per speciali motivi umanitari.

Quando Netanyahu ridivenne primo ministro nel 2009 lavorò per rafforzare la politica di separazione. Ampliò la spaccatura tra Gaza e la Cisgiordania convogliando i fondi verso il governo di Hamas nella Striscia, basandosi sulla convinzione che dividere i palestinesi geograficamente e politicamente avrebbe limitato la possibilità di uno Stato palestinese indipendente. 

A sua volta ciò ha spianato la strada a Israele per annettere parte o persino tutta la Cisgiordania. Quando nel 2021 chiesero a Yoram Ettinger, “esperto” demografo israeliano di destra, come avrebbe gestito il fatto che fra il fiume Giordano e il mar Mediterraneo c’è circa lo stesso numero di ebrei e palestinesi, ha spiegato che “Gaza non fa parte del gioco e non è rilevante … Le zone contese sono la Giudea e la Samaria.” [termine usato dagli israeliani per indicare la Cisgiordania occupata, ndt.].

David Friedman, l’ambasciatore USA pro annessione nominato da Donald Trump, era d’accordo sul fatto che, dopo il ritiro da Gaza, restava rilevante solo la questione della Cisgiordania. Nel 2016 disse: “L’evacuazione [degli israeliani] da Gaza ha avuto un effetto benefico: ha rimosso 2 milioni di arabi dall’equazione demografica.” Togliendo Gaza dal discorso, spiegò l’ex ambasciatore, Israele potrebbe mantenere una maggioranza ebraica anche se si annettesse la Cisgiordania e si concedesse la cittadinanza ai suoi abitanti palestinesi.

Un vuoto di potere strategico

Una delle ragioni dichiarate da Hamas per l’attacco del 7 ottobre è quella di mandare in frantumi l’illusione che Gaza sia un’entità separata e di riportare sul palcoscenico della storia la causa della Striscia e dell’intera Palestina. In questo indubbiamente ha avuto successo.

Tuttavia anche dopo il 7 ottobre Israele ha continuato in buona misura a ignorare il legame fra Gaza e la Cisgiordania e la sua centralità nella lotta palestinese nel suo complesso. Israele ha sistematicamente rifiutato di elaborare un piano coerente per il “giorno dopo” perché farlo richiederebbe inevitabilmente affrontare lo status della Striscia entro il più ampio contesto israelo-palestinese. Qualsiasi discussione del genere mina alla radice la politica di separazione israeliana attentamente coltivata.

Oltre alla sua totale brutalità, il presente attacco israeliano a Gaza si differenzia in modo significativo dalle guerre precedenti. Mai prima Israele aveva permesso che un territorio sotto il suo controllo militare rimanesse sostanzialmente senza governo. Quando nel 1967 l’esercito israeliano occupò per la prima volta la Cisgiordania e Gaza stabilì immediatamente un governo militare che si assunse la responsabilità dell’amministrazione civile delle vite degli abitanti occupati. Quando nel 1982 occupò il Libano non smantellò il governo libanese esistente; nel 1985 dopo aver stabilito una “zona di sicurezza” Israele passò la responsabilità per gli affari civili a una milizia locale.

Tutto ciò è in violento contrasto con l’attuale operazione. Nonostante il fatto che controlli effettivamente larghe parti di Gaza, Israele tratta i suoi 2.3 milioni di abitanti come se vivessero in un vuoto. 

Per ovvie ragioni Israele considera illegittimo il governo di Hamas che ha governato la Striscia per 16 anni, ma non vede come un’alternativa adatta l’ANP, che amministra parti della Cisgiordania. Tale scenario minerebbe totalmente la politica di separazione israeliana: la stessa entità palestinese governerebbe entrambi i territori occupati e Israele dovrebbe fronteggiare una maggiore pressione per negoziare la creazione di uno Stato palestinese. 

Quindi fintanto che esiste il vuoto di potere a Gaza la destra può ottenere ciò che vuole: la guerra può continuare, Netanyahu può prolungare il suo periodo in carica e non ci può essere una vera possibilità di iniziare i negoziati di pace che adesso persino gli americani sembrano ansiosi di riprendere. Anche la destra messianica e nazionalista vuole mantenere questo limbo perché apre la porta alla possibilità della cosiddetta “migrazione volontaria” dei palestinesi da Gaza, il desiderio di Itamar Ben Gvir, ministro della Sicurezza nazionale, o alla “distruzione totale” dei centri popolati di Gaza, che è l’obiettivo del ministro delle Finanze Bezalel Smotrich. Entrambi credono che le colonie israeliane con i tetti rossi [per evitare di essere bombardati dagli israeliani, ndt.] si trovino alla fine di questo periodo di limbo.

Due visioni per Gaza

Tuttavia l’esercito sembra stanco di questo vuoto. Esso gli prospetta solo infiniti combattimenti senza raggiungere un obiettivo, il burn-out fra i soldati e i riservisti e uno scontro crescente con gli americani, con cui l’establishment della difesa israeliana ha una relazione stretta ed esclusiva. L’invasione di Rafah ha solo aumentato il malcontento dell’esercito

L’occupazione del valico di Rafah con l’Egitto da parte di Israele ha ulteriormente compromesso l’idea che non abbia responsabilità per quello che succede a Gaza. Gallant ha correttamente riconosciuto che il controllo del valico di Rafah e del Corridoio Filadelfia ha portato Israele più vicino alla creazione di un governo militare nella Striscia: senza volerlo, e sicuramente senza ammetterlo, Israele sembra sul punto di governare Gaza come governa la Cisgiordania.

Gantz e Gallant hanno reagito a questa situazione in modi simili. Entrambi sono in stretto contatto con gli Stati Uniti e sono anche più esposti alle pressioni da parte delle famiglie degli ostaggi, il cui sostegno continua a crescere nell’opinione pubblica israeliana. Entrambi comprendono molto bene che i continui rifiuti di Netanyahu, Ben Gvir e Smotrich a discutere il “giorno dopo” impedisce qualsiasi possibilità di raggiungere un accordo per il rilascio degli ostaggi e li condanna a una morte lenta e certa nei tunnel di Hamas.

Le proposte di Gallant e Gantz per il governo palestinese non sono serie e non possono essere accettate da nessuna autorevole entità palestinese, araba o internazionale. Ma sono sufficienti a sfidare le preferenze di Netanyahu, Smotrich e Ben Gvir per un limbo eterno, per provocare la loro scellerata rabbia e minare la stabilità del governo.

Le dichiarazioni di Gantz e Gallant esprimono anche un’ammissione inconscia che attualmente Israele si trova di fronte solo due possibilità concrete. La prima è un accordo che riconosca Gaza come parte integrante di qualsiasi entità politica palestinese, il che comporterebbe il ritorno dell’ANP e l’insediamento di un governo palestinese unitario. L’alternativa è una guerra di attrito che la destra messianica spera finirà con l’espulsione o l’annientamento de palestinesi, ma che più probabilmente finirà come la prima guerra del Libano: il ritiro di Israele sottoposto a una forte pressione militare e il radicamento di una abile formazione di guerriglieri sul confine israeliano.

Meron Rapoport è un editorialista di Local Call. 

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Il massacro di Nuseirat: per i media razzisti coloniali occidentali i palestinesi massacrati non esistono

Linah Alsaafin

10 giugno 2024 – Middle East Eye

Biden e Netanyahu stanno precipitando verso il baratro, e gli effetti del prolungamento di questo genocidio si ritorceranno prima o poi contro i loro interessi.

I particolari delloperazione militare congiunta USA-Israele che sabato ha ucciso e ferito quasi 1.000 palestinesi nel campo profughi di Nuseirat non evidenziano affatto leroismo tanto celebrato o la precisione che i titoli dei media occidentali hanno sbandierato in prima pagina.

Ma in un mondo distopico in cui luccisione di almeno 50.000 uomini, donne e bambini nellarco di otto mesi non fa batter ciglio ai vertici dellordine globale a guida occidentale, può essere giustificato ritenere che qualsiasi missione che distrugge centinaia di vite civili per recuperare quattro ostaggi sia motivo di festeggiamenti.

E’ ancora peggio quando i 274 palestinesi uccisi e i 698 feriti nel massacro del campo profughi di Nuseirat vengono deliberatamente eliminati dalla copertura giornalistica, o appena citati come un dettaglio insignificante in un titolo o di sfuggita in un sottotitolo.

La copertina domenicale del New York Times, un giornale che ha volontariamente distrutto le sue ultime vestigia di credibilità per agire come sfacciato stenografo della propaganda israeliana, mostrava con orgoglio il titolo “In una missione a Gaza l’esercito israeliano libera 4 ostaggi”.

La copertina era correlata da una foto di un ostaggio israeliano sorridente rilasciato (citato per nome) e circondato da soldati trionfanti. I palestinesi uccisi sono relegati in una nota a piè di pagina.

La BBC e la Reuters seguono una linea simile, scegliendo di aprire rispettivamente con “Quattro ostaggi israeliani liberati in un raid nel centro di Gaza” e “Secondo l’esercito le forze israeliane salvano quattro ostaggi vivi a Gaza”.

La CNN ha scelto di concentrarsi sulla logistica anziché sulle vittime della strage: “L’operazione israeliana per salvare 4 ostaggi ha richiesto settimane di preparazione”, ha scritto diligentemente.

Più schietto il tono del Washington Post: “Una rara giornata di gioia nel mezzo di un massacro con il salvataggio di 4 ostaggi”. Un secondo titolo iniziava ancora con “Recuperati quattro ostaggi israeliani vivi” e aggiungeva come post scriptum il numero provvisorio dei palestinesi uccisi: “Secondo dichiarazioni ufficiali almeno 210 persone uccise a Gaza”.

E poi c’è il Sunday Times, inequivocabile e sfacciato nei toni, scritto con una sorta di stile mozzafiato, come se descrivesse la trama ridondante di un film d’azione di Hollywood.

“Audace raid libera a Gaza la prigioniera della motocicletta” [Noa Argamani catturata il 7 ottobre da Hamas mentre si trovava sul sedile posteriore di una moto], esordiva il titolo, per poi proseguire nella pagina successiva con: “Un attacco chirurgico, un feroce scontro a fuoco e i festeggiamenti hanno rotto il silenzio del sabato”.

La carneficina che questo attacco chirurgico” ha lasciato dietro di sé, i corpi mutilati dei palestinesi che giacciono di traverso sulle strade del mercato, le decine di edifici e case distrutte vengono completamente omessi.

Dilagante disumanizzazione

C’è un che di macabro nel fatto che anche quando vengono menzionati i palestinesi ciò avviene in quella forma inerte che ormai siamo abituati ad aspettarci da questi mezzi di informazione, senza un contesto e senza alcun riferimento a chi sta facendo loro cosa.

Il Guardian spicca per il suo singolare modo di raccontare latroce assalto di sabato: Israele salva quattro ostaggi mentre degli attacchi nelle vicinanze uccidono 93 palestinesi”.

Il lettore rimane stupito di fronte all’evidente dissociazione e all’enorme buco nella trama. Quali attacchi? Condotti da chi? Cos’è importante da sapere riguardo a “nelle vicinanze”?

In fin dei conti questi titoli non sorprendono e sono il prodotto di decenni di dilagante disumanizzazione. La dichiarazione del Dipartimento di Stato americano sulloperazione non fa alcuna menzione dei palestinesi uccisi, perché i corpi neri e di pelle olivastra semplicemente non contano per gli interessi imperialisti.

Il fatto che loperazione di salvataggio di quattro israeliani sia avvenuta a scapito di alcune centinaia di palestinesi è, come afferma Maya Mikdashi, accademica e redattrice di Jadaliyya [rivista online indipendente dell’Arab Studies Institute, ndt.], puro razzismo coloniale”.

Non c’è motivo di gioire per il fatto che 274 palestinesi hanno dovuto essere brutalmente uccisi affinché questi quattro prigionieri israeliani – sani e in buona forma rispetto alle figure distrutte, malconce e scheletriche dei palestinesi liberati dalle carceri israeliane – possano tornare alle loro famiglie.

In ogni caso nessuno doveva essere ucciso, dato che Hamas lo scorso ottobre si era offerto di liberare i prigionieri civili in cambio del fatto che lesercito israeliano non invadesse la Striscia di Gaza.

Secondo il portavoce dell’ala militare di Hamas, Abu Obeida, l’operazione, che ha definito un “molteplice crimine di guerra”, ha ucciso anche altri prigionieri israeliani, ma non ha specificato le circostanze né il numero. “Il nemico è riuscito a recuperare alcuni ostaggi commettendo un terribile massacro, ma nel farlo ne ha uccisi alcuni altri”, ha detto.

Non c’è dubbio che luso della forza militare letale non sia la strada più efficace per liberare i prigionieri israeliani. Il rilascio della maggior parte degli ostaggi israeliani, 105, è avvenuto lo scorso novembre attraverso una tregua temporanea che ha visto anche la liberazione dei prigionieri palestinesi.

Gli attacchi israeliani sulla Striscia di Gaza hanno ucciso un numero imprecisato di ostaggi israeliani, e quelli salvati” a febbraio sono stati solo due, a scapito della morte di 74 palestinesi.

Ma il primo ministro Benjamin Netanyahu, il fiero esecutore di questo genocidio, e i membri altrettanto violenti ed estremisti che compongono il suo governo, sono sempre stati franchi riguardo alle loro intenzioni. Non c’è mai stato un impegno per la liberazione dei prigionieri israeliani né per la sicurezza di Israele.

Devastare Gaza

L’importante è sempre stato devastare la Striscia di Gaza, ridurre la sua popolazione e sfollare con la forza i restanti palestinesi, in linea con la visione di una colonia di insediamento espansionista.

I dettagli su come questa presunta missione di salvataggio sia andata a buon fine, con il pieno sostegno e la partecipazione degli Stati Uniti, sono oltremodo ignobili.

I soldati hanno deciso di nascondersi all’interno di due veicoli, tra cui un camion di aiuti umanitari, un crimine contro i diritti umani e un palese atto di perfidia che l’Occidente ha ripetutamente accusato Hamas di aver compiuto senza presentare alcuna prova credibile.

Abdullah Jouda, uno studente di farmacia di 23 anni che è stato sfollato quattro volte, racconta come dopo aver sentito un trambusto in strada ha aperto la porta e si è trovato davanti il camion. Ha anche incrociato lo sguardo con un agente delle forze speciali.

“Sono uscite dal camion persone vestite di nero con fasce dei [miliziani delle brigate] Qassam avvolte intorno alla testa”, ha scritto su X. “Per un momento, mi sono sentito come se fossi in un film americano.”

Jouda ha chiuso la porta ed è corso di sopra dove si trovava la sua famiglia.

“Sembrava letteralmente che fossero iniziati gli orrori del giorno del giudizio”, afferma. La famiglia si è riparata in un angolo della casa mentre i proiettili piovevano intorno a loro ininterrottamente per 30 minuti. Il camion è rimasto al suo posto, prima che il fuoco di copertura lo colpisse con un missile lanciato da un F-16, mandando in frantumi le finestre di vetro della casa e ferendoli tutti.

“Poi siamo scesi in strada e siamo scappati. Quando siamo arrivati ​​alla fine della strada, hanno distrutto l’intero isolato, compresa la casa in cui ci trovavamo. Non dimenticherò mai i particolari di questo giorno cruciale“, conclude. “La cosa più importante è che siamo ancora vivi.”

Neppure la tempistica di questa operazione è stata casuale. Come a voler dimostrare lassoluta arroganza nel causare intenzionalmente il massimo delle vittime civili, per aprire la strada, una volta scoperte, alle forze israelo-americane gli aerei da guerra hanno colpito il mercato affollato durante il giorno.

Inoltre il camion degli aiuti era partito dal cosiddetto molo galleggiante degli aiuti americano, simbolo di un’occupazione non tanto abilmente camuffata, che sabato si è rivelata essere una struttura militare in collegamento con Israele, dando alla fine ragione agli scettici.

Tutto ciò non sorprende e conferma il fatto che, nonostante Israele abbia portato avanti questa brutale aggressione contro i palestinesi, esso rappresenta semplicemente la fanteria di quello che è sempre stato un genocidio rifornito, sostenuto e pagato dagli Stati Uniti.

Prolungare il genocidio

Il presidente Joe Biden, un sincero e ardente sionista, potrebbe porre fine a questo incubo per i 2,3 milioni di palestinesi della Striscia di Gaza con una semplice telefonata.

Ma negli ultimi otto mesi si è rifiutato di imporre alcuna conseguenza [per le proprie azioni] al governo israeliano. Al contrario, incoraggia attivamente la continuazione del genocidio, impiegando allo stesso tempo il doppio linguaggio degli appelli e delle proposte di cessate il fuoco. Ma la presenza stessa e il ruolo di Israele come risorsa imperiale valgono più di qualsiasi vita palestinese, se non di tutte.

Come ha affermato lex funzionario del Dipartimento di Stato Aaron David Miller, non c’è dubbio” che Biden non nutra per i palestinesi la stessa profondità di sentimenti ed empatia che riserva agli israeliani.

È per questo che le immagini raccapriccianti del cervello esposto di un ragazzo, il cui corpo inerte prende improvvisamente vita, non provoca nessuna commozione in coloro che stanno dietro il genocidio di Gaza.

È per questo che le strazianti testimonianze del massacro di Nuseirat da parte dei sopravvissuti che hanno visto le forze israelo-americane fare irruzione nelle loro case per giustiziare i loro familiari a sangue freddo si percepiscono a malapena nellapproccio degli Stati Uniti al proprio sistema di violenza e brutalità.

Ma questi continui omicidi e questa barbarie mai vista sono solo una vile facciata che nasconde ciò che è palesemente ovvio: Biden e Netanyahu stanno precipitando verso labisso, e gli effetti del protrarsi di questo genocidio si ritorceranno prima o poi contro i loro interessi.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Linah Alsaafin è una giornalista palestinese che ha scritto per Al Jazeera, The Times Literary Supplement, Al Monitor, The News Internationalist, Open Democracy e Middle East Eye.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Mentre Gaza subisce un genocidio fisico, la Cisgiordania ne affronta uno economico

Fareed Taamallah

10 giugno 2024 – Middle East Monitor

Mentre il mondo si preoccupa dell’orribile genocidio nell’assediata Striscia di Gaza, Israele sta uccidendo centinaia di palestinesi, espropriando altra terra e strangolando economicamente la Cisgiordania. Il 22 maggio, in seguito alle sentenze della Corte Internazionale di Giustizia contro Israele e al riconoscimento della Palestina da parte di tre Paesi europei, il ministro delle Finanze israeliano Bezalel Smotrich, di estrema destra, ha preso “severe misure punitive” contro l’Autorità Nazionale Palestinese. Tra queste c’è il blocco dei trasferimenti a favore dell’ANP delle tasse riscosse da Israele, che potrebbe portare al crollo dell’Autorità.

Dalla sua creazione in base agli accordi di Oslo del 1993 l’ANP è stata vincolata agli accordi politici, di sicurezza ed economici imposti da Israele e dai suoi alleati. Uno dei più importanti è l’Accordo Economico di Parigi del 1994, che avrebbe dovuto essere temporaneo e durare 5 anni. Stabiliva la dipendenza dell’economia palestinese da quella israeliana e concedeva allo Stato dell’occupazione i mezzi per rendere permanente questo accordo temporaneo. Essenzialmente il trattato ha integrato l’economia palestinese in quella israeliana attraverso un’unione doganale, e Israele ha avuto il controllo di ogni confine, sia dei propri che di quelli dell’Autorità Nazionale Palestinese. Ciò significa che la Palestina rimane senza frontiere indipendenti verso l’economia globale. Secondo l’accordo il governo israeliano è responsabile di riscuotere le tasse sui beni importati in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, che trasferisce alle casse dell’ANP in cambio di una commissione del 3%.

Si presume che questo denaro venga trasferito regolarmente all’ANP a una media tra i 190 e i 220 milioni di dollari al mese. L’ANP si basa su questi fondi per pagare gli stipendi dei suoi dipendenti e adempiere ai propri obblighi riguardo alle spese correnti delle sue istituzioni.

La decisione di Smotrich non è la prima presa dal governo israeliano contro l’ANP e l’economia palestinese in generale. È un’estensione di una serie di passi espliciti e impliciti per danneggiare l’Autorità, a causa del fatto che l’ANP rappresenta il potenziale governo di un futuro Stato palestinese a cui si sono sempre opposti i successivi governi israeliani, di destra come di sinistra.

I trasferimenti sono stati bloccati in base a molti pretesti, compresa la punizione dell’ANP per ogni passo politico intrapreso, come ad esempio l’adesione alla Corte Penale Internazionale nel 2015. In effetti dal 2019 lo Stato occupante ha sistematicamente dedotto parte dei fondi con il pretesto che l’ANP paga sussidi alle famiglie dei prigionieri e dei martiri palestinesi, che Israele descrive come “appoggio al terrorismo”.

Dal 7 ottobre il governo israeliano di occupazione ha anche detratto dalle entrate fiscali l’ammontare di quanto l’ANP normalmente paga alle sue istituzioni nella Striscia di Gaza, che rappresenta circa 75 milioni di dollari al mese, portando a una gravissima crisi economica. È chiaro che Israele vuole separare completamente la Cisgiordania da Gaza, benché entrambe siano territori palestinesi occupati e parte dell’auspicato Stato di Palestina indipendente.

Lo scorso anno a settembre il ministro delle Finanze palestinese Shukri Bishara ha annunciato che Israele ha trattenuto 800 milioni di dollari dell’ANP. Secondo dati dello scorso mese del ministero delle Finanze a Ramallah, l’ammontare totale dei pagamenti delle entrate fiscali trattenuto da Israele è di 1,6 miliardi di dollari, equivalenti al 25-30% del bilancio annuale totale dell’ANP.

Ciò ha portato a un deficit finanziario senza precedenti nelle casse dell’ANP, che ha minato la sua possibilità di fornire servizi fondamentali come sanità, educazione e sicurezza e il pagamento dei salari dei dipendenti pubblici che per anni hanno ricevuto solo parte dello stipendio. A causa di queste ritenute dal novembre 2021 il governo palestinese non è stato fondamentalmente in grado di pagare salari interi ai suoi dipendenti ed è stato obbligato a pagare l’80-85% fino allo scoppio della guerra contro i palestinesi a Gaza. Questa percentuale è gradualmente scesa fino al 50% negli ultimi due mesi. I dipendenti pubblici ora non sono in grado di rispettare i propri impegni finanziari mensili con banche e scuole.

Per risparmiare denaro le istituzioni pubbliche palestinesi hanno ridotto le ore di lavoro, e ciò ha portato a una riduzione dei servizi, soprattutto sanitari ed educativi nelle scuole e nelle università. L’insegnamento è impartito per lo più a distanza.

I dipendenti pubblici palestinesi, di cui io faccio parte, non hanno ricevuto un salario intero dal 2021 e gli arretrati totali dovuti equivalgono a 6 mesi di salario completo. Collettivamente ciò ammonta a circa 750 milioni di dollari, oltre ai debiti dovuti al settore privato, 800 milioni di dollari, che hanno avuto un gravissimo effetto sugli ospedali privati e sulle compagnie farmaceutiche. Incapace di far fronte ai propri obblighi finanziari e con un ridotto potere d’acquisto di beni e servizi, il settore commerciale e dei servizi è rimasto paralizzato.

Oltre che sulla spesa pubblica, soprattutto sui salari di 147.000 dipendenti pubblici, l’economia palestinese si basa su due altri pilastri gravemente danneggiati dal 7 ottobre: il mercato del lavoro israeliano e il settore privato. Israele ha vietato l’ingresso nello Stato dell’occupazione ai lavoratori palestinesi, e di conseguenza 200.000 di loro hanno perso l’unica o la principale fonte di reddito e sono disoccupati.

A sua volta ciò ha ridotto il potere d’acquisto delle famiglie palestinesi, il che ha avuto un effetto a catena sulle attività economiche del settore privato e aumentato la disoccupazione. Si stima che 500.000 palestinesi ora siano disoccupati nella Cisgiordania occupata in quanto sono stati persi migliaia di posti di lavoro.

Il declino del sostegno finanziario all’ANP da parte degli Stati arabi ha peggiorato ulteriormente le cose. Oltretutto l’Autorità ha raggiunto il tetto di indebitamento con le banche, il che ha reso ancora più difficile che i salari dei dipendenti vengano pagati, e quindi il ciclo di spesa continua a scendere. Tutto ciò ha portato alla quasi totale paralisi dell’economia palestinese e ha messo sotto enorme pressione i cittadini comuni che non possono più trovare lavoro e hanno pochi risparmi, o non ne hanno affatto, per coprire le necessità fondamentali. Ciò minaccia di scatenare una gravissima crisi sociale, politica ed economica.

A tutto questo si deve aggiungere il fatto che Israele da ottobre ha ucciso in Cisgiordania più di 500 palestinesi e ne ha arrestati 9.000, molti dei quali senza accuse né processo. Campi profughi e città nei territori occupati hanno visto la distruzione di infrastrutture vitali con azioni brutali di punizione collettiva intesa a danneggiare le legittime attività contro l’occupazione.

Noi palestinesi della Cisgiordania occupata ci vergogniamo di parlare delle nostre disgrazie a causa degli orrori del genocidio senza precedenti che avviene davanti ai nostri occhi a Gaza. Preferiamo rimanere in silenzio per non distogliere l’attenzione da quello che sta avvenendo là. Comprendiamo che Israele intende separare Gaza dalla Cisgiordania per spazzare via ogni livello di solidarietà all’interno di una società palestinese unita. Il fatto è che noi in Cisgiordania preferiremmo morire di fame insieme ai nostri fratelli della Striscia di Gaza piuttosto che vedere l’Autorità Nazionale Palestinese smettere di rispettare i propri obblighi verso di loro e verso le famiglie dei martiri e dei feriti.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)