Genocidio di Gaza: raccontarne le storie come atto di resistenza all’oppressione e alla pulizia etnica

Benay Blend

14 luglio 2024 – Palestine Chronicle

Il racconto è stato a lungo una tattica nella cassetta degli attrezzi dei popoli colonizzati. Per i sopravvissuti al genocidio attesta la loro esperienza contro quanti negano che l’orrore sia mai esistito.

Quando ho insegnato (1991-1998) nel nord della Louisiana c’era una sopravvissuta del campo di sterminio di Auschwitz, Rozette “Rose” Lopes-Dias Van Thyn (1912-2010), che parlava negli istituti scolastici di quanto aveva vissuto.

Quando morì, Nico Van Thyn pubblicò la sua storia per controbattere a quanti “negano l’Olocausto, giustificano quello che successe, sostengono che si tratta di storia immaginaria” inventata dal popolo ebraico per conquistarsi appoggi. Oggi ci sono sopravvissuti all’Olocausto che credono che “mai più” significhi mai più per chiunque, quindi ora protestano contro il genocidio “di Israele” a Gaza. Per esempio Stephen Kapos, 86 anni, un sopravvissuto allo sterminio nazista nella nativa Ungheria, sostiene che “c’è una questione di responsabilità storica verso l’ingiustizia, il genocidio e il fascismo.”

Kapos denuncia che “se sei indifferente, se non prendi una posizione, senza dubbio sei almeno in parte colpevole e penso che sia imperativo affermare la propria opposizione e persino un certo livello di disagio e di rischi se si vuole essere liberi dalla colpa quando la storia giudicherà quello che sta accadendo.”

Il 9 luglio i nativi partecipanti alla National Native American Boarding School Coalition [Coalizione dei Convitti Nazionali per Nativi Americani] hanno parlato al National Public Radio (NPR) nel corso della trasmissione ‘Native American Calling’ di una legge per creare una commissione per la verità e la riconciliazione che indaghi sulle violenze negli internati per nativi del Canada e degli USA.

Mentre dal Canada hanno cominciato ad emergere racconti, c’è stato un parallelo aumento di persone che negano che quelle atrocità nei convitti siano mai esistiti. In risposta l’avvocatessa cree [tribù di nativi americani, ndt.] Eleanor Sunchild ha sostenuto che la negazione dei collegi residenziali equivale alla negazione dell’Olocausto e quindi dovrebbe essere aggiunta al codice penale come discorso d’odio.

Ciò che tiene insieme queste vicende è la negazione che ne segue da parte dell’oppressore e dei suoi sostenitori. Molto prima del 7 ottobre quello che Vacy Vlazna chiama “la negazione della Palestina” è esistita come strategia “per spazzare via i palestinesi dalla faccia della loro terra ancestrale e avanzare pretese fittizie su tutta la Palestina storica.”

Insieme alla pulizia etnica questa strategia continua come tale anche oggi. Per esempio, all’inizio del genocidio “di Israele” a Gaza, il presidente Biden ha negato l’accuratezza del conteggio del numero di morti da parte del ministero della Sanità [di Gaza], “creando una breccia a favore dei difensori della campagna di bombardamenti indiscriminati di Israele per sminuire la crisi.”

Biden, negando l’accuratezza del calcolo, si è unito ai negazionisti di un altro Olocausto che hanno sostenuto che la Germania non ha ucciso 6 milioni di ebrei. Quel numero è falso, sostengono, è stato creato dagli ebrei per ricevere indennizzi e attenzione.

In risposta il ministero ha pubblicato una lista con i nomi dei 6.747, tra cui 2.664 minori, che sono morti dall’inizio della campagna di bombardamenti al 26 ottobre.

“Ogni nome sulla lista è la storia di una profonda tragedia”, così inizia un’inchiesta di The Incercept. Tuttavia gli scettici non sono rimasti impressionati. Secondo il coordinatore del Consiglio della Sicurezza Nazionale per le comunicazioni strategiche, John Kirby, il ministero esiste in quanto è “un fronte per Hamas”, intendendo che “non possiamo accettare per oro colato niente che venga da Hamas, neanche dal cosiddetto ministero della Sanità.”

“Il sionismo non solo danneggia l’etica delle persone,” ha scritto Steven Salaita. “Inibisce la capacità di comprendere idee semplici riguardo al mondo.” Il primo esempio di questo modo di pensare, la negazione da parte di Biden, illustra come i sionisti vedano nella Palestina una “non-entità o negazione”, quindi non devono essere creduti neppure i suoi racconti.

Data questa logica è futile cercare di convincere i sionisti del contrario. Farlo significa essere etichettati come antisemiti. “Nessun tipo di discorso, dibattito o autodifesa,” scrive Ramzy Baroud, “può avere la possibilità di convincere i sionisti che chiedere la fine dell’occupazione militare della Palestina o lo smantellamento del regime di apartheid israeliana, o qualunque sincera critica alle politiche del governo di destra israeliano non sono di fatto azioni di antisemitismo.”

Dato il suo livello di intransigenza, come possono gli attivisti cambiare la mentalità sionista? Forse la risposta è che non possono. Invece il centro dovrebbe essere posto sui palestinesi stessi, conclude Baroud, sulla loro geografia, sulle complessità della loro politica e sulla ricchezza della loro cultura.”

Poco prima del 7 ottobre il giornalista Mohammed El-Kurd rifletteva sul ruolo della cultura nella liberazione della Palestina. È difficile immaginare ciò che può fare una poesia nella canna di un fucile,” ha ipotizzato, ma ha concluso che “il ruolo degli artisti nei movimenti di liberazione è lo stesso di ogni membro di quel movimento,” l’obbligo di costruire sulle conquiste del passato per avere un impatto sul presente.

In altre parole un obbligo di accettare la responsabilità di “partecipare alla salita”. Riflettendo sul passato El-Kurd rende omaggio al defunto Ghassan Kanafani, la cui capacità di trasformare le sofferenze del popolo palestinese nella letteratura della resistenza si è dimostrata una seria minaccia allo Stato sionista. Nel 1972, mentre viveva in esilio a Beirut, il Mossad collocò una bomba sulla sua auto trasformando in martiri lui e sua nipote.

L’eredità di Kanafani vive nel lavoro del poeta, raccontatore di storie e docente palestinese Refaat Alareer, anche lui ucciso da un bombardamento contro la sua casa il 6 dicembre 2023. In una commemorazione di Alareer Yousef AlJamal ha ricordato le parole del suo maestro: “Perché i palestinesi riescano a mantenere viva la loro memoria e la loro causa devono continuare a raccontare la loro versione della storia.”

“Attualmente a Gaza”, scrive Norman Saadi Nikro, “Israele sta distruggendo le basi istituzionali per la riproduzione e la conservazione della vita sociale e culturale, così come la possibilità amministrativa di conservare i dati e la documentazione attraverso cui si organizza la vita sociale e culturale.”

Distruggendo le case, continua, stanno cancellando oggetti personali attraverso cui le famiglie conservano la propria memoria. In questo contesto il racconto acquisisce importanza, in quanto conserva la narrazione che “Israele” intende distruggere per sostituirla con la propria.

“Come modalità dell’infrastruttura sociale e culturale,” conclude Nikro, “il racconto risuscita la memoria nella vita attraverso pratiche di resistenza alle narrazioni dei predatori.” Ciò collega le persone alla terra com’era una volta, com’è ora e cosa essa sarà in futuro.

Non tutte le storie sono raccontate con parole. Per esempio Reem Anbar, una suonatrice di oud e musicoterapista palestinese di Gaza, attraverso la sua musica “canta storie” della tua terra. Anbar, ora a Manchester, in Gran Bretagna, con il marito, lo scrittore e musicista Louis Brehony, sostiene la Palestina attraverso [il gruppo musicale] Gazelleband, che ha formato insieme a Brehony.

“A Gaza ho due fratelli, uno dei quali con tre figli piccoli, insieme a nonni, zie, zii, cugini e tutti i miei amici e vicini,” spiega Anbar. “Ora tutti loro hanno perso la casa a causa dei bombardamenti.”

Il 13 luglio 2024 Brehony ha postato su Facebook una foto di musicassette nella casa demolita del fratello di Reem a Hayy al-Nasar, a Gaza City. “Non resta altro che ricordi e amore per il luogo,” scrive. “E Rasheed Anbar, Ansam e i tre piccoli eroi, rimasti nonostante tutto nel quartiere.”

Per Reem è stato duro non essere a Gaza con la famiglia e gli amici. “Ho perso molti amici e vicini a causa dei bombardamenti israeliani,” chiarisce. Aggiunge che

Li hanno uccisi e hanno distrutto le loro case. Sono una persona forte ma da ottobre ho percepito un cambiamento nella mia vita. Non posso rilassarmi, sto continuamente pensando alla mia gente. La guerra ha fatto in modo che voglia lavorare di più come musicista palestinese perché esprimiamo il nostro messaggio e le nostre vicende attraverso la musica. Ho vissuto tre guerre e ho molti ricordi da condividere. Provo molte emozioni, ma le incanalo suonando il mio oud e attraverso esibizioni musicali.”

Nonostante le speranze e il massimo impegno di Israele, i palestinesi non hanno ancora dimenticato chi sono. E nessun negazionismo lo può cambiare,” conclude Baroud. Nonostante tutte le distruzioni e le espulsioni, nessuno degli sforzi di “Israele” ha ucciso il racconto.

– Benay Blend ha conseguito il dottorato in Studi Americani all’università del Nuovo Messico. Il suo lavoro accademico include “’Neither Homeland Nor Exile are Words’: ‘Situated Knowledge’ in the Works of Palestinian and Native American Writers” [Né patria né esilio sono parole: ‘saperi situati’ nel lavoro di scrittori palestinesi e americani]” curato da Douglas Vakoch and Sam Mickey (2017). Ha contribuito con questo articolo a The Palestine Chronicle.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)