Ho raccontato agli israeliani la tragedia di una donna di Gaza. Il pubblico era scioccato

Sheren Falah Saab

16 luglio 2024 Haaretz

Ho portato la sofferenza di Gaza a Tel Aviv. Ne ho letto le parole ad alta voce. Volevo che gli israeliani che non hanno mai sentito parlare di Gaza conoscessero la vita dei palestinesi dall’altra parte della barriera

Era una serata relativamente tranquilla di inizio maggio 2023. Ero stata invitata a parlare di futuro attraverso lo specchio dell’arte durante un evento culturale a Tel Aviv. Ci ho pensato molto prima di preparare la conferenza e istintivamente ho deciso di parlare del futuro nelle zone di conflitto e di guerra, in particolare nella Striscia di Gaza.

Ho raccontato la storia dell’artista Zainab al-Qolaq. La sua vita è cambiata completamente la notte del 16 maggio 2021. Quella notte Israele ha bombardato il centro di Gaza City durante l’operazione Guardiani del Muro e 22 membri della sua famiglia sono stati uccisi, tra cui suo fratello, le sorelle e la madre. La stessa Al-Qolaq è rimasta intrappolata sotto le macerie per 12 ore, senza sapere cosa ne fosse stato di loro. Da allora è rimasta in silenzio e per un anno ha dipinto la perdita subita.

Al-Qolaq, che ha 24 anni, ha studiato inglese e letteratura all’Università Islamica di Gaza. Sulla scia degli studi, ha detto in seguito, si è spinta a cercare modi per esprimersi. “È così che mi sono ritrovata a dipingere”, ha detto in un’intervista al canale televisivo palestinese Al-Quds. “Non c’è futuro per l’arte a Gaza, ma nonostante questo dipingo, con un piglio che ha sorpreso anche me stessa. E lentamente sono cresciuta.”

I suoi dipinti mostrano membri della sua famiglia con volti incompleti, a colori cupi, a volte nella tomba o in altre immagini che ne ricordano la morte. Quella sera ho mostrato i suoi quadri al pubblico. In effetti, ho portato la sofferenza di Gaza a Tel Aviv. Ho letto le sue parole ad alta voce. Volevo che gli israeliani che non hanno mai sentito parlare di Gaza conoscessero la vita dei palestinesi dall’altra parte della barriera – la sofferenza di Al-Qolaq, che se avesse vissuto altrove sarebbe ormai un’artista affermata.

“Vuoi sapere cosa succede quando un intero edificio crolla con delle persone dentro?” ha scritto sul mio account X. “Come è possibile raccontare le ore trascorse sotto le macerie, mentre urlavo e imploravo aiuto? Anche le pietre della casa piangevano insieme a me. O raccontare i momenti prima dell’esplosione, quando la mia famiglia è corsa verso la tromba delle scale e l’intero edificio ha tremato? Devo raccontarti del brusco passaggio tra il sentirsi al sicuro con la mia famiglia e poi la lotta per la vita e l’incontro con la morte? Hai pensato per un momento di essere al mio posto e immaginare come sarebbe sopravvivere e scoprire che avevo perso tutti: mia madre, mia sorella, tutta la famiglia? Non riesco a ricordare tutto quel tempo sotto le macerie. Ma la grande tragedia è stata dopo, quando mi hanno salvato e ho scoperto cosa avevo perso.”

Ricordo di aver letto ad alta voce le parole di Al-Qolaq e la mia voce si è strozzata. Tattenevo il fiato per non piangere. Scrivere per i lettori non è come parlare ad alta voce. Questo richiede uno sforzo diverso. E quando le parole sono state pronunciate e risuonano nello spazio, hanno un significato diverso.

Questo è esattamente quello che è successo quando ho finito di parlare. Ho guardato il pubblico, i loro volti sorpresi, lo shock che hanno subito in quel momento. E quello che ho visto nei loro occhi era la paura della verità. In quel momento, quando ho capito che gli israeliani hanno paura di scoprire che a Gaza vivono esseri umani, giovani donne come Zainab al-Qolaq – che ha molto talento, che aveva dei sogni che erano stati recisi alla radice. La guerra le ha distrutto la vita. Questa è la difficile, amara verità. Ma ho visto con i miei occhi quanto fosse difficile per il pubblico presente all’evento digerire la sua tragica storia.

Sono tornata in macchina da Tel Aviv al mio villaggio e ho pianto per tutto il viaggio. Perché per la prima volta avevo sperimentato di persona la profondità della negazione da parte degli israeliani nei confronti degli abitanti della Striscia di Gaza. Hanno preso le mie osservazioni come se fossi un visitatore da un altro pianeta, e come se Gaza fosse su Marte. Non capivano veramente (o non volevano capire) il significato esistenziale dell’essere un abitante di Gaza – vivere sotto assedio, soffrire ogni guerra, con una probabilità molto alta di perdere tutta la famiglia.

La guerra attuale non ha fatto altro che acuire ciò che già sapevo riguardo alla totale mancanza di desiderio da parte degli israeliani di riconoscere l’esistenza e l’esperienza dei palestinesi – soprattutto se sono cittadini di Gaza. Dall’inizio della guerra mi sono occupata della situazione umanitaria a Gaza. Ci sono momenti in cui rileggo l’elenco dei morti e sono distrutta dentro. Quando sono sola piango. Intere famiglie sono state cancellate: madri, figli, nonni e nonne. Il mio cuore è spezzato.

Come raccontare tutto questo a un pubblico israeliano preoccupato solo di sé stesso? Che non ha alcuna reale intenzione di sapere cosa stia succedendo dall’altra parte della barricata? Come si può rompere il muro del negazionismo israeliano? Ogni volta che mi ritrovo lì e mi pongo queste domande non trovo una sola risposta giusta.

A volte esito a guardare i notiziari israeliani (su qualsiasi canale, senza eccezioni) perché questo aggrava la mia disperazione di giornalista. Gaza non esiste nel mainstream israeliano – non nei notiziari, né nelle conversazioni quotidiane degli israeliani, né negli eventi culturali, né al tavolo dei decisori. Questa è una delle forme di disumanizzazione più crudele e dura.

Quanti israeliani conoscono la storia di Zainab al-Qolaq? O le storie dei palestinesi che hanno perso le loro famiglie nella guerra attuale? Quanti israeliani sono disposti ad ammettere che questa guerra ha perso ogni giustificazione e non fa altro che aggravare la paura della morte che aleggia sugli abitanti di Gaza?

Vite, desideri e ambizioni

Riconoscere che gli abitanti di Gaza esistono in carne e ossa e vederli come esseri umani che hanno vite, desideri e ambizioni sono cose che non entrano nemmeno nella testa dell’israeliano medio. Basta scorrere i feed israeliani su X o TikTok per scoprire le varie forme di disumanizzazione, che si tratti di ridicolizzare e scimmiottare gli abitanti di Gaza, o di soldati che si fotografano con biancheria femminile dopo aver fatto irruzione nelle case dei gazawi, o delle varie forme di negazione della portata della distruzione e delle tragedie che si verificano a Gaza a causa della prolungata campagna di bombardamenti.

“Non ci sono innocenti a Gaza.” Questa frase è diventata parte del consenso israeliano, tirata fuori in ogni conversazione per ripulire la coscienza degli israeliani. Si tratta di uno dei più grandi fallimenti morali: il fatto che gli israeliani percepiscano la realtà degli abitanti di Gaza attraverso il filtro fornito da qualche altro israeliano, solitamente attraverso la lente della sicurezza.

Solo pochi chilometri separano Tel Aviv da Gaza, ma i miei disperati sforzi per dare voce agli abitanti di Gaza – ripetutamente, sia prima che dopo il 7 ottobre – sono stati ignorati. Eppure la capacità di provare compassione ed empatia per la sofferenza di un altro è un valore vitale, unico nell’esperienza umana.

La guerra attuale è la continuazione di un fallimento morale già in corso. E la mia paura più profonda è che gli israeliani stiano percorrendo una strada a senso unico dalla quale non c’è ritorno – che perdano permanentemente la capacità di provare compassione per i palestinesi, soprattutto della Striscia di Gaza.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)