Palestina: almeno otto vittime degli attacchi e delle incursioni israeliane nella Cisgiordania occupata

 

Fonti sanitarie affermano che quattro persone sono state uccise nell’area di Jenin e quattro nel distretto di Tubas durante incursioni effettuate di mattina presto

Redazione di MEE

6 agosto 2024 – Middle East Eye

 

Almeno otto palestinesi sono stati uccisi martedì da Israele in attacchi ed incursioni nella Cisgiordania occupata.

La Mezzaluna Rossa palestinese e il ministero della Sanità a Ramallah hanno affermato che durante incursioni effettuate di mattina presto quattro persone sono state uccise nell’area di Jenin e quattro nel distretto di Tubas.

La Mezzaluna Rossa palestinese ha affermato in una dichiarazione che “ci sono quattro martiri e tre feriti, uno dei quali è in condizioni molto critiche, a causa del bombardamento da parte dell’occupazione di due veicoli nella zona a est di Jenin”, mentre il ministero della Sanità ha affermato che ci sono stati “quattro martiri e sette feriti dal fuoco dell’occupazione nella città di Aqaba nel distretto di Tubas.”

L’agenzia di notizie Wafa ha affermato che gli assassinii sono avvenuti dopo che l’esercito israeliano ha circondato una casa ad Aqaba ed è stato affrontato dagli abitanti.

Israele ha anche affermato, senza entrare in dettagli, di aver condotto due attacchi aerei in Cisgiordania.

Dall’attacco effettuato da Hamas il 7 ottobre almeno 603 palestinesi sono stati uccisi durante raid israeliani nella Cisgiordania occupata.

Nel frattempo, secondo organizzazioni a sostegno dei prigionieri palestinesi, più di 8.000 palestinesi sono stati arrestati.

I prigionieri sono stati sottoposti ad attacchi fisici e ad altre forme di violenza, incluse fame, privazione del sonno, negazione del contatto con i familiari e privazione dell’acqua.

 

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)

 




C’è già una guerra regionale. Solo un cessate il fuoco a Gaza può farla terminare

Amjad Iraqi

6 agosto 2024 – +972 Magazine

Finché le principali vittime erano i palestinesi gli alleati di Israele hanno assecondato la sua arroganza militare. Adesso hanno paura dei frutti amari del loro errore.

Gli assassinii uno subito dopo l’altro del comandante di Hezbollah Fuad Shukr a Beirut e del capo politico di Hamas Ismail Haniyeh a Teheran sono state azioni o di follia strategica o di deliberata piromania. Mentre Israele ha rivendicato la responsabilità per il primo ed è rimasto molto vago circa il secondo, ci sono pochi dubbi che li abbia organizzati entrambi – ed anche i suoi alleati ritengono che questa volta gli israeliani abbiano esagerato.

I politici israeliani si sono affrettati a trovare un pretesto per un attacco di alto livello contro Hezbollah: un lancio di razzi dal Libano che ha ucciso 12 bambini e ragazzi drusi siriani sulle alture del Golan occupate, riguardo a cui Hezbollah ha negato il proprio coinvolgimento – nonostante gli abitanti del luogo protestino contro i loro appelli alla vendetta. Shukr e Haniyeh erano certamente figure chiave delle loro rispettive organizzazioni, ma Israele sa molto bene che entrambe dispongono di meccanismi interni e piani di emergenza per rimpiazzarli; dopotutto non sono i primi assassinii che i due movimenti di resistenza hanno subito.

Essenzialmente, come hanno dichiarato Hassan Nasrallah di Hezbollah e l’ayatollah iraniano Ali Khamenei, l’uccisione di due importanti personaggi in capitali straniere, eseguiti nello spazio di poche ore, è stato un inequivocabile messaggio che ha infranto le cosiddette “linee rosse” stabilite tra le parti in conflitto negli scorsi 10 mesi. Adesso il mondo trattiene il fiato per una rappresaglia contro un’inutile affermazione di potere, che ci avvicina sempre più ad una conflagrazione come non ne abbiamo viste da decenni.

Gli effetti esplosivi dell’arroganza militare di Israele sono apparsi chiari fin dai primi giorni dell’ “Operazione Spade di Ferro”, la feroce campagna scatenata contro la Striscia di Gaza dopo il mortale attacco di Hamas del 7 ottobre. Ma la politica internazionale ha sempre dato più peso all’uccisione di leader molto significativi che di civili.

Certo, nonostante il 7 ottobre abbia gettato l’intero Medio Oriente in un vortice di violenza, ci è stato ripetutamente detto che la soglia di una “guerra regionale” non è ancora stata oltrepassata. Gli attori del conflitto, ripetono gli esperti, stanno ancora giocando una gara rischiosa ma calibrata per ristabilire la reciproca “deterrenza”, consentendo determinati livelli di violenza che possono ancora essere interpretati come prevenzione di una devastazione a tutto campo.

Tuttavia sotto molti aspetti questo è uno stratagemma verbale per minimizzare l’atroce verità sul campo: siamo già da mesi nella morsa di quella guerra regionale. Ne sono la prova i corpi e le macerie che si accumulano a Gaza e nel sud del Libano e l’attivazione dell’alleanza guidata dall’Occidente e dell’Asse della Resistenza su molteplici fronti – dalle navi da guerra USA nel Mediterraneo alle milizie Houthi nel Mar Rosso, dagli attacchi aerei israeliani in Libano ad un attacco missilistico dall’Iran.

Questo scontro può diventare infinitamente peggiore. Eppure il vero motivo per cui gli attori internazionali sono entrati in azione tardivamente la scorsa settimana è lo stesso motivo per cui la guerra viene spinta nella sua fase ancor più pericolosa: che determinate vite, e determinati interessi, contano più di altri.

Arroganza e ambizioni

Per i governi occidentali il principale pericolo costituito dagli assassinii di Shukr e Haniyeh non è l’indicibile numero di arabi o iraniani che potrebbero venire uccisi in un’escalation di ostilità. Anzi, gli ultimi 10 mesi hanno dimostrato che finché le principali vittime erano i palestinesi, una guerra prolungata era un tollerabile, seppur spiacevole, dato di fatto. Di conseguenza le capitali occidentali, in primis Washington, hanno evitato di utilizzare tutti i mezzi per frenare il conflitto, dando invece tempo ad Israele di tentare di portare avanti i suoi dichiarati obbiettivi a Gaza e in Libano – anche se era chiaro che gli israeliani non ci sarebbero riusciti.

Ma adesso i governi occidentali sono nel panico. Non solo temono ciò che un’intensificazione della guerra potrebbe comportare per l’ordine mondiale, compreso fomentare il caos nella sicurezza e l’interruzione degli scambi economici. Vi è anche la più che reale prospettiva che una simile guerra provochi un grande numero di morti israeliani- e con esso l’indebolimento senza precedenti dello Stato israeliano.

Questo processo di indebolimento è iniziato probabilmente all’inizio del 2023, durante il conflitto interno al Paese riguardo alla riforma giudiziaria dell’estrema destra, ma è stato rapidamente accelerato dal 7 ottobre e dall’operazione contro Gaza. L’entità del danno del logoramento dell’esercito e della perdita di prestigio mondiale di Israele deve ancora farsi sentire, ma un pesante attacco da parte di Hezbollah o dell’Iran peggiorerà probabilmente questo declino.

Anche se alcuni in Israele ammettono che l’esercito può aver esagerato, l’ego nazionale li obbligherà a rispondere nuovamente; il Ministro della Difesa Yoav Gallant sta già orientando l’esercito a prepararsi ad un “veloce passaggio all’offensiva”. Il pervicace desiderio di regolare i conti e rivendicare una qualche vittoria potrebbe sconfiggere ogni ragione per deporre le armi.

Ci si poteva aspettare che i leader israeliani riconoscessero questa spirale verso il peggio, con l’economia del Paese in flessione, l’esercito sempre più logorato e le popolazioni del sud e del nord sfollate. Ma questi leader sono troppo accecati da ambizioni ideologiche, arroganza nazionalista e timori per la propria sopravvivenza politica per prendere in considerazione strade che non siano quelle del militarismo e della tracotanza.

Non si tratta solo di Benjamin Netanyahu, il cui stesso gabinetto di sicurezza ammette che il primo ministro sta direttamente sabotando un accordo sugli ostaggi con Hamas. Da Gallant al capo di stato maggiore dell’esercito Herzi Halevi, molti dei pezzi grossi della politica e dell’esercito hanno un interesse personale in qualche forma di conflitto prolungato. Tutti erano in carica nel giorno in cui Israele ha subito il suo peggiore fallimento da decenni e tutti stanno lottando per recuperare la propria reputazione, se non la propria carriera: pensano che un’emergenza senza fine possa favorire il prolungamento dei loro giorni al potere.

Intanto i ministri di estrema destra del governo, guidati dal Ministro delle Finanze Bezalel Smotrich e dal Ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben Gvir, approfittano della crisi per perseguire i propri obbiettivi messianici. I loro elettori sul terreno, soprattutto i coloni in Cisgiordania, stanno accompagnando i progressi legislativi per l’annessione formale con pogrom appoggiati dall’esercito contro le comunità palestinesi e rafforzando la loro visione di Grande Israele promuovendo piani per insediarsi anche a Gaza.

Più lungimiranza della Casa Bianca

È proprio a questi dirigenti che il presidente Joe Biden e altri leader occidentali hanno garantito una quasi totale impunità, nonostante tutti i segnali dei loro secondi fini, dei loro patenti crimini di guerra e persino del crescente risentimento della stessa opinione pubblica israeliana. Per 10 mesi i più potenti governi del mondo sono stati muti e impotenti, facendo finta di avere scarsa influenza su uno Stato che preme per ottenere più armi, finanziamenti e appoggio diplomatico per il suo violento attacco. E Biden, anche se pare si stia rendendo conto di quanto venga “preso in giro” da Netanyahu, continua a mantenere aperti i rubinetti dell’America, assicurando che le redini del potere rimangano nelle mani dei pazzi e dei piromani.

Ora Washington – e per la verità i Paesi arabi firmatari degli Accordi di Abramo – stanno raccogliendo i frutti amari di uno dei loro più gravi errori: coltivare l’idea che ignorare i palestinesi avrebbe aperto la strada alla pace nella regione. L’attacco di Hamas del 7 ottobre ha infranto quella fuorviante convinzione, ma l’amministrazione Biden non ha imparato la lezione.

Infatti gli Stati Uniti hanno preferito lanciare attacchi aerei sullo Yemen e l’Iraq, minacciare le più importanti corti internazionali e assecondare Netanyahu a Washington con standing ovations, invece di costringere Israele ad un cessate il fuoco a Gaza. Che fin dai primi giorni milioni di manifestanti in tutto il mondo siano scesi in piazza nelle città e nei campus per chiedere uno stop alla guerra, e l’amministrazione Biden non lo abbia fatto, dimostra quanta più lungimiranza abbiano i comuni cittadini rispetto ai decisori seduti alla Casa Bianca.

Ma la catastrofe non è inevitabile. Nel vuoto diplomatico lasciato dagli Stati Uniti negli ultimi mesi altri si sono imposti per cercare di contenere le conseguenze. Il Qatar sta ancora mediando i negoziati tra Hamas e Israele, nonostante quest’ultimo sistematicamente disprezzi e comprometta gli sforzi del mediatore ed abbia ora assassinato uno dei capi negoziatori della controparte.

La Cina, che tradizionalmente ha evitato un forte coinvolgimento nel conflitto, ha agevolato gli ultimi tentativi di riconciliazione palestinese, quando 14 fazioni, comprese Fatah e Hamas, hanno firmato una dichiarazione di unità lo scorso mese a Pechino. Il nuovo governo inglese guidato dai laburisti ha revocato i tagli ai finanziamenti all’UNRWA fatti dal governo precedente, ha annullato le obiezioni alla stesura da parte della Corte Penale Internazionale di mandati di arresto e pare stia per bloccare la vendita di determinate armi a Israele.

Cosa importante, la Corte Internazionale di Giustizia, che ha riconosciuto la plausibilità di un genocidio perpetrato a Gaza, ha inequivocabilmente giudicato illegale l’occupazione di Israele e chiesto azioni decise per fermarla. E il Procuratore capo della CPI Karim Khan sta aspettando il benestare per ordinare a Netanyahu e Gallant di andare a processo all’Aia, insieme al capo di Hamas a Gaza Yahya Sinwar (che, se sono vere le notizie dell’uccisione del comandante Mohammed Deif, adesso è l’unico sospettato di Hamas ancora in vita.)

Tutte queste sono misure minime se paragonate alla pesante influenza di Washington o alle più gravi pressioni economiche e politiche che altri governi ancora esercitano. Ma sono indici di dove stia alla fine andando la politica internazionale. Gli Stati Uniti non hanno bisogno di trovarsi spiacevolmente all’inseguimento di questi cambiamenti, ma andare avanti significa accettare la verità, cioè che il loro più prezioso alleato nella regione – e la potenza USA stessa – ha prodotto più devastazione che pace.

Esercitare un potere smisurato

Da parte loro i palestinesi sono numericamente inferiori, hanno minori armamenti e sono surclassati dalle forze regionali e globali al di là del loro controllo e subiscono una campagna genocidaria più devastante della Nakba del 1948. I campi di morte di Israele hanno distrutto ogni famiglia palestinese a Gaza, trasformato gran parte della Striscia in distese di macerie e condannato 2 milioni di persone assediate, per la metà bambini, ad una vita di traumi fisici e psicosociali.

Hamas sopravvive grazie alla sua resistenza armata e ai suoi organi politici, ma dopo i massacri del 7 ottobre ha subito pesanti colpi militari, perso molta legittimazione internazionale e sta arrabattandosi per il controllo e l’appoggio nella stessa Gaza. L’Autorità Nazionale Palestinese guidata da Fatah ha dimostrato ancora una volta la sua totale incapacità di aiutare il suo popolo, inchiodata al suo ruolo di forza di polizia dell’occupazione, mentre sta velocemente scivolando verso la bancarotta politica e finanziaria.

Ma i palestinesi hanno anche dimostrato che dispongono di una smisurata forza di fronte a questi enormi ostacoli e devono esercitarla di conseguenza. Se la priorità assoluta è assicurare la sopravvivenza dei palestinesi a Gaza dai missili, dalla carestia e dalle malattie, è vitale anche affermare la propria agenda politica in un momento in cui attori esterni – dall’esercito israeliano agli Stati arabi e occidentali – stanno stilando piani per decidere il loro destino.

In questo senso la dichiarazione di unità di Pechino è un’iniziativa cruciale, seppure parziale, per mobilitarsi. Nonostante il presidente Mahmoud Abbas e i suoi fedeli stiano probabilmente cercando di ostacolare gli sforzi di riconciliazione, molti membri di Fatah e Hamas riconoscono la necessità impellente di cooperare per ripristinare la propria legittimità e far sì che i palestinesi siano titolari dei propri interessi. La società civile palestinese dovrà esercitare pressioni sulle élite perché trasformino le loro affermazioni in azioni concrete, insistendo al contempo per aprire canali di partecipazione popolare e democratica.

Dovrebbero essere incrementati gli sforzi per creare un consiglio per la ricostruzione di Gaza guidato da palestinesi e aiutato dal sostegno finanziario e tecnico dall’estero, per assicurarsi che la Striscia non diventi terreno di gioco per interferenze straniere, né dell’ovest né dell’est. Deve anche essere approntato un piano per un apparato di sicurezza nazionale che includa le forze di sicurezza di Fatah, la polizia di Hamas e altri gruppi armati per avere la capacità e credibilità di ristabilire l’ordine e la sicurezza tra la popolazione.

Le questioni dello Stato e dei negoziati di pace non sarebbero la priorità o la precondizione di questo programma nazionale: la precedenza deve andare alla sopravvivenza, alla ricostruzione e alla riorganizzazione. E gli attori internazionali devono rispettarla.

Ma tutto questo significherà poco se i palestinesi rimarranno prigionieri delle dinamiche geopolitiche che hanno ostacolato la loro causa per un secolo e condotto la regione sull’orlo della catastrofe. Per quanto le potenze occidentali possano aggirare il problema, un cessate il fuoco a Gaza rimane la chiave per la de-escalation regionale, e la liberazione della Palestina il modello per la speranza nella regione.

La Palestina forse non è il primo epicentro delle lotte regionali in Medio Oriente, ma può essere la crepa definitiva che frantuma ogni parvenza di ordine internazionale, che non è riuscito a impedire una simile guerra. Ciò che verrà dopo sarà determinato da ciò che accade a Gaza – e i palestinesi devono impadronirsi degli strumenti per realizzarlo.

Amjad Iraqi è caporedattore di +972 Magazine. È anche membro associato del Programma MENA di Chatham House, membro politico del gruppo di esperti Al-Shabaka e in precedenza è stato coordinatore della difesa presso il centro legale Adalah. Oltre che per +972, ha scritto, tra gli altri, per la London Review of Books, The New York Review of Books, The Nation e The Guardian. È cittadino palestinese di Israele e attualmente vive a Londra.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Secondo un’organizzazione non governativa Israele ha allestito strutture adibite alla tortura dei palestinesi

Redazione di Al Jazeera

6 Agosto 2024 – Al Jazeera

Secondo un rapporto dell’ONG israeliana B’Tselem le testimonianze di 55 ex detenuti palestinesi rivelano che più di una dozzina di campi di prigionia israeliani allestiti dopo il 7 ottobre sono dedicati a violenze nei confronti delle persone in custodia

L’organizzazione non governativa israeliana che si occupa di diritti umani B’Tselem ha raccolto le testimonianze di 55 palestinesi, di cui 21 provenienti dalla Striscia di Gaza, che sono stati trattenuti in prigioni israeliane, che raccontano in dettaglio le torture cui sono stati sottoposti.

Il rapporto di B’Tselem, intitolato “Benvenuti all’inferno”, ha rivelato martedì [6 agosto n.d.t.] che dall’inizio dell’attacco israeliano contro Gaza più di una dozzina di strutture carcerarie israeliane sono state convertite in una rete di campi “dedicati alle violenze nei confronti dei detenuti”.

“Tali spazi, in cui ogni detenuto è deliberatamente condannato a subire sofferenze gravi e incessanti, operano di fatto come campi di tortura,” vi si legge.

Le violazioni includono “frequenti atti di violenza grave e arbitraria, aggressioni sessuali, umiliazioni e degrado, fame deliberata, condizioni igieniche forzate, privazione del sonno, divieti e misure punitive contro le pratiche religiose, confisca di tutti gli effetti personali e collettivi e negazione di cure mediche adeguate”.

B’Tselem ha riferito che dal 7 ottobre almeno 60 palestinesi sono morti sotto custodia israeliana, di cui circa 48 provenienti da Gaza.

Secondo il rapporto le testimonianze dei detenuti dimostrano “una politica istituzionale sistematica basata su maltrattamenti e torture costanti di tutti i prigionieri palestinesi”.

Questa politica, si legge, è applicata sotto la direzione del Ministro per la Sicurezza Nazionale Itamar Ben-Gvir, con il pieno sostegno del Primo Ministro Benjamin Netanyahu.

“Data la gravità degli atti, l’entità delle violazioni della legge internazionale e il fatto che tali violazioni prendono di mira quotidianamente e per un prolungato periodo di tempo l’intera popolazione carceraria palestinese, l’unica possibile conclusione è che nel compiere questi atti Israele sta commettendo torture che equivalgono a un crimine di guerra e persino a un crimine contro l’umanità”, afferma il rapporto in conclusione.

Richiesta di indagine da parte della Corte Penale Internazionale

Il rapporto fa appello alla Corte Penale Internazionale affinché indaghi “i singoli individui sospettati di organizzare, dirigere e commettere questi crimini”, argomentando che tali indagini non sono state possibili in Israele “poiché tutti i sistemi statali, incluso quello giudiziario, sono stati mobilitati a sostegno di questi campi di tortura”.

B’Tselem ha anche osservato che dall’inizio della guerra contro Gaza il numero di palestinesi detenuti nelle carceri israeliane è raddoppiato, raggiungendo i 9.623.

“Ci appelliamo a tutte le nazioni e a tutte le istituzioni e gli organismi internazionali affinché facciano tutto ciò che è in loro potere per mettere immediatamente fine alle crudeltà inflitte ai palestinesi dal sistema carcerario israeliano, e affinché riconosca il regime israeliano che gestisce tale sistema come un regime di apartheid che deve finire”, conclude l’organizzazione.

Da parte delle autorità israeliane non c’è stata alcuna reazione immediata al rapporto.

(traduzione dall’inglese di Giacomo Coggiola)




La punta dell’iceberg: Israele non può continuare a insabbiare gli orribili abusi dei suoi soldati sui palestinesi

Hagai El-Ad

6 agosto 2024, Haaretz

Non è facile commettere crimini e farla franca. Richiede competenza legale e un certo grado di raffinatezza, soprattutto quando ci si deve confrontare contemporaneamente con l’opinione pubblica sia locale che internazionale.

E no, non sto parlando dei riservisti sospettati di aver violentato un detenuto palestinese alla base militare di Sde Teiman. Sto parlando dello Stato di Israele e dei suoi sofisticati meccanismi di occultamento. Questi meccanismi hanno servito fedelmente il sistema israeliano per generazioni. Ma sembra che abbiano finalmente raggiunto la loro data di scadenza e ora stiano crollando sotto il peso delle contraddizioni interne che erano in precedenza riusciti a controllare.

 Per decenni il sistema israeliano ha perfezionato la sua capacità di usare una brutale violenza contro i palestinesi senza doverne pagare alcun prezzo. É una questione grave. Dopotutto è impossibile opprimere milioni di persone per decenni senza una violenza di livello spaventoso. Ma è anche impossibile continuare a processare coloro che usano tale violenza, perché chi accetterebbe di governare con la forza se in seguito verrà denunciato come criminale?

Quindi cosa si fa? Si mette in atto un tipico bluff israeliano, raffinato.

Il bluff è il sistema operativo che fino ad ora ha funzionato benissimo. Si riceve una quantità di denunce da chiunque si prenda la briga di lamentarsi. Palestinesi, organizzazioni per i diritti umani, agenzie delle Nazioni Unite: per favore, lamentatevi e basta. Si generano scartoffie, ma nulla viene seriamente indagato.

Ogni incidente viene trattato come se fosse al massimo una violazione da parte dei ranghi inferiori. La politica e i ranghi superiori non vengono mai indagati. E l’intero processo procede molto lentamente.

Si trascina per così tanto tempo che nel frattempo tutti dimenticano. L’attenzione si sposta e passano gli anni. E a quel punto, a chi importa di qualche adolescente palestinese a cui i soldati hanno sparato alla schiena e ucciso da qualche parte vicino alla barriera di separazione molti anni fa? E nonostante ciò possiamo dire: “Abbiamo indagato”.

Come parte di questo sistema, una persona di basso rango viene ogni tanto incriminata e se ne fa un gran parlare. Un’incriminazione del genere avviene quasi sempre quando ci sono filmati video incontrovertibili o prove forensi, e dunque? Allora è uno scandalo. C’è l’attenzione internazionale. Shock.

Pensate all’agente della polizia di frontiera Ben Dery a Beitunia nel 2014 o al sergente Elor Azaria a Hebron nel 2016. In entrambi i casi c’erano prove video inequivocabili quindi non c’era altra scelta che processarli.

Entrambi hanno ucciso un palestinese. Entrambi sono stati condannati. Ma nessuno dei due ha trascorso nemmeno un anno in prigione.

Le pene erano certamente ridicole. Ma sono state utili. Visto? Abbiamo indagato, abbiamo preso provvedimenti. Ora possiamo tranquillamente chiudere tutti gli altri casi. È così che Israele è riuscito a mantenere la sua immagine di paese legale neutralizzando allo stesso tempo il rischio di processi internazionali. 

È proprio questo metodo che l’intero establishment politico, militare e giudiziario israeliano si sta preparando a rimettere in atto, ripetendo quel sacro mantra dolce e melodioso: “Le indagini proteggono i soldati”. Pensate a quante volte si è sentita questa frase retriva negli ultimi mesi: dal primo ministro e dal capo dell’opposizione, dall’attuale capo di stato maggiore e da ex capi, da consulenti legali ed ex giudici. E l’intenzione è esplicita, perché non ci siano fraintendimenti: se “indaghiamo” qui, allora quegli antisemiti dell’Aia non indagheranno là. Quindi faremmo meglio a “indagare” qui, no? (occhiolino). Capito?

E data la grande portata di questo bluff israeliano, bisogna ammettere che non è andata per niente male. Pensate, da un lato, a tutti i cadaveri, a tutte le torture, a tutte le distruzioni e a tutti gli altri crimini.

Poi pensate, d’altro canto, al numero di israeliani che sono stati finora processati all’estero. Decine di migliaia da una parte, zero dall’altra. Il metodo funziona.

Fino a quando non ha smesso di funzionare, sia a livello locale che internazionale. Nella scena locale, il costo politico delle indagini e dei pochi processi è diventato troppo alto, perché l’opinione pubblica non accetta più nemmeno questo paravento misero e decrepito. Come la legge dello Stato-nazione e altri fenomeni simili, l’attuale bon ton politico è la supremazia ebraica dall’alto. È una supremazia che nel corso degli anni ha rifiutato di accettare anche una finta ammissione di responsabilità per l’uccisione o l’abuso sui palestinesi.

Anche nell’arena internazionale il bluff ha gradualmente smesso di funzionare. Dopo anni di ripetuti resoconti da parte di organizzazioni per i diritti umani è diventato più difficile negare cosa stia realmente accadendo qui, e tuttavia ancora non era abbastanza. Alla fine, però, i cambiamenti nell’opinione pubblica internazionale, con Israele che non si preoccupa più di mantenere le apparenze e la portata e la durata della violenza – tutte cose interconnesse – tutto ha lavorato a rendere reale il rischio della corte internazionale dell’Aja. Questo rischio ha ridotto a sua volta la volontà politica in Israele di andare avanti con la farsa delle “indagini”. Perché, dopotutto, a cosa serve tutto questo? Nonostante tutto lo spettacolo messo in scena dall’Alta Corte di Giustizia, dal procuratore generale, dal procuratore di Stato, le denunce e le montagne di scartoffie, persino i rari processi, sembra comunque che l’Aja emetterà mandati di arresto. Se così fosse, allora questa è “una prova che confuta l’affermazione secondo cui la magistratura è il nostro scudo contro le corti di giustizia all’estero”, come ha spiegato Simcha Rothman.

Rothman, presidente del Comitato per la Costituzione, il Diritto e la Giustizia della Knesset, ci ricorda così che l’unico apparente valore del sistema legale è strumentale. Il che ci porta a Sde Teiman e all’Aia [il 29 luglio parlamentari e attivisti di estrema destra hanno fatto irruzione nella base militare di Sde Teiman per protestare contro l’arresto di nove riservisti sospettati di abusi su un detenuto palestinese ritenuto un terrorista di Hamas, ndt.]. Parti dell’establishment israeliano stanno ancora cercando di funzionare usando il vecchio sistema operativo. Lo fanno a tentoni, per debolezza, come se fossero costretti, spaventati dalla gente e dallo stesso primo ministro. Il primo ministro e la sua gente stanno già operando dall’alto, usando un nuovo sistema operativo. Ma coloro che si aggrappano a quello vecchio non lo fanno per servire la giustizia o perché è la cosa giusta e moralmente necessaria da fare. Anche di fronte agli atti più orribili, il loro obiettivo era e rimane strumentale.

Come ha subito spiegato il capo di stato maggiore dell’IDF Herzi Halevi, “Queste indagini proteggono i nostri soldati in Israele e all’estero e aiutano a proteggere i valori dell’IDF”. Dopo aver ascoltato questa settimana tutti quei politici e ufficiali si potrebbe concludere che le uniche cose terribili accadute, se sono state terribili, sono state l’irruzione dei civili a Sde Teiman e l’aver ostacolato la capacità dell’esercito di “indagare”. Nessuno si preoccuperà, Dio non voglia, delle atrocità inflitte dai soldati ai detenuti in loro custodia.

Ma quest’indagine esplosa questa settimana è solo la punta dell’iceberg. Altre indagini attendono non solo i ranghi inferiori in Israele. Per una volta sono in serbo vere indagini all’estero per personaggi di altissimo livello. Perché le domande su Sde Teiman non possono fare a meno di risalire fino al procuratore generale militare in persona.

E le domande su una politica che usa la forza militare a Gaza con decine di migliaia di morti non vorranno risposte simboliche. E non abbiamo ancora detto una parola sulla politica israeliana in Cisgiordania che è piena di crimini di guerra, crimini che sono, essenzialmente, crimini politici, risultato di decisioni prese da amministrazione dopo amministrazione dopo amministrazione. Arriveranno mandati di arresto internazionali, e non prenderanno di mira funzionari di grado inferiore del Ministero dell’edilizia abitativa.

Queste forze che si intersecano sono il risultato dell’incrocio tra il sistema di governo di Israele di pura, evidente supremazia ebraica, e la realtà. È la realtà è quella di uno Stato che viola le leggi e non può evitare i rischi legali internazionali. Il vecchio sistema operativo è scaduto. Mantenerlo in uso non può essere il modo per riparare ciò che è rotto.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




10.000 soldati israeliani uccisi o feriti – Un’inchiesta giornalistica rivela la crisi tra i soldati israeliani a Gaza

Redazione

4 agosto 2024-Palestine Chronicle

Il quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth ha rivelato domenica che decine di migliaia di soldati israeliani figurano tra gli uccisi e i feriti nella guerra in corso a Gaza.

Secondo il rapporto “non meno di 10.000 soldati, uccisi o feriti durante i lunghi mesi di combattimenti nella Striscia di Gaza, risultano oggi dispersi dall’IDF”. Il giornale ha anche rivelato che secondo quanto registrato dal dipartimento di riabilitazione del Ministero della Sicurezza israeliano circa un migliaio di soldati “sono da considerare tra i feriti fisici e mentali [disabili, n.d.t.]”.

Nonostante queste cifre allarmanti, sia la Knesset che il governo hanno portato avanti la riformulazione e l’approvazione di una legge per estendere il servizio militare obbligatorio, lasciando i soldati regolari in uno stato di notevole frustrazione e incertezza.

Yedioth Ahronoth ha citato il padre di un soldato della Brigata d’élite Nahal, attualmente coinvolto nelle operazioni in corso a Rafah, nella parte meridionale di Gaza. Ha espresso preoccupazione per le condizioni affrontate dai soldati e ha affermato: “Nella storia delle guerre israeliane, una situazione del genere non si è mai verificata nemmeno nel 1948 quando i soldati combatterono per dieci mesi consecutivi in condizioni estremamente sfavorevoli“.

Il giornale ha anche riferito di un evento correlato: alcune soldatesse osservatrici di stanza sulle alture settentrionali del Golan sono state inaspettatamente informate che, nonostante il loro congedo fosse programmato per settembre, il loro servizio sarebbe stato prolungato di altri quattro mesi.

Secondo i dati ufficiali israeliani, soggetti a censura militare, dal 7 ottobre sono stati uccisi più di 690 ufficiali e soldati israeliani.

Tuttavia ci sono accuse interne secondo cui l’esercito sta nascondendo la vera portata delle sue perdite che vengono stimate significativamente più elevate.

Lo scorso luglio l’israeliano Channel 12 ha rivelato che dal 7 ottobre erano stati feriti a Gaza 20.000 soldati impegnati nelle operazioni di occupazione, di cui 8.298 classificati come disabili.

Il 12 luglio il gabinetto di guerra israeliano ha approvato una decisione per estendere il servizio militare obbligatorio a tre anni a causa della carenza di personale. Questa decisione sarà presentata al governo per l’approvazione e in seguito portata di fronte alla Knesset (parlamento) per la conversione in legge.

Il genocidio continua

Violando una che chiedeva un cessate il fuoco immediate, Israele ha dovuto affrontare la condanna internazionale durante la sua continua offensiva brutale su Gaza.

Attualmente sotto processo davanti alla Corte Internazionale di Giustizia per genocidio contro i palestinesi, Israele sta conducendo una guerra devastante su Gaza dal 7 ottobre.

Secondo il Ministero della Salute di Gaza, 39.550 palestinesi sono stati uccisi e 91.280 feriti nel genocidio in corso a Gaza da parte di Israele a partire dal 7 ottobre.

Inoltre, almeno 11.000 persone risultano disperse, presumibilmente morte sotto le macerie delle loro case in tutta la Striscia.

Israele afferma che 1.200 soldati e civili sono stati uccisi durante l’operazione Tempesta di Al-Aqsa il 7 ottobre. I media israeliani hanno pubblicato resoconti che suggeriscono che molti israeliani sono stati uccisi quel giorno da “fuoco amico”.

Le organizzazioni palestinesi e internazionali affermano che la maggior parte delle persone uccise e ferite sono donne e bambini.

La guerra israeliana ha provocato una grave carestia, soprattutto nel nord di Gaza, con conseguente morte di molti palestinesi, per lo più bambini.

L’aggressione israeliana ha anche provocato lo sfollamento forzato di quasi due milioni di persone da tutta la Striscia di Gaza, con la stragrande maggioranza degli sfollati costretti a trasferirsi nella densamente affollata città meridionale di Rafah vicino al confine con l’Egitto, in quello che è diventato il più grande esodo di massa della Palestina dalla Nakba del 1948.

Nel prosieguo della guerra, centinaia di migliaia di palestinesi hanno iniziato a spostarsi dal sud al centro di Gaza in una costante ricerca di sicurezza.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




I leader israeliani celebrano gli assassinii e fanno pagare il prezzo ai vivi

Orly Noy

2 agosto 2024 – +972 Magazine

Il genocidio a Gaza ha accresciuto la sicurezza di una singola persona in Israele? Siamo più sicuri mentre aspettiamo la risposta dell’Iran all’uccisione di Haniyeh?

Ora ci troviamo di fronte alla guerra regionale di Gog e Magog [leggendarie popolazioni barbariche che incarnavano nella tradizione biblica e musulmana una minaccia di sterminio sulla civiltà, ndt] che Benjamin Netanyahu è stato così determinato a innescare. Ognuno di noi sta ora cercando con orrore di indovinare quale sarà la risposta ai recenti assassinii, che i nostri leader stanno celebrando come un “brillante risultato” della sofisticata macchina da guerra di Israele, e se i nostri figli sopravviveranno. Ora stiamo riflettendo sul destino degli ostaggi, timorosi di dire ciò che sappiamo potrebbe essere vero.

Quindi forse ora è il momento di fermarci e chiederci: non c’era davvero un altro modo? Questo sprofondare in un inferno senza fondo era un destino inevitabile?

Una risposta iraniana all’uccisione del leader di Hamas Ismail Haniyeh a Teheran arriverà, così come una rappresaglia di Hezbollah per l’uccisione del suo comandante Fuad Shukr, anche se la loro intensità o natura non può essere conosciuta. Masoud Pezekshian, il nuovo presidente iraniano e il più moderato dei candidati della Repubblica islamica si è impegnato a prendere le distanze dall’estremismo bellicista del suo predecessore e a riportare lIran sulla via del dialogo con lOccidente.

Ma l’assassinio di Haniyeh, subito dopo l’insediamento di Pezekshian, mette il presidente all’angolo. Ora dovrà dimostrare la sua leadership, rispondere a questa palese violazione della sovranità del suo Paese e rafforzare la sua alleanza con Hamas.

“Meritevole di morire” è probabilmente la frase più abusata nel discorso pubblico israeliano per descrivere i recenti assassinii. È una delle tante giustificazioni che Israele ha trovato per la sua violenza sfrenata degli ultimi dieci mesi. Ma c’è qualcosa di terrificante nel fatto che la questione se qualcuno sia o meno ritenuto “meritevole di morire” determini qui [in Israele, n.d.t.] il nostro destino più dell’essere noi civili meritevoli o meno di vivere.

Dopo i massacri del 7 ottobre di fronte ad ogni crocevia Israele ha scelto la strada della violenza e dell’escalation. Le giustificazioni non sono mai mancate: dobbiamo rispondere con forza agli attacchi; dobbiamo perseguire coloro che li hanno ideati ed eseguiti; dobbiamo intensificare la pressione finché non restituiranno gli ostaggi; dobbiamo attaccare il Libano in risposta ai razzi; dobbiamo segnalare all’Iran che non resteremo in silenzio sul suo sostegno a Hezbollah.

In conclusione, tuttavia, la scelta automatica dell’escalation violenta è suicida. Questa inerzia è così radicale che non ci consente di porci domande basilari, esistenzialmente vitali: il genocidio criminale che stiamo perpetrando a Gaza ha aumentato la sicurezza di una singola persona in Israele? Siamo più sicuri ora, mentre aspettiamo la risposta iraniana? Israele è meglio collocato sulla scena internazionale rispetto a [prima del] 7 ottobre?

La risposta ovvia a tutte queste domande retoriche è un sonoro no. Allora perché continuiamo su questa strada distruttiva, quando il prezzo che stiamo pagando non fa che crescere? Perché delle persone ragionevoli celebrano la morte di Haniyeh come un’operazione brillante, quando non possiamo nemmeno stimare il prezzo che comporta?

È facile attribuire tutto a Netanyahu; dire che la guerra serve alla sua sopravvivenza politica e che ha interesse a continuarla indefinitamente. È vero, ma è una via d’uscita troppo facile. Netanyahu ha davvero scelto di sacrificare le vite di decine di migliaia di palestinesi a Gaza, le vite degli ostaggi israeliani e la nostra sicurezza collettiva per il suo tornaconto personale. Ma l’opinione pubblica israeliana si è votata fin dall’inizio, con una gioia agghiacciante, a seguire il sentiero mortale che Netanyahu ha spianato.

Non è solo la brama di vendetta che ha travolto la società israeliana dopo il 7 ottobre, galvanizzando una natura omicida di una portata che non conoscevamo. È l’estinzione della capacità di immaginare qualsiasi cosa che non sia futile violenza. Il popolo israeliano si trova di fronte alla sconvolgente realtà di non avere gli strumenti per interrogarsi sui propri interessi e di decidere tra diverse linee strategiche. Perché nella cassetta degli attrezzi israeliana non c’è altro che un martello, e un Paese senza una serie di strumenti è un Paese molto pericoloso per i suoi cittadini, e ancora di più per i suoi sudditi sotto occupazione.

Dieci mesi dopo il massacro la società israeliana avrebbe potuto essere da qualche altra parte. Avrebbe potuto essere già in fase di ripresa dal suo terribile trauma, con tutti gli ostaggi tornati a casa vivi. Decine di migliaia di suoi cittadini non sarebbero stati sfollati dalle loro case nel nord e nel sud, e la vita di così tanti soldati sarebbe stata risparmiata. La Striscia di Gaza non sarebbe diventata l’Hiroshima del Medio Oriente, con quasi due milioni di palestinesi assediati sradicati e affamati. Invece dieci mesi di scelte criminali ci hanno portato davanti ad un baratro di sicurezza, economico, sociale e morale che persino i pessimisti tra noi non avrebbero potuto immaginare.

Questa non è saggezza col senno di poi. C’era tra noi chi metteva in guardia sulle conseguenze del percorso terrificante che Israele aveva scelto fin dall’inizio e sostenevano un’alternativa. Siamo stati denunciati come disfattisti, come negazionisti dei massacri e come sostenitori di Hamas.

Ancora adesso, sullo sfondo dell’esultanza seguita agli assassinii, ripetiamo: questo è un percorso distruttivo, stupido e pericoloso e possiamo ancora cambiare rotta. Ma una società che non riesce a immaginare un approccio non violento è destinata all’estinzione. Ed è agghiacciante vedere come stiamo ancora camminando su quel percorso con gli occhi ben aperti.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Soldato israelo-americano ha postato video che mostrano l’esplosione di case e moschee a Gaza

Alice Speri

3 agosto 2024 – The Guardian

I militari delle IDF hanno condiviso molti video sul loro comportamento a Gaza. Il soldato israelo-americano afferma che i suoi video sono stati “interpretati fuori contesto”.

Un israelo-americano schierato a Gaza con un’unità del genio militare delle forze armate israeliane ha postato in rete video che mostrano il fuoco indiscriminato contro un edificio distrutto e l’esplosione di case e di una moschea.

Uno dei video postati dall’uomo, Bram Settenbrino, e filmato dal punto di vista del tiratore, mostra decine di raffiche sparate contro le rovine di un edificio. Un altro video mostra quello che sembra essere il sistema di puntamento di un blindato che spara contro una moschea prima che sia rasa al suolo. Un altro raffigura l’esplosione di varie case mentre i soldati esultano.

Non è chiaro se Settembrino abbia filmato i video di persona o sia stato coinvolto negli atti che vi sono mostrati, ma le Forze di Difesa Israeliane (IDF) e Settembrino non mettono in discussione l’autenticità dei video. Recentemente sono diventati virali su X, attirando l’accusa di mostrare “crimini di guerra”. In un messaggio al Guardian Settembino ha scritto che i video sono stati “interpretati fuori contesto”, ma si è rifiutato di approfondire. “Non ho commesso assolutamente alcun crimine di guerra,” ha aggiunto.

Dopo che il Guardian ha contattato Settembrino e la sua famiglia, suo padre ha pubblicato una risposta attraverso Arutz Sheva, un sito di notizie legato alla destra dei coloni, attribuita a suo figlio. “Il fuoco della mitragliatrice del video in questione erano spari di copertura in una zona priva di civili dopo che la mia squadra è stata attaccata da terroristi di Hamas da quell’area. La moschea che è stata fatta saltare in aria era stata utilizzata per ospitare terroristi armati e depositi di armi e usata come base per attaccare i soldati delle IDF.

Il padre del soldato ha affermato che suo figlio ha “inviato un video di auguri dedicando l’esplosione per festeggiare il nuovo matrimonio di un amico”, e che da quando i video hanno iniziato a circolare l’azienda di famiglia ha ricevuto minacce.

Durante i 10 mesi di guerra i soldati israeliani hanno condiviso molti video che li mostrano mentre si prendono gioco dei palestinesi a Gaza e distruggono proprietà palestinesi. Alcuni sono stati utilizzati come prove nella denuncia per genocidio contro Israele di fronte alla Corte Internazionale di Giustizia. Dall’inizio della guerra le forze israeliane hanno ucciso più di 39.000 palestinesi, cacciato la maggior parte dei 2.3 milioni di abitanti di Gaza e distrutto più di metà delle strutture della Striscia.

Con migliaia di americani che prestano servizio nelle IDF, potenziali condotte scorrette documentate dagli stessi soldati sollevano questioni scomode per i politici USA riguardo alla loro volontà di applicare le leggi federali contro cittadini che partecipano a una guerra all’estero finanziata e appoggiata dal governo USA.

Le vastissime distruzioni delle proprietà, quando “non giustificate da necessità militari e messe in atto illecitamente e arbitrariamente” sono una violazione delle leggi internazionali che regolano i conflitti e in base alle leggi USA un crimine di guerra.

Gli USA hanno l’obbligo di garantire il rispetto delle convenzioni di Ginevra, una serie di trattati internazionali che regolano i conflitti armati, afferma Brian Finucane, un ex consulente legale del Dipartimento di Stato USA. “Se cittadini statunitensi stanno violando le convenzioni di Ginevra o commettendo crimini in Israele e Palestina ciò coinvolge gli obblighi degli USA,” dice, aggiungendo che in base alla legge federale sui crimini di guerra gli USA hanno l’autorità di perseguire i responsabili di crimini di guerra quando la vittima o il colpevole siano cittadini USA o quando gli autori di qualunque nazionalità siano si trovino sul suolo statunitense.

Le IDF non hanno risposto a domande riguardanti il perché la moschea e le case presenti nei video di Settembrino siano stati presi di mira, ma ha abitualmente sostenuto che gli edifici che ha distrutto venivano usati da combattenti di Hamas. In genere i corpi del genio militare piazzano esplosivi negli edifici che identificano come bersagli e li fanno esplodere da remoto, una demolizione più controllata che bombardandoli dall’aria o con un carrarmato.

Il video che mostra la distruzione della moschea è datato 10 dicembre, all’incirca quando l’unità di Settembrino era schierata nel nord della Striscia. In marzo le fonti ufficiali palestinesi hanno detto che nella Striscia le forze israeliane hanno distrutto in parte o totalmente più di 500 moschee.

Associazioni per i diritti umani hanno chiesto all’amministrazione Biden di indagare i crimini commessi a Gaza come potenziali violazioni delle leggi USA. Prima del viaggio del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu negli USA la scorsa settimana il Center for Constitutional Rights [Centro per i Diritti Costituzionali, organizzazione giuridica progressista statunitense, ndt.] ha sollecitato il Dipartimento della Giustizia USA a indagare su di lui e altri responsabili di gravi crimini commessi a Gaza, “compresi eventuali cittadini USA e con doppia cittadinanza.”

Brad Parker, direttore associato di politica del CCR afferma: “Le leggi penali federali vietano e puniscono, tra gli altri gravi crimini internazionali, il genocidio, i crimini di guerra e la tortura:

Politici e funzionari governativi statunitensi che approvano o agevolano il continuo trasferimento di armi a Israele e singoli cittadini USA che attualmente prestano servizio militare attivo nell’esercito israeliano dovrebbero senza dubbio essere preoccupati della loro responsabilità penale individuale.”

Dall’inizio della guerra a Gaza i tentativi statunitensi di prendere seri provvedimenti nei confronti delle violenze contro i palestinesi si sono concentrati sulla Cisgiordania, dove i politici hanno sanzionato un pugno di coloni, congelando beni che possiedono negli USA e vietando a singoli o istituzioni americane di fare affari con loro. Mentre le sanzioni includono anche un divieto di viaggiare negli USA, ciò non si estende a chi ha cittadinanza statunitense. “Ma ci sono altri strumenti a disposizione del governo USA,” afferma Finucane, notando che i cittadini che commettono reati all’estero potrebbero essere perseguiti da tribunali statunitensi.

Un numero stimato di 60.000 cittadini USA vive in colonie della Cisgiordania. Molti sono profondamente ideologizzati, si ispirano a figure estremiste come Baruch Goldstein, nato a Brooklyn, che nel 1994 massacrò 29 palestinesi a Hebron, e il rabbino Meri Kahane, il cui partito venne dichiarato gruppo terroristico sia negli USA che in Israele. Il Dipartimento di Giustizia non ha risposto a domande riguardo a se stia prendendo in considerazione qualche azione contro i coloni che sono cittadini statunitensi.

Americani nelle IDF

Secondo il Washington Post un numero stimato di 23.380 cittadini USA presta servizio nelle forze armate israeliane, una cifra che le IDF non hanno confermato ma che probabilmente include sia americani che sono andati in Israele con l’intento di servire nell’esercito e soldati nati e cresciuti in Israele ma che hanno la doppia cittadinanza.

Un portavoce del Dipartimento di Stato USA non ha risposto alle domande riguardanti Settembrino e gli obblighi degli USA e ha rinviato al Dipartimento di Giustizia le domande relative alle azioni dei suoi cittadini a Gaza. “Continuiamo a sottolineare che le IDF devono rispettare le leggi umanitarie internazionali,” ha scritto il portavoce. Il Dipartimento di Giustizia non risponde alle ripetute richieste di fornire un commento.

Un portavoce delle IDF si è rifiutato di commentare specificatamente il caso di Settembrino, citando preoccupazioni relative alla privacy, ma in una dichiarazione ha affermato che “le IDF esaminano avvenimenti di questo tipo così come informazioni di video caricati sulle reti sociali e li gestiscono con controllo e misure disciplinari.” Il portavoce si è rifiutato di dire se le IDF disciplinano l’uso delle reti sociali, ma ha affermato di ricorrere alla polizia militare per un’inchiesta sui casi di sospetti comportamenti criminali.

Il portavoce del Dipartimento di Stato non è stato in grado di confermare il numero di americani che prestano servizio nelle IDF, in quanto i cittadini non sono tenuti a comunicare il fatto di prestare servizio militare presso il governo USA.

Fin dall’inizio della guerra Settembrino è stato schierato a Gaza con l’Handasah Kravit, il genio militare delle IDF. Capo scout cresciuto in New Jersey, è andato in Israele da adolescente, diventando uno dei circa 600.000 cittadini USA che vivono lì. Prima si è unito al corpo cinofilo israeliano, un gruppo di civili che addestra e utilizza cani per la ricerca e il salvataggio, e in seguito si è arruolato nelle IDF.

Secondo suo padre, Randy Settembrino, che ha scritto su suo figlio in editoriali per pubblicazioni israeliane ed ebraiche, lo scorso anno questi ha ricevuto dalla sua divisione un premio come “Ottimo Soldato dell’anno”.

Distruggere case è un’attività quotidiana”

I video di Settembrino sono stati diffusi per la prima volta in luglio da un importante account di X sotto il nome di Younis Tirawi, che mette in circolazione video postati da militari. I soldati israeliani hanno condiviso anche video di se stessi che scherzano con giocattoli per bambini e indumenti intimi femminili, bruciano aiuti alimentari per i palestinesi e rastrellano e bendano civili. Un altro video recentemente condiviso da Tirawi, e originariamente postato da un membro dell’unità di Settembrino, mostra la distruzione deliberata di un impianto idrico a Rafah.

Il video di un soldato delle IDF che immortala una grande esplosione a Gaza City mentre il soldato afferma che “il quartiere di Shuja’iyya è sparito… pace a Shuja’iyya,” è stato mostrato in gennaio davanti alla CIG come parte della causa per genocidio intentata dal Sudafrica contro Israele, e altri sono stati citati durante il processo.

Ora tra i soldati c’è la tendenza a filmarsi mentre commettono atrocità contro i civili a Gaza, nella forma di “snuff” video [filmati amatoriali che riprendono fatti realmente accaduti, contenenti scene di violenza che possono contemplare anche la morte dei protagonisti, ndt.],” ha detto alla corte l’avvocato sudafricano Tembeka Ngcukaitobi. Ha citato esempi di soldati che si riprendono mentre distruggono case e dichiarano la propria intenzione di “cancellare Gaza” o “distruggere Khan Younis”, prove potenziali di intenzioni genocide.

Raramente questi video hanno comportato delle conseguenze. Il portavoce delle IDF ha affermato che quando inchieste militari stabiliscono che “l’espressione o il comportamento dei soldati nelle immagini è inappropriato […] ciò viene trattato in modo conseguente,” ma non ha fornito esempi.

Il grande numero di questi video in rete dimostra che i comandi militari non stanno neppure cercando di sanzionare le truppe,” afferma Joel Carmel, membro dell’organizzazione di veterani israeliani Breaking the Silence.

Aggiunge: “Cosa più importante, la questione riguarda meno i video in sé e più quello che dicono riguardo al modo in cui combattiamo a Gaza. Distruggere case e luoghi di culto a Gaza è un’attività quotidiana per i soldati, è l’opposto dei colpi ‘chirurgici’ contro obiettivi accuratamente scelti che ci raccontano le IDF.”

Se gli USA perseguiranno i cittadini americani che combattono per Israele è tanto una questione politica quanto giudiziaria.

Il governo USA potrebbe perseguire quei cittadini USA se partecipano a crimini di guerra,” ha detto al Guardian Oona Hathaway, direttrice del Center for Global Legal Challenges [Centro per le Sfide Giuridiche Globali] della facoltà di Legge di Yale. “Tuttavia, per ovvi motivi, ciò è politicamente improbabile.”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Israele assassina il capo dell’ufficio politico di Hamas nel contesto di un’escalation regionale

Qassam Muaddi

31 luglio 2024 – Mondoweiss

Israele ha assassinato il capo dell’ufficio politico di Hamas Ismail Haniyeh a Tehran dopo una serie di crescenti tensioni regionali che hanno incluso attacchi senza precedenti all’ “Asse della resistenza”, compresi attacchi aerei su Beirut e sullo Yemen.

Il capo dell’ufficio politico di Hamas ed ex Primo Ministro palestinese, Ismail Haniyeh, è stato ucciso la mattina di mercoledì in un attacco israeliano alla sua residenza nella capitale iraniana Tehran. Haniyeh era in visita in Iran per partecipare alla cerimonia di insediamento del nuovo presidente iraniano, Masoud Pezeshkian.

Hamas ha annunciato in una dichiarazione che Haniyeh è stato ucciso in un attacco israeliano, mentre la guida suprema iraniana, Ali Khamenei, ha accusato Israele dell’assassinio, aggiungendo che “sarà punito severamente”. Anche la Guardia Rivoluzionaria iraniana ha accusato Israele in una dichiarazione, giurando che “il regime sionista riceverà una dura risposta dall’asse della resistenza e specialmente dall’Iran.”

Da parte sua, Israele non ha rivendicato ufficialmente la responsabilità dell’uccisione di Haniyeh, anche se il suo ministro dei Beni Culturali, Amichai Eliyahu, si è rallegrato dell’assassinio commentando che “questo è il modo giusto per purificare il mondo.” Anche l’emittente pubblica ha detto che l’assassinio è avvenuto tramite un missile lanciato da fuori il territorio iraniano.

Haniyeh è la personalità di più alto grado ad essere assassinata da Israele dall’inizio dell’attuale guerra. Negli ultimi mesi stava inoltre conducendo i negoziati per il cessate il fuoco per conto di Hamas.

L’assassinio è avvenuto ore dopo un attacco israeliano al quartiere meridionale di Beirut, Dahiya, ritenuto la principale roccaforte di Hezbollah. L’attacco aveva come obiettivo l’alto comandante di Hezbollah Fouad Shukr, descritto come il braccio destro di Hassan Nasrallah. La sorte di Shukr, al momento in cui scriviamo, resta ignota, ma Hezbollah ha ammesso che Shukr si trovava all’interno dell’edificio preso di mira da Israele. L’attacco di Israele a Beirut segna il secondo importante assassinio nella capitale libanese, mentre il primo era stato l’uccisione del leader di Hamas Saleh Aruri a gennaio. L’attacco è stato probabilmente anche una risposta all’uccisione di 12 bambini siriani drusi nelle Alture del Golan occupate da Israele, in un’esplosione della cui orchestrazione Israele accusa Hezbollah, nonostante l’organizzazione libanese neghi categoricamente la propria responsabilità.

Entrambi gli incidenti inoltre sono avvenuti dopo il bombardamento dell’aeroporto yemenita di Hodeida, di cui Israele ha rivendicato la responsabilità come rappresaglia per un precedente attacco con drone lanciato dal movimento yemenita Ansar Allah a Tel Aviv, che ha provocato la morte di un cittadino israeliano.

Queste tre azioni sono indice di un’escalation regionale mentre la guerra genocida di Israele a Gaza entra nel suo decimo mese. Al tempo stesso gli USA hanno continuato ad arrabattarsi per concludere un accordo di cessate il fuoco e scambio di prigionieri prima delle elezioni presidenziali di novembre. Ma i due attacchi a Beirut e Tehran hanno fatto seguito alla visita del primo ministro Benjamin Netanyahu negli USA ed al suo discorso di fronte al Congresso, in cui ha giurato di continuare la guerra “fino alla vittoria totale”, senza menzionare un accordo sul cessate il fuoco.

Gli attacchi su Beirut e Tehran, che si aggiungono al precedete attacco a Hodeida, indicano le intenzioni di Netanyahu di prolungare la guerra allargando la sua portata regionale allo scopo di sabotare un possibile accordo di cessate il fuoco, specialmente dopo i rapporti di media israeliani secondo cui i capi della sicurezza e dell’esercito hanno fatto pressioni su Netanyahu perché si mostri più flessibile sui negoziati. Benché Israele e USA abbiano dichiarato che non vogliono una guerra regionale, le azioni di Israele rendono più vicina che mai la possibilità di tale guerra. Gli USA hanno anche annunciato che difenderanno Israele nel caso di un conflitto più vasto.

Secondo Mokhimar Abu Saadah, un professore di scienze politiche all’università al-Azhar di Gaza, ora distrutta, “l’assassinio di Haniyeh porterà all’interruzione dei negoziati sul cessate il fuoco. Resteranno congelati per un pezzo.”

Credo che al momento nessuno possa parlare di un accordo o di un cessate il fuoco a Gaza, dopo questo assassinio”, ha detto Abu Saadah al corrispondente da Gaza di Mondoweiss Tareq Hajjaj. “I colloqui su questo argomento verranno rimandati di parecchi giorni.”

Abu Saadah ha puntualizzato che “Hamas potrebbe lanciare operazioni suicide o sparare a soldati in Cisgiordania, soprattutto dato che è in corso uno sciopero generale e un lutto collettivo per l’assassinio.” Tuttavia ha scartato la possibilità di una risposta di Hamas da Gaza, “perché non ci sono a Gaza maggiori potenzialità rispetto a quanto ha fatto negli scorsi dieci mesi.”

L’Iran non intende entrare in guerra con Israele a causa di questo assassinio”, ritiene Abu Saadah. “Se ci sarà una risposta, sarà per togliersi d’imbarazzo, perché una guerra non sarebbe con Israele ma con gli USA e gli iraniani non vogliono entrare in guerra con gli alleati di Israele.”

Neanche gli USA sembrano intenzionati a supportare Israele in una guerra regionale, soprattutto prima delle elezioni presidenziali e con una transizione incerta nella candidatura democratica. Tuttavia finora la politica USA è stata di evitare di fare pressioni su Israele in alcun modo concreto e significativo.

Dopo dieci mesi di incessanti uccisioni di massa di civili a Gaza e dopo l’incriminazione di Israele da parte della Corte Internazionale di Giustizia di plausibile genocidio, unitamente all’incombente minaccia di mandati d’arresto della Corte Penale Internazionale per i leader israeliani, l’appoggio che Netanyahu ha ottenuto a Washington la settimana scorsa è solo servito ad incoraggiare la sua condotta che ora ha spinto l’intera regione più vicino all’orlo di una guerra che tutti hanno cercato di evitare.

Ha contribuito a questo articolo il corrispondente di Mondoweiss a Gaza Tareq Hajjaj.

Qassam Muaddi

Qassam Muaddi è il corrispondente per la Palestina di Mondoweiss.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Esperti accolgono con favore la dichiarazione della CIG sull’illegalità della presenza israeliana nei territori palestinesi occupati

Redazione di MEMO

30 luglio 2024 – Middle East Monitor

L’agenzia Anadolu riferisce che martedì esperti di diritti umani dell’ONU e indipendenti hanno accolto con favore il parere legale della Corte Internazionale di Giustizia (CIG) che ha definito “fuorilegge” l’occupazione israeliana della Palestina sollecitando Israele ad ottemperare alla sentenza.

In una dichiarazione gli esperti affermano che “il parere legale riafferma norme cogenti che proibiscono l’annessione, la colonizzazione, la segregazione razziale e l’apartheid e deve essere letto intrinsecamente dichiarativo e vincolante per Israele e per tutti gli Stati che supportano l’occupazione.”

Essi affermano che “la corte ha finalmente riaffermato un principio che non sembrava chiaro neppure alle Nazioni Unite: la libertà da una occupazione militare straniera, dalla segregazione razziale e dall’apartheid è assolutamente non negoziabile”.

Essi si sono detti favorevoli al riconoscimento da parte della corte del fatto che le parti coinvolte abbiano riconosciuto che convertire l’occupazione in annessione – come evidenziato da azioni come la demolizione di case, la negazione dei permessi di costruzione e il furto di territorio – viola la norma di diritto cogente che proibisce l’uso della forza per annettere territori occupati.

Gli esperti hanno affermato: “Possa questa sentenza storica essere l’inizio della realizzazione del diritto fondamentale del popolo palestinese all’autodeterminazione e alla pace basate sulla libertà per tutti.”

Essi hanno messo in guardia riguardo agli attacchi intensificati contro la popolazione civile di Gaza e le sue risorse naturale in seguito al parere legale emesso il 19 luglio.

Israele deve adempiere a questo parere legale e ad altre sentenze della CIG emesse quest’anno,” hanno affermato. “Israele deve smettere di agire come se fosse il solo Paese al di sopra della legge.”

Hanno inoltre esortato tutti gli Stati a rivedere “immediatamente” tutti i legami diplomatici, politici ed economici con Israele, includendo affari e finanza, fondi pensione, università e fondazioni, chiedendo un embargo sulle armi, la fine di tutte le altre attività commerciali che possono danneggiare i palestinesi e sanzioni mirate, incluso il blocco dei beni per singoli individui ed entità coinvolti nelle politiche di occupazione illegale, segregazione razziale e apartheid.

Gli esperti hanno chiesto inchieste e azioni penali contro coloro che sono coinvolti in crimini nei territori palestinesi occupati.

Il recente parere della CIG, in risposta ad una richiesta del 2022 da parte dell’Assemblea Generale dell’ONU, ha affermato che l’occupazione israeliana di Gerusalemme Est e della Cisgiordania è “fuorilegge” e vi si deve porre fine “il più rapidamente possibile.”

Il parere ha affermato che Israele debba cessare ulteriori attività di colonizzazione ed “evacuare tutti i coloni dai territori palestinesi occupati.”

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




I palestinesi raccontano gli abusi mortali nelle prigioni israeliane: “È Guantánamo”

Loveday Morris e Sufian Taha

29 luglio 2024 – The Washington Post

Il Post ha parlato con ex prigionieri e avvocati palestinesi e ha esaminato i referti delle autopsie, rivelando la violenza e le privazioni incontrollate nel sistema carcerario israeliano.

Un detenuto palestinese è morto con la milza spappolata e una frattura delle costole dopo essere stato picchiato dalle guardie carcerarie israeliane.

Un altro è andato incontro ad una fine straziante in seguito ad una malattia cronica non curata.

Un terzo ha urlato chiedendo aiuto per ore prima di morire.

I dettagli della morte dei prigionieri sono stati raccontati da testimoni oculari e corroborati da medici di Physicians for Human Rights Israel [Medici per i diritti umani Israele], (PHRI) che hanno assistito alle autopsie, i cui risultati sono stati condivisi con le famiglie e ottenuti dal Washington Post. I tre uomini fanno parte degli almeno 13 palestinesi della Cisgiordania e di Israele morti nelle carceri israeliane dal 7 ottobre, secondo PHRI. Tra i morti anche un numero imprecisato di prigionieri provenienti dalla Striscia di Gaza.

Organizzazioni per i diritti umani affermano che dopo gli attacchi di Hamas a Israele le condizioni nelle sovraffollate prigioni israeliane sono gravemente peggiorate. Ex prigionieri palestinesi hanno descritto pestaggi di routine, spesso su intere celle o blocchi, solitamente con manganelli e talvolta con i cani. Hanno affermato che è stato negato loro cibo e cure mediche a sufficienza e di essere stati sottoposti ad abusi psicologici e fisici.

Il Post ha parlato con 11 ex prigionieri e una mezza dozzina di avvocati, ha esaminato i verbali dei tribunali e i referti delle autopsie, scoprendo violenze e deprivazioni incontrollate, a volte con esito mortale, da parte delle autorità carcerarie israeliane.

Mentre l’attenzione e la condanna internazionale si sono concentrate sulla difficile situazione dei detenuti di Gaza, in particolare nel famigerato sito militare di Sde Teiman, i sostenitori dei diritti affermano che nel sistema penale israeliano esiste una crisi sistemica più profonda.

“La violenza è pervasiva”, ha affermato Jessica Montell, direttrice esecutiva dell’organizzazione per i diritti israeliana HaMoked, che lavora da anni con i detenuti palestinesi. “Esiste un gran sovraffollamento. Tutti i prigionieri che abbiamo incontrato hanno perso circa 15 kg.”.

Tal Steiner, direttore esecutivo del Public Committee Against Torture in Israel [Comitato Pubblico Contro la Tortura in Israele], attribuisce gli abusi in parte ad un clima di vendetta in Israele dopo l’assalto di Hamas del 7 ottobre. “È una combinazione di sentimenti individuali molto negativi e violenti, di sostegno ai decisori politici e di mancanza di senso di responsabilità”, ha affermato.

A Sde Teiman il caos è scoppiato lunedì dopo che l’esercito israeliano ha arrestato nove riservisti per interrogarli per abusi nei confronti di un prigioniero. Almeno un membro della Knesset e manifestanti di estrema destra hanno fatto irruzione nella base per protestare contro la detenzione dei riservisti, provocando una condanna da parte dell’esercito israeliano.

Interrogati sui prigionieri morti dietro le sbarre dal 7 ottobre, così come sulle altre accuse dettagliate in questo articolo, il servizio carcerario israeliano ha dichiarato: “Non siamo a conoscenza di quanto da voi descritto e, per quanto ne sappiamo, non si sono verificati eventi del genere. Tuttavia, prigionieri e detenuti hanno il diritto di presentare una denuncia che sarà esaurientemente esaminata e indagata dalle autorità ufficiali”.

“Tutti i prigionieri sono detenuti nel rispetto della legge”, continua la dichiarazione. “Tutti i diritti fondamentali necessari sono pienamente applicati da guardie carcerarie professionalmente formate”.

La Corte Penale Internazionale sta valutando mandati di arresto per il primo ministro Benjamin Netanyahu e il ministro della Difesa Yoav Gallant per la condotta di Israele a Gaza. Le condizioni nelle carceri del Paese potrebbero portare a ulteriori azioni legali internazionali, ha avvertito il capo dell’intelligence israeliana Ronen Bar in una lettera alle autorità carcerarie del 26 giugno.

“Israele sta incontrando difficoltà a respingere le accuse, almeno alcune delle quali sono ben fondate”, ha scritto in una lettera visionata dal Post e pubblicata per la prima volta da Ynet [maggior sito israeliano di informazione in inglese, ndt.].

Nella lettera si legge che il sistema carcerario, costruito per 14.500 detenuti, ne ospita 21.000, senza includere circa 2.500 prigionieri di Gaza, la maggior parte dei quali detenuti in strutture militari.

“La crisi carceraria crea minacce alla sicurezza nazionale di Israele, alle sue relazioni estere e alla capacità di realizzare gli obiettivi di guerra prefissati”, conclude Bar.

L’agenzia di intelligence interna di Israele, lo Shin Bet, non ha risposto alle richieste di commento sulla lettera di Bar.

Ma Itamar Ben Gvir, Ministro della Sicurezza Nazionale di estrema destra di Israele che supervisiona il sistema carcerario, non si è scusato per la sua “guerra” contro i detenuti palestinesi. In un post su X di questo mese in risposta a Bar, si è vantato di aver “ridotto fortemente” il tempo dedicato alla doccia e introdotto un “menù risicato“.

La soluzione più semplice al sovraffollamento delle carceri, ha detto, sarebbe la pena di morte.

L’ufficio di Ben Gvir non ha risposto a una richiesta di commento.

Tora Bora

Per Abdulrahman Bahash, 23 anni, la permanenza in prigione è diventata una condanna a morte.

La sua famiglia ha dichiarato che era un membro delle Brigate dei Martiri di al-Aqsa, considerate un gruppo terroristico da Israele e dagli Stati Uniti, ed è stato arrestato in relazione agli scontri armati con le forze israeliane nella città di Nablus, in Cisgiordania.

Il servizio carcerario israeliano ha affermato di non essere in grado di specificare quali accuse, se presenti, fossero state mosse nella vicenda contro Bahash o gli altri prigionieri.

Due dei compagni di cella di Bahash nella prigione di Megiddo, una struttura nel nord di Israele dove da ottobre sono morti almeno tre prigionieri, hanno collegato il suo omicidio a un pestaggio particolarmente violento nel loro blocco da parte delle guardie a dicembre. Entrambi hanno parlato a condizione di mantenere l’anonimato per paura di rappresaglie.

Secondo un prigioniero di 28 anni detenuto nella stessa sezione i militari hanno fatto irruzione in tutte le celle dell’ala e hanno ammanettato i detenuti prima di picchiarli. Ha detto che durante la sua prigionia tali pestaggi avevano luogo due volte a settimana.

Le guardie li hanno attaccati “in modo pazzesco”, racconta il prigioniero. “Hanno usato i manganelli, ci hanno preso a calci… su tutto il corpo”.

Dopo il pestaggio, afferma, Bahash e altri membri della sua cella sono stati portati in un’area di celle di isolamento soprannominata “Tora Bora”, dalla denominazione della rete di grotte afghane di al-Qaeda.

“Il chiasso delle urla riempiva tutto il blocco”, dice. Bahash è tornato con contusioni profonde, e si lamentava temendo di avere le costole rotte. Quando ha chiesto assistenza medica, il suo compagno di prigione dice che è stato rimandato indietro con l’Acemol, un semplice antidolorifico.

“Alla fine non era più in grado di stare in piedi”, ricorda. “Lo aiutavamo a camminare come si fa con un bambino”.

Circa tre settimane dopo, il 1° gennaio, Bahash è morto.

Un’autopsia “ha rivelato segni di lesioni traumatiche al torace destro e all’addome sinistro, che hanno causato fratture multiple alle costole e lesioni alla milza, presumibilmente il risultato di un’aggressione”, si legge in un rapporto di Daniel Solomon, un medico del PHRI a cui le autorità carcerarie hanno dato il permesso di assistere all’autopsia.

Sono state indicate come potenziali cause di morte lo shock settico e l’insufficienza respiratoria a seguito delle lesioni. I risultati ufficiali dell’autopsia così come il corpo di Bahash sono stati tenuti nascosti alla famiglia.

Il servizio carcerario israeliano non ha risposto alle domande sul perché il corpo non sia stato restituito ai parenti.

Saeb Erekat, suo cognato, ha affermato che prima della prigionia il giovane era in ottima forma fisica. Ha descritto Megiddo come un “cimitero”.

L’autopsia di Bahash è stata una delle cinque a cui i medici del PHRI hanno potuto assistere per conto delle famiglie dei prigionieri dopo aver richiesto il permesso ai tribunali.

Abdul Rahman al-Maari, 33 anni, è morto a Megiddo il 13 novembre. Falegname e padre di quattro figli, secondo suo fratello Ibrahim Maari si trovava in prigione da febbraio 2023, dopo essere stato arrestato a un posto di blocco temporaneo e accusato di affiliazione ad Hamas e possesso di un’arma da fuoco.

I parenti hanno perso i contatti con lui dopo il 7 ottobre, quando le visite dei familiari sono state interrotte. Stanno ancora cercando di ricostruire i dettagli della sua morte.

Un rapporto sulla sua autopsia del medico del PHRI Danny Rosin ha rilevato che “sono stati osservati lividi sul torace sinistro, con fratture alle costole e alla parte inferiore dello sterno. … Sono stati osservati lividi anche sulla schiena, sui glutei, sul braccio e sulla coscia sinistri e sul lato destro della testa e del collo”.

Khairy Hamad, 32 anni, detenuto nello stesso blocco, ha detto che Maari è stato gettato giù ammanettato da una rampa di circa 15 scalini di metallo, una punizione per aver fatto delle osservazioni alle guardie mentre i detenuti venivano spogliati e picchiati nel corso di una perquisizione della cella.

Hamad riferisce che lui e i suoi compagni di cella erano stati portati al piano terra e Maari è piombato a terra a circa cinque metri di distanza da lui. Era cosciente, dice, ma sanguinava dalla testa. Anche Maari è stato trasferito in isolamento a Tora Bora. Dalla cella accanto l’avvocato 53enne Sariy Khourieh lo ha sentito lamentarsi per ore a causa del dolore.

Ha urlato tutto il giorno e la notte”, afferma Khourieh. “Ho bisogno di un dottore”, ricorda che urlava, ripetutamente.

Alla fine, alle 4 del mattino, è rimasto in silenzio.

Al mattino Khourieh ha sentito le guardie scoprire il corpo senza vita e chiamare un medico. Ha sentito che cercavano di rianimare Maari con un defibrillatore, poi ha visto che lo portavano fuori in un sacco per cadaveri.

In una società moderna non dovrebbero succedere cose del genere”, ha detto suo fratello.

Sovraffollamento e negligenza

I resoconti di assistenza medica negata sono onnipresenti nelle testimonianze degli ex prigionieri. Secondo Rosin del PHRI, che ha assistito all’autopsia, la morte di Muhammed al-Sabbar, 21 anni, il 28 febbraio avrebbe potuto essere evitata se la sua condizione cronica fosse stata curata correttamente.

La famiglia di Sabbar ha affermato che è stato arrestato per istigazione in relazione a dei post pubblicati online. Soffriva fin dall’infanzia della malattia di Hirschsprung, una condizione che causa gravi e dolorose ostruzioni intestinali. Aveva bisogno di una dieta speciale e di farmaci.

Lo stomaco di Sabbar ha iniziato a gonfiarsi a ottobre dopo che gli sono stati negati i farmaci, ha affermato Atef Awawda, 54 anni, uno dei suoi compagni di cella. Un medico della prigione gli aveva fatto una singola iniezione all’inizio di quel mese, ricorda Awawda, ma aveva detto a Sabbar di non dirlo a nessuno. “Quella è stata l’ultima volta che abbiamo ricevuto medicine”, dice.

“La morte di Mohammed avrebbe potuto essere evitata con una più rigorosa aderenza alle sue esigenze mediche”, si legge nella lettera di Rosin alla sua famiglia, in cui descrive il suo colon come dilatato e pieno di una grande quantità di materia fecale.

Quando è stato portato d’urgenza al pronto soccorso, “le sue condizioni erano già tali che le possibilità di salvarlo erano scarse”, conclude il rapporto.

Secondo Addamer, un’organizzazione per i diritti dei prigionieri palestinesi, a maggio è stata trattenuta nelle prigioni israeliane una quantità record di 9.700 prigionieri palestinesi. Circa 3.380 erano detenuti amministrativi, afferma l’organizzazione, trattenuti senza accusa o processo. I numeri non includono i prigionieri di Gaza; le autorità israeliane non riveleranno quanti esattamente sono stati imprigionati o dove sono detenuti.

Ex detenuti hanno affermato che le celle per sei persone a volte ne contenevano il doppio, con materassi posizionati sul pavimento.

Alcuni hanno riferito che in inverno venivano rimosse le imposte dalle finestre delle celle per esporre al freddo i detenuti. Altri hanno detto che veniva suonato incessantemente a volume alto l’inno nazionale israeliano; le luci venivano lasciate accese di notte per disturbare il sonno.

A novembre, secondo il suo avvocato e i verbali del tribunale esaminati dal Post, un prigioniero palestinese è stato picchiato a cospetto di un giudice mentre si apprestava a seguire un’udienza tramite collegamento video.

“Ora possiamo sentire in sottofondo le grida delle persone che vengono picchiate”, si legge nei verbali del tribunale. Le grida si sono interrotte quando è intervenuto il giudice.

“Ho il naso rotto”, ha detto l’imputato, il cui nome è stato censurato nei verbali del tribunale. “Chiedo che l’udienza non finisca senza che promettano di non picchiarmi”.

“Politica della fame”

Violenza e negligenza medica erano accompagnate dalla privazione del cibo, raccontano gli ex prigionieri. Ognuno ha detto di aver perso molto peso in prigione, tra 13 e 22 kg.

Il giornalista Moath Amarneh, 37 anni, imprigionato per sei mesi a Megiddo per aver filmato delle dimostrazioni in Cisgiordania, ha detto che durante la sua permanenza la sua cella per sei persone è arrivata ad ospitarne 15.

I detenuti condividevano per colazione un piatto di verdure e yogurt. Per pranzo, ogni prigioniero riceveva mezza tazza di riso e la cella, indipendentemente dal numero di uomini che vi erano dentro, divideva un piatto di pomodori o cavolo a fette. Nei giorni buoni potevano esserci salsicce o fagioli. La cena consisteva in un uovo e un po’ di verdure, dice.

È appena il sufficiente per sopravvivere”, ha detto l’avvocato Aya al-Haj Odeh, che ha riferito che alcuni clienti hanno raccontato di aver ricevuto appena tre fette di pane al giorno o qualche cucchiaio di riso e di avere avuto un accesso limitato all’acqua potabile.

Ad aprile l’Associazione per i Diritti Civili in Israele ha presentato una petizione alla Corte Suprema per quella che ha definito una “politica della fame”. Ben Gvir ha scritto all’organizzazione prendendosi il merito di tale politica, dicendo che stava lavorando per “peggiorare le condizioni” dei prigionieri in modo da “creare deterrenza”, ha affermato l’ACRI.

Muazzaz Obayat, 37 anni, quando la scorsa settimana ha lasciato Ktzi’ot, nel sud di Israele, riusciva a malapena a camminare. È stato arrestato dopo il 7 ottobre con l’accusa di legami con Hamas, ma non è mai stato incriminato.

I suoi capelli neri ricci e la barba erano incolti; gli zigomi sporgevano e gli occhi erano infossati.

In una clinica nella città di Beit Jala, in Cisgiordania, dove stava ricevendo cure mediche, ha detto che non sapeva bene quanti anni avesse o quanti ne avessero i suoi cinque figli.

“Non so niente se non della prigionia”, ha detto.

Un tempo culturista dilettante, ha detto di aver perso più di 45 kg. in nove mesi.

Ha descritto bisbigliando come una guardia lo avesse violentato con una scopa. I medici hanno detto che soffriva di stress post-traumatico e malnutrizione.

È Guantánamo”, ha detto.

Hanno contribuito a questo articolo Hajar Harb da Londra e Lior Soroka da Tel Aviv.

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)