A Gaza si accumulano i rifiuti. Le conseguenze per la salute pubblica sono disastrose.

Ahmed Abu Abdu  

25 settembre 2024 – Mondoweiss

Oltre 150.000 tonnellate di rifiuti sono accumulati dentro Gaza City. Questo è uno degli obiettivi del genocidio di Israele: far annegare nella spazzatura Gaza, una città una volta fiera di sé.

Come capo della gestione della salute e dell’ambiente del Comune di Gaza City sono responsabile del trattamento e smaltimento di ogni tipo di rifiuti, compresi quelli casalinghi, sanitari, industriali, agricoli e marini. Con una popolazione che supera le 800.000 persone la nostra città produce oltre 700 tonnellate di rifiuti al giorno. Già prima che il 7 ottobre, quasi un anno fa, iniziasse il genocidio da parte di Israele, era difficile gestire questa quantità di rifiuti in una città sotto assedio. Durante gli ultimi vent’anni l’occupazione israeliana ci ha impedito sistematicamente di importare o costruire le attrezzature necessarie, compresi camion della spazzatura o strutture per il trattamento dei rifiuti, per svolgere il nostro lavoro. Dopo che il genocidio è iniziato l’occupazione israeliana, con l’obiettivo di creare una crisi ambientale e sanitaria a Gaza, ha lanciato una guerra contro ogni nostra struttura sanitaria e i sistemi per il trattamento dei rifiuti.

Nel corso degli anni ho vissuto vari attacchi israeliani contro Gaza — nel 2008, 2012, 2014 e 2021. Ogni volta ci siamo adattati e abbiamo continuato a svolgere i nostri servizi essenziali. Ma questa guerra è diversa da tutte quelle che abbiamo visto. Non è solo un ennesimo attacco, ma un genocidio inteso a privare la nostra città della possibilità di funzionare. Ogni giorno sembra una inutile lotta contro il tempo per garantire i servizi essenziali per una città che viene sistematicamente annientata.

L’occupazione ha preso di mira le nostre squadre a Gaza est, dove è situata la nostra discarica, rendendo impossibile trasportarvi la spazzatura e obbligandoci ad ammassarla in mezzo alla città, creando condizioni pericolose per gli abitanti di Gaza.

Fin dall’inizio della guerra mi sono costantemente preoccupato della sicurezza della mia famiglia. Quando l’esercito israeliano ha ordinato l’evacuazione ho portato la mia famiglia a Khan Younis, nel sud, come ci è stato imposto. L’immagine della supplica di mia madre in lacrime perché rimanessi con loro quando ho deciso di tornare a nord mi tormenterà per sempre. Eppure mi sono sentito in obbligo di tornare a Gaza City per continuare il mio lavoro per quanti erano ancora lì. Mentre guidavo da solo di ritorno ho superato un veicolo colpito da un attacco aereo. Ho visto corpi fatti a pezzi lungo la strada e macerie ovunque. Ho accelerato nonostante la paura.

Di ritorno a Gaza ero da solo. Abbiamo lottato per salvare ciò che rimaneva del sistema di gestione dei rifiuti e per fornire servizi operativi di base per quanti erano rimasti. In mezzo a condizioni terribili ho perso oltre 8 kg in un mese. Mia madre non mi ha quasi riconosciuto quanto ci siamo parlati con una videochiamata.

Gestire rifiuti solidi durante un genocidio

Prima del genocidio il blocco ci aveva già impedito di importare gli impianti adatti, come compattatori o inceneritori. Tutto il nostro sistema era già fragile in conseguenza dell’assedio di 17 anni.

Si suppone che la gestione avvenga in tre fasi: raccolta, trasporto e smaltimento. Il blocco ci obbligava a ricorrere a soluzioni di ripiego, come l’uso di 300 carretti trainati da animali, che per anni ha funzionato in città fino a quando è iniziato il genocidio.

Il primo giorno del genocidio le forze israeliane hanno preso di mira i lavoratori della discarica, ferendone molti e distruggendo 1,5 milioni di dollari di equipaggiamento. Non ci è rimasto altro che smaltire i rifiuti nel centro della città in luoghi provvisori come il mercato di Yarmouk e gli spazi aperti nel mercato al-Feras. Queste zone, una volta animate, ora sono sommerse di rifiuti in decomposizione, rappresentando gravi pericoli per la salute dei pochi abitanti che sono rimasti.

Gestire oltre 500 lavoratori è diventato praticamente impossibile. Metà dei miei dipendenti vive nel nord di Gaza, dove nei primi giorni della guerra hanno continuato ad usare carretti. Quando i combattimenti si sono intensificati persino questo sistema non è più stato sicuro. La parte settentrionale di Gaza ha subito pesanti bombardamenti e molti lavoratori sono stati sfollati e si sono rifugiati nelle scuole.

I loro carretti sono stati parcheggiati nei pressi, ma sono stati distrutti dagli attacchi aerei. Molti lavoratori hanno perso i loro mezzi di sussistenza e di sopravvivenza. In un attacco abbiamo perso oltre 40 operatori che si erano rifugiati nel nostro principale garage. Otto missili hanno distrutto oltre 120 veicoli utilizzati per la raccolta dei rifiuti, per la gestione delle acque reflue e le forniture idriche. Metà dei miei dipendenti è stata ferita, molti non saranno più in condizione di tornare al lavoro.

Una città sommersa dai suoi rifiuti

Con più di 150.000 tonnellate di rifiuti accumulati a Gaza City le conseguenze ambientali e sanitarie sono disastrose. L’inverno si avvicina e questi cumuli di spazzatura bloccheranno i sistemi di drenaggio, portando a potenziali inondazioni in una città già devastata. Molti abitanti sfollati che vivono in rifugi provvisori dovranno affrontare l’orrore aggiuntivo di allagamenti. L’aria è densa dell’odore di spazzatura che brucia in quanto gli abitanti disperati cercano di gestire i rifiuti incendiandoli. Il fumo tossico peggiora la situazione, provocando un incremento dei disturbi respiratori. Il ministero della Salute di Gaza ha registrato oltre 250.000 casi di malattie dermatologiche dovuti all’esposizione alla spazzatura. Con rifiuti ospedalieri e pericolosi che si accumulano insieme a quelli domestici siamo sull’orlo di una catastrofica crisi sanitaria.

Il nostro sistema di gestione della spazzatura, una volta fragile ma funzionante, ora è in rovina. Oltre 150.000 tonnellate di rifiuti stanno avvelenando la città e la stagione delle piogge non farà che peggiorare la situazione. Abbiamo urgente bisogno di assistenza. Il sistema infrastrutturale di Gaza sta collassando e la sua gente è sconvolta dal peso del genocidio. Non possiamo sopportare questo per molto tempo ancora. Il mondo deve agire prima che Gaza diventi inabitabile, che la sua gente se ne vada con nient’altro che i ricordi di una città che una volta era fiera di sé e ora è sepolta sotto i suoi rifiuti.

Ahmed Abu Abdu

Ahmed Abu Abdu è un tecnico con una lunga esperienza nella gestione dei rifiuti solidi e in problemi ambientali che attualmente guida le difficoltà delle crisi umanitarie e l’impatto del cambiamento climatico. Con oltre un decennio di esperienza e un passato di gestione di rifiuti pericolosi dal Giappone, è impegnato ad affrontare le molteplici sfide che si trovano di fronte le comunità in zone di conflitto come Gaza.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Nelle prigioni israeliane le malattie della pelle sono un metodo di punizione

Vera Sajrawi

25 settembre 2024 – +972 Magazine

Le autorità carcerarie consentono il diffondersi della scabbia limitando l’approvvigionamento idrico dei detenuti palestinesi e privandoli di vestiti puliti e cure mediche.

Pallido e denutrito, con una barba incolta e una protesi oculare, il suo corpo emaciato testimonia la negligenza e le torture subite all’interno di una prigione israeliana. “State lontani”, urla alla folla impaziente che lo circonda dopo il suo rilascio. “Non so che malattia ho, ho un’eruzione cutanea e non posso rischiare di stringere le mani”. Ma i suoi genitori, sopraffatti dall’emozione, si fanno avanti per abbracciarlo. Lui si ritrae impaurito, ribadendo che non dovrebbe essere toccato.

Mo’ath Amarnih, un fotoreporter palestinese della Cisgiordania occupata, è stato rilasciato dalla prigione di Ktzi’ot a luglio. Anche in precedenza aveva avuto a che fare con la violenza dello Stato israeliano: nel 2019, mentre riprendeva le proteste contro gli insediamenti coloniali, un soldato israeliano gli ha sparato in faccia, facendogli perdere l’occhio sinistro. Ma nulla avrebbe potuto fargli immaginare questi nove mesi di detenzione amministrativa, reclusione senza accusa o processo, durante i quali è stato tenuto in condizioni terribili, sottoposto ad abusi e privato di cure mediche nonostante soffrisse di diabete.

Amarnih è uno delle centinaia di prigionieri palestinesi recentemente rilasciati dalle prigioni israeliane i cui corpi smagriti sono stati deturpati dalla scabbia, un’infestazione parassitaria causata da acari, che provoca forte prurito ed eruzioni cutanee che spesso peggiorano di notte e sono esacerbate dal caldo estivo. L’epidemia è stata segnalata in più prigioni, tra cui Ktzi’ot, Nafha e Ramon nel Naqab/Negev, Ofer in Cisgiordania e Megiddo, Shatta e Gilboa nel nord. Israele non ha fornito dati sul numero di prigionieri infetti.

Secondo i dati dell’Israel Prison Service (IPS) nell’ultimo anno la popolazione carceraria totale è aumentata in modo significativo: da 16.353 il 6 ottobre 2023, a oltre 21.000 a giugno di quest’anno. Circa la metà di loro, approssimativamente 9.900 al momento in cui scriviamo, sono definiti “prigionieri di sicurezza”, di cui oltre 3.300 sono trattenuti in detenzione amministrativa.

In seguito a questo forte incremento della popolazione carceraria le condizioni all’interno delle carceri israeliane sono peggiorate drasticamente. Per 11 mesi i detenuti, sottoposti a torture e sevizie che hanno causato la morte di almeno 18 di loro, sono stati costretti ad indossare sempre lo stesso capo di abbigliamento, gli è stato impedito di acquistare shampoo o sapone e limitato l’accesso alle docce, e sono stati completamente privati ​​di un servizio di lavanderia. Inoltre, la sospensione delle visite dei familiari ha eliminato la possibilità di ricevere vestiti puliti, lenzuola e asciugamani dall’esterno.

Il 16 luglio una coalizione di cinque organizzazioni israeliane per i diritti umani ha presentato una petizione all’Alta Corte Israeliana, chiedendo un intervento urgente da parte dell’IPS e del Ministero della Salute per affrontare l’allarmante epidemia di scabbia che affligge i prigionieri palestinesi, principalmente quelli nelle unità di sicurezza. Ai detenuti, afferma la petizione, viene spesso negata l’assistenza medica e in prigione le visite mediche sono diventate sempre più rare.

Come osserva il dermatologo dr. Ahsan Daka nella petizione, la scabbia può essere curata efficacemente, ma contenere l’epidemia richiede condizioni di vita igieniche. L’inosservanza da parte dell’IPS suggerisce che la diffusione della malattia tra i prigionieri è diventata, di fatto, parte della loro punizione.

“Sono uscito dall’inferno”

A maggio 2023 Mohammed Al-Bazz, 38 anni, di Nablus, è stato arrestato e posto in detenzione amministrativa nella prigione di Ktzi’ot nel Naqab, senza che gli venisse spiegato il motivo. In precedenza aveva trascorso più di 16 anni nelle carceri israeliane a partire dall’età di 17 anni, ma quelle esperienze impallidiscono in confronto a ciò che sarebbe accaduto dopo il 7 ottobre.

Poco dopo l’assalto guidato da Hamas al sud di Israele la Knesset ha approvato una legge che consente al Ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben Gvir di dichiarare lo stato di emergenza nelle carceri israeliane. Quando è entrato in carica all’inizio dell’anno scorso aveva già fin da subito iniziato ad assumere una posizione più dura nei confronti dei palestinesi incarcerati. Per di più, forte delle nuove misure di emergenza in tempo di guerra, si è rapidamente dato da fare per sovraffollare le strutture dell’IPS e ridurre ulteriormente i diritti dei detenuti palestinesi.

Al-Bazz, rilasciato a maggio di quest’anno, ha ricevuto poche notizie dal mondo esterno. La prima cosa che l’IPS ha fatto dopo il 7 ottobre è stata rimuovere radio e televisori, staccare completamente l’energia elettrica e limitare a una sola ora la fornitura di acqua a tutti i prigionieri. “Immaginate 15 prigionieri in una cella che riceve acqua per una sola ora tramite un rubinetto e un water, costretti ad usarla per tutte le loro necessità”, ha detto a +972.

Come tutti i prigionieri, gli era proibito lasciare la sua cella; non era più concessa loro la solita ora d’aria. Le lavanderie sono state chiuse e trasformate in celle aggiuntive e le visite dei familiari sono state vietate, impedendo ai detenuti di ricevere nuovi vestiti dall’esterno.

“Il sole e l’aria non hanno toccato la mia pelle per otto mesi”, dice Al-Bazz. “Ho dormito sullo stesso materasso senza lenzuola o cuscino, ho fatto la doccia con acqua fredda senza shampoo o asciugamano e ho dovuto rimettere i vestiti sporchi sul corpo bagnato in inverno e in estate. Ciò dimostra un intento sistematico di diffondere la malattia tra i prigionieri attraverso una carenza di igiene”.

Secondo Naji Abbas, direttore del dipartimento prigionieri e detenuti della ONG, il primo caso di scabbia è stato segnalato a Physicians for Human Rights – Israel [Medici per i Diritti Umani – Israele] (PHRI) a metà febbraio. Quel prigioniero, Mohammed Shukair, era stato arrestato in modo violento a maggio e gli era stata consegnata una maglietta in dotazione al carcere che, come ha riferito a PHRI, era già sporca. I sintomi della malattia hanno iniziato presto a comparire sulla sua pelle ed è stato portato alla clinica della prigione, dove gli è stata fatta la diagnosi.

PHRI ha chiesto ai servizi carcerari di fornirgli dei farmaci e gli è stata data una pomata per i sintomi. Ma l’ambiente non è stato disinfettato e i suoi compagni di cella non sono stati trattati, quindi non ha funzionato. “La pomata da sola non è sufficiente, perché gli acari che causano la malattia vivono sulle superfici fino a 36 ore e la persona può essere reinfettata”, spiega Abbas.

Al-Bazz ha anche riferito a +972 che quando un prigioniero mostrava sintomi di scabbia l’IPS non lo spostava dalla cella né prendeva altre misure per impedire la diffusione della malattia tra i suoi compagni. “Hanno persino spostato dei prigionieri infetti in celle dove c’erano prigionieri sani e hanno fatto sì che si infettassero tutti”, dice.

“È la peggiore malattia, non ne ho mai viste di simili”, continua Al-Bazz, con la voce rotta dal dolore. “Comincia con piccoli brufoli sulla pelle che si diffondono su tutto il corpo e si sviluppa un prurito insopportabile. Sanguinavo su tutto il corpo per il continuo grattarmi. Se chiedi di andare alla clinica della prigione, ti spruzzano gas lacrimogeni [come punizione] o ti portano fuori per picchiarti di fronte a tutte le celle”.

Al-Bazz riferisce a +972 che durante tutto l’anno trascorso a Ktzi’ot non ha ricevuto alcun trattamento per la scabbia; in effetti, i prigionieri di sicurezza hanno riferito che non c’è accesso alle cliniche o ai medici della prigione per nessun problema di salute. “Con il pretesto della guerra in corso, l’autorità [della prigione] priva persino i malati di cancro di trattamenti essenziali per mesi”, afferma.

Come Amarnih, una volta uscito di prigione Al-Bazz era quasi irriconoscibile: da ottobre a maggio aveva perso 60 chilogrammi di peso. Dopo essere stato rilasciato ha subito cercato un’assistenza medica, ma essendo ancora affetto dalla malattia ha contagiato involontariamente la moglie e i figli gemelli.

Anche se la scabbia sta lentamente scomparendo dal suo corpo, le torture subite da Al-Bazz a Ktzi’ot avranno un impatto psicologico duraturo. Un fatto significativo, in una fredda notte del 22 ottobre, offre un quadro dell’orrore: Al-Bazz racconta che prima le guardie hanno spogliato i prigionieri, immobilizzandoli con manette ai polsi e i lacci ai piedi, poi una di loro gli ha urinato addosso.

“La maggior parte delle persone si vergogna a raccontare nei dettagli cosa abbiamo passato”, dice. “Molti prigionieri sono stati violentati con vari oggetti; le guardie donne guardavano, ridevano e si divertivano con i nostri corpi nudi. Provavano piacere nel torturarci e umiliarci. Mi ha ricordato Abu Ghraib, o anche peggio. Ci picchiavano continuamente tutto il giorno, a turno dalle 9 alle 23. Non riesco a credere a quello che ci hanno fatto. Rimarrà per sempre scolpito nella mia memoria. Sono uscito dall’inferno.”

Un portavoce dell’IPS contattato da +972 per un commento ha negato la cancellazione delle visite esterne e non ha rilasciato dichiarazioni sull’attuale diffusione della scabbia nelle prigioni.

Nel frattempo, Al-Bazz sta ancora facendo i conti con l’entità della disumanizzazione che ha dovuto affrontare durante il suo periodo a Ktzi’ot. “I prigionieri sono esseri umani”, dice. “Non sono sovrumani che possono sopportare qualsiasi cosa; sono semplicemente costretti sopportare gli abusi perché non hanno altra scelta.

“Siamo rinchiusi per una causa giusta e stiamo lottando per la nostra libertà”, continua. “Ma in fin dei conti sono di carne e ossa, con dignità ed emozioni: un essere umano che si stanca e prova dolore quando viene picchiato e si dispera quando è malato”.

Vera Sajrawi è una giornalista palestinese, ex redattrice di +972 Magazine, che vive a Haifa.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Il genocidio non mi impedirà di laurearmi

Ohood Nassar

24 Settembre 2024 – The Electronic Intifada

Giugno 2024 doveva essere il coronamento del mio viaggio accademico, un momento di festa per la fine dei miei studi e l’inizio di un nuovo capitolo come insegnante.

Ovviamente questo sogno è andato in frantumi.

Il 7 ottobre 2023 il suono dei razzi squarciava la quiete mattutina. Spaventata, sono corsa da mia sorella Sumaya per chiederle cosa stesse accadendo. “Sembra che stia cominciando una nuova guerra”, ha risposto, confermando i miei timori.

Abbiamo preso lo stretto necessario e ci siamo rifugiati al piano più basso di casa nostra.

Alcuni giorni dopo è stata bombardata la mia università – l’Università Islamica di Gaza, dove studiavo Scienze dell’educazione.

Mi sentivo coraggiosa. Questa guerra non mi spezzerà. Mi laureerò. Anche se abbiamo dovuto lasciare Beit Lahiya, la nostra zona, nel nord della Striscia.

Siamo tornati quando è stato annunciato il cessate il fuoco del 24 novembre, solo per trovare la nostra casa ridotta a un cumulo di macerie.

Ho trovato i miei libri sparsi per la strada. La mia determinazione a completare gli studi è diventata ancora più forte.

Ad aprile una nuova speranza: le università della Cisgiordania hanno annunciato programmi di didattica online per gli studenti di Gaza. Ho immediatamente fatto domanda all’Università di Birzeit.

Quando è arrivato via email il certificato di iscrizione è stato come se mi avessero lanciato un salvagente.

Nonostante le terribili circostanze nel nord della Striscia e le condizioni impossibili per gli studenti in tutto il territorio, ero profondamente determinata.

Ogni giorno camminavo quasi un chilometro per avere accesso a internet e seguire le mie lezioni online o scaricare libri e altri file. Ho studiato ovunque ci fosse abbastanza campo per la mia e-SIM, anche tra le case in rovina.

Il pericolo era in agguato a ogni angolo, ma io non ho mai rinunciato al mio sogno.

Le avversità alimentano il coraggio.

Le difficoltà però sono presto diventate insormontabili. La connessione a internet è diventata instabile. Temevo di perdere una lezione o un esame a causa della debolezza del segnale.

L’11 di maggio mio padre è entrato di corsa in camera mia mentre stavo studiando e mi ha detto di prendere le mie cose perché l’intero nord era di nuovo in pericolo.

Ho preso i miei libri, le penne, alcuni vestiti e abbiamo cominciato a cercare un luogo sicuro, anche se sapevamo che nessun posto è davvero sicuro durante questo genocidio israeliano.

Ci siamo poi rifugiati presso il quartier generale dell’UNRWA, vicino all’Università Islamica.

I danni provocati da Israele alla mia università mi hanno fatta piangere.

Ho cercato di connettermi a internet. Impossibile.

Non ho avuto accesso a internet per tre settimane. Di conseguenza non ho potuto sostenere i miei esami e ho perso il mio posto all’Università di Birzeit.

È stato straziante. Ero di nuovo al punto di partenza. Ma poi mi sono ricordata delle innumerevoli notti passate a studiare a lume di candela. Mi sono ricordata che la mia famiglia mi ha sempre incoraggiata allo studio.

Mi sono ricordata che mio padre si alzava ogni mattina, si preparava per andare al lavoro e mi chiedeva come andassero gli studi. Mi rassicurava, potevo farcela, potevo completare gli studi e ottenere la lode.

Mi sono ricordata che mia madre mi sosteneva e incoraggiava costantemente, mi diceva sempre “Adoro la tua passione per lo studio e la tua determinazione a laurearti”.

Mi sono immaginata come insegnante, in piedi di fronte ai miei studenti mentre raccontavo loro delle inimmaginabili avversità superate per realizzare il mio sogno.

Non potevo, non dovevo arrendermi.

Il 28 giugno, l’Università Islamica ha annunciato che avrebbe ripreso la didattica online in due fasi.

“Questa è la mia occasione”, mi sono detta.

Se non riesci la prima volta…

Mi sono iscritta, decisa ad andare avanti nonostante tutti gli ostacoli.

Malgrado il costante timore di non potermi connettere a internet durante gli esami, mi sono rifiutata di rinunciare al mio sogno. Sapevo che una cattiva connessione poteva compromettere gli sforzi degli ultimi tre anni, ma non ho mai permesso a queste paure di scoraggiarmi.

Cose prima banali, come gli articoli di cancelleria, erano diventate quasi introvabili. Avevo solo una penna e un taccuino, dove ho meticolosamente annotato gli appunti di tutte le mie lezioni.

Durante una delle nostre evacuazioni dall’ospedale di al-Shifa ho perso il mio computer portatile, un’altra sfida da superare.

Ma ho superato la prima fase con voti eccellenti. Ho provato una gioia immensa e i risultati che ho ottenuto alimentano la mia determinazione a impegnarmi ancora di più.

Mi sono ricordata che nell’ultimo semestre prima del genocidio ho ottenuto i voti più alti della classe. Mi sono ricordata i giorni in cui la mia vita era normale, quando avevo la mia scrivania, i miei libri e le mie penne. La mia scrivania non era solo un mobile, era il mio santuario, il luogo dove provavo un profondo senso di pace.

Adesso, nella seconda fase, darò esami per 34 crediti formativi.

Ogni giorno combatto la mia battaglia per continuare gli studi. A causa della debole connessione a internet spesso mi occorrono quattro ore per guardare una lezione che ne dura meno di una.

Negli innumerevoli sfollamenti cui siamo stati costretti, oltre al computer, ho gradualmente perso tutti i miei file, il mio lavoro e i libri.

Ma continuo sul mio telefono, che devo caricare due volte al giorno. Poiché non abbiamo elettricità a casa nostra, devo portarlo in un posto dove è possibile ricaricare i telefoni grazie ai pannelli solari.

Ogni passo che faccio tra le macerie alla ricerca di accesso a internet mi avvicina alla realizzazione del mio sogno.

Niente mi impedirà di realizzarlo – non il genocidio, non la distruzione, nemmeno la mancanza di mezzi.

La mia concezione dell’istruzione è cambiata: non è più soltanto un obbiettivo personale, ma una forma di resistenza – un bagliore di speranza in mezzo al genocidio israeliano.

Ohood Nassar è una scrittrice che al momento sta completando la sua laurea in Scienze dell’educazione a Gaza.

(traduzione dall’inglese di Giacomo Coggiola)




Israele sta estendendo il suo terrorismo di stato da Gaza e dalla Cisgiordania al Libano

B. Michael

24 settembre 2024 – Haaretz

Scusate, qualcuno per favore può spiegarmi la differenza tra far esplodere 5.000 bombe su 5.000 case in Libano e collocarne una su un autobus o sganciare bombe a grappolo su quartieri in cui per caso vivono anche dei criminali?

Come puoi paragonare queste cose?”, vengo ovviamente redarguito. “5.000 cercapersone sono stati consegnati solamente a temibili combattenti di Hezbollah, mentre le bombe sugli autobus o le bombe a grappolo sono destinate a colpire chiunque a caso.”

Scusate”, rispondo ai miei denigratori. “Le persone che hanno distribuito i cercapersone non potevano sapere dove sarebbe esplosa la bomba, chi l’avrebbe tenuta in mano, dove si sarebbe trovata, quanta gente sarebbe stata nelle vicinanze. Se fosse stata in un negozio di alimentari, nelle mani di un bambino curioso, forse in un’auto ad un distributore di benzina o nelle mani di una fidanzata?”

E chi ha avuto la mostruosa idea di inserire esplosivi in apparecchi che avrebbero mutilato il corpo delle vittime? È un atto premeditato. L’obiettivo era cavare gli occhi, castrare le persone, smembrare i visceri o troncare una mano? Era una preoccupazione compassionevole per la vita delle vittime o riempire la loro vita di sofferenza?

E potreste, sempre col vostro permesso, spiegarmi per favore qual è la differenza tra la stupida allegria della folla di Gaza e le sue grida di gioia vedendo gli ostaggi camminare nelle strade di Gaza, e le disgustose battute e grida di gioia della folla israeliana nel sentire le descrizioni dei feriti in Libano? Forse non hanno fatto altro che insegnarci che una folla è una folla. Che sia o no del popolo eletto di Dio.

Sentendo queste voci di giubilo sorge quasi spontaneamente l’effimero pensiero che forse anche noi abbiamo ricevuto un cercapersone e che anche noi siamo stati colpiti da una provvisoria cecità e che anche noi non siamo più capaci di vedere dove stiamo andando. Israele non ha ancora imparato abbastanza da capire che tutta questa mortale scena pirotecnica, tutti i festeggiamenti per le uccisioni e i giubili per gli assassinii non aiutano affatto e non cambiano nulla? Tutto questo, comprese le esplosioni dei cercapersone, non fa che far ribollire il sangue, fomentare l’odio e approfondire il pantano.

Con profondo dispiacere e vergogna, non c’è modo di evitare di dire che Israele ha compiuto un altro gigantesco passo verso il via libera al terrorismo di Stato. Ha imposto terrore e sofferenza ad un’intera popolazione, usando mezzi violenti e incontrollati. È ciò che avviene a Gaza, nella Cisgiordania occupata ed ora in Libano.

Chi cerca giustificazioni ribatterà: “Vogliono distruggerci!” Certo. E noi, che cosa vogliamo in fin dei conti? Non molto. Solo tutta la terra dall’Eufrate al Nilo. Ovviamente solo per gli ebrei. Ecco ciò che vogliamo. È chiedere troppo? È stato Dio a dirlo! Così dice chi comanda, senza esitazioni ed esplicitamente.

E quale sarà la prossima fase del legittimo terrorismo di Stato? Gli attentatori suicidi? Non è un’ipotesi assurda. Abbiamo già avuto qualcosa del genere. I suoi seguaci sono già al potere. Avvelenare i pozzi? Certo. Non è forse una simpatica abitudine nei campi della Cisgiordania occupata? Limitare le nascite? Nessun problema. Quasi tutti gli ospedali e i reparti maternità a Gaza sono già ridotti in rovine.

Bene, allora ovviamente il passo successivo sarà il piano di Giora Eiland [maggiore generale in pensione ed ex capo del Consiglio Nazionale di Sicurezza, ndt.) per conquistare il Libano. I libanesi dovranno muovere il culo verso la costa entro due settimane. Solo coloro che hanno attestati di appartenenza a Hezbollah resteranno sul restante territorio. Dopo che i civili che non sono membri ufficiali di Hezbollah saranno fuggiti sapremo che tutti quelli rimasti sul territorio sono terroristi ed inizieremo il procedimento di trasformarli in prigionieri quasi morti. Senza cibo, ci vorranno due mesi. Se gli togliamo anche l’acqua, possiamo porre fine all’intera faccenda in una settimana.

E come promesso, la vittoria finale arriverà presto.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)

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Reporter Senza Frontiere organizza proteste in 10 Nazioni per onorare i giornalisti uccisi a Gaza

Redazione di Middle East Monitor

26 settembre 2024 – Middle East Monitor

L’Agenzia Anadolu riferisce che giovedì il garante dei media Reporter Senza Frontiere ha organizzato proteste in 10 Nazioni in tutto il mondo per fare un omaggio ai giornalisti uccisi a Gaza.

In un comunicato l’organizzazione no-profit ha affermato che dallo scorso ottobre l’esercito israeliano ha ucciso oltre 130 giornalisti nell’enclave palestinese.

Le proteste sono state organizzate in Germania, Brasile, Spagna, USA, Regno Unito, Francia, Senegal, Svizzera, Taiwan e Tunisia.

In un comunicato Reporter Senza Frontiere ha affermato: “Con questa campagna globale di sensibilizzazione Reporter Senza Frontiere vuole segnalare al pubblico internazionale la gravità di questa crisi: l’allarmante tasso a cui questi giornalisti vengono uccisi sta mettendo a rischio il diritto ad una libera ed indipendente informazione.

Il massacro dei giornalisti a Gaza deve finire. L’eliminazione da parte dell’esercito israeliano dei giornalisti di Gaza, più di 130 in meno di un anno, minaccia di imporre un completo blackout sull’enclave totalmente chiusa,” ha affermato Thibaut Bruttin, direttore generale di Reporter Senza Frontiere.

Questi attacchi hanno per obiettivo non solo i giornalisti in Palestina, ma il diritto del pubblico ovunque di ricevere una informazione affidabile – libera, indipendente e pluralistica – da una delle zone di conflitto più sotto osservazione del pianeta,” ha aggiunto.

Israele ha ucciso più di 41.000 palestinesi a Gaza dall’incursione di Hamas del 7 ottobre. Il conflitto si è anche diffuso in Libano, dove prosegue lo scontro a fuoco tra le forze israeliane e Hezbollah.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




I coloni hanno attaccato il villaggio di Bana. Poi un soldato le ha sparato attraverso la finestra

Oren Ziv

23 settembre 2024 – +972 magazine

Dopo che coloni israeliani hanno assalito palestinesi con pietre e bottiglie molotov, i soldati hanno fatto irruzione a Qaryut e ucciso una tredicenne che si trovava nella sua camera da letto.

L’uccisione di Ayşenur Ezgi Eygi, un’attivista turco-americana ventiseienne, nella città cisgiordana di Beita il 6 settembre ha attirato giustamente una vasta attenzione internazionale. Ma quel giorno solo due ore dopo l’uccisione di Eygi e a pochi chilometri di distanza c’è stata da parte dell’esercito israeliano un’altra sparatoria letale che non ha praticamente fatto notizia: quella di Bana Laboum, una tredicenne palestinese del villaggio di Qaryut, colpita a morte mentre stava guardando fuori dalla finestra della sua camera da letto.

Verso le 15 coloni israeliani, che secondo gli abitanti erano armati di pietre e bottiglie molotov, si sono avvicinati alle case nei pressi di Qaryut. I giovani del villaggio, che si trova nei pressi di Nablus, nel nord della Cisgiordania occupata, sono usciti per affrontare i coloni prima che le forze di sicurezza israeliane arrivassero e i coloni se ne andassero. Ma invece di lasciare Qaryut i soldati hanno allora iniziato a dare la caccia ai giovani palestinesi. “Sono entrati nel villaggio sparando lacrimogeni e granate stordenti e un solo proiettile vero, quello che ha ucciso mia figlia,” ha detto a +972 il padre di Bana, Amjad Laboum, durante una visita al villaggio la scorsa settimana.

Secondo Amjad e altri testimoni di Qaryut, e come confermato da un breve video ripreso da un abitante e che +972 ha visionato, le forze israeliane, che sembra abbiano incluso agenti della polizia di frontiera, si trovavano in fondo a una stradina a circa 100 metri dalla casa della famiglia Laboum quando uno di loro ha sparato. Dal punto di osservazione in cui erano schierati, nei pressi di un muro di cemento, è possibile vedere la piccola finestra della stanza che Bana condivideva con alcuni dei suoi fratelli.

In quel momento, verso le 16, Amjad si trovava nel patio mentre il resto della famiglia era di sopra. “Ho visto quattro o cinque soldati che si spostavano da un posto all’altro, ma poi uno si è inginocchiato e ha puntato la sua arma,” racconta. “Pensavamo che sparasse ai ragazzi in strada. Se avessi capito che voleva sparare alla casa non avrei lasciato i miei figli all’interno. Pensavamo che lì fossero al sicuro.”

Amjad non ha visto il soldato aprire il fuoco, ma quando ha sentito lo sparo e i vetri rotti è corso di sopra nella stanza dei figli. “Bana ha barcollato verso di me ed è caduta con il petto sanguinante,” dice. “L’ho presa e l’abbiamo portata in ambulanza in un centro medico nella vicina cittadina di Qabalan e da lì all’ospedale di Nablus. Ma era già spirata sulla strada fuori dalla nostra casa.

“La geografia della zona non consente errori: è stato intenzionale,” sostiene Amjad. “Il cecchino aveva un’angolazione difficile, ma ha sparato direttamente alla finestra. Era di giorno e non si trovava in uno spazio aperto. Voglio giustizia per mia figlia per proteggere altri bambini. Non voglio che altri genitori debbano affrontare una situazione del genere.”

Pensano che uccidendo i bambini spezzeranno gli adulti”

Pitturata di lilla, la stanza di Bana consiste in quattro letti singoli con lenzuola coordinate. Il suo era nell’angolo vicino alla finestra. Dalla sua uccisione il letto è diventato una specie di monumento in memoria di Bana, e la sua famiglia ha messo le sue foto vicino al suo grembiulino scolastico e gli animali di peluche che amava: “Era previsto che iniziasse la terza media,” dice Amjad. “Era sempre sorridente.”

Nel soggiorno Amjad indica lo schermo della televisione, sul quale Al Jazeera sta trasmettendo dal vivo da Gaza: “Stiamo vedendo quello che succede là da 11 mesi ormai,” afferma. “Mi scuso per le parole dure, ma Gaza ci ha infuso forza. Almeno io ho sepolto mia figlia intera, a Gaza i bambini sono sepolti a pezzi.”

La comunità di 3.000 abitanti di Qaryut ha a lungo sopportato il peso dell’occupazione israeliana. Rispettivamente nel 1978 e nel 1983 Israele ha espropriato terre del villaggio con un ordine militare per costruire le colonie di Shilo ed Eli. I palestinesi di Qaryut sono stati tagliati fuori dalla maggior parte dei loro terreni coltivabili e poi dalla strada che collega Nablus e Ramallah. “Oggi non ci è consentito l’accesso alle nostre terre,” lamenta Amjad. “Avevamo 27.000 dunam [2.700 ettari] e ora ce ne sono rimasti solo 3.500.”

Nel dicembre 2021 i coloni hanno fatto irruzione nella casa di una coppia di anziani nel villaggio, hanno distrutto le loro cose e li hanno duramente picchiati. Solo quattro mesi dopo un colono è stato ripreso mentre brandiva un fucile durante un attacco contro abitanti che stavano lavorando la propria terra. E negli ultimi due anni i coloni hanno ricevuto protezione armata per andare a visitare ogni venerdì a Qaryut una sorgente in una zona a cui dall’inizio della guerra a Gaza ai palestinesi viene vietato totalmente l’accesso.

E non sono solo le colonie, illegali in base al diritto internazionale, che stanno soffocando il villaggio. Qaryut e i vicini villaggi di Jalud e Qusra sono circondati anche da alcuni degli avamposti israeliani più violenti della Cisgiordania, che sono illegali persino per le leggi israeliane, benché essi siano spesso collegati alle infrastrutture statali.

Il giorno dell’uccisione di Bana Mohammed Musa, ventottenne di Qaryut padre di due figli, è stato gravemente ferito da coloni israeliani che hanno fatto irruzione nel villaggio provenendo da Shilo ed Eli. “Abbiamo saputo che c’era un attacco dei coloni, così sono sceso verso la casa di mia sorella nelle vicinanze del villaggio,” racconta a +972. “Ho visto i coloni, che avevano usato le magliette per coprirsi il volto. Alcuni portavano pietre, altri molotov.”

Mentre i coloni si stavano avvicinando a un’altra casa, Mohammed ha visto che uno di loro stava per accendere una molotov. “Ho immediatamente pensato che ci sarebbe stato un altro incidente come quello dei Dawabsheh (in riferimento all’incendio di una casa nel villaggio palestinese di Duma nel 2015, che uccise il bambino di 18 mesi Ali Dawabsheh e i suoi genitori). Sono andato lì per fermarlo e allora un altro colono dietro di lui mi ha lanciato una grossa pietra in testa, che mi ha steso a terra.”

Mohammed è stato portato all’ospedale di Nablus, dove è rimasto tre giorni ed ha subito una plastica facciale. Da allora non è stato in grado di lavorare. “Ho perso 10 denti e da quel momento posso solo bere un succo o una minestra,” dice a +972. “La sostituzione di ogni dente costa 1.600 shekel (circa 400 euro). Non so dove trovare i soldi.”

Nonostante la letale escalation della violenza dell’esercito e dei coloni, Amjad sottolinea che lui e gli altri abitanti del villaggio non si piegheranno ai loro oppressori. “Pensano che se uccidono i bambini spezzeranno gli adulti, ma non è così,” dice. “Siamo un villaggio molto tranquillo e non abbiamo mai problemi. Non ho mai aggredito nessuno. Cos’hanno ottenuto uccidendo mia figlia? Ho lasciato la mia casa, il mio villaggio? Al contrario.”

L’esercito israeliano non ha ancora aperto un’indagine sull’uccisione di Bana. Alcuni soldati hanno cercato di entrare nella casa dei Laboum mentre Amjad e la sua famiglia erano ancora all’ospedale di Nablus, ma i loro vicini li hanno bloccati. “Nessuno (dell’esercito) ha parlato con noi,” dice. “Non ho incaricato un avvocato. È inutile. Dopo aver perso mia figlia non mi importa di niente.”

In una dichiarazione a +972 un portavoce della polizia di frontiera ha affermato che “forze della polizia di frontiera si sono occupate dei disordini solo dopo che (Bana) è stata colpita,” e ci hanno indirizzati al portavoce dell’esercito, che ha semplicemente affermato che “dopo un esame delle circostanze dell’incidente da parte dell’ufficio della procura generale militare si attende che la polizia militare avvii un’indagine.”

Oren Ziv è un fotogiornalista, lavora per Local Call [l’edizione in ebraico di +972 magazine, ndt] ed è membro fondatore del collettivo di fotografia ‘Activestills’.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Lo storico voto dell’ONU a favore delle sanzioni contro Israele cambierà le prospettive per i palestinesi?

Omar Barghouti

Giovedì 19 settembre 2024 – The Guardian

Nel corso della nostra pluridecennale resistenza contro lo spietato regime di oppressione da parte di Israele i palestinesi non hanno mai perso la speranza

Quando il 18 settembre 2024 l’assemblea generale delle Nazioni Unite ha adottato a larga maggioranza una risoluzione che chiede delle sanzioni contro Israele il Canada si è astenuto, obiettando che la risoluzione “si allinea con il boicottaggio, il disinvestimento, le sanzioni, a cui il Canada si oppone fermamente”. Questa formulazione, ipocrisia a parte, capovolge in realtà la verità. Lanciato nel 2005, il movimento non violento e antirazzista BDS, ispirato dalla lotta anti-apartheid sudafricana e dal movimento per i diritti civili degli Stati Uniti, ha costantemente sostenuto i diritti dei palestinesi in linea con il sistema giuridico internazionale.

Il BDS chiede di porre fine all’occupazione illegale e all’apartheid di Israele e di sostenere il diritto dei rifugiati palestinesi a tornare e ottenere dei risarcimenti. È l’assemblea generale delle Nazioni Unite che sta finalmente iniziando ad “allinearsi” con l’urgente compito di applicare il diritto internazionale in modo coerente anche a Israele. Come afferma Craig Mokhiber, ex alto funzionario dell’ONU per i diritti umani, la sentenza della Corte Internazionale di Giustizia (ICJ) rende il BDS “non solo un imperativo morale e un diritto costituzionale e umano, ma anche un obbligo giuridico internazionale”.

Questa risoluzione, ben lungi dall’essere semplicemente l’ennesima approvata dall’ONU, costituisce una sentenza storica. È la prima volta in assoluto che l’assemblea generale abbia chiamato in causa il regime di apartheid di Israele e la prima volta in 42 anni che abbia richiesto delle sanzioni per porre fine alla sua occupazione illegale, come stabilito dalla ICJ a luglio.

Molti palestinesi e attivisti solidali restano comunque scettici. A quasi un anno dall’inizio del genocidio di Israele contro 2,3 milioni di palestinesi nella Striscia di Gaza occupata e assediata Israele commette quotidianamente atrocità, mostrando un livello senza precedenti di presunta inviolabilità, o quello che persino il mite segretario generale dell’ONU chiama “totale impunità”. In collaborazione con le potenze occidentali egemoniche, guidate dagli Stati Uniti, Israele non solo sta sterminando decine di migliaia di palestinesi autoctoni, ma nel contempo sta anche distruggendo i principi stessi del diritto internazionale.

Molti esperti di diritti umani dell’ONU concordano. In una dichiarazione rilasciata lo stesso giorno hanno affermato che “l’edificio del diritto internazionale è in bilico, mentre la maggior parte degli Stati evita di prendere misure significative per rispettare i propri obblighi internazionali riaffermati nella sentenza [della ICJ]”. Hanno scritto che per rispettare la sentenza gli Stati devono imporre all’occupazione illegale e al “regime di apartheid” di Israele radicali sanzioni economiche, commerciali, accademiche e di altro tipo, indicando come misura più urgente un totale embargo militare.

Già nell’ottobre 2023, a pochi giorni dall’attacco genocida di Israele a Gaza, il presidente colombiano Gustavo Petro ha messo in guardia contro “la crescita senza precedenti del fascismo e, di conseguenza, la morte della democrazia e della libertà… Gaza è solo il primo esperimento nel considerarci tutti sacrificabili”. In altre parole, “ora o mai più”, come hanno affermato gruppi ebraici progressisti e antisionisti. Ciò significa che la priorità più urgente dell’umanità ora è porre fine al genocidio di Israele, riconoscendo insieme che la giustizia per i palestinesi si interseca e si intreccia con le lotte per la giustizia razziale, climatica, economica, di genere e sociale.

Le decisioni della ICJ, lo storico voto dell’assemblea generale e le dichiarazioni degli esperti dell’ONU sono tutte espressione della crescita di una maggioranza globale che non solo sostiene la lotta per l’emancipazione palestinese ma anche la missione fondamentale di salvare nientemeno che l’umanità da un’era contraddistinta dal “diritto del più forte”, mai vista dalla seconda guerra mondiale, che sta relegando le istituzioni dell’ONU nel dimenticatoio della storia.

Comunque i palestinesi non si fanno illusioni che la luce della giustizia si accenda su di noi grazie alla ICJ o all’ONU, quest’ultima storicamente responsabile della Nakba del 1947-49, della pulizia etnica della maggior parte dei palestinesi e dell’istituzione di Israele come colonia di insediamento su gran parte dell’area della Palestina storica. Il totale fallimento del sistema giudiziario internazionale, dominato dalle potenze coloniali euro-americane, nel fornire gli strumenti di base necessari, inequivocabili e giuridicamente vincolanti per fermare il primo genocidio televisivo al mondo, per non parlare del garantire la giustizia, la dice lunga.

Abbiamo il diritto internazionale dalla nostra parte. Abbiamo un’etica superiore come popolo autoctono che combatte un sistema di oppressione depravato e genocida per ottenere i nostri diritti. L’etica e la legge sono necessarie nella nostra o in qualsiasi altra lotta di liberazione, ma non sono mai sufficienti. Per smantellare un sistema di oppressione gli oppressi hanno invariabilmente bisogno anche di potere: il potere del popolo, il potere della base, il potere di una coalizione trasversale, il potere della solidarietà e il potere dei media, fra l’altro.

Nel costruire il potere del popolo i palestinesi non stanno elemosinando al mondo la carità; stiamo chiedendo una solidarietà significativa. Ma prima di tutto stiamo chiedendo la fine della complicità. L’obbligo etico più forte in situazioni di terribile oppressione è di non fare del male e di riparare il danno fatto da te o in tuo nome.

Come ha dimostrato la lotta che ha posto fine all’apartheid in Sudafrica, porre fine alla complicità statale, corporativa e istituzionale nel sistema di oppressione di Israele, in particolare attraverso le tattiche non violente del BDS, è la forma più efficace di solidarietà, di costruzione del potere popolare per aiutare a smantellare le strutture dell’oppressione.

Tuttavia, a quasi un anno dal genocidio c’è chi si lamenta di una “stanchezza da genocidio”. Ma i palestinesi, in particolare a Gaza, non possono permettersi il lusso della “stanchezza da genocidio”, poiché Israele continua a massacrare, affamare e sfollare con la forza, commettendo ciò che gli esperti dell’ONU hanno identificato come “distruzione totale di case, città, scuole e insegnanti, sistema sanitario, genocidio culturale e, più di recente, ecocidio”.

I palestinesi non hanno mai perso la speranza nella nostra resistenza pluridecennale al regime spietato di oppressione di Israele. Questa speranza sconfinata non è radicata in un pio desiderio o in una fede ingenua in una vittoria inevitabile che cada dal cielo, ma nel costante sumud [termine arabo di ampio significato culturale; possibili traduzioni parziali: fermezza, perseveranza, resilienza, resistenza, ndt.] del nostro popolo, nella risolutezza a voler continuare a vivere nella nostra patria, nella libertà, nella giustizia, nell’uguaglianza e nella dignità. È inoltre radicata nella crescita ispiratrice del movimento di solidarietà globale e nel suo impatto.

Inoltre, come dice lo scrittore britannico-pakistano Nadeem Aslam, “La disperazione va guadagnata. Personalmente non ho fatto tutto il possibile per cambiare le cose. Non mi sono ancora guadagnato il diritto alla disperazione”. A meno che voi non vi siate guadagnati quel diritto dovete continuare a organizzarvi, continuare a sperare, continuare a porre fine alla complicità nella vostra sfera personale di influenza. Con un radicalismo strategico possiamo prevalere e prevarremo sul genocidio, sull’apartheid e su tutta questa indicibile oppressione.

Omar Barghouti è uno dei fondatori della campagna palestinese per il boicottaggio, disinvestimento e sanzioni [BDS].

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Gli esperti delle Nazioni Unite avvertono che l’ordine internazionale è in bilico ed esortano gli Stati a conformarsi al parere consultivo della Corte internazionale di giustizia

18 settembre 2024 – Alto commissario dell’ufficio per i diritti umani delle Nazioni Unite

GINEVRA (18 settembre 2024) – A più di 50 giorni dalla pronuncia dello storico parere consultivo della Corte internazionale di giustizia (CIG) in cui si dichiara illegittima l’occupazione israeliana del territorio palestinese, gli esperti delle Nazioni Unite* avvertono che l’edificio del diritto internazionale è in bilico, con la maggior parte degli Stati che non adotta misure significative per rispettare i propri obblighi internazionali, ribaditi nella sentenza. Offrendo specifici punti di azione per gli Stati che garantirebbero il rispetto del parere della CIG e del diritto internazionale, un gruppo di esperti ha rilasciato la seguente dichiarazione:

“Sono trascorsi oltre 50 giorni da quando la Corte internazionale di giustizia ha emesso uno storico parere consultivo. La Corte internazionale di giustizia ha dichiarato l’occupazione israeliana del territorio palestinese, che comprende la Cisgiordania, inclusa Gerusalemme Est, e la Striscia di Gaza, come illegale ai sensi del diritto internazionale e ha sottolineato che le azioni di Israele equivalgono ad annessione. Il parere ha osservato che le azioni di Israele includono il trasferimento forzato, la discriminazione razziale e la segregazione o apartheid, e una violazione del diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese. Particolarmente allarmante è l’impatto di queste violazioni su generazioni di bambini palestinesi e gli effetti sproporzionati su donne, persone con disabilità e anziani. La Corte ha ribadito che la realizzazione dell’autodeterminazione non può essere lasciata a negoziati bilaterali tra due parti diseguali e asimmetriche: l’occupante e l’occupato. Ha chiesto a Israele di cessare immediatamente le sue attività di colonizzazione di insediamento illegali e di ritirarsi da queste aree il più rapidamente possibile. Ancora più importante, la Corte ha fornito indicazioni inequivocabili in merito alle responsabilità degli Stati e delle organizzazioni internazionali in relazione all’occupazione illegale di Israele.

Nonostante queste inequivocabili direttive, gli Stati rimangono paralizzati di fronte al cambiamento radicale rappresentato dalla sentenza della Corte e sembrano non voler o non essere in grado di adottare le misure necessarie per adempiere ai propri obblighi.

Gli attacchi devastanti contro i palestinesi in tutto il territorio palestinese occupato dimostrano che continuando a chiudere gli occhi sulla terribile situazione del popolo palestinese la comunità internazionale sta alimentando la violenza genocida. Gaza rimane sotto assedio e bombardamenti intensi, con case, scuole, ospedali e campi profughi densamente popolati che ospitano migliaia di persone regolarmente attaccati. L’entità della conseguente distruzione ambientale e contaminazione a Gaza deve ancora essere pienamente valutata. La portata della distruzione del paesaggio e del tessuto urbano palestinese, comprese scuole e università, ospedali, violazioni di alloggi, terreni e proprietà, inquinamento e degrado dell’ambiente e sfruttamento delle risorse naturali è estrema a Gaza e si sta diffondendo nel resto del territorio occupato, provocando accuse di distruzione totale di case, città, scuole, sistema sanitario, genocidio culturale e, più di recente, ecocidio. Sono in aumento la violenza estrema e le intimidazioni contro i palestinesi in Cisgiordania, nonché gli attacchi militari contro le città di Jenin, Nablus, Tulkarem Tubas e nelle aree rurali dove i palestinesi praticano la pastorizia.

Gli Stati devono agire ora. Devono ascoltare le voci che li invitano ad agire per fermare gli attacchi di Israele contro i palestinesi e porre fine alla sua occupazione illegale. Tutti gli Stati hanno l’obbligo legale di conformarsi alla sentenza della Corte internazionale di giustizia e devono promuovere l’adesione alle norme che proteggono i civili. Pertanto, gli Stati dovrebbero:

1. Rivedere immediatamente tutte le interazioni diplomatiche, politiche ed economiche con Israele per garantire che non sostengano o forniscano aiuti o assistenza alla sua presenza illegale nel territorio palestinese occupato.

2. Astenersi dal riconoscere o adottare misure per annullare qualsiasi riconoscimento di qualsiasi cambiamento nel carattere fisico o nella composizione demografica, nella struttura istituzionale o nello status del territorio palestinese occupato, comprese le relazioni con Israele previste dai trattati e mentre agiscono come membri di organizzazioni internazionali.

3. Adottare tutte le misure per garantire che il popolo palestinese nel territorio palestinese occupato possa esercitare e realizzare pienamente il proprio diritto all’autodeterminazione, anche tramite il riconoscimento dello Stato di Palestina.

4. Imporre un embargo totale sulle armi a Israele, bloccando tutti gli accordi sulle armi, le importazioni, le esportazioni e i trasferimenti, compresi gli apparati a duplice uso che potrebbero essere utilizzati contro la popolazione palestinese sotto occupazione.

5. Vietare l’ingresso nel loro territorio e nei loro mercati di beni e servizi derivanti sia dalla colonizzazione del territorio palestinese occupato sia da altre attività illecite che potrebbero essere dannose per i diritti dei palestinesi, e adottare misure per etichettare e consentire l’ingresso di beni e servizi provenienti da individui ed entità palestinesi nel territorio occupato.

6. Annullare o sospendere relazioni economiche, accordi commerciali e relazioni accademiche con Israele che potrebbero contribuire alla sua presenza illecita e al regime di apartheid nel territorio palestinese occupato.

7. Imporre sanzioni, tra cui il congelamento dei beni, a individui, entità tra cui aziende, società e istituzioni finanziarie israeliane, coinvolte nell’occupazione illecita e nel regime di apartheid, nonché a qualsiasi entità e individuo straniero o nazionale soggetto alla loro giurisdizione che fornisca beni e servizi che potrebbero aiutare, assistere o consentire l’occupazione e l’apartheid.

8. Impedire a tutti i loro cittadini che hanno la doppia cittadinanza con Israele di prestare servizio nell’esercito israeliano o in altri servizi che contribuiscono al regime di occupazione e apartheid o di acquistare o affittare proprietà ovunque nel territorio palestinese occupato.

9. Indagare e perseguire gli individui che ricadono nella loro giurisdizione che sono coinvolti in crimini nei territori palestinesi occupati, compresi i cittadini con doppia cittadinanza che prestano servizio nell’esercito israeliano, compresi i mercenari o coloro che sono coinvolti nella violenza dei coloni.

10. Abrogare la legislazione e le politiche che criminalizzano e penalizzano la difesa dei diritti dei palestinesi all’autodeterminazione e all’opposizione non violenta all’occupazione e all’apartheid di Israele, incluso il sostegno al movimento di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS).

11. Diffondere ampiamente le conclusioni della Corte, assicurando che lo status di occupazione della Cisgiordania, inclusa Gerusalemme est e la Striscia di Gaza, e l’illegalità della presenza di Israele trovino spazio nei documenti pubblici e nei sistemi educativi.

12. Presentare osservazioni alla CPI in modo che indaghi sui crimini internazionali inclusi nel parere della CIG.

13. Convocare Assemblee generali degli Stati parti ai sensi dello Statuto di Roma o della Quarta Convenzione di Ginevra, per garantire la piena conformità da parte di tutte le parti in Palestina e Israele al diritto internazionale umanitario e al diritto penale internazionale.

14. Garantire la piena protezione dei palestinesi, in particolare donne, bambini, persone con disabilità e anziani, istituendo una presenza protettiva e garantendo un accesso sicuro e completo a esperti e meccanismi indipendenti incaricati di monitorare e investigare sulle violazioni dei diritti umani e sui crimini internazionali nei territori palestinesi occupati.

È necessaria un’azione decisa. Di fronte all’inazione irresponsabile della maggior parte dei governi, ora spetta alle organizzazioni della società civile e alle istituzioni nazionali per i diritti umani mobilitarsi e chiedere ai loro Stati di conformarsi al fondamentale parere consultivo della Corte internazionale di giustizia. È tempo di bussare alle porte di ogni leader politico e funzionario ministeriale responsabile in tutto il mondo per porre fine all’occupazione illegale, all’apartheid, all’oppressione e all’assalto di Israele contro il popolo palestinese e, in ultima analisi, garantire verità, giustizia e responsabilità. Lo dobbiamo soprattutto alle donne e ai bambini che sono stati colpiti in modo sproporzionato dall’attuale catastrofe.

Non agire ora mette a repentaglio l’intero edificio del diritto internazionale e della legalità negli affari mondiali. Il mondo è in bilico sul filo di un rasoio: o viaggiamo collettivamente verso un futuro di pace e legalità giuste, o precipitiamo verso l’anarchia e la distopia, e un mondo in cui è la forza a determinare il diritto”.

*Gli esperti: Francesca Albanese, Relatrice speciale sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati dal 1967; Balakrishnan Rajagopal, Relatrice speciale sul diritto a un alloggio adeguato; Tlaleng Mofokeng, Relatrice speciale sul diritto di ogni individuo al godimento del più alto standard raggiungibile di salute fisica e mentale; Farida Shaheed, Relatrice speciale sul diritto all’istruzione; George Katrougalos, Esperto indipendente sulla promozione di un ordine internazionale democratico ed equo, Nicolas Levrat, Relatore speciale sulle questioni delle minoranze; Cecilia M Bailliet, Esperta indipendente sui diritti umani e la solidarietà internazionale; Irene Khan, Relatrice speciale sul diritto alla libertà di opinione ed espressione; Gina Romero, Relatrice speciale sui diritti alla libertà di riunione pacifica e di associazione; Tomoya Obokata, Relatrice speciale sulle forme contemporanee di schiavitù, comprese le sue cause e conseguenze; Alexandra Xanthaki, Relatrice speciale nel campo dei diritti culturali, Heba Hagrass, Relatrice speciale sui diritti delle persone con disabilità; Ashwini K.P. Relatrice speciale sulle forme contemporanee di razzismo, xenofobia e intolleranza correlata; Olivier De Schutter, Relatore speciale sulla povertà estrema e i diritti umani; Pedro Arrojo Agudo, Relatore speciale sui diritti umani all’acqua potabile e ai servizi igienico-sanitari; Paula Gaviria Betancur, Relatrice speciale sui diritti umani degli sfollati interni; Michael Fakhri, Relatore speciale sul diritto al cibo; Reem Alsalem, Relatrice speciale sulla violenza contro le donne e le ragazze, le sue cause e conseguenze; Marcos A. Orellana, Relatore speciale sulle implicazioni per i diritti umani della gestione e dello smaltimento ecologicamente corretti di sostanze e rifiuti pericolosi, Richard Bennett, Relatore speciale sulla situazione dei diritti umani in Afghanistan, Barbara G. Reynolds (Presidente), Bina D’Costa, Dominique Day, Gruppo di lavoro di esperti sulle persone di discendenza africana; Mary Lawlor, Relatrice speciale sulla situazione dei difensori dei diritti umani; Sig.ra Fernanda Hopenhaym (Presidente), Sig.ra Pichamon Yeophantong, Sig. Damilola Olawuyi, Sig. Robert McCorquodale e Sig.ra Lyra Jakulevičienė, Gruppo di lavoro sulla questione dei diritti umani e delle società transnazionali e altre imprese commerciali; Laura Nyirinkindi (Presidente), Claudia Flores (Vicepresidente), Dorothy Estrada Tanck, Ivana Krstić e Haina Lu, Gruppo di lavoro sulla discriminazione contro le donne e le ragazze; Geneviève Savigny, presidente-relatrice, Carlos Duarte, Uche Ewelukwa, Shalmali Guttal, Davit Hakobyan, Gruppo di lavoro sui diritti dei contadini e delle altre persone che lavorano nelle zone rurali.

Relatori speciali, esperti indipendenti e gruppi di lavoro fanno parte di ciò che è noto come Procedure speciali del Consiglio per i diritti umani. Procedure speciali, il più grande organismo di esperti indipendenti nel sistema dei diritti umani delle Nazioni Unite, è il nome generale dei meccanismi indipendenti di indagine e monitoraggio del Consiglio che affrontano situazioni specifiche di paesi o questioni tematiche in tutte le parti del mondo. Gli esperti delle Procedure speciali lavorano su base volontaria; non sono personale delle Nazioni Unite e non ricevono uno stipendio per il loro lavoro. Sono indipendenti da qualsiasi governo o organizzazione e prestano servizio a titolo individuale.

Per ulteriori informazioni e richieste dei media, contattare – HRC-SR sui diritti umani in oPT hrc-sr-opt@un.org

Per richieste dei media relative ad altri esperti indipendenti delle Nazioni Unite, contattare Dharisha Indraguptha (dharisha.indraguptha@un.org) o John Newland (john.newland@un.org)

Segui le notizie relative agli esperti indipendenti per i diritti umani delle Nazioni Unite su Twitter: @UN_SPExperts

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




Un piano per liquidare la Striscia di Gaza settentrionale sta guadagnando terreno

Meron Rapoport

17 settembre 2024, +972Magazine

Ministri, generali e accademici israeliani chiedono a gran voce una nuova fase decisiva della guerra, ed ecco come potrebbe risultare l’operazione Fame e Sterminio.

La data potrebbe essere ottobre, novembre o dicembre 2024, o forse inizio 2025. L’esercito israeliano ha appena lanciato una nuova operazione in tutto il nord di Gaza, la chiameremo “Operazione Ordine e Pulizia”. L’esercito ordina l’evacuazione temporanea di tutti i residenti palestinesi a nord del corridoio Netzarim “per la loro sicurezza personale”, spiegando che “l’esercito sta per intraprendere azioni importanti a Gaza City nei prossimi giorni e vuole evitare di danneggiare i civili”. L’ordine è simile a quello che l’esercito ha emesso il 13 ottobre 2023 agli oltre 1 milione di palestinesi che vivevano a Gaza City e nei suoi dintorni in quel momento. Ma è chiaro a tutti come questa volta Israele stia pianificando qualcosa di completamente diverso.

Sebbene il Primo Ministro Benjamin Netanyahu e il Ministro della Difesa Yoav Gallant siano reticenti sui veri obiettivi dell’operazione, il Ministro delle Finanze Bezalel Smotrich e il Ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben Gvir, così come altri ministri dell’estrema destra, li dichiarano apertamente. In proposito citano un programma che il Forum dei Comandanti e Combattenti Riservisti, guidato dal Maggiore Generale di Riserva Giora Eiland, ha proposto solo poche settimane fa: ordinare a tutti i residenti della parte settentrionale di Gaza di andarsene entro una settimana per poi imporre un assedio completo all’area inclusa la chiusura di tutte le forniture di acqua, cibo e carburante, fino a quando coloro che rimangono non si arrendano o muoiano di fame.

Negli ultimi mesi altri importanti israeliani hanno chiesto all’esercito di effettuare uno sterminio di massa nel nord di Gaza. “Rimuovete l’intera popolazione civile dal nord e chiunque vi rimanga sarà legalmente condannato come terrorista e sottoposto a un procedimento di fame o sterminio”, ha proposto il prof. Uzi Rabi, ricercatore senior presso l’Università di Tel Aviv in un’intervista radiofonica del 15 settembre. E ad agosto, secondo un rapporto di Ynet, i ministri del governo avevano già iniziato a fare pressione su Netanyahu affinché “ripulisse” il nord di Gaza dai suoi abitanti.

Un’altra proposta è stata stilata a luglio da diversi accademici israeliani, intitolata “Da un regime omicida a una società moderata: la trasformazione e la ricostruzione di Gaza dopo Hamas”. Secondo questo piano, che è stato sottoposto ai decisori israeliani, la “sconfitta totale” di Hamas è una precondizione per avviare un processqo di “deradicalizzazione” dei palestinesi a Gaza. “È importante che anche l’opinione pubblica palestinese abbia una profonda percezione della sconfitta di Hamas”, sostengono gli autori, aggiungendo: “Un ‘primo intervento’ può iniziare nelle aree ripulite da Hamas”. Uno degli autori della proposta, il dott. Harel Chorev, ricercatore senior presso il Moshe Dayan Center dove lavora anche Rabi, ha espresso pieno sostegno al piano del gen. Eiland.

Ma torniamo al nostro scenario: inizia l'”Operazione Ordine e Pulizia” e, nonostante gli ordini di evacuazione dell’esercito, circa 300.000 palestinesi rimangono tra le rovine di Gaza City e dintorni, rifiutandosi di andarsene. Forse rimangono perché hanno visto cosa è successo ai loro vicini che se ne sono andati all’inizio della guerra, credendo che si trattasse di un’evacuazione temporanea e che ancora oggi vagano per le strade di Gaza meridionale senza un posto sicuro in cui ripararsi. Forse perché temono Hamas, che invita i residenti a rifiutare gli ordini di evacuazione di Israele. O forse perché sentono di non avere più nulla da perdere. In tutti i casi l’esercito impone un blocco completo di una settimana a tutti coloro che rimangono nella Gaza settentrionale. I combattenti di Hamas (il documento Eiland stima che ne siano rimasti 5.000 nel nord ma nessuno conosce effettivamente il loro numero reale) si rifiutano di arrendersi. Sulla televisione internazionale e sui social media le persone in tutto il mondo guardano Gaza City che viene decimata dalla fame di massa. “Preferiamo morire che andarcene”, dicono i residenti ai giornalisti.

Alla TV israeliana i commentatori non sono convinti che una mossa del genere sia decisiva per vincere la guerra. Ma concordano sul fatto che una “campagna di fame e sterminio” sia preferibile al fatto che l’esercito continui a tergiversare a Gaza. Alcune voci degli studi televisivi mettono in guardia dal potenziale danno alle pubbliche relazioni di Israele, ma nonostante ciò il piano ottiene il sostegno della maggioranza del pubblico ebraico-israeliano. I cittadini palestinesi di Israele, che intensificano le proteste contro il genocidio, vengono arrestati anche solo per averne parlato online, e la polizia reprime con la forza le dimostrazioni della sinistra radicale. Il Segretario di Stato americano Antony Blinken esprime preoccupazione, afferma che Washington è impegnata per l’integrità territoriale di Gaza e la soluzione dei due Stati, e avverte che questa ultima campagna potrebbe sabotare i negoziati per un accordo sugli ostaggi, ma Netanyahu è irremovibile. Sotto pressione della destra, che vede nell’espulsione dei residenti di Gaza City l’opportunità di radere al suolo completamente l’area e costruire colonie sulle rovine, l’esercito inizia la fase di “sterminio” delineata da Rabi.

Poiché l’esercito ha affermato che i civili possono lasciare la parte settentrionale di Gaza, anche se i soldati sparano e uccidono casualmente i civili palestinesi che cercano di evacuare, chiunque rimanga in città viene trattato come un terrorista. Tale strategia è in linea con quanto il tenente colonnello A., comandante dello squadrone di droni dell’aeronautica militare israeliana, ha detto a Ynet ad agosto sull’operazione per salvare gli ostaggi nel campo di Nuseirat: “Chiunque non sia fuggito, anche se disarmato, per quanto ci riguarda era un terrorista. Tutti quelli che abbiamo ucciso dovevano essere uccisi”. La città di Gaza è completamente distrutta e tra le rovine giacciono i corpi di migliaia o forse decine di migliaia di palestinesi. Nessuno conosce il numero esatto, perché l’area rimane una “zona militare chiusa”. L’Operazione Ordine e Pulizia è coronata da successo. L’esercito, come proposto dal piano Eiland, si prepara a replicare operazioni simili a Khan Younis e Deir al-Balah. In coordinamento con i comandanti sul campo, apparentemente senza l’approvazione dello Stato Maggiore, il rinato movimento per la ri-colonizzazione di Gaza – che è rimasto in attesa per mesi – inizia a stabilire le prime nuove comunità nelle aree che sono state “ripulite” dai palestinesi.

Uno scenario probabile ma non ineluttabile

Non è certo che questo scenario si materializzi. Può essere intralciato a vari snodi: l’esercito potrebbe far intendere che non è interessato alla piena occupazione della Striscia di Gaza, né a ripristinarvi un governo militare. L’esercito è consapevole che un’operazione su larga scala potrebbe portare all’esecuzione degli ostaggi rimasti, come è successo a Rafah, e non vuole essere responsabile del loro omicidio. Così come teme che un’operazione su larga scala a Gaza potrebbe innescare una risposta più forte da parte di Hezbollah, e quindi a una guerra intensa su due fronti o forse più.

Nonostante tutta l’indulgenza dimostrata dall’amministrazione statunitense per le azioni genocide di Israele a Gaza, che hanno fatto morire di fame e annientato decine di migliaia di palestinesi, questa fase ulteriore potrebbe essere troppo anche per il presidente autoproclamatosi “sionista” Joe Biden e per la candidata alla presidenza Kamala Harris, che parla di “sofferenza palestinese”. Potrebbe essere la mossa che costringerà la Corte Internazionale di Giustizia (ICJ) a dichiarare che Israele sta commettendo un genocidio e ad accelerare l’emissione di mandati di arresto da parte della Corte Penale Internazionale (ICC), non solo per Netanyahu e Gallant. I paesi europei, che finora sono stati esitanti a sanzionare Israele, potrebbero andare fino in fondo. Netanyahu potrebbe concludere che il prezzo internazionale di un’operazione del genere sia troppo alto, al diavolo i desideri dei suoi alleati di destra.

Anche la società israeliana potrebbe rappresentare un ostacolo all’attuazione del piano. Come appare evidente dalle dimostrazioni di massa delle ultime settimane, gran parte del pubblico ebraico-israeliano ha perso fiducia nelle promesse del governo di “vittoria totale” a Gaza o nell’idea che “solo la pressione militare libererà gli ostaggi”. Guidati dalle famiglie degli ostaggi, che si sono radicalizzate dopo la recente esecuzione da parte di Hamas dei sei ostaggi in un tunnel a Rafah, centinaia di migliaia di israeliani, a quanto pare, vogliono non solo vedere gli ostaggi tornare a casa ma anche lasciarsi la guerra alle spalle. Il piano Rabi-Eiland, che certamente prolungherà la guerra a Gaza e probabilmente farà fallire la liberazione degli ostaggi rimasti, potrebbe essere respinto da centinaia di migliaia di dimostranti proprio per queste ragioni.

Tuttavia bisogna anche ammettere che lo scenario che ho delineato non è inverosimile. Dal 7 ottobre la società israeliana ha subito un processo accelerato di disumanizzazione nei confronti dei palestinesi, ed è difficile pensare che l’esercito rifiuti in massa di portare avanti una simile campagna di sterminio, soprattutto se presentata in fasi: prima costringendo la maggior parte dei residenti ad andarsene, poi imponendo un assedio e solo allora l’eliminazione di coloro che rimangono. Non è semplicemente una questione di vendetta per le atrocità commesse da Hamas il 7 ottobre. All’interno della logica distorta che regola la politica israeliana nei confronti dei palestinesi, l’unico modo per ripristinare la “deterrenza” dopo l’umiliazione militare del 7 ottobre è quello di schiacciare completamente la collettività palestinese, comprese le sue città e istituzioni.

Per qualcuno può essere facile liquidare le proposte israeliane di “finire il lavoro” nella parte settentrionale di Gaza come una magniloquenza genocida difficile da realizzare. Ma il piano è stato concepito da Eiland, Rabi e altre persone influenti, non solo quelle del circolo “messianico” di Ben Gvir e Smotrich. E indipendentemente da ciò che accadrà nei prossimi mesi, il fatto stesso che esplicite proposte di far morire di fame e sterminare centinaia di migliaia di persone siano in discussione dimostra esattamente dove si trova oggi la società israeliana.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Nuovo attacco ai dispositivi di Hezbollah uccide 14 persone in tutto il Libano

Nader Durgham, Josephine Deeb, Rayhan Uddin

18 settembre 2024-Middle East Eye

Secondo il ministero della Salute libanese almeno 450 persone sono state ferite dalle esplosioni delle loro radio portatili.

Almeno 14 persone sono state uccise e centinaia sono rimaste ferite mercoledì quando le radio portatili utilizzate da Hezbollah sono esplose in tutto il Libano nell’ultimo attacco israeliano al movimento libanese. Sono stati segnalate esplosioni di dispositivi da Tiro e Saida nel sud fino a Sohmor nell’est del Libano che secondo il ministero della Salute libanese hanno incendiato edifici e veicoli e ferito almeno 450 persone.

Nella periferia sud di Beirut, un’esplosione ha colpito mentre centinaia di persone in lutto si riunivano per un funerale organizzato da Hezbollah per le vittime di un attacco quasi identico il giorno prima in cui sono esplosi migliaia di cercapersone usati dal movimento. Nelle esplosioni di martedì dodici persone sono state uccise e quasi 3.000 ferite, un attentato che ha suscitato orrore e rabbia nei libanesi di tutte le fazioni politiche. Tra le persone uccise dai cercapersone vi sono due bambini e quattro operatori.

Mentre mercoledì sera il rumore dell’esplosione risuonava sul luogo del funerale, protetto da una stretta sorveglianza, la folla si è dispersa nel panico e le strade che escono dalla periferia sud di Beirut, nota come Dahiyeh, sono state intasate dalle auto che cercavano di allontanarsi.

Ambulanze e camion dei pompieri hanno attraversato la città per la seconda volta in due giorni.

“Ora vado solo a vedere se la mia famiglia sta bene”, ha detto a Middle East Eye un uomo fuggito dal funerale spiegando che i suoi parenti vivono in un edificio frequentato da membri di Hezbollah. Dahiyeh è una vasta area in cui vivono molti sostenitori e membri del partito.

“Amico, butta via quel tuo dispositivo”, MEE ha sentito un uomo dire a un altro.

Sebbene Israele non abbia commentato direttamente gli attacchi effettuati attraverso l’esplosione dei dispositivi, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha affermato di aver promesso che le migliaia di israeliani sfollati a causa dei combattimenti transfrontalieri sarebbero tornati alle loro case.

Yoav Gallant, ministro della difesa israeliano, ha affermato: “Stiamo aprendo una nuova fase nella guerra”.

Israele e Hezbollah, un movimento nato dalla resistenza all’occupazione israeliana del Libano meridionale nel 1982-2000, combattono da quasi un anno.

Il loro ultimo conflitto è iniziato quando Hezbollah ha iniziato a lanciare razzi contro Israele per aiutare ad alleviare la pressione su Hamas mentre l’esercito israeliano iniziava la sua guerra a Gaza nell’ottobre 2023. I combattimenti hanno ucciso centinaia di libanesi, per lo più combattenti di Hezbollah, e decine di israeliani. Sebbene Israele minacci regolarmente di invadere il Libano come risposta, Hezbollah insiste sul fatto che non cerca un’escalation e porrà fine ai suoi attacchi una volta che gli israeliani accetteranno un cessate il fuoco con Hamas a Gaza. Russia ed Egitto hanno affermato che l’attacco di martedì è stato un tentativo di trascinare la regione in una guerra più ampia. Il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres ha affermato che gli oggetti di uso civile non dovrebbero essere trasformati in armi.

Come un incubo’

Sia i cercapersone esplosi martedì che le radio esplose il giorno dopo sarebbero stati importati in Libano da Hezbollah circa cinque mesi fa.

I cercapersone Gold Apollo sono stati ricondotti a un produttore di elettronica taiwanese, che ha affermato di aver concesso a un’azienda con sede a Budapest la licenza per produrre il cercapersone.

Diversi resoconti dei media hanno affermato che l’agenzia di intelligence israeliana Mossad ha piazzato esplosivi nei cercapersone.

Una fonte vicina a Hezbollah ha detto a MEE che l’attacco mediante i cercapersone è stato uno “shock” per “l’apparato di sicurezza” del movimento e che è stata immediatamente avviata un’indagine.

Chi ha ordinato i cercapersone è un uomo d’affari con legami con il partito. Gli è stato offerto un prezzo molto buono per i dispositivi”, ha detto la fonte. “È stata negligenza da parte di Hezbollah perché non hanno ispezionato o testato attentamente i cercapersone come avrebbero dovuto, dato che si fidavano della persona che li aveva procurati.”

Elias Jradeh, membro del parlamento e oculista, ha affermato che le ferite che ha visto martedì mentre operava in un ospedale dove venivano trasferiti casi gravi riguardavano soprattutto gli occhi, il viso e le mani.

“Molte persone tenevano il cercapersone vicino al viso per leggere il messaggio ricevuto quando il dispositivo è esploso”, ha detto Jradeh a MEE.

“Hanno subito danni a uno o entrambi gli occhi e in alcuni casi il danno era irreparabile. Altri hanno anche avuto il volto sfigurato”.

Secondo una fonte vicina a Hezbollah i cercapersone che sono esplosi non erano usati dai combattenti, ma piuttosto dall’ampia rete di membri civili del partito che lavorano in diverse istituzioni, tra cui medici, amministratori, operatori dei media e altri. La fonte ha detto che i cercapersone sono generalmente usati per direttive, convocazioni, emergenze o per indicare uno stato di allerta.

Descrivendo il momento in cui sono avvenute le detonazioni coordinate deil cercapersone, un residente di Dahiyeh ha detto a MEE: “Si sentivano scoppiettii in tutta la strada. Le persone venivano letteralmente colpite a una a una. Era surreale, come un incubo”. Persone da tutto il Libano si sono precipitate a donare il sangue in un’atmosfera di sostegno e solidarietà con le vittime dell’attacco che ha sconvolto il paese, e che molti hanno definito “indiscriminato” e “terroristico”.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)