Analisi| Perché l’Occidente appoggia ancora Israele nonostante un anno di guerra con Hamas ed Hezbollah

Un bombardamento su Gaza City il 9 0ttobre 2023. AFP/MOHAMMED ABED
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Anshel Pfeffer

6 ottobre 2024 – Haaretz

In seguito al 7 ottobre pochi in Israele si aspettavano che la “finestra di legittimità” per distruggere Hamas sarebbe rimasta aperta per un anno intero. Ma i calcoli dell’Occidente, dettati da considerazioni pragmatiche e non dalle immagini della strage a Gaza, non implicano un assegno in bianco per un altro anno di guerra a Gaza, in Libano o contro l’Iran.

Il 7 ottobre al calar del sole, 12 ore dopo che Hamas aveva lanciato il suo attacco da Gaza e persino prima di aver compreso l’intera portata di quello che era appena successo, i politici israeliani si chiedevano quanto tempo avessero per la rappresaglia.

Era scontato che ora ci sarebbe stata una guerra a Gaza e che le Forze di Difesa Israeliane [l’esercito israeliano, ndt.] sarebbero entrate per distruggere le capacità militari di Hamas. Ma quanto tempo avrebbero avuto per farlo? Per mezzo secolo in ogni guerra, dalla campagna del Sinai nel 1956 alla Seconda Guerra in Libano del 2006, a un certo punto Israele è stato obbligato a smettere di combattere e a ritirarsi. La comunità internazionale, guidata dagli Stati Uniti, aveva chiesto una sospensione, facendo pressione su Israele perché accettasse un cessate il fuoco.

Nelle menti di quanti hanno pianificato questa guerra non c’erano dubbi che anche il tempo a disposizione di Israele per distruggere Hamas sarebbe stato limitato. Avrebbero avuto, affermavano, “una finestra di legittimità”. E ogni finestra a un certo punto si chiude.

In quei primi giorni, pochi, se non nessuno, si aspettavano che la finestra sarebbe rimasta aperta per un anno intero e che, nel momento del primo anniversario, le IDF sarebbero state ancora operative senza vincoli a Gaza.

La fase iniziale della campagna di terra a Gaza iniziata il 27 ottobre, il devastante attacco di blindati contro Gaza City, era pensata in buona misura con questo in mente: che si trattasse di una breve finestra in cui Israele avrebbe colpito al cuore delle strutture militari e governative di Hamas a Gaza. Che in un qualunque momento in un futuro prossimo le pressioni internazionali avrebbero chiuso quella finestra.

Eppure un anno dopo la finestra è ancora aperta. I tentativi dell’amministrazione Biden e di altri governi di chiuderla sono stati poco convinti. Non ci sono state vere sanzioni, mentre l’embargo sulle armi è stato minimo. Le vere pressioni sono state per consentire l’ingresso di aiuti umanitari e cercare di limitare le dimensioni della campagna militare (come il ritardo nell’entrare a Rafah questa primavera), ma non per porre fine alla guerra.

Ci sono moltissime spiegazioni per questa mancanza di concrete pressioni. Una è la relazione unica del presidente Joe Biden con Israele e la debolezza di altri leader occidentali che sono preoccupati di disordini interni.

Un’altra è il momento in cui è scoppiata la guerra, che è giunta nell’anno di elezioni presidenziali negli USA. Anche il fatto che i Paesi arabi con cui Israele ha già rapporti diplomatici non abbiano minacciato di interromperli è un fattore. Perché l’Occidente dovrebbe impegnarsi quando gli arabi si limitano a fare bei discorsi in pubblico e in privato sperando che Israele la faccia finita con Hamas?

Tutti questi fattori ed altri hanno avuto un peso. Tuttavia c’è una realtà sottesa che in qualche modo è stata trascurata in buona parte dell’informazione e che spiega la riluttanza ad applicare il tipo di pressione a cui Israele non sarebbe in grado di resistere.

Nell’attuale situazione geopolitica, con gli Stati Uniti e i suoi alleati che affrontano sfide in tutto il mondo, dall’Ucraina al Venezuela fino a Taiwan, Israele è parte fondamentale dell’alleanza, fornendo tecnologie ed esperienze militari e scontrandosi nel contempo con l’Iran, un anello fondamentale nell’alleanza rivale.

Potrebbe non essere una cosa che incontra il favore generale, soprattutto nel momento in cui Israele è guidata da un leader impopolare, ma l’Occidente ha bisogno di Israele come alleato e questo è il limite reale a ogni pressione. Quello che Israele porta all’alleanza può essere sintetizzato in due parole.

Quello che Israele mette sul tavolo

Come inviato in Ucraina nei primi mesi della guerra nel 2022 mi aspettavo di incontrare reazioni negative alla vergognosa politica israeliana di neutralità in seguito all’invasione russa. Ma in conversazioni e interviste con gli ucraini a ogni livello non sono riuscito a individuare alcun segno di ostilità. Tutti gli ucraini che ho incontrato vedevano Israele come Nazione “sorella del cuore”.

Mentre resistevano contro il più grande e potente invasore russo, Israele e le sue guerre contro i vicini arabi erano un esempio che intendevano emulare. Sorprendentemente stavano dimenticando i calcoli israeliani per la propria sicurezza nazionale per non irritare Vladimir Putin, ma finivano ogni conversazione con “Per favore, mandateci l’Iron Dome”.

Ironicamente, di tutte le cose che Israele potrebbe e dovrebbe aver mandato all’Ucraina il suo sistema di difesa missilistico Iron Dome sarebbe stato il meno utile. Destinato a difendere zone relativamente piccole intercettando razzi a corto raggio, Iron Dome sarebbe stato di scarsa utilità per proteggere le ampie distese dell’Ucraina dall’arsenale russo di missili a lungo raggio. Ma nei 13 anni dalla prima volta che Iron Dome è diventato operativo ha simbolizzato molto più dell’insieme delle sue potenzialità.

Un politico che ha una passione per i simboli è l’ex-presidente USA Donald Trump. Nel suo confuso discorso di accettazione della nomination alla Convenzione Nazionale Repubblicana di luglio ha detto che “Israele ha un Iron Dome [una cupola di ferro]. Hanno un sistema di difesa missilistica. Trecentoquarantadue missili sono stati sparati contro Israele e solo uno lo ha attraversato un poco.”

Non era vero. Iron Dome è stato a malapena coinvolto nell’intercettare oltre 300 missili e droni iraniani in aprile. Ma i fatti hanno contato ben poco per Trump, e non gli hanno sicuramente impedito di promettere che “stiamo per costruire un Iron Dome sul nostro Paese e stiamo per garantire che niente possa arrivare e danneggiare il nostro popolo.”

Ancora una volta Iron Dome come sistema non aiuterà a proteggere gli estesi Stati Uniti d’America, con un oceano da entrambi i lati, dai missili balistici intercontinentali russi o cinesi. Ma Iron Dome significa molto di più.

Iron Dome è diventato un simbolo di quello che Israele mette sul tavolo. È la seconda arma israeliana ad aver raggiunto un tale livello di rappresentatività a livello globale. Il primo è stato l’Uzi, un mitra compatto e resistente sviluppato per l’IDF negli anni ‘50 che, proprio come Iron Dome, ha raggiunto uno status ben al di là del suo reale uso militare.

Di fatto l’Uzi ha raggiunto il suo periodo d’oro nella cultura popolare molto dopo che smettesse di essere utilizzato dalla maggior parte delle unità di combattimento israeliane. Ma negli anni ’80, quando Hollywood produsse i suoi migliori film d’azione, c’era sempre una scena in cui Chuck, Sly o Arnie si aprivano la strada fuori dai guai con un Uzi che riluceva in ognuna delle loro mani.

Fu l’epitome della solidità inventiva di una piccola Nazione assediata che lottava per sopravvivere contro ogni ostacolo. Era piccolo, ingegnoso e mortale, un simbolo adeguato di tutto ciò che Israele era stato nei suoi primi decenni.

Iron Dome non è solo l’arma israeliana più conosciuta, funge da immagine di come Israele è visto oggi in Occidente.

A differenza dell’Uzi, con il suo telaio squadrato e la sua canna schiacciata, non ha una forma definita, solo una fila di anonime cabine e camere di lancio quadrate. Adolescenti eccitabili non possono immaginarsi mentre sparano con esso, alla Stallone, contro i cattivi. Iron Dome è un algoritmo segreto e piccoli sbuffi di fumo nel cielo o lunghe striature gialle di notte.

Non puoi capire come funziona, solo quello che fa, e quello che quei geni di israeliani hanno di nuovo fatto, solo che ora, invece di saldare qualche pezzo stampato di metallo insieme a un’efficiente molla, lo hanno fatto con la matematica e la tecnologia.

Iron Dome è molto più di uno dei sistemi israeliani di missili difensivi multistrato. È la quintessenza di tutto quello che Israele porta nell’alleanza: la tecnologia, la potenza di fuoco, la condivisione del sapere e dell’intelligenza. Un’immagine del valore e dell’esperienza militari che può apprezzare persino un renitente alla leva senza alcuna conoscenza di strategia militare come Trump.

E se persino Trump lo può capire, i dirigenti più consapevoli, che negli ultimi due anni e mezzo, dopo decenni di scarsi finanziamenti destinati alla difesa, mancanza di investimenti nelle industrie militari e una riduzione di personale che ha inviato i reclutatori dei marines USA fino in Micronesia, hanno cercato di capire come l’Occidente possa attrezzarsi per affrontare una Russia rinascente e una sempre più aggressiva Cina, sanno di non poter rinunciare a un piccolo Paese in grado di costruire una potenza militare avanzata con così poche risorse.

Questa immagine di un Israele avanzato ed efficiente ha contribuito a tenere aperta la finestra a Gaza l’anno scorso, anche se molto di quanto è successo negli ultimi 12 mesi, il fallimento totale dell’intelligence e della tecnologia il 7 ottobre e la totale distruzione di Gaza da allora, hanno eroso la sua immagine. Israele è stato in grado di sfruttare la reputazione che si è costruito prima della guerra.

È il processo opposto a quello che è avvenuto nel caso dell’Ucraina dove, alla vigilia dell’invasione russa, l’Occidente stava per rinunciare e ridurre la sua sconfitta offrendo al presidente Volodymyr Zelenskyy un elicottero per portarlo fuori e creare un governo in esilio. Solo quando nei giorni e nelle settimane successivi è emerso che i valorosi ucraini si sono dimostrati abili nel bloccare, dividere e alla fine distruggere sferraglianti colonne corazzate russe l’Occidente ha iniziato ad aumentare il suo sostegno all’Ucraina con armamenti pesanti sempre più avanzati che valgono decine di miliardi di dollari.

Ciò non ha a che fare con la questione morale a favore dell’Ucraina, ma con fornire all’Occidente un conveniente rapporto qualità-prezzo per erodere le capacità della Russia, evidenziare la sua vulnerabilità e dare all’Occidente più tempo per preparare le sue difese. L’Ucraina ha fatto tutto questo dal febbraio 2022, ed è la ragione per cui ora ha una flottiglia di caccia F-16 e centinaia di carri armati occidentali.

La buona sorte di Israele è stata che quando è iniziata la guerra a Gaza non ha dovuto perorare la causa geopolitica. Più di tutti i tentativi propagandistici di mostrare i dettagli delle atrocità del 7 ottobre per controbilanciare le foto dei bambini palestinesi uccisi nelle rovine di Gaza sui media internazionali, quello che ha tenuto l’Occidente dalla parte di Israele è la necessità di tenerselo nell’alleanza.

È per questo che ci è voluto quasi un anno di pressioni politiche interne prima che i leader di Gran Bretagna e Francia, due Paesi che comunque praticamente non vendono armi a Israele, facessero il minimo gesto di bloccare le armi, anche se in realtà i loro servizi militari e di intelligence continuano a cooperare intensamente con Israele.

È la ragione per cui, nonostante la guerra, il più importante sviluppo nel commercio di armi tra Israele e l’Europa è stato il fatto che la Germania ha firmato un contratto da 4.4 miliardi di dollari per comprare il sistema israeliano di difesa missilistica Arrow come pilastro della sua European Sky Shield Initiative [progetto per costruire un sistema di difesa aerea europeo integrato a terra che includa armi contro i missili balistici, ndt.].

Niente di tutto questo significa che Israele abbia un assegno in bianco per un altro anno di guerra, non solo a Gaza, ma neppure contro Hezbollah e l’Iran.

Ciò significa che i calcoli delle capitali occidentali riguardo a se continuare ad appoggiare Israele non sono, e non saranno, dettati dalle foto del massacro di Gaza, ma da quegli stessi calcoli pragmatici che potrebbero essere stravolti da una guerra totale con l’Iran, e il suo più complessivo impatto geopolitico sulle forniture energetiche a livello globale e sulla Cina.

Il pregio dell’israeliano Iron Dome ne ha fatto una risorsa nell’alleanza occidentale e gli ha garantito un anno in cui è stato in grado di operare a Gaza e in Libano con pochissimi limiti. Non sarà più così se il fronte iraniano continua a peggiorare.

Nel secondo anno di guerra potrebbe scoprire che sta diventando più un ostacolo che un vantaggio.

Anshel Pfeffer è l’inviato di The Economist in Israele.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)

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