Un messaggio per gli ebrei che conosco e per gli ebrei che dovrebbero conoscere la verità

Salman Abu Sitta

29 ottobre 2024 – Middle East Monitor

È ora che veniate allo scoperto e prendiate posizione.

Al momento, in Occidente e in Israele, ci sono molti gruppi di ebrei che affermano di stare dalla parte della giustizia per i palestinesi in Palestina. Oscillano tra proporre un regime sionista, camuffato in panni pacifisti, a una prudente ma non significativa liberazione della Palestina.

Io vi dico: non potete continuare con questa altalena. Smettete di oscillare fra due estremi. Prendete posizione, proclamate la vostra lealtà a una tribù o a tutta l’umanità.

Non esistono una apartheid a metà, un’occupazione umana (come hanno sostenuto le macchine della propaganda), un compromesso tra l’assassino e la vittima, non esistono uccisioni o distruzioni giustificate.

Non nascondetevi dietro a slogan come “uguaglianza” o, in arabo, “musawa”, uno Stato Unico Democratico. Sono bustine che contengono una ricetta per un veleno.

L’occupante e l’assassino non hanno il diritto all’“autodifesa”. L’autodifesa non è un diritto di coloro che arrivano da oltreoceano per ammazzare e saccheggiare. L’autodifesa è il diritto del popolo di un Paese di difendersi contro gli invasori stranieri.

Non siete esseri umani giusti quando dite: ammazzate i bambini, ma non troppo, affamate la gente, ma tenete in vita qualcuno, metteteli in gabbia, ma con un guinzaglio lungo, distruggete gli ospedali, ma dategli cerotti.

Non potete mercanteggiare su quanta della loro terra rubata impossessarvi, metà o un po’ di più. Non predicate l’adesione alla “soluzione dei due Stati”. State semplicemente negoziando su quanta carne taglierete via dal corpo della Palestina.

Non accusate “le due parti”. State nascondendo il killer dietro la sua vittima.

Non potete offrire alla popolazione imprigionata una falsa libertà di parlare o respirare in base a quanto imposto dal carceriere e aspettarvi di essere applauditi.

Se siete un israeliano non potete vivere in Israele su una terra i cui proprietari vivono in un campo profughi.

Se siete un israeliano abbiate la decenza di non impiegare un lavoratore della Cisgiordania per coltivare per voi quello stesso campo che avete sottratto alla sua famiglia espulsa. Restituitegli ciò che è suo. 

Se siete un israeliano a Sderot che vive sulla terra del villaggio di Nejd i cui abitanti sono rifugiati a Gaza, a tre chilometri di distanza, non lamentatevi se vi tirano i tubi della cucina. Vi stanno dicendo che sono ancora qui e che non lasceranno la loro terra. 

Se siete un askenazita arrivato sui nostri lidi su una nave di trafficanti per uccidere, distruggere e derubare siete un codardo. Dovreste combattere i vostri compatrioti che vi hanno perseguitato dove vivevate. Non dovreste fare vela per un altro Paese per uccidere un popolo di cui non sapevate nulla, che non vi ha fatto del male.

Siate come i palestinesi: combattete con tutta la vostra forza l’aggressore, l’occupante, l’assassino.

Se non siete un attivista per la causa della giustizia state proteggendo l’assassino.

Rammentate che d’ora in poi la storia degli ebrei non sarà più ricordata per il dogma cristiano degli assassini di Gesù Cristo né per le atrocità dei nazisti, ma per le persistenti, continue e barbariche atrocità contro i palestinesi che rappresentano un genocidio durato finora più di 27.700 giorni.

Questo è un pesante fardello che potete scaricarvi dalle spalle mettendovi incondizionatamente dalla parte dei palestinesi.

I vostri migliori pensieri, il vostro latente concetto di giustizia che oscilla da zero a cento ha solo aiutato l’assassino.

Se siete veramente esseri umani giusti venite allo scoperto: unitevi alla resistenza palestinese, combattete l’aggressore sul campo, fianco a fianco con i palestinesi.

Questo è l’unico modo per ripristinare la giustizia.

La prova del nove per testare la vostra umanità è chiara: l’adempimento completo e senza restrizioni del Diritto al Ritorno con retribuzione, compensazione e risanamento delle perdite e dei danni materiali e immateriali, individuali e collettivi.

Tutto il resto è fuffa.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




Perché Israele ha messo fuori legge l’UNRWA e cosa questo potrebbe significare per i rifugiati palestinesi

Qassam Muaddi  

29 ottobre 2024 Mondoweiss 

Israele ha vietato il lavoro dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati Palestinesi come parte di una campagna in corso per cancellare i diritti dei rifugiati palestinesi. Il commissario generale dell’UNRWA ha affermato che la legge sacrificherà “un’intera generazione di bambini”.

Lunedì 28 ottobre la Knesset, il parlamento israeliano, ha approvato un disegno di legge che mette al bando ed espelle l’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e il Lavoro dei rifugiati palestinesi (UNRWA) da Israele e da Gerusalemme Est. Il disegno di legge è stato presentato da due membri della Knesset, Dan Illouz, nato in Canada, del partito Likud [il partito di Netanyahu, ndt.], e Yulia Malinovski, nata in Ucraina, del partito Yisrael Beiteinu [partito nazionalista di destra, ndt.]. Era stato approvato in prima battuta dalla Commissione per la Sicurezza e gli Affari Esteri della Knesset a metà ottobre. La Knesset, che conta 120 seggi, lunedì ha votato il disegno di legge in scrutinio finale con una schiacciante maggioranza di 92 voti a favore e solo 10 contrari, trasformandolo in legge. Dovrebbe entrare in vigore tra 90 giorni.

La legge proibisce tutte le attività dell’UNRWA, incluso il provvedere servizi essenziali ai rifugiati palestinesi. Vieta inoltre a tutti i funzionari israeliani di comunicare con l’UNRWA, ordina la chiusura dei suoi uffici e revoca tutte le esenzioni fiscali, lo status diplomatico e i visti d’ingresso all’UNRWA e al suo personale. La legge proibisce specificamente le attività dell’UNRWA “nel territorio di Israele”. Le attività dell’UNRWA sono principalmente in Cisgiordania e a Gaza, e i suoi uffici principali sono a Gerusalemme Est, tutti luoghi che secondo il diritto internazionale non fanno parte del territorio di Israele. Tuttavia Israele ha annesso Gerusalemme Est nel 1981, il che rende la legge applicabile agli uffici e alle strutture dell’UNRWA che sono lì.

Comunque Israele controlla effettivamente anche la Cisgiordania e Gaza e tratta la Cisgiordania come parte del suo territorio, sebbene non l’abbia ancora ufficialmente annessa. In altre parole, cosa significhi questa legge per le principali attività dell’UNRWA in queste aree resta poco chiaro. “Se Israele decidesse di applicare questa legge in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza significherebbe che più di 2,9 milioni di palestinesi in circa 30 campi profughi non avrebbero più scuole, assistenza medica, raccolta dei rifiuti e altri servizi municipali”, ha detto a Mondoweiss Lubna Shomali, direttrice di BADIL, Centro Risorse per la Residenza Palestinese e i Diritti dei Rifugiati.

Poiché Israele continua la sua campagna per spopolare forzatamente la parte settentrionale di Gaza, e i suoi leader chiedono apertamente l’annessione ufficiale della Cisgiordania, è plausibile che Israele possa applicare il suo bando dell’UNRWA anche in quelle aree. Questa decisione porrebbe fine a gran parte del lavoro dell’UNRWA e ai servizi che ha fornito per 76 anni, e metterebbe a rischio milioni di rifugiati palestinesi.

La campagna israeliana contro l’UNRWA

La legge arriva dopo mesi di sforzi israeliani per screditare l’UNRWA, tra cui l’accusa che 12 dei suoi dipendenti avrebbero partecipato agli attacchi del 7 ottobre. Il comitato indipendente delle Nazioni Unite che ha esaminato le accuse di Israele e il capo degli affari umanitari dell’UE hanno rilevato che Israele non ha fornito alcuna prova a sostegno delle sue accuse. Tuttavia Israele ha comunque esercitato pressioni diplomatiche sui paesi membri delle Nazioni Unite affinché tagliassero i fondi all’UNRWA.

La campagna contro l’UNRWA ha toccato anche gli Stati Uniti. Nel 2018 l’amministrazione Trump ha ufficialmente tagliato i fondi statunitensi all’UNRWA come parte di una serie di mosse che hanno preso di mira elementi fondamentali della causa palestinese, tra cui il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele, il riconoscimento degli insediamenti israeliani in Cisgiordania e il riconoscimento dell’annessione da parte di Israele delle alture del Golan siriane occupate, tutto in contraddizione con il diritto internazionale e le antiche posizioni degli Stati Uniti. L’amministrazione Biden ha ripristinato parte dei finanziamenti tagliati da Trump ma non li ha riportati al livello precedente. Gli attacchi all’UNRWA durante l’amministrazione Trump sono apparsi come un tentativo di indebolire il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi. Gli Stati Uniti hanno ripreso le affermazioni israeliane secondo cui i rifugiati palestinesi ottengono il loro status di rifugiati dall’UNRWA e quindi l’eliminazione dell’Agenzia annullerebbe anche quei diritti.

“Lo status di rifugiati è indipendente dall’esistenza dell’UNRWA e, secondo il diritto internazionale, dà ai rifugiati il ​​diritto di scegliere tra ritorno, reinsediamento o integrazione, ma finché non esercitano la libertà di scelta il loro status rimane valido e hanno diritto all’assistenza umanitaria, e questo vale per tutti i rifugiati nel mondo”, ha spiegato Shomali di BADIL a Mondoweiss. “Questo diritto è collettivo per tutti i rifugiati palestinesi perché, nel caso dei palestinesi, è collegato al loro diritto nazionale all’autodeterminazione. Ma è anche un diritto umano individuale e fondamentale che nessun compromesso politico da parte di alcuna autorità può annullare. L’UNRWA rappresenta il riconoscimento internazionale di questa realtà legale e politica, ed è per questo che Israele cerca da tanto tempo di liquidare l’UNRWA “, ha sottolineato.

In reazione al voto della Knesset il commissario generale dell’UNRWA Philippe Lazzarini ha inviato una lettera al presidente dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, Philemon Yang, chiedendo all’Assemblea di intervenire per fermare l’applicazione della legge. La lettera segnala che la legge avrebbe un impatto “pericoloso” sugli sforzi umanitari a Gaza, dove tutta la popolazione è stata sfollata e dipende dagli aiuti umanitari.

Lazzarini ha aggiunto che la situazione a Gaza è “oltre il linguaggio diplomatico”, notando che “nessun’entità altro che l’UNRWA può fornire istruzione a 660.000 ragazzi e ragazze. Un’intera generazione di bambini sarebbe sacrificata”.

In precedenza Lazzarini aveva scritto sul suo account X che la legge israeliana non è altro che una “punizione collettiva”, aggiungendo che porre fine ai servizi dell’UNRWA “non priverà i palestinesi del loro status di rifugiati”, che è protetto dalla risoluzione 194 dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite approvata nel 1949, in cui si afferma che i rifugiati palestinesi hanno diritto al ritorno e al risarcimento.

L’UNRWA sul campo

L’UNRWA lavora attualmente in 58 campi profughi palestinesi riconosciuti nella Striscia di Gaza, in Cisgiordania, in Giordania, in Siria e in Libano, servendo oltre 5,9 milioni di rifugiati palestinesi. I servizi dell’UNRWA includono 706 scuole, che provvedono istruzione elementare, media e in alcuni casi superiore a oltre 660.000 bambini e adolescenti. L’UNRWA gestisce anche 147 centri medici, con una media di sette visite mediche a persona ogni anno. Questi centri offrono medicine di base a basso costo e gratuite ai residenti di basso reddito dei campi profughi. A Gaza l’UNRWA è la più grande organizzazione di assistenza umanitaria, dato che il 78% della popolazione di Gaza è composta da rifugiati del 1948 e dai loro discendenti. Durante il genocidio israeliano in corso l’agenzia ha svolto un ruolo centrale negli sforzi umanitari per assistere la popolazione di Gaza, che è stata quasi interamente sfollata; molti degli sfollati sono diventati rifugiati per la terza volta nella loro vita.

Negli ultimi mesi l’ONU ha lanciato una campagna di vaccinazione di massa dei bambini contro la diffusione della poliomielite, che ha avuto una virulenta recrudescenza a Gaza durante il genocidio in corso a causa della distruzione dei sistemi sanitari da parte di Israele. Sebbene la campagna sia stata pianificata e gestita dall’UNICEF e dall’OMS, l’esecuzione logistica della campagna è stata principalmente realizzata dagli oltre 1.200 dipendenti dell’UNRWA a Gaza, poiché l’agenzia ha il maggior numero di dipendenti ONU nella Striscia. Martedì l’UNICEF ha affermato in una dichiarazione che il bando dell’UNRWA da parte della legge israeliana appena approvata potrebbe causare “il collasso del sistema umanitario” a Gaza e mettere a rischio la vita di un gran numero di bambini.

Lunedì il Segretario Generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres ha invitato Israele ad “agire in modo coerente con i suoi obblighi ai sensi della Carta delle Nazioni Unite e del diritto internazionale”, aggiungendo che “la legislazione nazionale non può alterare tali obblighi”. Amnesty International ha affermato in una dichiarazione che la legge israeliana equivale alla “criminalizzazione degli aiuti umanitari” e sabato 52 organizzazioni umanitarie internazionali hanno firmato un “appello globale per salvare l’UNRWA”. L’appello ha sottolineato che le azioni di Israele contro l’Agenzia, tra cui il voto del disegno di legge anti-UNRWA, sono “parte della strategia più ampia del governo di Israele per delegittimare l’UNRWA, screditare il suo sostegno ai rifugiati palestinesi e minare il quadro giuridico internazionale che protegge i loro diritti, incluso il diritto al ritorno”, aggiungendo che “se approvate, queste leggi avranno un impatto grave non solo sulle operazioni dell’UNRWA ma anche sui diritti dei rifugiati palestinesi”.

“I paesi membri dell’ONU devono fare pressione su Israele e se necessario sospendere tutti i rapporti economici e diplomatici per salvare l’UNRWA”, ha detto Lubna Shomali a Mondoweiss. “Se Israele riesce a vietare un’istituzione internazionale creata da una risoluzione dell’ONU, allora cosa potrebbe impedirgli di vietare le istituzioni della società civile palestinese e altre organizzazioni internazionali? Chi sarà la prossima vittima?”

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Perché i democratici sono i collaboratori perfetti di Israele nel genocidio

Tariq Kenney-Shawa

29 ottobre 2024 – +972 Magazine

Occultando l’appoggio a Israele con vuoti gesti umanitari ed empatia verso i palestinesi Biden e Harris hanno indebolito la pressione per porre fine alla guerra

Nell’ultimo anno abbiamo assistito al fatto che il presidente Joe Biden ha elevato il “rapporto speciale” tra USA e Israele a nuovi livelli. Da rifornire le scorte di armi di Israele e difenderlo dal dover pagare le conseguenze delle sue azioni a livello internazionale a schierare risorse e personale statunitensi a difesa di Israele, l’amministrazione Biden ha fatto di tutto e di più per garantire che Israele non solo potesse sostenere il suo attacco senza precedenti contro Gaza, ma che non dovesse accollarsi l’intero costo della guerra.

Biden ha iniziato la sua campagna per la rielezione competendo con Donald Trump per il titolo di “miglior amico di Israele”, una corsa grottesca verso il basso che è diventata una tradizione durante il periodo elettorale statunitense. Così quando il presidente alla fine ha deciso di rinunciare, alcuni erano speranzosi che la vicepresidente Kamala Harris ci avrebbe liberati da questa spirale verso il basso. Sono rimasti presto delusi.

I mezzi di comunicazione hanno insistito con entusiasmo sul fatto che Harris sembrava dimostrare “una maggiore comprensione ed empatia verso i palestinesi,” e hanno ipotizzato che questa differenza potrebbe portare in prospettiva a un cambiamento di politica. Ma nei mesi successivi alla sua designazione alla testa della candidatura democratica Harris ha messo in chiaro di essere pronta e desiderosa di continuare con la disastrosa eredità di Biden per i prossimi 4 anni.

E mentre la stragrande maggioranza degli israeliani preferisce Trump a Harris e l’ex-presidente sicuramente rimane il candidato preferito tra i dirigenti più estremisti del Paese, essi potrebbero sbagliarsi. Perché se guardi oltre la posizione di parte, non solo Biden passerà alla storia come il più fedele alleato di Israele, ma la strategia che lui e i suoi sostenitori democratici hanno accolto, mascherando il loro supporto incondizionato a Israele dietro l’apparente preoccupazione per i diritti umani, ha giocato un ruolo cruciale nel consentire a Israele di cavarsela così a lungo nonostante il genocidio.

Biden, un convinto sionista

A dire il vero il “rapporto speciale” dell’America va molto oltre Biden. Ma quando l’appoggio incondizionato a Israele è diventato una minaccia per gli interessi regionali e statunitensi, i presidenti che l’hanno preceduto, da Harry Truman a Dwight D. Eisenhower, da Ronald Regan a George Bush Sr., hanno posto dei limiti reali.

A 81 anni Biden è il presidente più anziano della storia degli USA, con una carriera politica che dura da oltre mezzo secolo e che lui ha costruito con l’aiuto della lobby filo-israeliana. Una volta si è vantato di aver “creato più finanziatori per l’AIPAC [principale organizzazione della lobby filo-israeliana negli USA, ndt.] negli anni ’70 e inizio ’80… di chiunque altro,” e in cambio il presidente ha ricevuto più finanziamenti dalla lobby di Israele di qualunque altro politico statunitense dal 1990.

Con questo appoggio Biden ha imparato che, mentre la lobby israeliana può portare una carriera politica a livelli mai visti, può altrettanto facilmente distruggerla: persino la più moderata critica alla politica israeliana rischia di scatenare la collera degli influenti apologeti di Israele. I costi politici di qualunque cosa che sia meno di una fedeltà incondizionata a Israele sono particolarmente alti durante il periodo elettorale, e il 2024 non fa eccezione. Biden considera il “rapporto speciale” un pilastro fondamentale delle più generali priorità geostrategiche dell’America. Da agire come un alleato fondamentale durante la Guerra Fredda a fungere da base operativa avanzata per l’espansione della potenza americana, proteggere Israele ha a lungo occupato l’epicentro degli interessi USA in Medio Oriente.

Tuttavia, come egli ama ricordarci, l’appoggio di Biden a Israele è sempre stato guidato soprattutto da una dedizione ideologica al progetto sionista: “Non c’è bisogno di essere ebreo per essere sionista, e io sono un sionista,” Biden ha ripetutamente dichiarato. “Se non ci fosse stato Israele l’America avrebbe dovuto inventarlo.”

Biden è diventato maggiorenne durante l’ascesa di Israele, assorbendo una sfilza di miti a senso unico che giustificarono la fondazione dello Stato ad ogni costo. Al tavolo da pranzo di famiglia il padre di Biden, Joseph R. Biden Sr., parlava a suo figlio degli orrori della II Guerra Mondiale, insistendo sul fatto che l’unico modo per impedire un secondo Olocausto era soprattutto proteggere Israele.

Per Biden e la sua generazione Israele è stato una affascinante storia di redenzione in cui i palestinesi erano totalmente assenti. È per questo che nella visione di Biden gli israeliani uccisi il 7 ottobre sono stati “assassinati”, “massacrati” e “non solo uccisi, ma trucidati.” Ma quando descrive la strage di palestinesi Biden assume un tono diverso: “Non ho idea se i palestinesi stanno dicendo la verità su quante persone sono state uccise. Sono sicuro che siano stati uccisi innocenti, ed è il prezzo di intraprendere una guerra.”

Si metta a confronto la profonda ammirazione di Biden per Israele con il suo evidente disprezzo per i palestinesi e gli arabi ed ecco un’immagine chiara della visione del mondo che informa il modo in cui prende le sue decisioni politiche.

Utilizzare l’umanitarismo come arma

Ma, al di là del personale impegno e dei pregiudizi di Biden, lui, Harris e i dirigenti democratici personificano una più ampia strategia liberale: l’ipocrita accoglimento delle leggi umanitarie internazionali e l’imposizione selettiva del cosiddetto ordine mondiale “basato sulle norme”.

Durante l’anno scorso abbiamo visto Biden e Harris utilizzare come arma questi affascinanti aspetti del liberalismo facendo leva su di essi per distrarre dal fatto che in realtà loro stessi stavano aiutando Israele a commettere un genocidio. Così facendo hanno effettivamente evitato una resistenza maggiore a queste politiche in patria e anche i tentativi internazionali per intervenire.

Un utile esempio delle conseguenze di ciò è l’ormai infame “molo umanitario” che l’amministrazione Biden ha promosso come soluzione per fare in modo che gli aiuti umanitari superassero il blocco israeliano. Il molo è stato un disastro tecnico, crollato nei marosi dopo aver fallito nel consegnare aiuti e costato ai contribuenti USA oltre 230 milioni di dollari. Ma quello che è riuscito a fare è stato distrarre temporaneamente l’attenzione dal rifiuto dell’amministrazione Biden di utilizzare la propria notevole influenza per imporre a Israele di smettere di limitare l’aiuto umanitario a Gaza. Così facendo ha concesso a Israele più tempo per affamare la Striscia.

Da parte sua la copertura dei principali media si è concentrata più sull’innocua retorica e presunta “frustrazione” di Biden con il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu che sull’appoggio della sua amministrazione allo sforzo bellico israeliano. In questo modo ha creato l’impressione che un [qualsiasi] cambiamento nella strategia israeliana sarebbe comunque consistito solo in un ulteriore netto rifiuto, ignorando l’evidente realtà della complicità USA.

Sebbene Harris potrebbe non nutrire lo stesso zelo sionista di Biden, ha ripetutamente promesso che continuerà con il lascito genocida di Biden. Quando non ha evitato le domande su perché i tentativi “incessanti” della sua amministrazione di garantire un cessate il fuoco siano finora falliti e come il suo approccio sarà differente da quello di Biden, Harris ha ripetuto il suo “impegno per la difesa di Israele e la sua possibilità di difendersi.”

Ciò potrebbe suonare come un vago slogan, privo di definizione politica. Ma l’intento è quanto più esplicito possibile: Harris continuerà a utilizzare il potere statunitense per proteggere Israele dall’ essere chiamato a rispondere del perseguimento della “difesa di Israele” e continuerà a far arrivare armi per garantire che Israele possa “difendersi”. La retorica empatica di Harris, che non si allontana molto da quella di Biden, sarà altrettanto vuota ed estraniante.

Un “male minore”?

Molti di quelli che si oppongono all’attuale appoggio incondizionato dell’attuale amministrazione a Israele hanno sostenuto che, con Trump come alternativa, Biden e Harris rappresentano comunque il “male minore”. Ma questo modo di ragionare ignora sia le conseguenze di questa retorica vuota e ingannevole sull’opposizione in patria e all’estero, sia il fatto che questa riproposta politica dell’amministrazione di Biden e Harris, anche molto prima del 7 ottobre, rispecchia da vicino quella del suo predecessore.

Fin dal primo giorno l’amministrazione Biden ha confermato le iniziative più controverse di Trump, lasciando l’ambasciata USA a Gerusalemme, riconoscendo la sovranità israeliana sulle Alture del Golan, non riaprendo la rappresentanza dell’OLP a Washington e cercando disperatamente accordi di normalizzazione tra Israele e i suoi vicini arabi che cancellino del tutto i palestinesi. Mentre Biden ha ripreso i finanziamenti all’UNRWA, la sua amministrazione li ha di nuovo rapidamente tagliati sotto la pressione di una campagna israeliana di calunnie.

L’unica differenza politica riconoscibile è stata la campagna di sanzioni largamente inefficace di Biden che ha preso di mira coloni israeliani che continuano ad attaccare i palestinesi in tutta la Cisgiordania. Nel contempo l’amministrazione Biden ha dato a Israele più assistenza finanziaria e militare di ogni precedente governo.

Al momento la principale differenza riguarda il discorso. Ma quando Trump dice che lascerebbe che Israele “finisca il lavoro” a Gaza almeno è onesto, rendendo impossibile ignorare la complicità degli USA. Il razzismo esplicito e scioccante di Trump, che per esempio usa “palestinese” come un insulto, crea un bersaglio chiaro. Invece Biden e Harris occultano il loro appoggio a Israele dietro un linguaggio di umanitarismo, cullando elettori e attivisti nella condiscendenza mentre consentono comunque a Israele di “finire il lavoro”.

Non ci sono dubbi che migliaia di palestinesi sarebbero morti comunque indipendentemente da chi avesse occupato la presidenza americana lo scorso anno. Ma, data la nota imprevedibilità di Trump, è difficile, se non inutile, sapere esattamente che caratteristiche avrebbe avuto il ruolo degli USA nel genocidio.

Anche un’amministrazione Trump “America first” [prima l’America] avrebbe speso più in aiuti militari a Israele di qualunque altra amministrazione o piuttosto si sarebbe concentrata su altre priorità di politica internazionale, come accentuare la competizione con la Cina? Dato che Trump non condivide l’impegno ideologico personale di Biden verso Israele, avrebbe consentito a Israele di estendere la sua guerra in tutta la regione se ciò avesse significato affossare le speranze dell’allargamento degli Accordi di Abramo per includere una normalizzazione tra l’Arabia Saudita e Israele?

Cosa ancora più importante, se Trump fosse stato presidente, gli attori nazionali e internazionali sarebbero stati spronati ad opporsi al genocidio israeliano e alla complicità statunitense con maggiore vigore attraverso appelli per l’embargo alle armi, sanzioni o disinvestimenti? Il movimento contrario al genocidio negli USA sarebbe stato così ampiamente calunniato o si sarebbe esteso per includere un’ampia coalizione di liberal e progressisti, uniti nell’opposizione all’estremismo di Trump?

È indubbio che la lealtà del Partito Democratico ha silenziato l’opposizione contro la complicità dell’amministrazione Biden nel genocidio. E si potrebbe sostenere che la comunità internazionale non ha sentito l’urgenza di controbilanciare l’indifferenza di Washington nei confronti delle leggi internazionali allo stesso modo in cui lo avrebbe fatto se le avesse violate Trump.

Tra l’estremismo esplicito e l’empatia performativa

Dopo più di un anno di genocidio mandato in onda in tutto il pianeta con raccapricciante dettaglio, ci dobbiamo chiedere cosa avrebbe ottenuto un più esteso, più politicamente variegato movimento contrario al genocidio sia negli USA che all’estero, motivato da interessi condivisi per destituire Trump. Perché tutto quello che l’amministrazione di Biden e Harris ha fatto è stato perpetrare lo stesso genocidio sotto un’apparenza di legittimità, diffondendo pressioni con frasi fatte sulla pace mentre accentuava la complicità statunitense.

Questo non è un appello per votare (o scoraggiare dal votare) qualcuno. I democratici non “impareranno la lezione” perdendo gli elettori contrari al genocidio; invece li incolperanno della vittoria di Trump e mineranno nei prossimi anni i tentativi di costruire un movimento più ampio ed efficace. Né dovremmo sottovalutare le conseguenze del fatto che Trump incoraggi Israele a “finire il lavoro” a Gaza, in Libano e in Iran, anche se ciò rappresenterebbe semplicemente una versione accelerata di quello che Israele sta già facendo con il tacito appoggio di Biden. Trump ha anche messo in chiaro che farà tutto quello che può per potenziare i tentativi bipartisan di reprimere tutte le organizzazioni filopalestinesi.

Ma dobbiamo riconoscere che c’è un pericolo non solo nell’esplicito estremismo, ma anche nell’empatia performativa che preserva attivamente lo status quo. Perché la verità è che non c’è un “male minore”. E mentre noi discutiamo di questo e siamo ossessionati dalle differenze tra amministrazioni che condividono gli stessi obiettivi genocidi ma utilizzano strategie diverse, la montagna di corpi palestinesi e libanesi non fa che crescere.

Tariq Kenney-Shawa è uno studioso di politica statunitense di Al-Shabaka, il gruppo di studio e rete politica palestinese. Ha conseguito un master in Affari Internazionali presso la Columbia University e un diploma di laurea in Scienze Politiche e Studi sul Medio Oriente all’università Rutgers. Le ricerche di Tariq sono concentrate su argomenti che vanno dal ruolo della narrazione nel perpetuare e resistere all’occupazione alle analisi sulle strategie palestinesi per la liberazione. Il suo lavoro è comparso tra gli altri su Foreign Policy, +972 Magazine, Newlines Magazine e the New Politics Journal.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




Rupi Kaur, Sally Rooney e Judith Butler si uniscono al boicottaggio delle “silenti” istituzioni culturali israeliane

Imran Mullah

28 ottobre 2024-Middle East Eye

Autori vincitori del premio Nobel sono tra le centinaia di scrittori, editori e altri lavoratori del libro che boicottano le istituzioni culturali israeliane “complici” della guerra di Israele a Gaza.

Gli autori vincitori del premio Nobel Annie Ernaux e Abdulrazak Gurnah sono tra centinaia di scrittori, editori e altri lavoratori del libro che si sono impegnati a non lavorare con istituzioni culturali israeliane che sono “silenti osservatori della schiacciante oppressione dei palestinesi”.

In una lettera aperta, promossa dal Palestine Festival of Literature (PalFest) [Festival della letteratura palestinese] e pubblicata lunedì, i firmatari hanno affermato: “Non possiamo in buona coscienza impegnarci con le istituzioni israeliane senza interrogarci sulla loro relazione con l’apartheid e le espulsioni di popolazione”.

Ciò include istituzioni che “non hanno mai riconosciuto pubblicamente i diritti inalienabili del popolo palestinese come sanciti dal diritto internazionale”.

Sally Rooney, l’autrice del bestseller Normal People [da cui è stata tratta una serie televisiva di successo; traduzione italiana: Persone normali, Einaudi, ndt.], ha firmato la lettera, così come la famosa poetessa Rupi Kaur, che ha pubblicato originariamente la sua opera su Instagram. Tra i firmatari ci sono anche la vincitrice del Booker Prize Arundhati Roy e il famoso poeta palestinese Mohammed El-Kurd.

La lettera, che condanna le azioni di Israele a Gaza come genocidio, recita: “Invitiamo i nostri editori, redattori e agenti a unirsi a noi nel prendere posizione nel riconoscere il nostro coinvolgimento, la nostra responsabilità morale e a smettere di avere relazioni con lo Stato israeliano e con le istituzioni israeliane complici”. Tra gli altri firmatari figurano Jhumpa Lahiri, che ha vinto il premio Pulitzer nel 2000, e Kamila Shamsie, vincitrice del Women’s Prize for Fiction [Premio per la narrativa femminile] del 2018. Anche lo storico autore di bestseller William Dalrymple ha firmato la lettera, così come i giornalisti Owen Jones, Afua Hirsch e Pankaj Mishra, e l’accademica Judith Butler.

Divisioni nel mondo dell’editoria

“La cultura ha svolto un ruolo fondamentale nel normalizzare queste ingiustizie”, dice la lettera. “Le istituzioni culturali israeliane, spesso lavorando direttamente con lo Stato, sono state fondamentali nell’offuscare, mascherare e mistificare l’espropriazione e l’oppressione di milioni di palestinesi per decenni”.

UK Lawyers for Israel [avvocati britannici per Israele], un gruppo di difesa legale che sta attaccando il governo del Regno Unito per la sua sospensione parziale delle vendite di armi a Israele, ha inviato un’altra lettera a enti commerciali ed editori sostenendo che il “boicottaggio è chiaramente discriminatorio nei confronti degli israeliani”.

Gli ultimi mesi hanno visto forti divisioni nel mondo dell’editoria sulla guerra di Israele a Gaza.

A maggio l’Edinburgh International Book Festival (EIBF) [Festival internazionale del libro di Edimburgo] ha posto fine a una ventennale partnership con la società di gestione patrimoniale Baillie Gifford a causa della mobilitazione degli attivisti contro i legami di quest’ultima con le aziende tecnologiche e militari israeliane

Nello stesso mese la Society of Authors [Società degli Autori] del Regno Unito, il più grande sindacato del paese degli scrittori, illustratori e traduttori, ha votato di stretta misura per respingere una risoluzione a sostegno di un cessate il fuoco a Gaza.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




La lunga Storia della Palestina – Come i palestinesi vedono il loro futuro e il loro passato

Ramzy Baroud

28 ottobre 2024 – The Palestine Chronicle

Stranamente è stato lo storico israeliano Benny Morris a cogliere nel segno quando ha formulato una previsione onesta sul futuro del suo paese e della sua guerra contro i palestinesi.

I palestinesi considerano tutto da una prospettiva ampia, a lungo termine”, ha detto in un’intervista rilasciata al quotidiano israeliano Haaretz nel 2019. “Essi vedono che qui ci sono al momento cinque-sei-sette milioni di ebrei, circondati da centinaia di milioni di arabi. Non hanno motivo di arrendersi, perché lo Stato ebraico non può durare. Sono destinati a vincere. Nel giro di 30 – 50 anni, qualunque cosa accada, ci sconfiggeranno”.

Morris ha ragione. Ha ragione nel senso che i palestinesi non rinunceranno, che non può esistere una situazione in cui le società sopravvivono e prosperano per un tempo indefinito sulla base di segregazione razziale, violenza ed esclusione – esclusione dell’altro, i palestinesi, e auto-isolamento.

La stessa Storia della Palestina è una prova di questa verità. Se gli oppressi, gli abitanti nativi del territorio, non sono completamente spazzati via o decimati, probabilmente insorgeranno, combatteranno e riconquisteranno la loro libertà.

Deve essere terribilmente frustrante per Israele che tutte le uccisioni e la distruzione in corso a Gaza non siano state sufficienti a influenzare l’esito complessivo della guerra, a proposito della quale Netanyahu continua a parlare di “vittoria totale”.

La frustrazione di Israele è comprensibile perché come tutte le occupazioni militari del passato Tel Aviv continua a credere che basti una quantità sufficiente di violenza a sottomettere le nazioni colonizzate.

Ma il comportamento collettivo dei palestinesi è guidato da una mentalità diversa.

Tra i diversi approcci storiografici, gli storici francesi moderni distinguono tra “Storia evenemenziale” e “lunga durata”. In sintesi, la prima crede che la Storia sia il risultato dell’accumularsi di eventi che si susseguono nel tempo, mentre la seconda concepisce la Storia in modo ben più complesso.

La Storia per essere credibile deve essere colta nel suo insieme, non solo come totalità degli eventi recenti o antichi, ma la somma di sentimenti, l’emergere di idee, l’evoluzione della coscienza collettiva, identità, relazioni e sottili mutamenti che accadono alle società nel corso del tempo.

I palestinesi sono un perfetto esempio di come la Storia sia plasmata dalle idee e non dalle armi; dalla memoria più che dalla politica; dalla speranza collettiva, più che dalle relazioni internazionali. Essi conquisteranno infine la loro libertà perché hanno investito in una traiettoria a lungo termine di idee, memorie e aspirazioni comuni, le quali spesso si traducono in spiritualità o, meglio, una profonda, inamovibile fede che diventa sempre più forte, persino in tempi di orribili guerre.

Il professore Richard Falk, relatore speciale per le Nazioni Unite, in un’intervista rilasciatami nel 2020 ha sintetizzato la lotta in Palestina come una guerra tra quelli che hanno armi e quelli che hanno legittimità. Ha aggiunto che nel contesto dei movimenti di liberazione nazionale ci sono due tipi di guerra: la guerra propriamente detta, combattuta da soldati armati, e la guerra per la legittimità. La parte che vince quest’ultima è quella che alla fine prevarrà.

I palestinesi infatti davvero “considerano tutto da una prospettiva ampia, a lungo termine”. Condividere l’affermazione di Morris potrebbe sembrare strano dato che, dopotutto, le società sono spesso determinate dalle loro lotte di classe e agende socio-economiche interne, non da una visione a lungo termine unificata e coesa.

È a questo punto che la “lunga durata” assume massima importanza nel caso palestinese. Anche se i palestinesi non hanno sottoscritto un accordo collettivo per aspettare che gli invasori se ne vadano o che la Palestina diventi nuovamente un luogo di coesistenza sociale, razziale e religiosa, essi sono animati, anche se inconsciamente, dalla stessa energia che ha spinto i loro antenati a opporsi all’ingiustizia in tutte le sue forme.

Mentre molti politici e accademici sono occupati a rimproverare ai palestinesi la loro stessa oppressione, la società palestinese continua a evolversi sulla base di dinamiche completamente indipendenti. In Palestina per esempio la resilienza, o sumud , è una cultura profondamente radicata, difficilmente soggetta a influenze esterne, politiche o accademiche. È una cultura che è antica come il tempo. Innata. Intuitiva. Generazionale.

Questa saga palestinese ha avuto inizio molto prima della guerra, molto prima di Israele, molto prima del colonialismo moderno. Questa verità dimostra che la Storia non è mossa soltanto da semplici eventi, ma da innumerevoli altri fattori; che, mentre la “Storia evenemenziale” – gli aspetti politici, militari ed economici che concorrono a plasmare la Storia con eventi a breve termine – è importante, la Storia a lungo termine permette una più profonda comprensione del passato e delle sue conseguenze.

Questa discussione dovrebbe coinvolgere tutti coloro che hanno a cuore la lotta in Palestina e sono desiderosi di presentare una versione della verità che non sia orientata da futuri interessi politici ma da una profonda comprensione del passato. Soltanto allora potremo cominciare a liberare lentamente la narrazione palestinese da tutte le Storie di comodo calate sul popolo palestinese.

Non è cosa da poco, ma è inevitabile perché di importanza cruciale per liberarsi dai confini di linguaggio, eventi storici, ricorrenze, statistiche disumanizzanti e vero e proprio inganno sovrapposti [alla verità in modo da deformarla n.d.t].

In definitiva dovrebbe essere chiaro a ogni lettore accorto della Storia che mentre i jet da combattimento e le bombe anti-bunker possono cambiare il corso degli eventi storici nel breve termine, il coraggio, la fede e l’amore per la propria comunità determinano la Storia a lungo termine. È per questo che i palestinesi stanno vincendo la guerra per la legittimità, ed è per questo che la libertà per i palestinesi è solo una questione di tempo.

Ramzy Baroud è giornalista e direttore di The Palestine Chronicle. É autore di sei libri. Il suo ultimo libro, una co-curatela con Ilan Pappé, è “Our Vision for Liberation: Engaged Palestinian Leaders and Intellectuals Speak out” [La nostra visione per la liberazione: leader e intellettuali palestinesi impegnati prendono posizione]. Il dott. Baroud è ricercatore senior non residente presso il Centro per l’Islam e gli Affari Globali (CIGA). Il suo sito è www.ramzybaroud.net

(traduzione dall’inglese di Giacomo Coggiola)




Trapela un documento di valutazione che dimostra che L’UE “aggiusta” le regole per consentire il commercio con le colonie israeliane

Arthur Neslen

23 ottobre 2024 – The Intercept

Una recente sentenza della Corte Internazionale di Giustizia richiede ai Paesi di porre fine a ogni sostegno all’occupazione israeliana, ma non secondo il parere legale dell’UE.

Secondo un documento di valutazione trapelato, il responsabile legale degli Affari Esteri dell’Unione Europea ha informato un alto funzionario del dipartimento che la nuova risoluzione dei giudici dell’Aia non richiede agli Stati dell’UE di vietare l’importazione dei prodotti dalle colonie israeliane.

Esperti legali hanno affermato che tale valutazione contraddice la sentenza della Corte Internazionale di Giustizia, o CIG, secondo cui gli Stati dovrebbero porre fine a ogni sostegno all’occupazione israeliana della Palestina, inclusa la Cisgiordania e la Striscia di Gaza.

In un promemoria di sette pagine Frank Hoffmeister, direttore del dipartimento legale degli Affari Esteri dell’UE, ha sostenuto che dal momento che una legge europea richiede l’etichettatura dei prodotti delle colonie il divieto alla loro importazione e vendita sarebbe quindi opinabile.

“La legge dell’UE richiede un’etichettatura che indichi da dove provengono i prodotti alimentari: dalla Cisgiordania o dalle colonie”, afferma la valutazione legale di Hoffmeister. “Un eventuale riesame delle norme europee nei confronti dell’importazione dei prodotti delle colonie è materia di ulteriore valutazione politica”.

Il parere legale, riprodotto integralmente di seguito, è stato inviato al capo della politica estera dellUE Josep Borrell il 22 luglio, tre giorni dopo che la CIG aveva deciso che gli Stati non devono fornire aiuto o assistenza nel mantenimento” delloccupazione illegale di Israele.

Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati dal 1967, ha dichiarato a The Intercept che l’atteggiamento dell’UE nei confronti della risoluzione della CIG è “giuridicamente erroneo, politicamente dannoso e moralmente pericoloso“.

“L’UE sta trascurando la sua responsabilità di rispettare il diritto internazionale”, ha affermato. “Questa violazione delle regole per convenienza politica erode la credibilità della politica estera dell’UE e tradisce la fiducia delle persone anche a prescindere dalla Palestina”.

“La condotta della UE stabilisce anche un pericoloso precedente in quanto tratta i suoi obblighi ai sensi del parere consultivo della CIG come facoltativi, soprattutto nel contesto delle atrocità in corso”, ha dichiarato Albanese. “Ciò implica che il rispetto del diritto internazionale è discrezionale e mina la fiducia nel sistema giuridico internazionale”.

Daniel Levy, ex negoziatore di pace israeliano e presidente del Progetto Stati Uniti/Medio Oriente, ha fatto eco alle critiche, descrivendo il parere di Hoffmeister come “un’interpretazione molto fallace e facilmente confutabile”.

Pete Stano, portavoce principale per gli affari esteri e i servizi di sicurezza della Commissione Europea, ha affermato in una dichiarazione a The Intercept: “Come regola generale non commentiamo le fughe di notizie di presunti documenti interni”.

Studiosi di diritto internazionale hanno detto a The Intercept che l’interpretazione di Hoffmeister non è corretta: [in realtà] lapposita etichettatura prevista per i prodotti provenienti dalle colonie illegali di Israele non soddisfa la richiesta della CIG di non riconoscere loccupazione di Israele.

“La Corte Internazionale di Giustizia ha chiarito che ‘tutti gli aiuti e l’assistenza’ di qualsiasi tipo da parte di tutti gli Stati al progetto di colonizzazione devono cessare. “La mia valutazione è che ciò richieda all’UE di rivedere la propria politica per porre fine a qualsiasi commercio, finanziamento o altra assistenza che in qualsiasi modo sostenga l’occupazione israeliana”, ha affermato Susan Akram, direttrice dell’International Human Rights Clinic della Boston University School of Law. “La politica attuale non è conforme al parere della CIG e non c’è nessun motivo, come afferma il parere dell’UE, ‘di un’ulteriore valutazione politica se riesaminare le norme europee“.

Akram ha affermato che il parere legale ha erroneamente equiparato la richiesta della CIG relativa al non riconoscimento dell’occupazione alla politica dell’UE di lavorare “con partner internazionali per rivitalizzare un processo politico” in vista di una soluzione a due Stati.

“Questo non è ciò che la Corte ha richiesto”, ha detto Akram. La Corte sostiene che l’intera occupazione è illegale e deve cessare il più rapidamente possibile. Ciò non dipende da negoziati, che si tratti di una soluzione a due Stati o di altro tipo”.

Il parere legale di Hoffmeister ha anche avvertito lUE di aspettarsi ulteriori contenziosi dinnanzi ai tribunali nazionali in relazione alle vendite di armi o ad altre forme di assistenza a Israele”.

Miliardi di investimenti europei

La CIG è il massimo organo giuridico al mondo per la valutazione di controversie tra Stati e i suoi pareri, pur non essendo vincolanti, hanno “grande peso giuridico e autorità morale” e sono considerati il massimo riferimento nel diritto internazionale. A settembre l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha risposto alla sentenza della CIG affermando che Israele dovrebbe porre fine alla sua occupazione di 57 anni entro 12 mesi.

Hoffmeister, autore della nota legale dell’UE, è anche direttore del gruppo di lavoro con sede a Bruxelles sulla politica estera e di sicurezza del Partito Liberal Democratico Tedesco [FDP], forte sostenitore della guerra di Israele a Gaza. L’FDP, del quale in precedenza Hoffmeister è stato vicepresidente a Bruxelles, ha chiesto il congelamento dei fondi dell’UE e della Germania alle istituzioni e ai programmi palestinesi fino a quando uno speciale accertamento non avrà garantito che nessuna somma vada “a finanziare il terrorismo islamista”.

Per oltre 100 anni i Paesi europei hanno svolto un ruolo centrale nel sostenere la colonizzazione ebraica nelle terre tra il Mar Mediterraneo e il fiume Giordano. Dalla creazione di Israele nel 1948 e dalla sua conquista dei territori occupati nel 1967 il loro sostegno commerciale e politico ha rafforzato il controllo israeliano sull’area.

Tra il 2020 e l’agosto 2023 gli investitori europei hanno erogato oltre 151 miliardi di euro in prestiti e garanzie per le aziende “attivamente coinvolte” negli insediamenti coloniali israeliani e hanno investito oltre 133 miliardi di euro in azioni e obbligazioni nelle stesse aziende, secondo la stima di una coalizione di organizzazioni contrarie agli investimenti europei nelle colonie.

La maggior parte del mondo considera gli insediamenti coloniali di civili israeliani nei territori palestinesi occupati illegali secondo il diritto internazionale. Ma oggi il progetto di colonizzazione sembra accelerare, con nuovi avamposti costruiti in Cisgiordania e pianificati nella Striscia di Gaza.

La dissonanza di queste azioni sullo sfondo di quello che alcuni chiamano “il primo genocidio trasmesso in streaming” ha portato Paesi come l’Irlanda a rilanciare una proposta di legge che vieta il commercio con le colonie israeliane, in precedenza accantonata per timore che violasse le norme dell’UE.

In una lettera pubblicata martedì sui progressi nel cammino procedurale della legge il vice primo ministro irlandese ha avvertito che se l’UE non fosse intervenuta, alcune nazioni avrebbero potuto agire autonomamente per vietare il commercio in conformità con la CIG.

“Il commercio è competenza esclusiva dell’UE e quindi l’attenzione del governo si è concentrata sul raggiungimento di un’azione a livello UE”, ha scritto Tánaiste Micheál Martin, che è anche ministro degli Affari Esteri dell’Irlanda. “Ho ripetutamente chiesto all’UE di rivedere in modo completo la relazione UE-Israele alla luce del parere consultivo. Il procuratore generale ha chiarito che se ciò non è possibile ci sono basi nel diritto UE che consentono agli Stati di agire a livello nazionale”.

Il 17 ottobre anche il governo norvegese ha invitato le sue aziende ad evitare scambi commerciali che rafforzino la presenza di Israele nei territori palestinesi occupati.

Lo stesso giorno un gruppo trasversale di 30 membri del Parlamento europeo ha sottoposto una domanda scritta alla Commissione Europea chiedendo se ora, in seguito alla sentenza della CIG, avrebbe “rispettato i suoi obblighi ai sensi del diritto internazionale e vietato urgentemente ogni commercio con le colonie illegali israeliane”.

L’anno scorso lo stesso Hoffmeister ha chiesto agli Stati di conformarsi alle decisioni della CIG e ha deplorato la Russia per non avervi ottemperato riguardo all’Ucraina.

Per quanto riguarda Gaza e la Cisgiordania, tuttavia, la sua valutazione è stata che il blocco era già “in conformità” con il dovere di non riconoscere la legittimità dell’occupazione, lasciando la questione delle colonie israeliane al processo di pace a due Stati.

Secondo Akram, professore di giurisprudenza alla Boston University, questo è anche in contrasto con la richiesta della CIG che tutti i coloni vengano rimossi immediatamente dal territorio occupato. “Non concede agli Stati discrezionalità sul consentire che questa questione sia soggetta a negoziati”, ha affermato.

Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite, ha affermato che l’immagine di sé dell’UE come mediatrice per la Palestina è stata offuscata dalla sua riluttanza a parlare delle violazioni israeliane del diritto internazionale.

“Ricorrendo a escamotage e piegando le regole universali per mantenere il commercio con queste colonie e con Israele nel suo insieme, in un momento di atrocità indicibili, l’UE rischia di diventare colpevole di aiutare e assistere un regime di apartheid e i suoi crimini atroci”, ha affermato, “implicando che i diritti dei palestinesi siano secondari rispetto agli interessi economici europei, il che danneggerebbe ulteriormente la credibilità già compromessa dell’UE tra i palestinesi e gli altri popoli del sud del mondo”.

22 luglio 2024, Valutazione Legale dell’Unione Europea sulla Sentenza della CIG

(Trascrizione)

The Intercept pubblica, di seguito, una riproduzione del promemoria del parerelegale, con l’omissione di alcune annotazioni amministrative.

SERVIZIO EUROPEO PER L’AZIONE ESTERNA

Il Direttore

SG. LD

Dipartimento legale

Bruxelles, 22 luglio 2024

NOTA ALL’ATTENZIONE DELL’ALTO RAPPRESENTANTE JOSEP BORRELL FONTELLES

Oggetto: parere consultivo della CIG del 19 luglio 2024 in merito al Territorio Palestinese Occupato

I. Introduzione

Il 19 luglio 2024 la Corte Internazionale di Giustizia (“la Corte”) ha emesso il suo parere consultivo in merito alle “Conseguenze giuridiche derivanti dalle politiche e pratiche di Israele nel Territorio Palestinese Occupato, compresa Gerusalemme Est”. Ha risposto a due quesiti che l’Assemblea Generale le aveva sottoposto il 30 dicembre 2022:

(a) “Quali sono le conseguenze giuridiche derivanti dalla violazione in corso da parte di Israele del diritto del popolo palestinese all’autodeterminazione, dalla sua prolungata occupazione, colonizzazione e annessione del territorio palestinese occupato dal 1967, comprese le misure volte a modificare la composizione demografica, il carattere e lo status della Città Santa di Gerusalemme, e dalla sua adozione di leggi e misure discriminatorie correlate?

(b) In che modo le politiche e le pratiche di Israele […] influenzano lo status giuridico dell’occupazione e quali sono le conseguenze giuridiche che derivano per tutti gli Stati e le Nazioni Unite da tale status?”

La presente nota presenta brevemente il parere consultivo (“il Parere”) (II), fornisce alcune osservazioni sulle sue possibili implicazioni giuridiche (III) e suggerisce una conclusione (IV). Il ragionamento dettagliato della Corte è riassunto nell’allegato 1. L’allegato 2 contiene una sintesi delle posizioni dell’UE che sono state condivise con gli Stati membri durante la preparazione delle loro osservazioni nazionali alla Corte.

II. Il Parere

Nel corso del procedimento, oltre cinquanta Stati e tre organizzazioni internazionali hanno presentato delle osservazioni. Dell’UE, solo un terzo degli Stati membri ha preso parte al processo.

Dopo aver affermato la propria giurisdizione e sottolineato che non vi è alcuna ragione stringente per cui non dovrebbe rispondere alle domande poste dall’UNGA [Assemblea Generale delle Nazioni Unite, ndt.], la Corte chiarisce che Israele ha dei doveri in quanto potenza occupante in Cisgiordania e a Gerusalemme Est. Tali doveri sussistono anche nei confronti di Gaza, anche dopo il ritiro della sua presenza militare, commisurati alla perdurante capacità di Israele di esercitare un controllo effettivo (controllo dello spazio aereo, accesso via terra, fornitura di determinati servizi di base).

È importante rilevare che la Corte sottolinea inoltre che un’occupazione è per sua natura temporanea. Anche un’occupazione prolungata non conferisce diritto di sovranità sul territorio occupato. Applicando gli standard pertinenti del diritto internazionale umanitario, integrati dagli obblighi in materia di diritti umani che si applicano anche alla condotta israeliana oltre i suoi confini nazionali, la Corte esamina quindi le politiche e le pratiche israeliane. La Corte è convinta che le colonie israeliane siano intese come permanenti e cita numerosi indicatori in tal senso. Sottolinea inoltre il dovere di non annettere territorio, il divieto di applicare una legislazione discriminatoria e il diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese. In modo significativo la Corte ritiene che un’ampia gamma di legislazioni adottate e misure prese da Israele nella sua veste di potenza occupante costituisca una violazione dell’articolo 3 della Convenzione delle Nazioni Unite sull’eliminazione della discriminazione razziale (CERD), che proibisce la segregazione razziale e l’apartheid.

Nella parte più importante della sentenza la Corte analizza gli “effetti” delle politiche israeliane sulla legalità dell’occupazione e sugli obblighi di altri Stati e organizzazioni internazionali. Secondo la Corte l’abuso prolungato da parte di Israele della sua posizione di potenza occupante attraverso l’annessione e l’affermazione di un controllo permanente sul territorio palestinese occupato e la continua frustrazione del diritto del popolo palestinese all’autodeterminazione violano i principi fondamentali del diritto internazionale. Su questa base, la Corte giunge alle seguenti conclusioni operative sostanziali:

(3) La presenza continuativa dello Stato di Israele nel Territorio Palestinese Occupato è illegittima;

(4) Lo Stato di Israele ha l’obbligo di porre fine alla sua presenza illegittima nel Territorio Palestinese Occupato il più rapidamente possibile;

(5) Lo Stato di Israele ha l’obbligo di cessare immediatamente tutte le nuove attività di colonizzazione e di evacuare tutti i coloni dal Territorio Palestinese Occupato;

(6) Lo Stato di Israele ha l’obbligo di riparare il danno causato a tutte le persone fisiche o giuridiche interessate nel Territorio Palestinese Occupato;

(7) Tutti gli Stati hanno l’obbligo di non riconoscere come legale la situazione derivante dalla presenza illegittima dello Stato di Israele nel Territorio Palestinese Occupato e di non prestare aiuto o assistenza nel mantenimento della situazione creata dalla presenza continuativa dello Stato di Israele nel Territorio Palestinese Occupato;

(8) Le organizzazioni internazionali, tra cui le Nazioni Unite, hanno l’obbligo di non riconoscere come legale la situazione derivante dalla presenza illegale dello Stato di Israele nel Territorio Palestinese Occupato;

(9) Le Nazioni Unite, e in particolare l’Assemblea Generale, che ha richiesto questo Parere, e il Consiglio di Sicurezza, dovrebbero considerare le modalità precise e le ulteriori azioni necessarie per porre fine il più rapidamente possibile alla presenza illegale dello Stato di Israele nel Territorio Palestinese Occupato.

III. Importanza e implicazioni legali

1. Lo status giuridico dei pareri consultivi

I pareri consultivi della Corte Internazionale di Giustizia non sono giuridicamente vincolanti. Tuttavia hanno grande importanza e autorità legale, perché la Corte interpreta i principi vincolanti del diritto internazionale come il diritto all’autodeterminazione e i doveri degli Stati occupanti. Pertanto, anche se formalmente non vincolante, il parere consultivo chiarisce gli obblighi di Israele ai sensi del diritto internazionale per quanto riguarda il Territorio Palestinese Occupato e gli obblighi correlati degli altri Stati e organizzazioni internazionali, tra cui l’UE.

Israele non ha partecipato al procedimento. Ha solo presentato una breve dichiarazione scritta sostenendo di non aver dato il consenso alla risoluzione giudiziaria della sua controversia con la Palestina e che la sentenza avrebbe imposto tale risoluzione senza il consenso di Israele. La Corte, tuttavia, ha respinto questa argomentazione quando ha esaminato le potenziali ragioni per cui avrebbe dovuto rendere un parere consultivo. Ha rilevato che i pareri consultivi non costituiscono una risoluzione giudiziaria delle controversie bilaterali, ma piuttosto chiariscono i principi del diritto internazionale che vanno oltre la questione di Israele e Palestina, in particolare il dovere di non riconoscimento rivolto a Stati e organizzazioni internazionali.

2. Le implicazioni legali delle parti operative

a) L’illegalità dell’occupazione prolungata e il dovere di porvi fine (OP 3 e OP 4)

Il parereè stato adottato a larga maggioranza, con le disposizioni riguardanti le colonie e le riparazioni adottate con 14 voti contro 1, mentre le disposizioni che affermano che l’occupazione è illegale e deve cessare sono state adottate con una maggioranza di 11 voti contro 4. Insieme alla vicepresidente Sebutinde (del parere che in linea di principio la Corte non avrebbe dovuto esprimersi sulle questioni), hanno votato contro questo punto i giudici Abraham, Tomka e Aurescu.

Questa divisione tra i giudici (e l’assenza di una posizione comune dell’UE sulla questione) dimostra la complessità del tema proposto. Tuttavia per la maggioranza il punto chiave era che l’attività di colonizzazione israeliana andava oltre i diritti di una potenza occupante di governare temporaneamente il territorio sotto suo effettivo controllo. Invia un forte segnale contro l’annessione di un territorio con la forza, anche se “distribuita” nel tempo e anche se praticata da coloni “privati” che hanno ricevuto un’autorizzazione ex post e sostegno dallo Stato per le loro attività illegali.

La posizione adottata dalla Corte è ampiamente in linea con le principali richieste espresse dallo Stato di Palestina, dalla Lega degli Stati Arabi e dall’Organizzazione della Conferenza Islamica, con l’importante eccezione del “diritto al ritorno” di tutti i rifugiati palestinesi nei loro luoghi di residenza originali. 2 Il parererichiede che “tutti i palestinesi sfollati durante l’occupazione” possano tornare nei loro luoghi di residenza originali”, mentre l’enunciato che precede impone la restituzione delle terre confiscate “da quando l’occupazione [di Israele] è iniziata nel 1967” (§ 270). Il parere consultivo sembra quindi approvare l’approccio dei “due Stati” per quanto riguarda i diritti di residenza, con la “linea verde” come confine di demarcazione tra di essi. Non analizza la situazione e i potenziali diritti dei palestinesi che sono diventati rifugiati prima del 1967.

Un’altra questione controversa riguarda l’interpretazione da parte della Corte dell’articolo 3 della Convenzione sull’Eliminazione della Discriminazione Razziale (CERD) sul divieto di segregazione razziale e apartheid. Mentre la Corte è stata unanime nel ritenere che “la legislazione e le misure di Israele costituiscono una violazione dell’articolo 3 del CERD” (§ 229), non ha specificato sulla base di quale dei due elementi contenuti in questa disposizione (segregazione razziale o apartheid) è giunta a questa conclusione. Mentre il presidente Salam (§§ 14-32) e il giudice Tladi (§ 36) hanno qualificato nelle rispettive dichiarazioni individuali le pratiche israeliane come “equivalenti all’apartheid” o aventi il ​​“carattere di apartheid”, i giudici Iwasawa (§ 13) e Nolte (§ 8) sostengono che la Corte non abbia raggiunto tale conclusione.

b) Il dovere israeliano di evacuare i coloni e di rendere riparazione (OP 5 e OP 6)

Probabilmente la conclusione di più vasta portata riguarda l’obbligo di Israele di “cessare immediatamente tutte le nuove attività di insediamento coloniale” e di “evacuare tutti i coloni dal Territorio Palestinese Occupato” (OP 5). L’obbligo d’evacuazione riguarda 465.000 abitanti della Cisgiordania e circa 230.000 di Gerusalemme Est. Allo stesso tempo, il parere contiene una sfumatura sulla tempistica. Mentre l’attuazione del requisito più urgente, ovvero la cessazione della nuova costruzione di insediamenti coloniali, deve avere carattere “immediato”, il “porre fine” alla “presenza illegale” deve essere attuato solo “il più rapidamente possibile” (OP 4). Ciò potrebbe essere letto in rapporto all’OP 9, secondo cui l’UNGA e l’UNSG dovrebbero considerare “modalità precise e ulteriori azioni” per porre fine alla presenza illegale dello Stato di Israele nel Territorio Palestinese Occupato. Nel caso Chagos (in cui al Regno Unito è stato chiesto, in un parere consultivo, di rispettare il fatto che le isole Chagos fanno parte delle Mauritius), l’UNGA ha adottato solo tre mesi dopo la risoluzione 73/295, in cui ha interpretato la formulazione “il più rapidamente possibile” come “non più di sei mesi dall’adozione della presente risoluzione”.

Per quanto riguarda l’obbligo di riparazione per il danno causato a tutte le persone interessate (OP 6), sorgerà la questione di come organizzare le richieste e la loro soddisfazione (istituzione di una Commissione Internazionale per le Richieste?). A causa dell’intrinseca complessità di questo punto, sarebbe saggio includerlo nelle “modalità precise” da concordare tra l’UNGA e l’UNSC ai sensi dell’OP 9.

c) L’obbligo di non riconoscimento da parte degli Stati e delle organizzazioni internazionali (OP 7 e OP 8)

Negli OP 7 e OP 8 la Corte sottolinea l’obbligo di “non riconoscere come legale la situazione derivante dalla presenza illegale dello Stato di Israele nel Territorio Palestinese Occupato”. Questo obbligo di non riconoscimento grava sia sugli Stati che sulle organizzazioni internazionali, tra cui l’Unione Europea.

L’UE ha una politica di lunga data di non riconoscimento di alcuna modifica dei confini del 1967 tra Israele e la Cisgiordania. Si è anche impegnata a lavorare all’interno delle Nazioni Unite per una soluzione equa a due Stati del conflitto, che implichi la creazione di uno Stato palestinese e quindi la fine dell’occupazione israeliana del Territorio Palestinese Occupato. La posizione precisa dell’UE sul riconoscimento (luglio 2014) è stata la seguente:

“Un accordo sui confini dei due Stati, basato sui confini del 4 giugno 1967 con scambi di territori equivalenti come concordato tra le parti. L’UE riconoscerà le modifiche ai confini precedenti al 1967, anche per quanto riguarda Gerusalemme, solo quando concordato dalle parti”.

Nelle sue conclusioni più recenti del 27 giugno 2024 il Consiglio Europeo ha invitato il Consiglio a proseguire i lavori su ulteriori misure restrittive contro i coloni estremisti in Cisgiordania e ha condannato le decisioni del governo israeliano di espandere ulteriormente gli insediamenti illegali nella Cisgiordania occupata esortando Israele a revocare tali decisioni. Ha ribadito il suo incrollabile impegno per una “pace duratura e sostenibile conformemente alle pertinenti risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, sulla base della soluzione a due Stati, con lo Stato di Israele e uno Stato di Palestina indipendente, democratico, contiguo, sovrano e vitale che vivano fianco a fianco in pace, sicurezza e riconoscimento reciproco”. Ha inoltre impegnato l’UE a “continuare a lavorare con i partner internazionali per rilanciare un processo politico a tal fine” e ha osservato “che un percorso credibile verso la realizzazione di uno Stato palestinese è una componente cruciale di tale processo politico”.

La politica concordata dell’UE è pertanto in linea con gli obblighi derivanti dal diritto internazionale come interpretati dalla Corte per quanto riguarda gli altri Stati e le organizzazioni internazionali nei punti (7) e (8) delle parti attuative della risoluzione. Le misure previste contro i coloni estremisti allineeranno ulteriormente la politica dell’UE con la risoluzione.

Un’altra questione riguarda le relazioni commerciali con i territori occupati. Qui la Corte sottolinea il dovere di distinguere i rapporti con Israele che riguardino il suo territorio e quelli con il Territorio Palestinese Occupato (§ 278). Per la Corte ciò comprende l’obbligo di astenersi da relazioni contrattuali con Israele in tutti i casi in cui pretendesse di agire per conto del Territorio Palestinese Occupato o di una sua parte su questioni riguardanti il ​​Territorio Palestinese Occupato o una parte del suo territorio. Questa visione è già seguita dall’UE, poiché la Corte di Giustizia dell’Unione europea ha delineato l’ambito territoriale di applicazione degli accordi UE-Israele e UE-OLP in linea con questo principio. Più difficile da discernere è il dovere di “astenersi dall’intraprendere relazioni economiche o commerciali con Israele riguardanti il ​​Territorio Palestinese Occupato o parti di esso che potrebbero consolidare la sua presenza illegale nel territorio” e di “adottare misure per impedire relazioni commerciali o di investimento che aiutino a mantenere la situazione illegale creata da Israele nel Territorio Palestinese Occupato” (§ 278). A questo proposito, la giurisdizione UE richiede un’etichettatura che indichi che i prodotti alimentari provengono dalla Cisgiordania e dalle colonie. La questione se a questo riguardo siano necessarie ulteriori misure costituisce materia di valutazione politica.

Tra le altre conseguenze legali, il parerepotrebbe incoraggiare ulteriori contenziosi dinanzi ai tribunali nazionali in relazione alle vendite di armi o ad altre forme di assistenza a Israele, sulla base dell’argomentazione che ciò viene utilizzato per mantenere la situazione creata dalla presenza continuativa dello Stato di Israele nei Territori Palestinesi Occupati. Il parerepotrebbe anche esacerbare i boicottaggi già esistenti e le petizioni dei cittadini per un divieto totale di commercio di prodotti provenienti dalle colonie.

IV. Conclusioni

Alla luce degli elementi di cui sopra il Dipartimento Legale ritiene che

1. Il parere consultivo chiarisce gli obblighi internazionali vincolanti per Israele in quanto potenza occupante del Territorio Palestinese Occupato; il fatto che il parerestesso sia di natura consultiva non modifica la natura degli obblighi legali di Israele.

2. L’illegalità di per sé dell’occupazione prolungata costituisce un nuovo elemento nell’analisi giuridica della presenza di Israele nel Territorio Palestinese Occupato.

3. Il dovere di porre fine alle attività di colonizzazione e di evacuare un numero significativo di coloni deve essere preso in considerazione in qualsiasi futura iniziativa di pace.

4. La posizione di lunga data dell’Unione europea sull’illegalità degli insediamenti oltre la Linea Verde è conforme al dovere delle organizzazioni internazionali di non riconoscere come legale la situazione derivante dalla presenza illegale dello Stato di Israele nel Territorio Palestinese Occupato. L’eventuale revisione della politica dell’UE riguardo all’importazione di prodotti dalle colonie è materia oggetto di ulteriore valutazione politica.

5. Dato che la disposizione finale (9) del parere consultivo sottolinea un ruolo particolare sia dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite che del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite nel definire le modalità precise per porre fine all’occupazione illegale, qualsiasi futura iniziativa dell’UE dovrebbe tenere conto delle loro conclusioni.

Firmato

Frank Hoffmeister

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




In seguito all’invasione israeliana il tasso di povertà nei territori palestinesi è raddoppiato, riportando indietro lo sviluppo di Gaza ai livelli degli anni ‘50.

  1. Redazione di MEMO

22 ottobre 2024 – Middle East Monitor

Quest’anno il tasso di povertà in tutti i territori palestinesi occupati dovrebbe raggiungere quasi il 75% in seguito ai bombardamenti e all’invasione israeliane in corso nella Striscia di Gaza.

Secondo un nuovo rapporto del Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite (UNDP), l’economia palestinese è attualmente scesa del 35% rispetto all’inizio dell’invasione israeliana un anno fa, cancellando oltre sette decenni di incremento e riportando i livelli di sviluppo a Gaza agli anni ‘50.

Alla fine del 2023 il tasso di povertà in tutti i territori palestinesi è stato del 38,8%, ma gli ulteriori 2,61 milioni di palestinesi che sono da allora caduti in povertà quest’anno hanno portato il totale a 4,1 milioni, rendendo il tasso quasi doppio, al 74,3%.

Achim Steiner, il direttore dell’UNDP, ha dichiarato che “l’immediata conseguenza della guerra, non solo in quanto a distruzione di infrastrutture fisiche, ma anche in termini di povertà, condizioni di vita e perdita dei mezzi di sostentamento è enorme.” Ha aggiunto che “il livello di distruzioni ha riportato indietro di anni, se non di decenni, lo Stato di Palestina in termini di percorso verso lo sviluppo.”

Steiner ha riconosciuto che, anche se i bombardamenti si fermassero e d’ora in poi gli aiuti umanitari fossero forniti ogni anno, ci vorrebbe almeno oltre un decennio prima che l’economia possa ritornare ai livelli di prima dell’invasione israeliana. “Proiezioni in questa nuova analisi confermano che a fronte della sofferenza immediata e dell’orrenda perdita di vite, è in corso anche una seria crisi nello sviluppo, che mette a repentaglio il futuro dei palestinesi per le prossime generazioni,” ha affermato.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




La vita che ho costruito per la mia famiglia – distrutta

Amjad Hamdouna

21 Ottobre 2024 ,The Electronic Intifada

Sono del nord di Gaza City, di una zona chiamata Sheikh Radwan.

Da ragazzo, la mia famiglia era molto povera. Ho dovuto lasciare la scuola in giovane età, circa 15 anni, ed entrare nel mercato del lavoro per aiutare la mia famiglia.

Ho lavorato in una fabbrica tessile e data la mia giovane età il mio salario era misero, appena sufficiente per mangiare e bere. Però speravo che avrei potuto acquisire qualche competenza da usare successivamente e magari guadagnare di più per avere una vita migliore.

Ho lavorato in questa fabbrica fino ai 20 anni. Era un lavoro fisicamente estenuante e spesso noioso. La mia speranza era di risparmiare abbastanza denaro per avviare una fabbrica per conto mio, ma non ero ancora pronto.

Nel frattempo, lavorando con il padrone della fabbrica, vendevo merci nei mercati locali. Ho guadagnato di più in questo modo che come operaio. Ho lavorato così per due anni finché non ho potuto permettermi di avviare una fabbrica per conto mio.

Il padrone mi ha detto che mi avrebbe aiutato per qualunque cosa avessi bisogno per riuscire. Questo mi ha reso felice, soprattutto perché avevo fatto tanti sforzi per questo ed ero spesso preoccupato e stressato.

Ho preso in affitto un edificio a Sheikh Radwan in via al-Nasr per confezionare abiti femminili e venderli in zona.

Ho lavorato duramente. Ho comprato tutta l’attrezzatura necessaria per il mio lavoro di cucitura e creazione di abiti palestinesi. Sono andato dai commercianti di tessuti ed ho predisposto ogni cosa affinché la mia fabbrica avesse successo.

Finalmente abbiamo aperto e tutto andava bene.

Quando ho aperto questa fabbrica i miei obbiettivi sono cresciuti ancor di più. Volevo risparmiare più denaro per sposarmi ed avere figli, per comprare una casa ai miei genitori e case per i miei fratelli.

Il primo mese ho potuto provvedere al salario dei lavoratori, all’affitto della fabbrica, al costo dei prodotti dei commercianti e alle spese della mia famiglia. E’ vero che la mia attività non era poi così grande, ma ero felice di fare questo lavoro e di ricevere tanto sostegno.

La mia fabbrica è andata avanti per quattro anni. Con grandi sforzi abbiamo venduto in tutta Gaza ed accresciuto le nostre capacità.

Ho risparmiato il denaro per sposarmi e per arredare il mio appartamento nell’edificio dei miei genitori. Mi sono sposato e nel febbraio 2023 mia moglie ha dato alla luce una bella bambina, Alma.

Ma la guerra genocida di Israele scatenata nell’ottobre 2023 aveva idee diverse su come dovesse essere la mia vita.

Dopo quattro giorni di guerra Israele ha bombardato la mia fabbrica, le scorte di materiali e le attrezzature a Sheikh Radwan. L’edificio è stato completamente distrutto. Un operaio è rimasto ucciso.

La mia famiglia ed io siamo stati sfollati forzatamente dalla nostra casa verso il sud di Gaza, dove siamo rimasti fino ad oggi. Pensavo che saremmo tornati a casa dopo breve tempo, perciò ho preso solamente poco denaro con me e ho lasciato indietro il resto.

I nostri soldi si sono esauriti in due mesi. La mia famiglia condivideva una tenda e abbiamo dovuto chiedere aiuto ad altri per superare l’inverno e poi l’estate.

Non riesco a dare un senso all’anno passato. Tutti noi che lavoriamo duramente nel mondo, è questa la nostra ricompensa?

Chi ricostruirà la mia fabbrica? Chi la nostra casa?

La situazione a Gaza è disperata e non so quando torneranno nella nostra vita la gioia e il sorriso. Non so dove andremo poi e che cosa succederà. Alma ha quasi due anni. Le nostre vite sono piene di ingiustizia e oscurità e il mondo sta dormendo.

Amjad Hamdouna vive a Gaza.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Conquistare, espellere, reinsediarsi”: alla conferenza “Prepararsi a Reinsediarsi a Gaza” i propositi velleitari lasciano il posto a progetti concreti

Rachel Fink

Oct 21, 2024 21 ottobre 2024 – Haaretz

In un’assemblea sul tema di Sukkot nei pressi del confine di Gaza coloni e leader di estrema destra hanno delineato piani per ricostruire colonie ebraiche nella Striscia “entro un anno”. La polizia ha impedito a contro-manifestanti di entrare nel luogo del raduno, mentre gli oratori chiedevano il “trasferimento volontario” dei gazawi e la ridefinizione dei confini di Israele per estenderli “dall’Eufrate al Nilo”

Centinaia di persone si sono riunite sul confine meridionale di Israele per un incontro celebrativo di due giorni intitolato “Prepararsi a reinsediarsi a Gaza”.

Durante l’evento i partecipanti sono stati ad ascoltare politici di estrema destra e dirigenti del movimento dei coloni, che hanno tutti proclamato la loro idea condivisa per il futuro: reinsediare una presenza ebraica nella Striscia di Gaza – “su ogni sua zolla,” come ha dichiarato un oratore.

L’evento è iniziato domenica con la costruzione di decine di capanne provvisorie a due passi dal confine di Gaza. Le capanne, in cui varie famiglie hanno passato la notte, erano state costruite per onorare la festa ebraica di Sukkot, ma non è passato inosservato il loro significato simbolico per un movimento dedito alla ricostituzione di colonie a Gaza.

“Oggi ci troviamo nelle nostre case provvisorie da questa parte del confine,” ha dichiarato il rabbino Dovid Fendel, di Sderot. “Ma domani costruiremo le nostre case permanenti sull’altro lato del confine.” Lunedì mattina gli abitanti delle capanne sono stati raggiunti da centinaia di partecipanti agli eventi principali del convegno. C’erano attività per i bambini, compresa una reinterpretazione allegorica del “disimpegno” di Israele da Gaza nel 2005 con pupazzi, bolle di sapone e una fattoria didattica.

Volontari hanno distribuito popcorn e zucchero filato alle orde di bambini che correvano da una capanna all’altra mentre commercianti vendevano magliette e custodie per telefonino che dicevano “Gaza è parte di Israele.” Per gli adulti le opzioni includevano sessioni progettuali in piccoli gruppi, un’esposizione informativa e molti canti e balli.

L’atmosfera era festosa nonostante le incombenti minacce per la sicurezza. “So che la maggioranza dei nostri uomini qui è armata,” è stato annunciato dagli altoparlanti. “Nel caso di infiltrazione di terroristi, vi chiediamo per favore di non usare le vostre armi. Lasciate fare alla sicurezza. È per l’incolumità di tutti.”

In effetti praticamente ogni uomo presente era munito di mitra M16 a tracolla o di una pistola che spuntava dalla tasca posteriore. Ogni volta che si sentiva un’esplosione provenire da Gaza qualcuno urlava “Dio benedica i nostri prodi soldati.”

In tarda mattinata decine di partecipanti si sono accalcati nella capanna più grande per ascoltare un gruppo di relatori. Questi hanno incluso alcune delle organizzazioni rappresentate all’esposizione informativa, familiari che hanno perso i propri cari sia il 7 ottobre che durante la successiva guerra a Gaza, così come membri del piccolo gruppo di parenti di ostaggi che non si schierano con il più numeroso Forum delle Famiglie di Ostaggi e Dispersi.

Una di loro è stata Channah Cohen, la cui nipote Inbar Haiman è stata uccisa il 7 ottobre e il suo corpo è stato portato a Gaza. “Stiamo facendo di tutto per farci restituire il suo corpo,” ha detto Cohen durante la discussione. “Ma quei nazisti là non danno valore a niente se non alla terra. Quindi voglio prendergliela perché è l’unica cosa che capiranno.”

È un’idea che in seguito la deputata del Likud Tally Gotliv ha ampliato dal palco principale: “Dobbiamo parlare ai nostri nemici assassini con l’unico linguaggio che capiscono, la loro terra,” ha detto Gotliv. “Forse se ci vedono là penseranno davvero due volte a quello che ci hanno fatto il 7 ottobre. Forse ci vedranno là e ci daranno indietro i nostri ostaggi rapiti nei modi più crudeli.”

“Colonie uguale sicurezza,” ha detto Gotliv. “Punto e basta.”

La conferenza è stata organizzata da Nachala, un’organizzazione estremista dei coloni guidata dalla controversa leader Daniella Weiss, che ha attraversato la folla di lunedì come una celebrità venerata, fermandosi a stringere mani e posare per le foto.

Weiss ha parlato varie volte nel corso della giornata, anche in inglese per la stampa estera. In un discorso appassionato ha promesso di realizzare il suo impegno a ricolonizzare Gaza entro un anno. “Ognuno di voi mi può chiamare e chiedermi se sono riuscita a realizzare il mio sogno,” ha detto a un gruppo di giornalisti. “In realtà non dovete neppure chiamarmi,” ha continuato Weiss. “Sarete i testimoni di come gli ebrei andranno a Gaza e gli arabi spariranno da Gaza.”

Weiss ha detto anche che lei e 40 famiglie sono pronte a piazzare le loro roulotte proprio dove ci trovavamo, quanto più vicino possibile al confine. “E con l’aiuto di Dio,” ha annunciato, “piano piano ci sposteremo a Gaza. Proprio come abbiamo fatto in Giudea e Samaria [la Cisgiordania, ndt.].” Ma Weiss non progetta di fermarsi là: “I veri confini della Grande Israele sono tra il fiume Eufrate e il Nilo,” ha dichiarato. “Questo lo sappiamo dalla Bibbia. E quanto prima lo faremo, tanto meglio.”

Dopo un ballo gioioso, a cui in base ai principi degli ebrei ortodossi hanno partecipato solo gli uomini, è salito sul palco principale uno stuolo di politici. Oltre a Gotliv, gli oratori hanno incluso il ministro dello Sviluppo del Negev e della Galilea e deputato di Potere Ebraico [partito di estrema destra, ndt.] Yitzhak Wasserlauf, il ministro delle Finanze Betzalel Smotrich e l’attivista dei coloni e capo del Consiglio Regionale di Samaria Yossi Dagan. Altri, come il deputato di Sionismo religioso [altro partito di estrema destra, ndt.] Zvi Succot e il parlamentare del Likud [principale partito di destra, ndt.] Ariel Kallner hanno tenuto discussioni più ristrette nella capanna assegnata ai loro partiti.

La ministra dell’Uguaglianza Sociale e parlamentare del Likud May Golan ha dedicato la maggior parte del suo discorso a inveire contro quella che ha definito “la Sinistra velenosa ed elitaria” prima di ritornare al messaggio: “Li colpiremo dove fa male, la loro terra,” ha detto Golan, riferendosi ai gazawi. “Chiunque usi la propria zolla di terra per progettare un altro Olocausto riceverà da noi, con l’aiuto di Dio, un’altra Nakba [la pulizia etnica a danno dei palestinesi nel 1947-49, ndt.] che racconterà ai figli e nipoti nei prossimi 50 anni.” Le sue parole sono state accolte con applausi scroscianti.

Ma l’oratore che ha ricevuto l’accoglienza di gran lunga più calda è stato il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir. Ha iniziato la sua comparsa unendosi a una danza mentre la gente chiedeva a gran voce un selfie con il parlamentare di estrema destra.

Quando è salito sul palco, un gruppo di adolescenti ha guidato la folla nello scandire “Guardate qui. È il nostro prossimo primo ministro” (suona meglio in ebraico), prima di passare a “pena di morte per i terroristi,” una delle promesse più apprezzate della campagna di Ben-Gvir.

“Ciò che abbiamo imparato quest’anno è che tutto dipende da noi,” ha iniziato Ben-Gvir. “Siamo i proprietari di questa terra. Sì, abbiamo sperimentato una terribile catastrofe il 7 ottobre. Ma quello che dobbiamo capire, un anno dopo, è che moltissimi israeliani hanno cambiato le proprie opinioni. Hanno cambiato il modo di pensare. Capiscono che quando Israele agisce come legittimo proprietario di questa terra, è questo che porta risultati.”

“Lo vedo nelle celle dei terroristi,” ha continuato. “Gli abbiamo tolto i panini con la marmellata. Gli abbiamo tolto il cioccolato, i loro schermi televisivi, i tavoli da ping-pong e il tempo per l’attività fisica. Dovreste vederli piagnucolare e strillare nelle loro celle. E questa è la dimostrazione: quando lo decidiamo ci riusciamo, abbiamo successo.”

“Incoraggeremo il trasferimento volontario di tutti i cittadini di Gaza,” ha dichiarato. “Offriremo loro l’opportunità di spostarsi in altri Paesi perché questa terra appartiene a noi.”

Sarah Himmel ha viaggiato da Beit Shemesh [cittadina israeliana nei pressi di Gerusalemme, ndt.] per assistere alla conferenza. Dice di non essere venuta solo per dimostrare il proprio appoggio all’idea di ricolonizzare, ma per saperne di più su quello che ciò comporta in concreto.

“Non sono pronta al 100% ad andarmene e spostarmi domani come altre persone qui,” ha spiegato, “ma voglio avere più informazioni possibile. Voglio essere pronta.”

Mentre stavamo facendo l’intervista Himmel è stata avvertita da varie persone di non parlare a giornalisti di Haaretz – “Loro non sono dei nostri. Non sono nostri amici,” l’ha messa in guardia una donna anziana – ma Himmel non si è tirata indietro. “Sono in grado di decidere io,” ha replicato. Himmel ha continuato: “Credo che questa terra sia nostra e che dovremmo vivere qui contenti e sicuri. Quello di cui stiamo parlando qui è tornare a luoghi in cui vivevamo, posti che abbiamo lasciato occupare dai terroristi. E finché lasceremo che ciò prosegua, continueremo a vivere con la paura, continueremo ad essere uccisi.”

Ha detto di essere motivata dal fatto di vedere così tante persone che la pensano come lei: “È veramente entusiasmante essere circondati da così tante persone con le stesse idee.”

Mentre tutti quelli che si trovavano all’interno della base militare chiusa in cui si è tenuta la conferenza potrebbero aver condiviso le stesse opinioni, un piccolo gruppo di manifestanti si è riunito nel parcheggio per esprimere il proprio sgomento. Sventolando bandiere gialle e con manifesti degli ostaggi, i dimostranti hanno fatto del loro meglio per far sentire la propria voce.

“Siamo qui per protestare contro questo orribile convegno,” ha detto Yehuda Cohen, padre di Nimrod Cohen, rapito il 7 ottobre da un carrarmato in panne nei pressi del confine. “Questi partiti politici messianici sono qui per sfruttare cinicamente mio figlio, che da più di un anno si trova in un tunnel a Gaza dopo che l’ho mandato nell’esercito.”

I manifestanti erano sotto massiccia protezione della polizia, che ha anche impedito loro di avvicinarsi entro i 90 metri dalla zona dell’evento. “Ovviamente la polizia applica un doppio standard,” ha detto Cohen, “lasciando che i coloni facciano quello che vogliono, mentre noi, che lottiamo per salvare vite, siamo confinati e non ci consentono di passare.”

Mentre lui e gli altri gridavano slogan con i megafoni, uno dei partecipanti alla conferenza, che stava uscendo, ha abbassato il finestrino. “Non ci fermerete,” ha gridato, ridendo. “Nessuno di voi ci riuscirà. Stiamo andando a Gaza. Perché non vi unite a noi?”

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




“Ha lasciato Gaza, ma Gaza non ha lasciato lui”: i soldati israeliani di ritorno dalla guerra affrontano traumi e suicidi

Nadeen Ebrahim e Mike Schwartz

21 ottobre 2024 – CNN

Tel Aviv e Ma’ale Adumim, (CNN) — Quarant’anni e quattro figli, Eliran Mizrahi è stato schierato a Gaza dopo il mortale attacco sferrato da Hamas a Israele il 7 ottobre 2023.

La sua famiglia ha detto alla CNN che il riservista dell’esercito israeliano non era più lo stesso dopo essere tornato, traumatizzato da ciò cui aveva assistito nella guerra contro Hamas nella Striscia. Sei mesi dopo essere stato mandato per la prima volta in battaglia era a casa, alle prese con la sindrome da stress post-traumatico (PTSD).

“Lui ha lasciato Gaza, ma Gaza non ha lasciato lui. Ed è morto per questo, a causa del post-trauma” racconta la madre, Jenny Mizrahi.

L’esercito israeliano sostiene di fornire cure a migliaia di soldati che soffrono di PTSD o altri disturbi mentali causati da traumi riportati in guerra. Non è chiaro quanti si siano tolti la vita, perché l’esercito israeliano non fornisce una cifra ufficiale.

Dopo un anno, secondo il ministero della Striscia la guerra di Israele contro Gaza ha ucciso più di 42.000 persone, mentre le Nazioni Unite riferiscono che la maggior parte dei morti sono donne e bambini.

La guerra, avviata dopo che Hamas ha ucciso 1200 persone e preso più di 250 ostaggi, è già la più lunga mai combattuta da Israele. E, mentre essa si estende al Libano, alcuni soldati dicono di temere di essere trascinati in un ulteriore conflitto.

Molti tra noi hanno molta paura di essere nuovamente mandati al fronte in Libano”, dice alla CNN un medico dell’esercito israeliano che preferisce restare anonimo a causa della delicatezza della questione. “In questo momento molti tra noi non hanno fiducia nel governo”.

Le autorità israeliane, con rare eccezioni, hanno precluso ai giornalisti stranieri l’accesso a Gaza se non scortati dall’esercito israeliano, cosa che rende difficile cogliere pienamente la sofferenza dei palestinesi o quello che sperimentano i soldati sul campo. I soldati israeliani che hanno combattuto nell’enclave hanno riferito alla CNN di aver assistito a orrori che il mondo esterno non potrà mai capire davvero. Le loro testimonianze offrono un raro scorcio sulla brutalità di quella che i detrattori hanno chiamato la “guerra eterna” del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, e sul costo incommensurabile che essa comporta per i soldati che vi prendono parte.

La guerra a Gaza è per molti soldati una lotta per la sopravvivenza di Israele e deve essere vinta con ogni mezzo. Ma la battaglia ha un prezzo anche in termini di salute mentale e, a causa dello stigma sociale, esso è per lo più tenuto nascosto. Le interviste rilasciate da soldati israeliani, da un medico e dalla famiglia di Mizrahi, il riservista che si è tolto la vita, permettono di svelare il fardello psicologico che la guerra impone alla società israeliana.

L’impatto sulla salute mentale

Mizrahi è stato schierato a Gaza l’8 di ottobre dello scorso anno e gli è stato assegnato il compito di guidare un bulldozer D-9, un veicolo corazzato di 62 tonnellate che non teme proiettili né esplosivi.

Egli è stato un civile per la maggior parte della sua vita, e ha lavorato come dirigente di un’impresa edile. Jenny ha raccontato alla CNN che dopo i massacri commessi da Hamas ha sentito il bisogno di combattere.

La famiglia riferisce che il riservista ha passato 186 giorni nell’enclave, fino a quando è stato ferito a un ginocchio e poi a febbraio ha riportato danni all’udito dopo che il suo veicolo è stato colpito da un lanciarazzi. Egli è stato quindi ritirato da Gaza per essere curato e ad aprile gli è stato diagnosticato un disturbo da stress post-traumatico, per il quale riceveva ogni settimana un trattamento terapeutico.

Ma la cura non ha avuto successo.

“Non sapevano come curarli (i soldati)”, dice Jenny, che vive nella colonia israeliana di Ma’ale Adumim, nella Cisgiordania occupata. “Dicevano (i soldati) che la guerra è molto diversa. Hanno visto cose che non avevano mai visto in Israele”.

Secondo la famiglia, mentre era in congedo Mizrahi soffriva di attacchi di rabbia, ipersudorazione, insonnia e isolamento sociale. Diceva in famiglia che soltanto chi è stato a Gaza con lui poteva capire cosa stesse attraversando.

“Diceva sempre: Nessuno può capire quello che ho visto” riferisce sua sorella Shir.

Jenny si chiede se suo figlio avesse ucciso qualcuno e non potesse sopportarlo.

“Ha visto morire molte persone. Forse ne ha anche uccise alcune. (Ma) noi non insegniamo ai nostri figli a fare questo genere di cose”, afferma. “Perciò quando lo ha fatto, una cosa come questa, forse per lui è stato uno shock.”

Guy Zaken, amico di Mizrahi e co-pilota del bulldozer, ha fornito ulteriori elementi utili alla comprensione della loro esperienza a Gaza. “Abbiamo visto cose molto, molto, molto difficili”, ha detto Zaken alla CNN. “Cose che sono difficili da accettare.”

L’ex-soldato ha parlato pubblicamente del trauma psicologico subìto dalle truppe israeliane a Gaza. A giugno, in una testimonianza alla Knesset, il parlamento israeliano, Zaken afferma che in molte occasioni i soldati hanno dovuto “schiacciare passandogli sopra i terroristi, morti e vivi, a centinaia”.

“Schizza fuori tutto”, ha aggiunto.

Zaken dice di non poter più mangiare carne perché gli ricorda le scene raccapriccianti cui ha assistito dal suo bulldozer a Gaza, e di faticare a dormire la notte, quando le esplosioni gli risuonano ancora in testa.

“Quando vedi tanta carne sparsa in giro, e sangue, sia nostro che loro, poi ti fa effetto quando mangi” dice alla CNN, riferendosi ai corpi come “carne”.

Sostiene che la stragrande maggioranza di coloro in cui si è imbattuto erano “terroristi”.

“Quando vedevamo dei civili, ci fermavamo e portavamo loro acqua da bere, e davamo loro il nostro cibo”, ricorda, aggiungendo che i combattenti di Hamas facevano fuoco contro di loro anche in simili situazioni.

“Quindi non esistono civili”, afferma, facendo riferimento alla capacità di Hamas di mescolarsi tra i civili. “Questo è terrorismo”.

Secondo il medico dell’esercito israeliano che ha parlato alla CNN in anonimato, quando però i soldati effettivamente incontrano i civili, molti sono posti di fronte a un dilemma morale.

C’era tra i soldati israeliani un “atteggiamento collettivo molto forte” di sfiducia nei confronti dei palestinesi a Gaza, soprattutto all’inizio della guerra, sostiene il medico.

C’era questa idea che i gazawi, civili inclusi, “fossero cattivi, che sostenessero Hamas, che aiutassero Hamas, che nascondessero munizioni”, afferma il medico.

Dicono [i soldati] che però sul campo alcuni di questi atteggiamenti sono cambiati “quando ti vedi davvero davanti i civili gazawi”.

L’esercito israeliano sostiene di fare tutto quello che può per ridurre al minimo il numero di vittime tra i civili a Gaza, compreso il ricorso a messaggi di testo, chiamate telefoniche e al lancio di volantini di evacuazione per avvertire i civili prima degli attacchi.

Ciononostante, più volte a Gaza un gran numero di civili è stato ucciso, anche quando rifugiati in aree che l’esercito stesso aveva definito “zone sicure”.

L’impatto sulla salute mentale a Gaza è probabilmente enorme. Le Nazioni Unite e diversi gruppi di soccorso hanno ripetutamente sottolineato le catastrofiche conseguenze della guerra sulla salute mentale dei civili di Gaza, molti dei quali sono già segnati da 17 anni di blocco e diverse guerre con Israele. In un rapporto di agosto le Nazioni Unite hanno affermato che le esperienze dei gazawi sfidano le “definizioni biomediche tradizionali” di sindrome da stress post-traumatico, “dato che a Gaza non c’è alcun ‘post’”.

Dopo che Mizrahi si è tolto la vita, sono apparse sui social media video e foto che ritraggono il riservista nell’atto di demolire case e palazzi a Gaza e in posa di fronte a strutture devastate. Alcune delle immagini, che sembra fossero state pubblicate sui suoi stessi account, ora rimossi, sono apparse in un documentario realizzato dall’emittente televisiva israeliana Channel 13 per il quale egli era stato intervistato.

Sua sorella, Shir, afferma che sui social media ha visto molti commenti che accusano Mizrahi di essere “un assassino”, che inveiscono contro di lui e che rispondono con spiacevoli emoji.

“È stata dura,” sostiene, aggiungendo che ha fatto del suo meglio per ignorarli. “So che era una persona di buon cuore”.

Rimuovere persone morte insieme alle macerie

Ahron Bregman, politologo presso il King’s College di Londra che ha prestato servizio nell’esercito israeliano per sei anni, inclusa la guerra in Libano del 1982, afferma che la guerra di Gaza è diversa da ogni altra guerra combattuta da Israele.

“É molto lunga”, dice, ed è in un contesto urbano, il che significa che i soldati combattono in mezzo alla gente, “in stragrande maggioranza civili”.

I conducenti di bulldozer sono tra i più direttamente esposti alla brutalità della guerra, afferma Bregman. “Non vedono altro che morti, e li rimuovono insieme alle macerie”, dice a CNN. “Ci passano sopra”.

Il ritorno dal campo di battaglia alla vita civile può essere insostenibile per molti, soprattutto dopo una guerra urbana che comporta la morte di donne e bambini, sostiene Bregman.

“Come fai a mettere a letto i tuoi bambini quando, sai, hai visto bambini uccisi a Gaza?”

Nonostante la sindrome da stress post-traumatico di Mizrahi, la sua famiglia riferisce che aveva accettato di tornare a Gaza quando fosse stato richiamato. Si è ucciso due giorni prima di tornare al fronte.

A casa sua Jenny ha dedicato una stanza alla memoria del figlio defunto, con fotografie della sua infanzia e del suo lavoro nell’edilizia. Tra gli oggetti che sua madre ha conservato c’è il berretto che Mizrahi portava quando si è sparato alla testa, con il buco della pallottola ben visibile.

La famiglia di Mizrahi ha cominciato a parlare in pubblico della sua morte dopo che l’esercito non gli ha concesso la sepoltura militare, in quanto non “in servizio attivo come riservista”. La decisione è stata in seguito revocata.

Il quotidiano israeliano Haaretz riferisce che secondo i dati dell’esercito di cui il quotidiano è entrato in possesso, tra il 7 ottobre e l’11 di maggio 10 soldati si sono tolti la vita.

Intervistato sul numero di suicidi nell’esercito dall’inizio della guerra, Uzi Bechor, psicologo e comandante dell’Unità di Risposta al Combattimento dell’esercito israeliano, ha detto che il personale sanitario non è autorizzato a fornire una cifra e che l’esercito considera il tasso di suicidi sostanzialmente invariato.

“Il tasso di suicidi nell’esercito è più o meno stabile negli ultimi cinque o sei anni”, afferma Bechor, facendo notare che esso è di fatto in calo nell’ultimo decennio.

Anche se il numero di suicidi è più alto, il tasso per il momento “è circa lo stesso dell’anno precedente perché abbiamo più soldati”.

“Non significa che ci sia una tendenza all’aumento dei suicidi”, dice Bechor alla CNN.

Non ha fornito alla CNN né il numero dei suicidi né il loro tasso. “Ogni caso per noi è straziante”, aggiunge.

Eppure più di un terzo di coloro che sono stati ritirati dal combattimento risulta avere problemi di salute mentale. La Divisione Riabilitazione del Ministero della Difesa israeliano ha dichiarato ad agosto in un comunicato che ogni mese sono ritirati dal combattimento per essere curati più di 1.000 nuovi soldati feriti, il 35% dei quali lamenta problemi di salute mentale, mentre il 27% sviluppa “una reazione mentale o una sindrome da stress post-traumatico”.

Ha aggiunto che entro la fine dell’anno i soldati ricoverati saranno probabilmente 14.000, circa il 40% dei quali si prevede dovrà affrontare problemi di salute mentale.

Secondo il ministero della Sanità, il quale nota che “ai numeri menzionati deve essere aggiunto circa il 23% per mancate denunce, ogni anno in Israele più di 500 persone muoiono suicide”.

Sulla base di dati dell’esercito, secondo i quali nel 2021 almeno 11 soldati israeliani si sono tolti la vita, il Times of Israel riferisce che in quello stesso anno il suicidio è stato la principale causa di morte tra i soldati israeliani.

Volendo “sfatare voci di un crescente tasso di suicidi a partire dal 7 ottobre”, all’inizio di quest’anno il Ministero della Sanità ha dichiarato che i casi riportati sono “incidenti isolati enfatizzati dai media e sulle reti sociali”. Senza fornire cifre, il Ministero ha detto che c’è stato “in Israele un calo nei suicidi tra ottobre e dicembre in rapporto agli stessi mesi negli ultimi anni”.

Bregman, il veterano della guerra del Libano, afferma che, grazie ai minori pregiudizi, oggi è più facile parlare di sindrome da stress post-traumatico e altri problemi di salute mentale di quanto non lo fosse negli anni ’70 e ’80. Eppure, sostiene, i soldati che tornano da Gaza “porteranno con sé (le loro esperienze) per il resto della loro vita”.

Il medico dell’esercito israeliano che ha parlato con la CNN afferma che durante e dopo l’impiego in battaglia in ogni unità dell’esercito c’è un ufficiale incaricato della salute mentale. Ciononostante l’impatto della guerra persiste, dice il medico, e a Gaza ci sono soldati giovani, anche diciottenni, che soffrono di traumi mentali. Spesso piangono o sembrano emotivamente insensibili, aggiunge il medico.

Normalizzare l’anormale

Bechor, lo psicologo dell’esercito israeliano, sostiene che uno dei modi in cui l’esercito aiuta i soldati traumatizzati a tornare alla loro vita è quello di cercare di “trattare come normale” quello che hanno vissuto, in parte ricordando loro gli orrori commessi il 7 ottobre.

“Questa situazione non è normale per un essere umano”, afferma Bechor, e aggiunge che quando i soldati tornano dal campo di battaglia con i sintomi della sindrome da stress post-traumatico gli chiedono: Come faccio a tornare a casa dopo quello che ho visto? Come faccio ad avvicinarmi ai miei bambini dopo quello che ho visto?

“Cerchiamo di trattarla come una cosa normale e di aiutarli a ricordare i loro valori e perché ci vanno (a Gaza)”, dice alla CNN.

Per le decine di migliaia di israeliani che si sono offerti volontari o che sono stati chiamati a combattere la guerra a Gaza non è stata vista solo come un atto di autodifesa, ma come una battaglia per la sopravvivenza. Questa idea è stata promossa dai più alti livelli della dirigenza politica e militare israeliana, così come dagli alleati internazionali di Israele.

Netanyahu ha descritto Hamas come “i nuovi nazisti” e il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha detto che il 7 ottobre “l’antico odio per gli ebrei” abbracciato dai nazisti era stato “riportato in vita”.

Le minacce provenienti dall’esterno hanno unito molti israeliani, mettendo da parte il conflitto politico interno che per mesi aveva diviso la società. Nel frattempo la sofferenza dei palestinesi è stata perlopiù assente dagli schermi televisivi israeliani, che sono dominati da notizie sugli ostaggi a Gaza.

Dopo gli attacchi di Hamas i sondaggi mostravano che la maggior parte degli israeliani era favorevole alla guerra a Gaza e non voleva che il proprio governo fermasse i combattimenti nemmeno mentre erano in corso i negoziati per il rilascio degli ostaggi. Secondo un sondaggio pubblicato in occasione del primo anniversario del 7 ottobre dall’Istituto Israeliano per la Democrazia solo il 6% degli israeliani pensa che si dovrebbe mettere fine alla guerra a Gaza a causa del suo “alto costo in vite umane”.

Alcuni soldati però non hanno potuto razionalizzare gli orrori che hanno visto.

Quando è tornato da Gaza Mizrahi diceva spesso alla sua famiglia che sentiva uscire dal suo corpo “sangue invisibile”, afferma sua madre.

Shir, sua sorella, incolpa la guerra per la morte del fratello. “Per colpa dell’esercito, per colpa di questa guerra, mio fratello non è più qui”, afferma. “Forse non è stato ucciso da un proiettile (in battaglia) o da un lanciarazzi, ma è stato ucciso da un proiettile invisibile” aggiunge, riferendosi alla sofferenza psicologica.

Che cos’è la sindrome da stress post-traumatico (PTSD)? Secondo il Servizio Sanitario nazionale del Regno Unito la PTSD è un problema di salute mentale causato da eventi molto stressanti, spaventosi o angoscianti. Una persona che soffre di PTSD spesso rivive l’evento traumatico in incubi e ricordi intrusivi e può esperire sensazioni di isolamento, irritabilità e colpa. La PTSD può svilupparsi subito dopo aver vissuto un evento disturbante o manifestarsi a distanza di settimane, mesi o persino dopo anni.

(traduzione dall’inglese di Giacomo Coggiola)