Lo storico palestinese-americano Rashid Khalidi: “Israele ha realizzato per se stesso uno scenario da incubo. Il tempo stringe”(Prima Parte)
Itay Mashiach
30 nov 2024 – Haaretz
La storia non riguarda Hamas, la religione o il terrorismo. Rashid Khalidi, il principale intellettuale palestinese del nostro tempo, è convinto che gli israeliani semplicemente non comprendano il conflitto, vivendo in una “bolla di falsa coscienza”
(Prima parte)
Il 1° maggio di quest’anno, il giorno dopo che la polizia di New York ha fatto irruzione con l’ausilio di granate stordenti nell’edificio in cui i dimostranti pro-palestinesi si erano barricati all’interno del campus della Columbia University, il Prof. Rashid Khalidi si è recato presso uno dei cancelli dell’università per parlare con i dimostranti. Con occhiali da sole da aviatore e un megafono in mano, lo storico sembrava trovarsi nel suo ambiente naturale.
“Quando ero studente, negli anni ’60, politici i cui nomi oggi nessuno ricorda ci dicevano che eravamo guidati da ‘un gruppo di agitatori esterni’. Quando ci opponevamo alla guerra del Vietnam e al razzismo eravamo la coscienza di questa nazione”, ha detto alla folla, aggiungendo: “oggi onoriamo gli studenti che nel 1968 si sono opposti a una guerra genocida, illegale e vergognosa… E un giorno ciò che i nostri studenti hanno fatto qui sarà commemorato allo stesso modo. Sono – ed erano – dalla parte giusta della storia”.
Khalidi è stato descritto come l’intellettuale palestinese più significativo della sua generazione, come il successore di Edward Said e come il più importante storico vivente della Palestina. Il mese scorso si è ritirato dalla Columbia dopo 22 anni, durante i quali ha diretto o codiretto il Journal of Palestinian Studies. Nel suo libro del 2020 “The Hundred Years’ War on Palestine” [La guerra dei cento anni in Palestina, ndt.] ha riassunto il conflitto attraverso sei “dichiarazioni di guerra” ai palestinesi. I lettori israeliani non considererebbero alcuni degli eventi descritti come guerre, ad esempio la Dichiarazione Balfour e gli Accordi di Oslo.
Gli autori delle guerre, Gran Bretagna, Stati Uniti e, soprattutto, Israele, sono descritti come potenti oppressori che hanno ripetutamente calpestato i palestinesi e annullato i loro diritti. Stiamo ancora parlando di palestinesi che “si crogiolano nella loro stessa vittimizzazione” (nelle parole di Khalidi, che è ben consapevole di questa critica, nel libro), o di una diversa prospettiva sull’argomento? A giudicare dalle vendite del libro, il suo messaggio sta incontrando orecchie disposte ad ascoltare. Dopo il 7 ottobre è balzato nella classifica dei best-seller del New York Times e ci è rimasto quasi consecutivamente per un totale di 39 settimane.
Khalidi sostiene che la guerra attuale non è “l’11 settembre israeliano”, né una nuova Nakba. Mentre ognuno di quegli eventi ha segnato una rottura storica, questa guerra fa parte di un continuum. Egli ritiene che nonostante il suo livello anomalo di violenza questa guerra non è un’eccezione nella storia. Al contrario: l’unico modo per comprenderla è nel contesto della guerra in corso qui da un secolo.
Khalidi, 76 anni, è un rampollo di una delle più antiche e rispettate famiglie palestinesi di Gerusalemme. Tra i suoi membri ci sono stati politici, giudici e studiosi, e la sua genealogia può essere fatta risalire al XIV secolo. La famosa biblioteca della famiglia, fondata dal nonno nel 1900 e situata in un edificio mamelucco del XIII secolo nella Città Vecchia di Gerusalemme, adiacente all’Haram al-Sharif (Monte del Tempio), costituisce la più grande collezione privata di manoscritti arabi in Palestina, il più antico dei quali risale a circa mille anni fa. Sulla stessa strada, Chain Gate Street, c’è un altro edificio, che appartiene anch’esso alla famiglia e che avrebbe dovuto ospitare un ampliamento della biblioteca. All’inizio di quest’anno dei coloni ebrei vi hanno fatto irruzione e hanno occupato brevemente il sito.
Khalidi integra i membri della famiglia nella storia che scrive, in alcuni casi attribuendo una vasta influenza alle loro azioni (lo storico israeliano Benny Morris ha definito questo “una specie di nepotismo intellettuale”). Suo zio Husayn al-Khalidi fu sindaco di Gerusalemme per un breve periodo durante il mandato britannico e fu esiliato alle Seychelles in seguito alla rivolta araba del 1936-1939. Nel 1948 suo nonno si rifiutò inizialmente di lasciare la sua casa a Tel a-Rish; la casa è ancora in piedi, alla periferia del quartiere Neve Ofer a Tel Aviv, grazie al fatto che i membri del gruppo proto-sionista Bilu nel 1882 presero in affitto alcune delle stanze dell’edificio, rendendolo un punto di riferimento storico per gli israeliani.
Durante la guerra d’indipendenza Ismail Khalidi, il padre di Rashid, era uno studente di scienze politiche a New York, dove Khalidi nacque nel 1948. Non è l’unico momento in cui la sua biografia si interseca con la storia del conflitto, oggetto della sua ricerca. Insegnava all’Università americana di Beirut quando le forze di difesa israeliane assediarono la città nel 1982. A causa dei suoi legami con l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina i corrispondenti esteri che si occupavano della guerra in Libano spesso lo citavano in forma anonima come “fonte informata”.
A metà settembre, molto tempo dopo un cessate il fuoco mediato dagli americani e la partenza dell’OLP da Beirut, Khalidi osservò con sconcerto “una scena surreale: bengala israeliani che fluttuavano nell’oscurità in completo silenzio, uno dopo l’altro, sulle zone meridionali di Beirut, per quella che sembrava un’eternità“, scrive nel libro. Il giorno dopo si scoprì che i razzi erano destinati a illuminare la strada per le Falangi cristiane verso i campi profughi di Sabra e Shatila.
Dal 1991 al 1993 Khalidi è stato consigliere della delegazione palestinese ai colloqui di pace di Madrid e Washington. Ha elaborato le sue critiche al ruolo svolto dagli Stati Uniti nei negoziati in un libro precedente, “Brokers of Deceit” [Mediatori di inganno, ndt.], nel 2013, sostenendo che lo sforzo diplomatico americano in Medio Oriente aveva solo reso più remota la possibilità di pace.
“Gli americani erano più israeliani degli israeliani”, dice ora. “Se gli israeliani dicono ‘sicurezza’, gli americani si inchinano fino a sbattere la testa a terra. E la forma più estrema di questo è Joe ‘Hasbara’ Biden, che parla come se fosse [il portavoce dell’IDF] Daniel Hagari”, aggiunge, usando la parola ebraica per gli sforzi di diplomazia pubblica israeliana.
Per quanto taglienti possano suonare alle orecchie israeliane le sue critiche agli Stati Uniti e a Israele, Khalidi ha irritato i membri della generazione più giovane e gli attivisti pro-palestinesi più combattivi in Nord America con le sue risposte sfumate agli eventi dal 7 ottobre 2023. “Penso che molti di loro non sarebbero d’accordo con tutte le distinzioni che ho fatto sulla violenza”, dice, aggiungendo: “Non mi interessa”.
All’inizio della guerra l’anno scorso è stato inequivocabile nel dire che l’attacco di Hamas ai civili israeliani è stato un crimine di guerra. “Se un movimento di liberazione dei nativi americani venisse e sparasse con un lanciarazzi nel mio condominio perché vivo su una terra rubata, non sarebbe giustificato”, ha dichiarato al The New Yorker a dicembre dell’anno scorso. “O accetti il diritto umanitario internazionale o non lo accetti”.
Oggi Khalidi è arrabbiato. Le persone che sono state in contatto con lui nei giorni successivi al 7 ottobre hanno detto che era devastato. “Mi ha colpito come colpisce chiunque abbia legami personali”, mi ha detto. “Sono colpito a tutti i livelli.”
Ha parenti a Gerusalemme, nella Striscia di Gaza, in Cisgiordania e a Beirut, così come studenti e molti amici in Israele. Quando gli ho chiesto se era sorpreso dal livello di violenza, si è fermato un attimo a pensare. “Sì, sono rimasto sorpreso dal 7 ottobre”, ha detto, e ha aggiunto, “meno dalla risposta israeliana.”
Durante la nostra conversazione, condotta online tra fine ottobre e metà novembre, emerge l’importanza che attribuisce al mantenimento di un canale aperto con gli israeliani. Da qui anche il suo consenso a essere intervistato. Secondo lui, è un elemento integrante del percorso verso la vittoria.
Cosa direbbe che stia provando la società palestinese in questo momento?
“C’è un grado di dolore e sofferenza che non se ne va, quando si contempla il numero di persone che sono state uccise e il numero di persone le cui vite sono state rovinate per sempre: anche se sopravvivono saranno traumatizzati in modi che non possono essere guariti. Al tempo stesso è già successo prima. Intendo le 19.000 persone uccise in Libano nel 1982: libanesi e palestinesi. È orribile dirlo, ma ci siamo abituati; la società palestinese è assuefatta alla sofferenza e alla perdita. L’abbiamo già sperimentato, ogni generazione.
Non credo che questo mitighi il dolore”, continua. “Certamente non mitiga la rabbia, l’amarezza. Tutti quelli che conosco si svegliano ogni mattina e guardano gli ultimi orrori, e di nuovo prima di andare a letto. Ci accompagna nelle nostre vite ogni giorno, tutto il tempo, anche quando cerchiamo di evitare di pensarci”.
Secondo Khalidi, “gli israeliani vivono in una piccola bolla di falsa coscienza creata per loro dai loro media e dai loro politici e sottovalutano il grado in cui il resto del mondo sa cosa sta realmente accadendo. Il cambiamento nell’opinione pubblica è il risultato del fatto che le persone vedono cosa sta realmente accadendo e reagiscono alla morte dei bambini come farebbero le persone normali. Voi [in Israele] non vedete i bambini morire. A voi israeliani, voi come gruppo, come collettività, non vi è permesso di vederlo.
Oppure la situazione è presentata così: è colpa loro o è a causa di Hamas o degli scudi umani o con qualche altra spiegazione bugiarda”, rileva. “Ma la maggior parte delle persone nel mondo la vede per quello che è. Non hanno bisogno delle bugie di un ammiraglio Hagari che dica loro che quello che vedono non è reale”.
Cosa la ha sorpreso del livello di violenza del 7 ottobre?
“Alla pari dell’intelligence israeliana non pensavo che potesse essere organizzato un attacco così grande. Sa, è come una pentola a pressione. Si continua a fare pressione non solo per decenni ma per generazioni. E prima o poi esploderà. Qualsiasi storico può dirle che la Striscia di Gaza è il luogo dove il nazionalismo palestinese si è maggiormente sviluppato, dove è stato creato un movimento dopo l’altro. La pressione esercitata su quelle persone schiacciate in quell’area, mentre osservano i loro ex villaggi proprio oltre la Linea Verde – qualsiasi storico avrebbe dovuto essere in grado di prevederla. È azione e reazione. Ma non mi aspettavo quel livello.”
Israele ha mai avuto una vera opportunità di uscire da questo ciclo di sangue?
“Penso che questa sia stata la direzione [presa da Israele] in crescendo per la maggior parte di questo secolo. L’ultimo tentativo israeliano, l’ultimo segno di una volontà da parte di un governo israeliano di fare qualcosa di diverso dall’uso della forza, è stato sotto [l’ex Primo Ministro Ehud] Olmert. E non sto suggerendo che quella fosse una rampa di uscita [dal conflitto]. Ma a parte questa eccezione è stato un “muro di ferro” sin da Jabotinsky [il leader revisionista Ze’ev Jabotinsky, che coniò il termine nel 1923]. Forza e ancora forza. Perché state cercando di imporre una realtà alla regione, cercando di costringere le persone ad accettare qualcosa che ha mandato onde d’urto in tutto il Medio Oriente sin dagli anni ’20 e ’30. Intendo dire, se leggiamo la stampa del 1910 in Siria, Egitto e Iraq notiamo che le persone erano preoccupate per il sionismo”.
All’inizio di “The Hundred Years’ War” cita una lettera inviata da un membro della sua famiglia, un affermato studioso di Gerusalemme, a Theodor Herzl, il fondatore del sionismo politico, nel 1899. Scriveva che il sionismo era naturale e giusto: “chi potrebbe contestare il diritto degli ebrei in Palestina?” Ma è abitata da altri, aggiungeva, che non accetteranno mai di essere sostituiti. Pertanto, “In nome di Dio, lasci che la Palestina sia lasciata in pace”.
“Lui lo vedeva chiaramente come io vedo lei oggi. Questa realtà ha causato onde d’urto fin dall’inizio. Negli anni ’30 c’erano volontari che venivano a combattere in Palestina dalla Siria, dal Libano e dall’Egitto; e di nuovo nel 1948. Io lo vedo come un continuum, ma non credo sia possibile vederlo diversamente, francamente. Voi fate finta che la storia sia iniziata il 7 ottobre o il 7 giugno 1967, o il 15 maggio 1948. Ma non è così che funziona la storia”.
Nel suo libro descrive il 2006 come una potenziale soluzione mancata. Sostiene che Hamas ha fatto una sorprendente inversione a U, ha partecipato alle elezioni [dell’Autorità Nazionale Palestinese] con una campagna moderata e ha accettato implicitamente la soluzione dei due Stati. Il “Documento dei prigionieri” di quel periodo, che invitava Hamas e la Jihad islamica a unirsi all’OLP e a concentrare la lotta nei territori oltre la Linea Verde, esprimeva uno spirito simile. Crede che Hamas stesse attraversando una vera trasformazione che avrebbe potuto, in futuro, portare alla fine della violenza?
“Non ho nessuna possibilità di entrare nei cuori e nelle menti della leadership di Hamas. Quello che posso dirle è che all’interno dello spettro di opinioni [tale idea sulla fine della violenza, ndt.] ha avuto una risonanza che penso si rifletta in alcune dichiarazioni di Hamas e tra alcuni dei leader. Ciò si estende, credo, al periodo che precede il Documento dei prigionieri e il governo di coalizione del 2007, e potrebbe anche aver coinvolto [il fondatore di Hamas] Sheikh Ahmed Yassin, che ha parlato di una tregua di cento anni. Rappresentavano tutti? Non so. Cosa avevano nei cuori? Non lo so. Ma sembra che lì ci fosse qualcosa che Israele ha rigorosamente scelto di reprimere”.
Come lo spiega?
“È perfettamente chiaro che nell’intero spettro politico israeliano, da un capo all’altro, non c’è stata alcuna accettazione dell’idea di uno Stato palestinese completamente sovrano, completamente indipendente, che rappresentasse l’autodeterminazione. Per quanto riguarda [Benjamin] Netanyahu è chiaro. Ma persino [il primo ministro Yitzhak] Rabin nel suo ultimo discorso alla Knesset ha detto: “Stiamo offrendo ai palestinesi meno di uno Stato, controlleremo la valle del fiume Giordano”. Cosa significa? Significa una continuazione [dell’occupazione] in una forma modificata. È anche ciò che [l’ex primo ministro Ehud] Barak e Olmert stavano offrendo, con qualche ritocco marginale”.
Nei negoziati tenuti a Taba [2001] e ad Annapolis [2007], si è parlato di sovranità.
“Mi scusi. Uno Stato sovrano non ha il suo registro della popolazione, il suo spazio aereo e le sue risorse idriche controllate da una potenza straniera. Questa non è sovranità. Questo è un Bantustan, è una riserva indiana. Lo può chiamare come vuole, un mini-Stato, un non-Stato, uno Stato parziale o ‘meno di uno Stato’.”
Forse il processo di apertura [alla costituzione di] uno Stato si sarebbe sviluppato più avanti. Il discorso di Rabin fu pronunciato sotto una tremenda pressione politica.
“Forse. Se non avessimo avuto 750 mila coloni, se Rabin non fosse stato assassinato, se i palestinesi fossero stati molto più duri nei negoziati. A Washington [1991-1994], abbiamo detto agli americani che stavamo negoziando su una torta mentre gli israeliani la stavano mangiando portando avanti la colonizzazione attraverso gli insediamenti. ‘Avete promesso che sarebbe stato mantenuto lo status quo, e loro stanno rubando”. E gli americani non hanno fatto nulla. A quel punto avrebbe dovuto essere chiaro che se non avessimo preso una posizione la colonizzazione sarebbe continuata, il controllo della sicurezza e l’occupazione israeliani sarebbero continuati in una forma diversa. Questo è ciò che ha fatto Oslo.
Parte del problema è che i palestinesi hanno accettato le cose orribili che ci sono state offerte a Washington. Hanno dato il 60% della Cisgiordania a Israele sotto forma di Area C. Quelle sono state concessioni dell’OLP, non è colpa di Israele. Nessuna leadership palestinese avrebbe dovuto accettare tali accordi.”
Un suo collega, lo storico israeliano Shlomo Ben Ami, ha spiegato il fallimento dei colloqui di Camp David, nel luglio 2000, come un fallimento della leadership palestinese. In un’intervista del 2001 ha affermato che i palestinesi “non potevano liberarsi dal bisogno di rivendicazione, dalla loro vittimizzazione”; che negoziare con Arafat era come “negoziare con un mito”; e che “i palestinesi non vogliono tanto una soluzione quanto piuttosto mettere Israele sul banco degli imputati”. È possibile che la regione abbia perso un’opportunità storica a causa della leadership di Yasser Arafat?
“Lei vuole farmi cadere tra le ortiche; io voglio sollevarmi e guardare il giardino in putrefazione. [Un] presidente [americano] ha sprecato sette anni e mezzo della sua presidenza prima di portare, un paio di mesi prima di un’elezione, quando non era un’anatra zoppa ma un’anatra morta, la gente a Camp David. Vuoi mediare? Allora fallo entro il limite di tempo stabilito dall’accordo [di Oslo] che hai firmato sul prato della Casa Bianca nel 1993. [Il processo] avrebbe dovuto essere completato entro il 1999. Barak aveva già perso la maggioranza alla Knesset, un’altra anatra morta, o morente.
Per quanto riguarda Arafat, dov’era nel 2000? Ho vissuto a Gerusalemme nei primi anni ’90. Si poteva guidare ovunque con targhe verdi [targhe palestinesi, ndt.] dalla Cisgiordania, alle alture del Golan, a Eilat, a Gaza. C’erano 100.000 lavoratori [palestinesi] in Israele e israeliani che facevano shopping in Cisgiordania. Dal 1999 l’economia palestinese si è impoverita. Permessi, posti di blocco, muri, blocchi, separazione. La popolarità di Arafat è crollata.”
Sta parlando del deterioramento dell’economia palestinese negli anni ’90, ma un altro episodio importante e traumatico per Israele in quel decennio sono stati gli attentati suicidi del 1994-1996, a cui dedica poco spazio nel suo libro.
“La separazione è iniziata prima del primo attentato suicida. L’idea di separazione era centrale nel modo in cui Rabin e [il ministro degli Esteri Shimon] Peres hanno concepito questo [processo] fin dall’inizio. E separazione significava isolare i palestinesi in piccole enclave e separarli dall’economia israeliana. Tutti questi sviluppi erano stati pianificati in anticipo. Il pretesto degli attentati suicidi spiega i dettagli, ma non spiega l’idea”.
Gli attacchi suicidi sono stati un fattore significativo per l’affossamento del processo.
“Ricordi cosa ha preceduto gli attentati suicidi”.
Si riferisce al massacro di fedeli palestinesi a Hebron da parte di Baruch Goldstein, nel febbraio 1994.
“Sì, e alla risposta di Rabin al massacro. Non ha sradicato Kiryat Arba [l’insediamento coloniale urbano adiacente a Hebron], non ha allontanato i coloni da Hebron, non ha punito i colpevoli – ha punito i palestinesi. Poi è diventato chiaro cosa fosse Oslo: un’estensione e un rafforzamento dell’occupazione. E Hamas ne ha approfittato. Hanno visto che l’intero edificio che Arafat ha cercato di vendere ai palestinesi non avrebbe condotto a quanto aveva proclamato. Questo, insieme a tutto il resto che stava accadendo, ha dato loro una gigantesca opportunità. Il peggioramento della situazione dei palestinesi nel corso degli anni ’90 ha dato ad Hamas un‘ enorme credito.
Guardando indietro, dalla guerra del 1973 fino al 1988 l’OLP si è allontanata dal [suo obiettivo dichiarato di] liberazione di tutta la Palestina e dall’uso della violenza. Ciò è riassunto nella dichiarazione del Consiglio Nazionale Palestinese dell’OLP del 1988 ad Algeri. Coloro che si opposero finirono dentro Hamas, il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina e così via.
Come avrebbe potuto trionfare la prima compagine? Dovevano essere in grado di fornire ai loro sostenitori prove tangibili che il loro approccio stava avendo successo. Ma non fornirono nulla alla loro base. Nulla. Una situazione peggiore rispetto ai primi anni Novanta. Quindi, naturalmente, le persone che rifiutano la divisione e insistono sulla lotta armata e sulla completa liberazione troveranno sostegno.
Il punto è che siamo davanti ad un processo dialettico che da parte israeliana è guidato da un’incapacità assoluta di comprendere ciò a cui dover rinunciare. E sembra impossibile per Israele rinunciare a qualcosa: alla terra, alla popolazione e ai registri anagrafici, alla sicurezza, ai ponti, con lo Shabak [servizio di sicurezza dello Shin Bet] che mette il naso da per tutto. Non rinuncerebbero ad alcuna cosa, e questo è più importante dei miti riguardanti ciò a cui Arafat avrebbe o non avrebbe rinunciato.”
(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)