Lo storico palestinese-americano Rashid Khalidi: “Israele ha realizzato per se stesso uno scenario da incubo. Il tempo stringe”(Prima Parte)

Itay Mashiach

30 nov 2024Haaretz

La storia non riguarda Hamas, la religione o il terrorismo. Rashid Khalidi, il principale intellettuale palestinese del nostro tempo, è convinto che gli israeliani semplicemente non comprendano il conflitto, vivendo in una “bolla di falsa coscienza”

(Prima parte)

Il 1° maggio di quest’anno, il giorno dopo che la polizia di New York ha fatto irruzione con l’ausilio di granate stordenti nell’edificio in cui i dimostranti pro-palestinesi si erano barricati all’interno del campus della Columbia University, il Prof. Rashid Khalidi si è recato presso uno dei cancelli dell’università per parlare con i dimostranti. Con occhiali da sole da aviatore e un megafono in mano, lo storico sembrava trovarsi nel suo ambiente naturale.

“Quando ero studente, negli anni ’60, politici i cui nomi oggi nessuno ricorda ci dicevano che eravamo guidati da ‘un gruppo di agitatori esterni’. Quando ci opponevamo alla guerra del Vietnam e al razzismo eravamo la coscienza di questa nazione”, ha detto alla folla, aggiungendo: “oggi onoriamo gli studenti che nel 1968 si sono opposti a una guerra genocida, illegale e vergognosa… E un giorno ciò che i nostri studenti hanno fatto qui sarà commemorato allo stesso modo. Sono – ed erano – dalla parte giusta della storia”.

Khalidi è stato descritto come l’intellettuale palestinese più significativo della sua generazione, come il successore di Edward Said e come il più importante storico vivente della Palestina. Il mese scorso si è ritirato dalla Columbia dopo 22 anni, durante i quali ha diretto o codiretto il Journal of Palestinian Studies. Nel suo libro del 2020 “The Hundred Years’ War on Palestine” [La guerra dei cento anni in Palestina, ndt.] ha riassunto il conflitto attraverso sei “dichiarazioni di guerra” ai palestinesi. I lettori israeliani non considererebbero alcuni degli eventi descritti come guerre, ad esempio la Dichiarazione Balfour e gli Accordi di Oslo.

Gli autori delle guerre, Gran Bretagna, Stati Uniti e, soprattutto, Israele, sono descritti come potenti oppressori che hanno ripetutamente calpestato i palestinesi e annullato i loro diritti. Stiamo ancora parlando di palestinesi che “si crogiolano nella loro stessa vittimizzazione” (nelle parole di Khalidi, che è ben consapevole di questa critica, nel libro), o di una diversa prospettiva sull’argomento? A giudicare dalle vendite del libro, il suo messaggio sta incontrando orecchie disposte ad ascoltare. Dopo il 7 ottobre è balzato nella classifica dei best-seller del New York Times e ci è rimasto quasi consecutivamente per un totale di 39 settimane.

Khalidi sostiene che la guerra attuale non è “l’11 settembre israeliano”, né una nuova Nakba. Mentre ognuno di quegli eventi ha segnato una rottura storica, questa guerra fa parte di un continuum. Egli ritiene che nonostante il suo livello anomalo di violenza questa guerra non è un’eccezione nella storia. Al contrario: l’unico modo per comprenderla è nel contesto della guerra in corso qui da un secolo.

Khalidi, 76 anni, è un rampollo di una delle più antiche e rispettate famiglie palestinesi di Gerusalemme. Tra i suoi membri ci sono stati politici, giudici e studiosi, e la sua genealogia può essere fatta risalire al XIV secolo. La famosa biblioteca della famiglia, fondata dal nonno nel 1900 e situata in un edificio mamelucco del XIII secolo nella Città Vecchia di Gerusalemme, adiacente all’Haram al-Sharif (Monte del Tempio), costituisce la più grande collezione privata di manoscritti arabi in Palestina, il più antico dei quali risale a circa mille anni fa. Sulla stessa strada, Chain Gate Street, c’è un altro edificio, che appartiene anch’esso alla famiglia e che avrebbe dovuto ospitare un ampliamento della biblioteca. All’inizio di quest’anno dei coloni ebrei vi hanno fatto irruzione e hanno occupato brevemente il sito.

Khalidi integra i membri della famiglia nella storia che scrive, in alcuni casi attribuendo una vasta influenza alle loro azioni (lo storico israeliano Benny Morris ha definito questo “una specie di nepotismo intellettuale”). Suo zio Husayn al-Khalidi fu sindaco di Gerusalemme per un breve periodo durante il mandato britannico e fu esiliato alle Seychelles in seguito alla rivolta araba del 1936-1939. Nel 1948 suo nonno si rifiutò inizialmente di lasciare la sua casa a Tel a-Rish; la casa è ancora in piedi, alla periferia del quartiere Neve Ofer a Tel Aviv, grazie al fatto che i membri del gruppo proto-sionista Bilu nel 1882 presero in affitto alcune delle stanze dell’edificio, rendendolo un punto di riferimento storico per gli israeliani.

Durante la guerra d’indipendenza Ismail Khalidi, il padre di Rashid, era uno studente di scienze politiche a New York, dove Khalidi nacque nel 1948. Non è l’unico momento in cui la sua biografia si interseca con la storia del conflitto, oggetto della sua ricerca. Insegnava all’Università americana di Beirut quando le forze di difesa israeliane assediarono la città nel 1982. A causa dei suoi legami con l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina i corrispondenti esteri che si occupavano della guerra in Libano spesso lo citavano in forma anonima come “fonte informata”.

A metà settembre, molto tempo dopo un cessate il fuoco mediato dagli americani e la partenza dell’OLP da Beirut, Khalidi osservò con sconcerto “una scena surreale: bengala israeliani che fluttuavano nell’oscurità in completo silenzio, uno dopo l’altro, sulle zone meridionali di Beirut, per quella che sembrava un’eternità“, scrive nel libro. Il giorno dopo si scoprì che i razzi erano destinati a illuminare la strada per le Falangi cristiane verso i campi profughi di Sabra e Shatila.

Dal 1991 al 1993 Khalidi è stato consigliere della delegazione palestinese ai colloqui di pace di Madrid e Washington. Ha elaborato le sue critiche al ruolo svolto dagli Stati Uniti nei negoziati in un libro precedente, “Brokers of Deceit” [Mediatori di inganno, ndt.], nel 2013, sostenendo che lo sforzo diplomatico americano in Medio Oriente aveva solo reso più remota la possibilità di pace.

“Gli americani erano più israeliani degli israeliani”, dice ora. “Se gli israeliani dicono ‘sicurezza’, gli americani si inchinano fino a sbattere la testa a terra. E la forma più estrema di questo è Joe ‘Hasbara’ Biden, che parla come se fosse [il portavoce dell’IDF] Daniel Hagari”, aggiunge, usando la parola ebraica per gli sforzi di diplomazia pubblica israeliana.

Per quanto taglienti possano suonare alle orecchie israeliane le sue critiche agli Stati Uniti e a Israele, Khalidi ha irritato i membri della generazione più giovane e gli attivisti pro-palestinesi più combattivi in Nord America con le sue risposte sfumate agli eventi dal 7 ottobre 2023. “Penso che molti di loro non sarebbero d’accordo con tutte le distinzioni che ho fatto sulla violenza”, dice, aggiungendo: “Non mi interessa”.

All’inizio della guerra l’anno scorso è stato inequivocabile nel dire che l’attacco di Hamas ai civili israeliani è stato un crimine di guerra. “Se un movimento di liberazione dei nativi americani venisse e sparasse con un lanciarazzi nel mio condominio perché vivo su una terra rubata, non sarebbe giustificato”, ha dichiarato al The New Yorker a dicembre dell’anno scorso. “O accetti il ​​diritto umanitario internazionale o non lo accetti”.

Oggi Khalidi è arrabbiato. Le persone che sono state in contatto con lui nei giorni successivi al 7 ottobre hanno detto che era devastato. “Mi ha colpito come colpisce chiunque abbia legami personali”, mi ha detto. “Sono colpito a tutti i livelli.”

Ha parenti a Gerusalemme, nella Striscia di Gaza, in Cisgiordania e a Beirut, così come studenti e molti amici in Israele. Quando gli ho chiesto se era sorpreso dal livello di violenza, si è fermato un attimo a pensare. “Sì, sono rimasto sorpreso dal 7 ottobre”, ha detto, e ha aggiunto, “meno dalla risposta israeliana.”

Durante la nostra conversazione, condotta online tra fine ottobre e metà novembre, emerge l’importanza che attribuisce al mantenimento di un canale aperto con gli israeliani. Da qui anche il suo consenso a essere intervistato. Secondo lui, è un elemento integrante del percorso verso la vittoria.

Cosa direbbe che stia provando la società palestinese in questo momento?

“C’è un grado di dolore e sofferenza che non se ne va, quando si contempla il numero di persone che sono state uccise e il numero di persone le cui vite sono state rovinate per sempre: anche se sopravvivono saranno traumatizzati in modi che non possono essere guariti. Al tempo stesso è già successo prima. Intendo le 19.000 persone uccise in Libano nel 1982: libanesi e palestinesi. È orribile dirlo, ma ci siamo abituati; la società palestinese è assuefatta alla sofferenza e alla perdita. L’abbiamo già sperimentato, ogni generazione.

Non credo che questo mitighi il dolore”, continua. “Certamente non mitiga la rabbia, l’amarezza. Tutti quelli che conosco si svegliano ogni mattina e guardano gli ultimi orrori, e di nuovo prima di andare a letto. Ci accompagna nelle nostre vite ogni giorno, tutto il tempo, anche quando cerchiamo di evitare di pensarci”.

Secondo Khalidi, “gli israeliani vivono in una piccola bolla di falsa coscienza creata per loro dai loro media e dai loro politici e sottovalutano il grado in cui il resto del mondo sa cosa sta realmente accadendo. Il cambiamento nell’opinione pubblica è il risultato del fatto che le persone vedono cosa sta realmente accadendo e reagiscono alla morte dei bambini come farebbero le persone normali. Voi [in Israele] non vedete i bambini morire. A voi israeliani, voi come gruppo, come collettività, non vi è permesso di vederlo.

Oppure la situazione è presentata così: è colpa loro o è a causa di Hamas o degli scudi umani o con qualche altra spiegazione bugiarda”, rileva. “Ma la maggior parte delle persone nel mondo la vede per quello che è. Non hanno bisogno delle bugie di un ammiraglio Hagari che dica loro che quello che vedono non è reale”.

Cosa la ha sorpreso del livello di violenza del 7 ottobre?

Alla pari dell’intelligence israeliana non pensavo che potesse essere organizzato un attacco così grande. Sa, è come una pentola a pressione. Si continua a fare pressione non solo per decenni ma per generazioni. E prima o poi esploderà. Qualsiasi storico può dirle che la Striscia di Gaza è il luogo dove il nazionalismo palestinese si è maggiormente sviluppato, dove è stato creato un movimento dopo l’altro. La pressione esercitata su quelle persone schiacciate in quell’area, mentre osservano i loro ex villaggi proprio oltre la Linea Verde qualsiasi storico avrebbe dovuto essere in grado di prevederla. È azione e reazione. Ma non mi aspettavo quel livello.”

Israele ha mai avuto una vera opportunità di uscire da questo ciclo di sangue?

“Penso che questa sia stata la direzione [presa da Israele] in crescendo per la maggior parte di questo secolo. L’ultimo tentativo israeliano, l’ultimo segno di una volontà da parte di un governo israeliano di fare qualcosa di diverso dall’uso della forza, è stato sotto [l’ex Primo Ministro Ehud] Olmert. E non sto suggerendo che quella fosse una rampa di uscita [dal conflitto]. Ma a parte questa eccezione è stato un “muro di ferro” sin da Jabotinsky [il leader revisionista Ze’ev Jabotinsky, che coniò il termine nel 1923]. Forza e ancora forza. Perché state cercando di imporre una realtà alla regione, cercando di costringere le persone ad accettare qualcosa che ha mandato onde d’urto in tutto il Medio Oriente sin dagli anni ’20 e ’30. Intendo dire, se leggiamo la stampa del 1910 in Siria, Egitto e Iraq notiamo che le persone erano preoccupate per il sionismo”.

All’inizio di “The Hundred Years’ War” cita una lettera inviata da un membro della sua famiglia, un affermato studioso di Gerusalemme, a Theodor Herzl, il fondatore del sionismo politico, nel 1899. Scriveva che il sionismo era naturale e giusto: “chi potrebbe contestare il diritto degli ebrei in Palestina?” Ma è abitata da altri, aggiungeva, che non accetteranno mai di essere sostituiti. Pertanto, “In nome di Dio, lasci che la Palestina sia lasciata in pace”.

“Lui lo vedeva chiaramente come io vedo lei oggi. Questa realtà ha causato onde d’urto fin dall’inizio. Negli anni ’30 c’erano volontari che venivano a combattere in Palestina dalla Siria, dal Libano e dall’Egitto; e di nuovo nel 1948. Io lo vedo come un continuum, ma non credo sia possibile vederlo diversamente, francamente. Voi fate finta che la storia sia iniziata il 7 ottobre o il 7 giugno 1967, o il 15 maggio 1948. Ma non è così che funziona la storia”.

Nel suo libro descrive il 2006 come una potenziale soluzione mancata. Sostiene che Hamas ha fatto una sorprendente inversione a U, ha partecipato alle elezioni [dell’Autorità Nazionale Palestinese] con una campagna moderata e ha accettato implicitamente la soluzione dei due Stati. Il “Documento dei prigionieri” di quel periodo, che invitava Hamas e la Jihad islamica a unirsi all’OLP e a concentrare la lotta nei territori oltre la Linea Verde, esprimeva uno spirito simile. Crede che Hamas stesse attraversando una vera trasformazione che avrebbe potuto, in futuro, portare alla fine della violenza?

“Non ho nessuna possibilità di entrare nei cuori e nelle menti della leadership di Hamas. Quello che posso dirle è che all’interno dello spettro di opinioni [tale idea sulla fine della violenza, ndt.] ha avuto una risonanza che penso si rifletta in alcune dichiarazioni di Hamas e tra alcuni dei leader. Ciò si estende, credo, al periodo che precede il Documento dei prigionieri e il governo di coalizione del 2007, e potrebbe anche aver coinvolto [il fondatore di Hamas] Sheikh Ahmed Yassin, che ha parlato di una tregua di cento anni. Rappresentavano tutti? Non so. Cosa avevano nei cuori? Non lo so. Ma sembra che lì ci fosse qualcosa che Israele ha rigorosamente scelto di reprimere”.

Come lo spiega?

È perfettamente chiaro che nell’intero spettro politico israeliano, da un capo all’altro, non c’è stata alcuna accettazione dell’idea di uno Stato palestinese completamente sovrano, completamente indipendente, che rappresentasse l’autodeterminazione. Per quanto riguarda [Benjamin] Netanyahu è chiaro. Ma persino [il primo ministro Yitzhak] Rabin nel suo ultimo discorso alla Knesset ha detto: “Stiamo offrendo ai palestinesi meno di uno Stato, controlleremo la valle del fiume Giordano”. Cosa significa? Significa una continuazione [dell’occupazione] in una forma modificata. È anche ciò che [l’ex primo ministro Ehud] Barak e Olmert stavano offrendo, con qualche ritocco marginale”.

Nei negoziati tenuti a Taba [2001] e ad Annapolis [2007], si è parlato di sovranità.

“Mi scusi. Uno Stato sovrano non ha il suo registro della popolazione, il suo spazio aereo e le sue risorse idriche controllate da una potenza straniera. Questa non è sovranità. Questo è un Bantustan, è una riserva indiana. Lo può chiamare come vuole, un mini-Stato, un non-Stato, uno Stato parziale o ‘meno di uno Stato’.”

Forse il processo di apertura [alla costituzione di] uno Stato si sarebbe sviluppato più avanti. Il discorso di Rabin fu pronunciato sotto una tremenda pressione politica.

“Forse. Se non avessimo avuto 750 mila coloni, se Rabin non fosse stato assassinato, se i palestinesi fossero stati molto più duri nei negoziati. A Washington [1991-1994], abbiamo detto agli americani che stavamo negoziando su una torta mentre gli israeliani la stavano mangiando portando avanti la colonizzazione attraverso gli insediamenti. ‘Avete promesso che sarebbe stato mantenuto lo status quo, e loro stanno rubando”. E gli americani non hanno fatto nulla. A quel punto avrebbe dovuto essere chiaro che se non avessimo preso una posizione la colonizzazione sarebbe continuata, il controllo della sicurezza e l’occupazione israeliani sarebbero continuati in una forma diversa. Questo è ciò che ha fatto Oslo.

Parte del problema è che i palestinesi hanno accettato le cose orribili che ci sono state offerte a Washington. Hanno dato il 60% della Cisgiordania a Israele sotto forma di Area C. Quelle sono state concessioni dell’OLP, non è colpa di Israele. Nessuna leadership palestinese avrebbe dovuto accettare tali accordi.”

Un suo collega, lo storico israeliano Shlomo Ben Ami, ha spiegato il fallimento dei colloqui di Camp David, nel luglio 2000, come un fallimento della leadership palestinese. In un’intervista del 2001 ha affermato che i palestinesi “non potevano liberarsi dal bisogno di rivendicazione, dalla loro vittimizzazione”; che negoziare con Arafat era come “negoziare con un mito”; e che “i palestinesi non vogliono tanto una soluzione quanto piuttosto mettere Israele sul banco degli imputati”. È possibile che la regione abbia perso un’opportunità storica a causa della leadership di Yasser Arafat?

“Lei vuole farmi cadere tra le ortiche; io voglio sollevarmi e guardare il giardino in putrefazione. [Un] presidente [americano] ha sprecato sette anni e mezzo della sua presidenza prima di portare, un paio di mesi prima di un’elezione, quando non era un’anatra zoppa ma un’anatra morta, la gente a Camp David. Vuoi mediare? Allora fallo entro il limite di tempo stabilito dall’accordo [di Oslo] che hai firmato sul prato della Casa Bianca nel 1993. [Il processo] avrebbe dovuto essere completato entro il 1999. Barak aveva già perso la maggioranza alla Knesset, un’altra anatra morta, o morente.

Per quanto riguarda Arafat, dov’era nel 2000? Ho vissuto a Gerusalemme nei primi anni ’90. Si poteva guidare ovunque con targhe verdi [targhe palestinesi, ndt.] dalla Cisgiordania, alle alture del Golan, a Eilat, a Gaza. C’erano 100.000 lavoratori [palestinesi] in Israele e israeliani che facevano shopping in Cisgiordania. Dal 1999 l’economia palestinese si è impoverita. Permessi, posti di blocco, muri, blocchi, separazione. La popolarità di Arafat è crollata.”

Sta parlando del deterioramento dell’economia palestinese negli anni ’90, ma un altro episodio importante e traumatico per Israele in quel decennio sono stati gli attentati suicidi del 1994-1996, a cui dedica poco spazio nel suo libro.

“La separazione è iniziata prima del primo attentato suicida. L’idea di separazione era centrale nel modo in cui Rabin e [il ministro degli Esteri Shimon] Peres hanno concepito questo [processo] fin dall’inizio. E separazione significava isolare i palestinesi in piccole enclave e separarli dall’economia israeliana. Tutti questi sviluppi erano stati pianificati in anticipo. Il pretesto degli attentati suicidi spiega i dettagli, ma non spiega l’idea”.

Gli attacchi suicidi sono stati un fattore significativo per l’affossamento del processo.

“Ricordi cosa ha preceduto gli attentati suicidi”.

Si riferisce al massacro di fedeli palestinesi a Hebron da parte di Baruch Goldstein, nel febbraio 1994.

“Sì, e alla risposta di Rabin al massacro. Non ha sradicato Kiryat Arba [l’insediamento coloniale urbano adiacente a Hebron], non ha allontanato i coloni da Hebron, non ha punito i colpevoli – ha punito i palestinesi. Poi è diventato chiaro cosa fosse Oslo: un’estensione e un rafforzamento dell’occupazione. E Hamas ne ha approfittato. Hanno visto che l’intero edificio che Arafat ha cercato di vendere ai palestinesi non avrebbe condotto a quanto aveva proclamato. Questo, insieme a tutto il resto che stava accadendo, ha dato loro una gigantesca opportunità. Il peggioramento della situazione dei palestinesi nel corso degli anni ’90 ha dato ad Hamas un enorme credito.

Guardando indietro, dalla guerra del 1973 fino al 1988 l’OLP si è allontanata dal [suo obiettivo dichiarato di] liberazione di tutta la Palestina e dall’uso della violenza. Ciò è riassunto nella dichiarazione del Consiglio Nazionale Palestinese dell’OLP del 1988 ad Algeri. Coloro che si opposero finirono dentro Hamas, il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina e così via.

Come avrebbe potuto trionfare la prima compagine? Dovevano essere in grado di fornire ai loro sostenitori prove tangibili che il loro approccio stava avendo successo. Ma non fornirono nulla alla loro base. Nulla. Una situazione peggiore rispetto ai primi anni Novanta. Quindi, naturalmente, le persone che rifiutano la divisione e insistono sulla lotta armata e sulla completa liberazione troveranno sostegno.

Il punto è che siamo davanti ad un processo dialettico che da parte israeliana è guidato da un’incapacità assoluta di comprendere ciò a cui dover rinunciare. E sembra impossibile per Israele rinunciare a qualcosa: alla terra, alla popolazione e ai registri anagrafici, alla sicurezza, ai ponti, con lo Shabak [servizio di sicurezza dello Shin Bet] che mette il naso da per tutto. Non rinuncerebbero ad alcuna cosa, e questo è più importante dei miti riguardanti ciò a cui Arafat avrebbe o non avrebbe rinunciato.”

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Il mio intervento al dibattito dell’Oxford Union*

Susan Abulhawa

5 dicembre 2024, X ex Twitter

Non risponderò alle domande finché non avrò finito di parlare, quindi, per favore, astenetevi dall’interrompermi.

Al Congresso Mondiale Sionista del 1921 Chaim Weizman, un ebreo russo, in merito al problema di cosa fare degli abitanti indigeni del territorio, disse che i palestinesi erano simili alle “rocce della Giudea, ostacoli che devono essere eliminati come su un difficile sentiero”.

David Gruen, un ebreo polacco che cambiò il suo nome in David Ben Gurion per sembrare appartenere alla regione disse: “Dobbiamo espellere gli arabi e prendere il loro posto”.

Ci sono migliaia di conversazioni di questo tipo tra i primi sionisti che pianificarono e attuarono la colonizzazione violenta della Palestina e l’annientamento del suo popolo nativo. Ma ci riuscirono solo in parte, assassinando o epurando etnicamente l’80% dei palestinesi, il che significa che il 20% di noi è rimasto, un ostacolo resistente alle loro fantasie coloniali che divenne oggetto delle loro ossessioni nei decenni successivi, soprattutto dopo aver conquistato ciò che restava della Palestina nel 1967.

I sionisti si lamentano della nostra presenza e dibattono pubblicamente in tutti i circoli (politici, accademici, sociali, culturali) cosa fare di noi, cosa fare del tasso di natalità palestinese, dei nostri bambini che loro definiscono una minaccia demografica.

Benny Morris, che originariamente avrebbe dovuto essere qui, una volta espresse rammarico per il fatto che Ben Gurion “non avesse finito il lavoro” di sbarazzarsi di tutti noi, il che avrebbe evitato quello che loro chiamano il “problema arabo”. Benjamin Netanyahu, un ebreo polacco il cui vero nome è Benjamin Mileikowsky, una volta si lamentò dell’occasione mancata, durante la rivolta di piazza Tienanmen del 1989, di espellere ampie fasce della popolazione palestinese “mentre l’attenzione mondiale era concentrata sulla Cina”.

Alcune delle loro argomentate soluzioni per il fastidio provocato dalla nostra esistenza includono la politica di “rompergli le ossa” negli anni ’80 e ’90, ordinata da Yitzhak Rubitzov, ebreo ucraino che cambiò il suo nome in Yitzhak Rabin (per le stesse ragioni).

Quella politica orribile che ha reso disabili generazioni di palestinesi non è riuscita a farci andare via. E, frustrati dalla resilienza palestinese, è emerso un nuovo discorso, soprattutto dopo che un enorme giacimento di gas naturale è stato scoperto al largo della costa settentrionale di Gaza del valore di trilioni di dollari.

Questo nuovo discorso è riecheggiato nelle parole del colonnello Efraim Eitan, che nel 2004 ha affermato: “dobbiamo ucciderli tutti”. Aaron Sofer, un cosiddetto consigliere intellettuale e politico israeliano, ha insistito nel 2018 sul fatto che “dobbiamo uccidere, uccidere e uccidere. Tutto il giorno, tutti i giorni”.

Quando ero a Gaza ho visto un bambino di non più di 9 anni le cui mani e parte del viso erano state spazzate via da una scatola di cibo esplosiva che i soldati avevano lasciato per i bambini affamati di Gaza. In seguito ho scoperto che avevano anche lasciato cibo avvelenato per le persone a Shujaiyya e che negli anni ’80 e ’90 i soldati israeliani avevano lasciato giocattoli esplosivi nel Libano meridionale che esplodevano quando i bambini emozionati li raccoglievano.

Il danno che fanno è diabolico e tuttavia si aspettano che si creda che le vittime sono loro. Invocando l’olocausto europeo e urlando all’antisemitismo si aspettano una sospensione della basilare ragione umana per credere che il cecchinaggio quotidiano dei bambini con i cosiddetti “colpi per uccidere” e il bombardamento di interi quartieri che seppelliscono vive le famiglie e spazzano via intere stirpi di parentela sia autodifesa.

Vogliono farti credere che un uomo che non mangia niente da oltre 72 ore, che continua a combattere anche quando ha solo un braccio funzionante, che quest’uomo è motivato da una ferocia innata e da un odio o una gelosia irrazionale verso gli ebrei piuttosto che dall’indomabile desiderio di vedere il suo popolo libero nella propria patria.

Per me è chiaro che non siamo qui per discutere se Israele sia uno Stato di apartheid o genocida. Questo dibattito riguarda in ultima analisi il valore delle vite palestinesi, il valore delle nostre scuole, dei nostri centri di ricerca, dei nostri libri, della nostra arte e dei nostri sogni, il valore delle case che abbiamo costruito per tutta la vita e che contengono i ricordi di generazioni, il valore della nostra umanità e della nostra capacità di agire, il valore dei corpi e delle ambizioni.

Perché se i ruoli fossero invertiti, se i palestinesi avessero trascorso gli ultimi ottant’anni a rubare le case degli ebrei, espellendoli, opprimendoli, imprigionandoli, avvelenandoli, torturandoli, violentandoli e uccidendoli,

se i palestinesi avessero ucciso circa 300.000 ebrei in un anno, preso di mira i loro giornalisti, i loro pensatori, i loro operatori sanitari, i loro atleti, i loro artisti, bombardato ogni ospedale, università, biblioteca, museo, centro culturale, sinagoga israeliano e contemporaneamente allestito una piattaforma di osservazione dove la gente veniva a guardare il loro massacro come se fosse un’attrazione turistica,

se i palestinesi li avessero radunati a centinaia di migliaia in fragili tende, bombardati in zone cosiddette sicure, bruciati vivi, bloccato cibo, acqua e medicine,

se i palestinesi avessero fatto vagare i bambini ebrei a piedi nudi con pentole vuote, se avessero fatto loro raccogliere la carne dei loro genitori in sacchetti di plastica,

se avessero fatto loro seppellire i loro fratelli e cugini e amici, li avessero fatti uscire di nascosto dalle loro tende nel cuore della notte per dormire sulle tombe dei loro genitori, li avessero fatti pregare di morire solo per unirsi alle loro famiglie e non essere più soli in questo mondo terribile, e li avessero terrorizzati così tanto che i loro bambini avessero perso i capelli, perso la memoria, perso la testa e fatto morire di infarto bambini di 4 e 5 anni, se costringessimo senza pietà i loro bambini ricoverati in terapia intensiva neonatale a morire da soli nei letti d’ospedale piangendo fino a non poterne più, morendo e decomponendosi nello stesso posto,

se i palestinesi avessero usato camion di aiuti con farina di grano per attirare ebrei affamati e poi avessero aperto il fuoco su di loro quando si erano radunati per raccogliere pane per un giorno, se i palestinesi avessero finalmente permesso una consegna di cibo in un rifugio con ebrei affamati e poi avessero dato fuoco all’intero rifugio e al camion degli aiuti prima che qualcuno potesse assaggiare il cibo,

se un cecchino palestinese si fosse vantato di aver fatto saltare 42 rotule di ebrei in un giorno come ha fatto un soldato israeliano nel 2019, se un palestinese avesse ammesso alla CNN di aver investito centinaia di ebrei con il suo carro armato con la loro carne schiacciata impigliata nei cingoli del carro armato,

se i palestinesi avessero sistematicamente violentato dottori ebrei, pazienti e altri prigionieri con barre di metallo rovente, bastoni seghettati ed elettrificati ed estintori, a volte violentandoli a morte, come è successo al dottor Adnan alBursh e ad altri, se le donne ebree fossero state costrette a partorire nella sporcizia, a subire tagli cesarei o amputazioni di gambe senza anestesia, se avessimo abbattuto i loro bambini e poi decorato i nostri carri armati con i loro giocattoli, se uccidessimo o cacciassimo le loro donne e poi posassimo con la loro lingerie…

se il mondo guardasse in diretta streaming l’annientamento sistematico degli ebrei in tempo reale non ci sarebbe alcun dibattito se ciò costituisca terrorismo o genocidio.

Eppure due palestinesi, io e Mohammad el-Kurd, ci siamo presentati qui per fare proprio questo sopportando l’umiliazione di discutere con coloro che pensano che le nostre uniche scelte di vita dovrebbero essere quella di lasciare la nostra patria, sottometterci alla loro supremazia o morire educatamente e in silenzio.

Ma sbagliereste a pensare che io sia venuta per convincervi di qualcosa. La risoluzione della Camera [vedi nota sotto il titolo], sebbene ben intenzionata e apprezzabile, ha poca importanza nel mezzo di questo olocausto del nostro tempo.

Sono venuta con lo spirito di Malcolm X e Jimmy Baldwin, entrambi presenti qui e a Cambridge prima che io nascessi, di fronte a mostri ben vestiti e ben parlanti che nutrivano le stesse ideologie suprematiste del sionismo: nozioni di diritto e privilegio, di essere favoriti, benedetti o eletti da Dio.

Sono qui per amore della storia. Per parlare a generazioni non ancora nate e per le cronache di questo periodo fuori dall’ordinario in cui il bombardamento a tappeto di società indigene indifese è legittimato.

Sono qui per le mie nonne, entrambe morte come profughe senza un soldo mentre ebrei stranieri vivevano nelle loro case rubate.

E sono anche venuta per parlare direttamente ai sionisti qui e ovunque.

Vi abbiamo fatto entrare nelle nostre case quando i vostri paesi hanno cercato di assassinarvi e tutti gli altri vi hanno respinto. Vi abbiamo nutrito e vestito, vi abbiamo dato un riparo e abbiamo condiviso con voi la generosità della nostra terra, e quando il momento è stato maturo ci avete cacciati dalle nostre case e dalla nostra patria, poi avete ucciso, derubato, bruciato e saccheggiato le nostre vite.

Ci avete lacerato il cuore perché è chiaro che non sapete come vivere nel mondo senza dominare gli altri.

Avete oltrepassato tutti i limiti e nutrito i più vili degli impulsi umani, ma il mondo sta finalmente intravedendo il terrore che abbiamo sopportato per mano vostra per così tanto tempo e sta vedendo chi siete in realtà, chi siete sempre stati. Osservano con assoluto stupore il sadismo, la felicità, la gioia e il piacere con cui conducete, osservate e applaudite i dettagli quotidiani della distruzione dei nostri corpi, delle nostre menti, del nostro futuro, del nostro passato.

Ma non importa cosa accadrà da qui in poi, non importa quali favole raccontate a voi stessi e al mondo, non apparterrete mai veramente a quella terra. Non capirete mai la sacralità degli ulivi, che avete tagliato e bruciato per decenni solo per farci dispetto e per spezzarci un po’ di più il cuore. Nessuno nativo di quella terra oserebbe fare una cosa del genere agli ulivi. Nessuno che appartenga a quella regione bombarderebbe o distruggerebbe mai un’eredità antica come Baalbak o Battir, o distruggerebbe antichi cimiteri come voi distruggete i nostri, come il cimitero anglicano a Gerusalemme o il luogo di riposo degli antichi studiosi e guerrieri musulmani a Maamanillah.

Coloro che provengono da quella terra non profanano i morti, ecco perché la mia famiglia per secoli è stata custode del cimitero ebraico sul Monte degli Ulivi, come atto di fede e cura per ciò che sappiamo essere parte della nostra discendenza e della nostra storia.

I vostri antenati saranno sempre sepolti nelle vostre terre d’origine, in Polonia, Ucraina e altrove nel mondo da cui siete venuti. Il mito e il folklore della terra vi saranno sempre estranei.

Non sarete mai alfabetizzati al linguaggio sartoriale dei thobe che indossiamo, derivato dalla terra attraverso le nostre antenate nel corso dei secoli: ogni motivo, disegno e modello parla dei segreti della tradizione locale, della flora, degli uccelli, dei fiumi e della fauna selvatica.

Ciò che i vostri agenti immobiliari chiamano nei loro costosi annunci “vecchia casa araba” conterrà sempre nelle sue pietre le storie e i ricordi dei nostri antenati che le hanno costruite. Le antiche foto e i dipinti di quella terra non vi conterranno mai.

Non saprete mai cosa si prova a essere amati e sostenuti da coloro che non hanno nulla da guadagnare da te e, in effetti, tutto da perdere. Non conoscerete mai la sensazione delle masse in tutto il mondo che si riversano nelle strade e negli stadi per cantare e inneggiare alla vostra libertà, e non è perché siete ebrei, come cercate di far credere al mondo, ma perché siete dei colonizzatori violenti e depravati che pensano che la vostra ebraicità vi dia diritto alla casa che mio nonno e i suoi fratelli hanno costruito con le loro mani su terre che sono state della nostra famiglia per secoli. È perché il sionismo è una piaga per l’ebraismo e in effetti per l’umanità.

Potete cambiare i vostri nomi per farli suonare più attinenti alla regione e potete fingere che falafel, hummus e zaatar siano vostre antiche ricette, ma nei recessi del vostro essere sentirete sempre il pungiglione di questa pazzesca falsificazione e furto, ecco perché persino i disegni dei nostri figli appesi alle pareti dell’ONU o in un reparto di ospedale mandano i vostri leader e avvocati in crisi isteriche.

Non ci cancellerete, non importa quanti di noi ucciderete e ucciderete e ucciderete, tutto il giorno, tutti i giorni. Non siamo le rocce che Chaim Weizmann pensava avreste potuto spazzare via dalla terra. Siamo il suo stesso suolo. Noi siamo i suoi fiumi, i suoi alberi e le sue storie, perché tutto ciò è stato nutrito dai nostri corpi e dalle nostre vite nel corso di millenni di continua e ininterrotta abitazione di quel pezzo di terra tra il Giordano e le acque del Mediterraneo, dai nostri antenati cananei, ebrei, filistei e fenici, da ogni conquistatore o pellegrino che è venuto e se n’è andato, che si è sposato o ha violentato, amato, ridotto in schiavitù, si è convertito, insediato o ha pregato nella nostra terra lasciando pezzi di sé nei nostri corpi e nella nostra eredità.

Le storie leggendarie e tumultuose di quella terra sono letteralmente nel nostro DNA. Non potete ucciderlo o portarvelo via con la propaganda, non importa quale tecnologia di morte usate o quali arsenali di Hollywood e società di media schierate. Un giorno la vostra impunità e arroganza finiranno. La Palestina sarà libera, sarà restaurata alla sua gloria multireligiosa, multietnica e pluralistica, ripristineremo ed estenderemo i treni che vanno dal Cairo a Gaza, a Gerusalemme, Haifa, Tripoli, Beirut, Damasco, Amman, Kuwait, Sanaa e così via, porremo fine alla macchina da guerra sionista-americana di dominazione, espansione, estrazione, inquinamento e saccheggio.

… e voi o ve ne andrete, o imparerete finalmente a vivere con gli altri come pari.

*[antica e prestigiosa associazione universitaria britannica indipendente il 28 novembre ha votato che “Israele è uno stato di apartheid responsabile di genocidio”, n.d.t.]

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




I soldati israeliani aggrediscono sessualmente le donne palestinesi da decenni. Ora le donne denunciano apertamente

Dania Akkad

3 dicembre 2024 Middle East Eye

 

Le ricercatrici che documentano le violenze contro le donne palestinesi dicono che dal 7 ottobre i soldati israeliani ne hanno attaccate così tante che il silenzio che in passato copriva le aggressioni è stato infranto

È da 75 anni che le donne palestinesi sono aggredite sessualmente dai soldati israeliani, ma le ricercatrici affermano che appena ora stanno iniziando a parlare delle loro esperienze, poiché gli episodi sono aumentati dopo l’attacco del 7 ottobre. I casi sono molto simili, nonostante si siano verificati in luoghi diversi e abbiano coinvolto diversi rami dell’esercito e della polizia israeliani, tanto che chi li documenta sospetta che sia stata impartita una direttiva. “Si apprende che queste donne vengono abusate sessualmente, perquisite e picchiate sui genitali in Cisgiordania, a Gerusalemme e a Gaza presso diversi organi del sistema israeliano ma in sostanza aggredite sessualmente nello stesso modo”, ha detto Kefaya Khraim a Middle East Eye.

Non è sempre successo che Khraim e la sua collega Amal Abusrour, che lavorano entrambe al Women’s Centre for Legal Aid and Counselling [WCLAC, centro di assistenza legale e consulenza per le donne, ong palestinese ndt.] di Ramallah, sentissero così tante storie; ne hanno parlato a lungo con MEE durante una recente visita a Londra.

Per decenni molte donne palestinesi hanno tenuto per sé la violenza sessuale subita da parte dei soldati israeliani, senza nemmeno confidarla agli amici più cari o ai familiari,

In parte per vergogna o paura di essere disonorate, a volte per mancanza di consapevolezza che ciò che era accaduto fosse un’aggressione sessuale.

Ma anche, ha detto Khraim, perché le donne palestinesi “si aspettano davvero di tutto dai soldati israeliani”.

Khraim ha riferito che una donna, la cui casa era stata invasa dai soldati israeliani che l’hanno costretta a spogliarsi nuda, le ha detto: “Oh, la soldatessa è stata così gentile con me. Mi ha lasciata spogliare con la porta chiusa”.

“Quindi questo è ciò che si aspettano. Si aspettano una tale umiliazione e così tanta violenza che quando succede qualcosa del genere non ne parlano”.

Ma il numero di donne che hanno subito violenza sessuale dopo l’attacco del 7 ottobre ha rappresentato un punto di svolta.

In un rapporto pubblicato a giugno, la Commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite sui territori palestinesi occupati ha fornito dettagli sul genere di aggressioni che ha scoperto erano state commesse dai soldati israeliani contro le donne palestinesi dopo l’attacco di Hamas, tra cui essere forzate a spogliarsi e stare nude in pubblico, torture e abusi sessuali e umiliazioni e molestie sessuali.

La commissione ha inoltre affermato di aver scoperto che la violenza sessuale “è stata perpetrata in tutti i territori palestinesi occupati”.

Khraim ha affermato: “Sta accadendo spessissimo. Sta accadendo a ogni donna”.

Mercoledì pomeriggio i parlamentari britannici erano in procinto di discutere la questione in un dibattito centrato sulla violenza sessuale e di genere contro i palestinesi.

La parlamentare laburista Abtisam Mohamed ha affermato di aver richiesto il dibattito dopo aver ascoltato le strazianti testimonianze che Khraim e Abusrour avevano rilasciato in ottobre ai parlamentari.

“La violenza sessuale e di genere è stata ampiamente trascurata nei resoconti del conflitto dopo il 7 ottobre 2023. Volevo che si tenesse il dibattito perché volevo aumentare la consapevolezza e garantire che ci fosse giustizia e l’obbligo di rispondere per i crimini commessi”, ha detto Mohamed a MEE.

“Il diritto penale internazionale deve essere sostenuto senza timore o condiscendenza e deve esserci coerenza nella sua applicazione. Nessuno Stato, gruppo o individuo è al di sopra della legge”.

Eva Tabbasam, direttrice di Gender Action for Peace and Security, la rete della società civile britannica Women, Peace and Security di cui WCLAC è partner, ha affermato che le segnalazioni di violenza sessuale per mano di soldati israeliani sono orribili, ma non una novità e “stanno aumentando a un ritmo allarmante”.

“Un’indagine indipendente e imparziale su tutte le segnalazioni di violenza sessuale in Palestina è fondamentale. Tutte le sopravvissute meritano la dignità della giustizia e dell’assunzione di colpa”, ha affermato Tabbasam.

“Ciò richiede che tutti gli Stati, in particolare il Regno Unito in quanto capofila di Women Peace and Security e leader nella prevenzione della violenza sessuale nei conflitti, sostengano con fermezza il diritto internazionale, ne promuovano un’applicazione coerente e garantiscano che i colpevoli rendano conto”.

Modelli di abusi”

Dall’attacco del 7 ottobre Israele ha “perseguito modelli sistematici di abusi, prendendo di mira i palestinesi in generale e le donne in particolare”, ha affermato Abusrour.

“Israele comprende bene la cultura esistente e come sia un punto sensibile prendere di mira le donne e violare i diritti delle donne e persino esibire le donne. Israele ha utilizzato questo approccio per imporre un marchio sociale di vergogna sulla società palestinese e sulle donne palestinesi in particolare”.

Solo in Cisgiordania più di 200 donne palestinesi, tra cui difensore dei diritti umani e giornaliste, sono state arrestate e detenute dopo l’attacco del 7 ottobre.

Una delle donne, la giornalista palestinese Lama Khater, dopo la sua liberazione ha parlato pubblicamente, raccontando del duro trattamento e delle condizioni che ha subito, e di essere stata perquisita e minacciata di stupro.

“È stata una delle donne più coraggiose che si è fatta avanti e ha parlato della sua esperienza”, ha detto Khraim. “Ne ha parlato pubblicamente e ha aperto la strada ad altre donne”. Almeno 20 delle donne detenute in Cisgiordania hanno condiviso i loro racconti con WCLAC. Tutte hanno detto di essere state perquisite a corpo nudo più volte al giorno l’una di fronte all’altra e picchiate sui genitali. A Gerusalemme, Khraim e Abusrour hanno sentito un racconto simile da Selma, uno pseudonimo che usano per proteggere la sua identità. La venticinquenne si stava dirigendo al lavoro in un asilo nido a Gerusalemme quando è stata fermata da un soldato israeliano a Bab al-Zahra, una delle porte che conducono alla Città Vecchia.

Il soldato voleva sapere perché fosse vestita di verde. “Non sono affari tuoi”, ha risposto Selma.

“Per questo è stata portata in una stazione di polizia per quattro ore, spogliata nuda e picchiata ripetutamente sui genitali mentre le telecamere registravano”, ha detto Khraim.

“Stiamo parlando di aggressioni sessuali di massa. Stiamo parlando di donne che si fanno coraggio ora che vedono che sta succedendo a tutte”, ha detto Khraim.

“In un certo senso si sentono più forti perché ora sono tante”.

Il pericolo di parlare apertamente

Ma non sono solo organizzazioni come la loro a documentare questi casi, ha detto Abusrour.

“I soldati israeliani in realtà diffondono video, filmati sui social media, su TikTok, dicendo con orgoglio di aver aggredito sessualmente donne palestinesi o di averle derubate”, ha detto.

Al contrario, le donne palestinesi che sono pronte a condividere le loro storie potrebbero incontrare difficoltà nel diffonderle.

Nel luglio 2023, ad esempio, B’Tselem ha documentato un caso in cui i soldati israeliani hanno invaso una casa a Hebron e, sotto la minaccia di cani di grossa taglia e armi da fuoco, hanno costretto cinque donne, tra cui una diciassettenne, a spogliarsi completamente di fronte ai loro familiari e ai soldati.

Quando l’incidente è stato riportato dai media è diventato virale, perché le discussioni pubbliche sulle aggressioni sessuali sono abbastanza rare.

I rappresentanti dei gruppi per i diritti umani stavano discutendo del caso su una stazione radio pubblica quando un locale capo tribale è intervenuto in onda e li ha attaccati per aver attirato l’attenzione su quanto era accaduto.

“Dal suo punto di vista ripetere e denunciare quell’incidente è stato molto duro per la famiglia e opprimente per quelle donne”, ha detto Abusrour.

“Questo dimostra quale marchio sociale sia associato alla violenza sessuale. E dimostra anche che la violenza sessuale contro le donne palestinesi non è iniziata il 7 ottobre. È iniziata molto prima”.

Oltre allo stigma sociale, le donne palestinesi che sono state aggredite sessualmente hanno detto a WCLAC di aver dovuto affrontare ulteriori minacce da parte dei soldati israeliani dopo quanto loro accaduto.

Ci sono in particolare due capitani che sono noti per chiamare le donne al telefono. “Continuano a chiamare regolarmente queste donne sui loro telefoni, dicendo loro di non parlare con i media e di non raccontare le loro storie”, ha detto Khraim.

Una donna di nome Khulood ha detto a WCLAC di essere stata rapita con il marito dal campo profughi di Balata nella città di Nablus in Cisgiordania e di essere stata violentata di fronte a lui nel tentativo di costringerla a parlare.

“Khulood si è rivolta ai media e ha parlato della sua esperienza ma non dell’aggressione sessuale che ha subito”, ha detto Khraim. Dopo, uno dei capitani l’ha chiamata.

“‘Se parli di nuovo con i media ti riprendiamo'”, ha detto Khulood di essere stata minacciata.

Lasciare la scuola, sposarsi presto

L’impatto delle violenze sessuali sulle donne palestinesi va oltre gli atti in sé e le loro vittime immediate.

La semplice possibilità di essere aggredite sessualmente a un posto di blocco significa che per molte donne e ragazze palestinesi andare a scuola, al lavoro o a casa (cose controllate per tutti i palestinesi che vivono sotto occupazione) comporta un ulteriore livello di rischio e di peso.

Una donna, il cui caso è stato documentato da WCLAC, è stata perquisita a un posto di blocco da un soldato israeliano che si è poi spostato in uno spazio particolare, lontano da un’evidente telecamera di sorveglianza.

Ha tirato fuori il pene e le ha detto di guardarlo e toccarlo, ha riferito la donna.

Khraim e Abusrour hanno documentato altri casi di donne che hanno riferito di essere state perquisite ai posti di blocco, esposte in pubblico e fotografate nude.

Ma anche per donne e ragazze che non sono state aggredite il rischio di tali incidenti ha delle conseguenze.

Nella parte meridionale di Hebron, Abusrour ha detto che WCLAC ha visto casi di ragazze che hanno abbandonato la scuola e famiglie che le hanno date in sposa in giovane età.

“La ragione principale di questo non è che le famiglie pensino che le ragazze debbano essere date in sposa in giovane età ma è per paura, perché quelle famiglie vogliono davvero una vita migliore per le loro figlie e vogliono che le loro figlie vivano in un posto migliore”, ha detto Abusrour.

“Abbiamo incontrato quelle ragazze e famiglie e ci siamo resi conto che quelle ragazze… tendono a smettere di andare a scuola durante il loro ciclo mestruale semplicemente perché, ai posti di blocco, vengono perquisite da soldati maschi”.

Sempre nell’area di Hebron Abusrour ha detto di aver incontrato donne incinte che “hanno riferito che la gravidanza è una specie di incubo”.

“Invece di essere nove mesi di gioia, aspettando il tuo bambino, è un incubo per loro semplicemente perché non sanno quando saranno in travaglio e se avranno un’ambulanza per portarle in ospedale”, ha detto.

Molte vanno a stare con parenti fuori dalla zona per assicurarsi di poter arrivare in ospedale in tempo.

“È una specie di approccio sistematico da parte dell’esercito israeliano e dei coloni che vivono nel sud di Hebron, per espellere i palestinesi da quella particolare area e intimidirli usando le donne e i corpi delle donne incrementando pratiche vergognose in queste comunità”, ha detto Abusrour.

Nostra responsabilità”

Considerando ciò che hanno documentato e ciò che sanno essere possibile, ho chiesto a Khraim e Abusrour se abbiano mai paura per la loro sicurezza mentre affrontano le loro vite quotidiane.

“A me ha fatto canalizzare la rabbia per ciò che sta accadendo, e mi sento che almeno sto documentando e ne sto scrivendo”, ha detto Khraim.

“Sapevamo che era successo prima. Siamo stati tutti sottoposti a violenza. Le nostre case sono già state invase. Siamo già stati attaccati dai coloni. Non è niente che non conosciamo.”

Ha aggiunto: “Lavorare così con le donne e dare loro spazio per raccontare le loro storie e i loro resoconti le fa sentire in un certo senso più forti, le fa sentire che le loro storie non resteranno inosservate”. Abusrour ha detto di sentirsi privilegiata non solo perché sa come proteggersi, ma anche come supportare altre donne e condividere le loro testimonianze per denunciare ciò che è accaduto loro. “Sono orgogliosa di ciò che sto facendo ma, allo stesso tempo, sono preoccupata. Come difensore dei diritti umani, ora tornando a casa non sono al sicuro”, ha detto, alludendo al suo viaggio di ritorno da Londra a Ramallah.

“Non sono al sicuro quando mi muovo da un posto all’altro. Non sono al sicuro in ufficio perché siamo sotto esame come organizzazione per i diritti umani e siamo sotto sorveglianza da parte dell’esercito israeliano”.

Non possono sapere quando il loro ufficio sarà perquisito o se la WCLAC sarà designata come organizzazione terroristica, come ha fatto il ministero della Difesa israeliano con sei ONG palestinesi nel 2021.

“Tuttavia, sentiamo di avere il dovere di condividere questa responsabilità con altre organizzazioni per i diritti umani, con altre organizzazioni per i diritti delle donne per porre fine a queste atrocità”, ha affermato.

“È nostra responsabilità come donne, come difensore dei diritti umani e come femministe”.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)




Wael Dahdouh di Al Jazeera vince il premio Coraggio di Reporter Senza Frontiere per il suo lavoro a Gaza

Redazione di MEMO

4 dicembre 2024 – Middle East Monitor

Ieri sera in una cerimonia a Washington il direttore della sede di Gaza di Al Jazeera Wael Dahdouh è stato nominato vincitore per il 2024 del premio Coraggio di Reporter Senza Frontiere.

In un messaggio registrato Dahdouh ha affermato che “abbiamo fatto un enorme sacrificio e pagato un prezzo elevato: estrema stanchezza, notti insonni, sangue, sudore, paura, terrore, perdita, sfollamento, per assicurare che tutte le notizie, le immagini e l’informazione proveniente da Gaza durante questa guerra potesse arrivare al resto del mondo.”

In una dichiarazione Medici Senza Frontiere ha affermato che Dahdouh ha vinto il premio Coraggio perché “non ha mai smesso di informare, nonostante le ferite e la morte di suoi familiari a Gaza.” Egli “racchiude in sé resilienza e lotta per una informazione affidabile,” ha aggiunto.

Ogni anno i premi per la libertà di stampa di Reporter Senza Frontiere onorano il lavoro dei giornalisti e degli organi di stampa che hanno dato significativi contributi alla difesa e alla promozione della liberà di stampa in tutto il mondo.

La giuria della trentaduesima edizione comprendeva importanti giornalisti, sostenitori della libertà di espressione e fotogiornalisti da tutto il mondo ed è stata presieduta dal presidente di Reporter Senza Frontiere, il giornalista francese Pierre Haski.

(traduzione dall’inglese di Gianluca Ramunno)




Fatto a Gaza: From Ground Zero dà voce ai registi intrappolati in una zona di guerra

Sarah Agha, Bristol, Regno Unito

2 dicembre 2024 – Middle East Eye

Il famoso regista palestinese Rashid Masharawi ha riunito i film realizzati da palestinesi che vivono nella Striscia di Gaza assediata sotto gli attacchi israeliani

È difficile immaginare un ambiente più difficile della Striscia di Gaza assediata e devastata per girare un film nel 2024. Ma questa è l’ambientazione della nuova e rivoluzionaria antologia di cineasti palestinesi.

From Ground Zero, una raccolta di 22 cortometraggi di artisti che vivono a Gaza, è una pietra miliare nella cinematografia palestinese, una testimonianza della vita durante l’incessante campagna militare israeliana nel territorio assediato iniziata nell’ottobre 2023.

Curata dal famoso regista palestinese Rashid Masharawi il documentario collettivo ha ottenuto un successo internazionale ed è stata selezionata come film di apertura del Film Festival Palestinese di Bristol di quest’anno che inizia il 30 novembre.

Haifa, il film di Masharawi del 1996, era stata la prima produzione palestinese ad essere ufficialmente selezionata al Festival Internazionale di Cannes. 

Il regista ha poi fondato a Ramallah il Centro di Produzione e Distribuzione Cinematografica, dedicando anni ad organizzare cinema e laboratori itineranti.

Questa volta non ho fatto un film. Questa volta ho dato la possibilità ai cineasti che vivono a Gaza – uomini e donne – di fare i loro film: la storia sono loro.” dice Masharawi a Middle East Eye del film collettivo in mostra al festival di Bristol.

Nel novembre 2023, a un mese dall’inizio della guerra di Israele a Gaza, ha istituito il Fondo Masharawi per sostenere artisti e troupe nella Striscia assediata. 

Tutti lo vedono: è cruento, un vero genocidio. Da gazawi, da regista ed essere umano, mi sono chiesto cosa potevo fare. La risposta è arrivata dal cinema.”

‘Vicinanza’

Masharawi dice che voleva concentrarsi sulle “storie personali non dette” di coloro che vivono sotto i bombardamenti e l’assedio israeliano.

Per alcuni era il loro primo film, ma prima del progetto tutti avevano avuto un rapporto con il mondo dell’arte, della musica o del racconto. 

Masharawi ha formato un gruppo di consulenti sul posto per trovare nuove voci e collaboratori, coinvolgendo anche cineasti che conosceva di persona.

Molti dei corti sono documentari e interviste, mentre altri utilizzano generi e strutture diverse. 

Abbiamo film sperimentali, di animazione e video art,” spiega Masharawi.

Ogni regista pensa e sente in modo diverso, ognuno ha avuto una possibilità non solo di fare un film, ma anche di esprimersi.

 “Cercano di sopravvivere, di trovare da mangiare e di vivere da rifugiati spostandosi da un posto all’altro. Ecco perché l’abbiamo intitolato From Ground Zero, perché non c’è distanza fra regista e azione.”

L’uso dell’arte e dell’immaginazione per rappresentare la propria realtà mentre si stanno affrontando delle avversità è da tempo un modo per affrontare il trauma.

Per esempio, Soft Skin di Khamis Masharawi segue un laboratorio di animazione dove 14 bambini imparano a creare film con la tecnica stop motion usando ritagli di disegni colorati. 

Awakening di Mahdi Kreirah è realizzato con straordinarie marionette fatte in modo molto creativo con lattine vuote che contenevano aiuti alimentari.

L’esecuzione e il completamento di From Ground Zero è un risultato enorme dati le evidenti difficoltà e sfide. 

Non è stato facile, è stato incredibilmente complicato far uscire il materiale da Gaza. Il nostro problema principale è stata la corrente elettrica perché senza non si possono caricare i telefonini, i laptop o le batterie delle macchine da presa. 

Qualche volta la gente ha rischiato la vita per andare con un hard disk dalla parte centrale di Gaza o da Deir al-Balah a Rafah, sul confine con l’Egitto.”

 Vicino al confine qualcuno della troupe è riuscito a usare le SIM egiziane per caricare e mandare il proprio materiale. 

Altri hanno trovato soluzioni ingegnose per generare elettricità usando pannelli solari. 

A un certo punto, durante i cinque mesi delle riprese, il team di Masharawi ha trovato un posto vicino all’ospedale di Al Aqsa, dove è riuscito ad accedere all’internet. 

Hanno montato una tenda e l’hanno dichiarata la tenda per la produzione di From Ground Zero.

È stato molto rischioso,” ha detto Masharawi a proposito di un momento particolarmente scioccante. 

Sono stato fortunato. Quando hanno bombardato tutta l’area, inclusa la nostra tenda, il mio gruppo non c’era, se n’erano andati alle tre di notte e hanno bombardato alle 6 e un quarto.”

‘È ancora vivo?’

Parlando con Masharawi è impossibile non notare l’enorme peso della responsabilità che ha sentito lavorando con registi che erano in condizioni fisicamente vulnerabili e pericolose. 

Qualche volta poteva passare una settimana senza contatti con nessuno del suo team sul posto. Allora tentava di contattare dei giornalisti o chiunque avesse una connessione: “È ancora vivo? Si è spostato? Cosa gli è successo?” 

Queste erano le domande che faceva prima di continuare con il progetto, “per essere sicuro che stessero bene “.

Naturalmente star “bene” ha assunto un nuovo significato a Gaza. Diana al-Shinawy, nel film Offerings, dice: “Non so quando questa guerra finirà, avremo tutti bisogno di andare in terapia per sopportare la sofferenza.”

È stato molto difficile per me come gazawi,” dice Masharawi, “ma è stata una decisione per aiutare anche me stesso, per far qualcosa condividendo, partecipando. Mi ha salvato.”

La rapidità dell’esecuzione, dalle riprese alla fine del film, è stata notevole per gli standard del settore. 

Gli artisti sul posto hanno filmato i loro corti dal gennaio al giugno 2024 e a luglio c’è stata la prima della versione lunga al Film Festival Internazionale di Amman. 

A maggio Masharawi aveva anche proiettato sezioni più brevi a un evento speciale organizzato da lui stesso a Cannes per suscitare interesse sul progetto e sulla continua persecuzione del suo popolo.

 La prima edizione di alcuni dei film è stata realizzata a Gaza mentre il montaggio finale e minori modifiche sono state realizzate dal suo team in Francia. 

Abbiamo avuto un sacco di problemi con il sonoro perché a Gaza ci sono ‘zanana’ 24 ore su 24, tutto il giorno.” 

Il termine arabo “zanana” è usato dai palestinesi nella Striscia di Gaza per riferirsi al ronzio prodotto dai droni israeliani. 

Così abbiamo dovuto fare i conti con ‘zanana’ per tutti i film! Abbiamo avuto bisogno di un sound editor speciale per il missaggio, di filtri e programmi per risolvere questi problemi… ma ci siamo riusciti.” 

Masharawi spiega come sia stato essenziale ridurre il rumore per sentire con chiarezza le parole dei partecipanti, ma senza toglierlo del tutto, “perché questa è la realtà”. 

Ora il dialogo è perfettamente chiaro e udibile, ma i droni sono uno sfondo costante in quasi tutti i film, un ricordo agghiacciante della vita quotidiana sotto la minaccia dei bombardamenti.

Il team in Francia è anche intervenuto sulla correzione del colore e per le traduzioni: “Adesso abbiamo i sottotitoli in 11 lingue.” 

Rashid ha fatto i complimenti a Laura Nikolov che è intervenuta alla serata di apertura del Film Festival Palestinese a Bristol per i suoi sforzi per coordinare gli eventi in tutto il mondo e in lingue diverse.

From Ground Zero è presentato in due sezioni: Parte I e Parte II. Ogni parte dura poco meno di un’ora e presenta 11 corti con una varietà di voci e creatori diversi. 

La breve pausa intermedia serve per dare al pubblico il tempo di tirare il fiato prima di guardare la Parte II, data l’intensità delle riprese e la natura sconvolgente delle storie.

Interrogato sul benessere e la sicurezza dei registi ora Masharawi risponde con gravità: 

Due settimane fa uno dei cineasti ha perso otto familiari, lui è ancora vivo. Si chiama Wissam Moussa.”

Il commuovente corto di Moussa Farah and Miriam, rivela le esperienze di due ragazzine, una di loro rimasta intrappolata sotto le macerie per sei ore prima di essere salvata.

Un momento particolarmente toccante nel film è durante il corto di Etimad Washah, che segue un carretto tirato da una mula, simpaticamente soprannominato Taxi Wannisa, dal nome dell’animale che trasporta passeggeri in giro per Gaza. 

Improvvisamente il film si interrompe e la regista si rivolge direttamente al pubblico: mentre era sul set ha ricevuto la notizia che il suo amato fratello Nassem era stato ucciso insieme a tutti i suoi figli.

Senza alcun motivo oramai di terminare il film con un finale di finzione, guarda direttamente nell’obiettivo e dice: “Posso solo finirlo con la mia testimonianza.” È un finale coraggioso, onesto e sorprendente. 

L’ordine attentamente pensato e la cura dei film ti portano in un viaggio. Intervallati a profondo dolore e tristezza ci sono piccoli ma memorabili sprazzi di luce che nulla tolgono alla cupa realtà delle tenebre. 

Resilienza, determinazione e risolutezza traspaiono in varie storie. Nidal Damo, uno stand-up comedian che ha fatto il film Everything Is Fine, resta spavaldo nonostante gli scioccanti massacri nel campo profughi di Nuseriat e dei dintorni: “Guerra o non guerra, mi faccio la doccia e vado in scena.”

 Donne protagoniste

Il film di Hana Eleiwa intitolato No esplora, senza volersi scusare, la difficoltà di evitare un’altra storia di morte e devastazione.

Cerco un soggetto che parli di gioia, felicità, speranza, amore e musica,” dice Eleiwa.

Chiaramente le donne giocano un ruolo prominente in From Ground Zero davanti e dietro la macchina da presa: una notevole proporzione dei film le vede protagoniste e ci sono 7 registe. 

Per me mostrare sette donne che fanno film in questa situazione, sotto i bombardamenti, era molto importante,” dice Masharawi, “perché in realtà le donne sono le più attive nella società, non solo nel cinema! 

Sono loro a proteggere la famiglia, a occuparsi del cibo, a non far mai spegnere il fuoco. Sono loro a salvare le vite della famiglia. Sono forti, potenti. Lo so per esperienza personale, perché sono stato a Gaza durante molte guerre, molte intifade… Conosco il ruolo delle donne e quindi per me le storie delle donne sono importanti.”

From Ground Zero è la dimostrazione di ciò che cineasti creativi e talentuosi possono ottenere nelle condizioni più avverse. 

Tutti i film sono parti autonome, ma è impossibile non riconoscere quanto saranno importanti negli anni a venire come documenti, prove di ciò che è successo sul posto. 

Mentre Israele bombarda e distrugge università, istituzioni d’arte e siti storici con continui atti di cancellazione della cultura, queste testimonianze cinematografiche saranno immortalate per sempre.

(traduzione dall’inglese di Mirella Alessio)




L’ex capo della difesa di Netanyahu Ya’alon avverte che Israele è sulla via della “pulizia etnica” a Gaza

Redazione Times of Israel e agenzie

30 novembre 2024,Times of Israel

L’ex capo dell’esercito afferma che le forze di difesa israeliane stanno già ripulendo parti di Gaza dagli arabi; denuncia le iniziative per annettere e occupare territori palestinesi, dice che il Primo Ministro e il governo stanno portando Israele alla ‘distruzione’.

Sabato l’ex Ministro della Difesa ed ex capo di stato maggiore dell’esercito Moshe Ya’alon ha detto che la leadership di Israele, guidata da soggetti di estrema destra che tentano di ricolonizzare Gaza, sta conducendo il Paese sulla strada della pulizia etnica nella Striscia di Gaza ed ha precisato che le forze di difesa stanno già ripulendo parti di Gaza dagli arabi, allertando inoltre che il governo del Primo Ministro Benjamin Netanyahu sta portando la nazione alla “distruzione”.

La strada su cui stiamo precipitando è quella dell’occupazione, annessione e pulizia etnica nella Striscia di Gaza”, ha detto a Democrat TV l’illustre critico del governo.

Trasferimento, chiamatelo come volete, e insediamenti ebraici”, ha detto, riferendosi all’idea avanzata dall’estrema destra israeliana di un trasferimento di popolazione e “migrazione volontaria” di palestinesi da Gaza e il ripristino di insediamenti ebraici al loro posto. Netanyahu ha più volte ribadito che tali azioni non sono l’obbiettivo della guerra, né sono in programma.

Ya’alon è un politico di destra che è stato membro del Likud (principale partito di centro-destra del Paese, ndtr.) per anni e ministro della difesa del governo Netanyahu dal 2013 al 2016, ma negli ultimi anni è diventato un feroce critico di Netanyahu e delle politiche del suo governo.

Dice Ya’alon: “Guardate i sondaggi. Il 70% – a volte di più a volte poco meno – della popolazione nello Stato di Israele sostiene un percorso ebraico, democratico, liberale, ecc. anche con una separazione (dai palestinesi, ndtr.)”

Perciò non va fatta confusione. Chi vuole confonderci è colui che attualmente ci sta conducendo a niente di meno che alla distruzione”, dice.

La giornalista Lucy Aharish che lo ha intervistato ha sottolineato che Ya’alon ha usato un linguaggio sorprendente con il termine “pulizia etnica”.

Pulizia etnica nella Striscia di Gaza, è questo ciò che lei pensa? Che stiamo per fare questo?” ha chiesto, specificando di non aver mai pensato di sentirlo usare quel termine.

Perché ‘stiamo per’?”, ha risposto Ya’alon. “Che cosa sta avvenendo là? Che cosa sta avvenendo là? Non esiste Beit Lahia, non esiste Beit Hanoun, [l’esercito] sta attualmente operando a Jabalia e sta sostanzialmente ripulendo la zona dagli arabi.”

Il Ministro degli Esteri Gideon Sa’ar ha criticato le affermazioni di Ya’alon scrivendo su X: “Gli irresponsabili commenti dell’ex ministro Moshe Ya’alon sono scorretti e diffamano Israele senza nessun fondamento. Lo invito a ritrattare le sue parole.”

In ottobre Israele ha ordinato all’intera popolazione restante del terzo settentrionale di Gaza, stimata in circa 400.000 persone, di evacuare verso sud e avrebbe bloccato gli aiuti umanitari per settimane prima di lasciarli nuovamente entrare, per le pressioni di USA e di altri.

Dopo aver scatenato un’operazione su larga scala nel nord di Gaza le truppe israeliane hanno sfollato migliaia di persone dalle zone nel nord dell’enclave cercando di distruggere i terroristi di Hamas che secondo l’esercito si stavano riorganizzando intorno a Jabalia, Beit Lahia e Beit Hanoun.

Israele ha ripetutamente respinto le accuse di pulizia etnica sostenendo che le sue operazioni intensive nel nord di Gaza nelle ultime settimane sono una risposta operativa agli sforzi di Hamas di riorganizzarsi. Al tempo stesso politici di estrema destra non hanno nascosto il desiderio di vedere Gaza almeno in parte spopolata e gli insediamenti ebraici ricostruiti.

Voci critiche hanno accusato Netanyahu di procrastinare la guerra e rifiutare una soluzione diplomatica a causa, almeno parzialmente, delle pressioni di quei politici che hanno minacciato di lasciare il governo se la guerra fosse terminata.

Anche se Israele dice che gli ordini di evacuazione sono giustificati dallo scopo della sicurezza dei civili e per lasciare operare l’esercito, la ricercatrice di Human Rights Watch Nadia Hardman ha detto che “Israele non può semplicemente farsi scudo della presenza di gruppi armati per giustificare lo sfollamento di civili.”

Israele dovrebbe dimostrare in ogni situazione che lo sfollamento dei civili è l’unica opzione” per rispettare pienamente il diritto umanitario internazionale, ha affermato.

Il diritto bellico vieta il trasferimento forzato di popolazioni civili da un territorio considerato “occupato”, se non necessario per la sicurezza dei civili o per imperative ragioni militari.

HRW a metà novembre ha pubblicato un rapporto che ipotizza che la campagna militare di Israele a Gaza configuri il “crimine di guerra di trasferimento forzato”, soprattutto relativamente alle operazioni nel nord di Gaza.

Dichiarazioni di alti dirigenti con responsabilità di comando mostrano che il trasferimento forzato è intenzionale e costituisce parte della politica di stato israeliana e perciò configura un crimine contro l’umanità”, ha aggiunto Human Rights Watch. “Le azioni di Israele inoltre sembrano corrispondere alla definizione di pulizia etnica” nelle zone in cui i palestinesi non saranno in grado di tornare, ha detto HRW.

Il rapporto di HRW sostiene che “le azioni delle autorità israeliane a Gaza sono le azioni di un gruppo etnico o religioso volte a rimuovere un altro gruppo etnico o religioso, i palestinesi, dalle aree all’interno di Gaza con mezzi violenti.”

Ipotizza che la natura del trasferimento fosse organizzata e che l’intenzione delle forze israeliane fosse quella di assicurarsi che le zone coinvolte “rimarranno per sempre svuotate e ripulite dai palestinesi.”

HRW afferma che le conclusioni del rapporto di 172 pagine sono basate su interviste con gazawi deportati, immagini satellitari e relazioni pubbliche condotte fino ad agosto 2024.

Israele ha respinto il rapporto in quanto “profondamente fuorviante” nel descrivere “gli sforzi dell’esercito per minimizzare i danni ai civili come finalizzati ad un trasferimento forzato.”

Sostiene di cercare di ridurre al minimo il numero di vittime civili e sottolinea che Hamas usa i civili di Gaza come scudi umani, combattendo da aree civili comprese case, ospedali, scuole e moschee.

Secondo le Nazioni Unite ad ottobre 2024 sono state trasferiti in tutta Gaza 1,9 milioni di palestinesi. Prima dell’inizio della guerra il 7 ottobre 2023 la popolazione ufficiale del territorio contava 2,4 milioni di abitanti.

La gran maggioranza della popolazione di Gaza risiede nella “zona umanitaria” definita da Israele, situata nell’area di al-Mawasi sulla costa meridionale di Gaza, nei quartieri occidentali di Khan Younis e a Deir al-Balah nel centro di Gaza. La dimensione della zona è cambiata molte volte, a seconda dell’evolversi delle operazioni dell’esercito israeliano contro Hamas.

Israele ha lanciato la sua operazione militare dopo che il 7 ottobre 2023 i terroristi di Hamas hanno massacrato 1.200 persone, per la maggior parte civili, nelle comunità del sud e hanno portato a Gaza 251 ostaggi.

Il Ministero della Sanità di Gaza gestito da Hamas afferma che finora nel conflitto sono state uccise o sono presumibilmente morte più di 43.000 persone nella Striscia, anche se la cifra non può essere verificata e non fa distinzione tra civili e combattenti. Israele afferma di aver ucciso circa 18.000 combattenti in battaglia fino a novembre e altri 1.000 terroristi all’interno di Israele il 7 ottobre.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




L’avvertimento di un soldato: quello che ho visto a Gaza determinerà il nostro futuro

Autore anonimo

28 novembre 2024 – Haaretz

La cosa importante è riflettere su quello che sta succedendo per l’opinione pubblica israeliana. Portare le cose alla luce. Così la gente poi non dirà che non lo sapeva.

La cosa veramente sorprendente riguarda la rapidità con cui ogni cosa sembra normale e ragionevole. Dopo qualche ora ti ritrovi a cercare disperatamente di rimanere colpito dalle dimensioni della distruzione, borbottando dentro di te affermazioni come “è una follia”, ma la verità è che ti ci abitui molto rapidamente.

Diventa banale, di cattivo gusto. Un altro ammasso di pietre. Lì probabilmente c’era un edificio di un’istituzione pubblica, quelle erano case e questa zona era un quartiere. Ovunque tu guardi vedi mucchi di tondini, sabbia, cemento e mattoni monoblocco. Bottiglie d’acqua di plastica vuote e polvere. A perdita d’occhio. Fino al mare. La vista si sposta lungo un edificio che è ancora in piedi. “Perché non lo hanno distrutto?” mi chiede mia sorella su WhatsApp dopo che le ho mandato una foto. “E anche,” aggiunge, “perché diavolo vai lì?’”

Perché sono qui è poco interessante. Qui la vicenda non riguarda me. E questo non è neppure un atto di accusa contro le Forze di Difesa Israeliane [l’esercito israeliano, ndt.]. Ciò viene fatto altrove, negli editoriali, alla Corte Penale Internazionale dell’Aia, nelle università degli Stati Uniti, al Consiglio di Sicurezza dell’ONU.

La cosa importante è riflettere su quello che sta avvenendo per l’opinione pubblica israeliana. Portare le cose alla luce. Così la gente poi non dirà che non lo sapeva. Volevo capire cosa stesse succedendo qui. E’ quello che ho detto a tutti i miei amici, troppi da contare, che mi hanno chiesto: “Perché vai a Gaza?”

Non c’è molto da dire riguardo alla distruzione. È ovunque. Salta agli occhi quando ti avvicini dal punto di osservazione di un drone a quello che una volta era un quartiere residenziale: un orto coltivato circondato da un muro distrutto e una casa polverizzata. Una baracca improvvisata con un sottile tetto in un vicolo. Macchie nere nella sabbia, una dietro l’altra: evidentemente lì c’era una specie di boschetto, forse un uliveto. Ora è il tempo della raccolta delle olive. E c’è un certo movimento, una persona che si arrampica su un cumulo di macerie, raccogliendo legna su un marciapiede, rompendo qualcosa con una pietra. Tutto visto dalla rotta di volo di un drone.

Più ti avvicini a una strada importante dal punto di vista logistico – Netzarim, Kissufim, Filadelfia – meno strutture sono ancora in piedi. La distruzione è enorme e tale rimarrà. E questa è una cosa che la gente deve sapere: tutto ciò non verrà cancellato nei prossimi cento anni. Non importa quanto impegno ci metterà Israele per farlo sparire, nasconderlo, d’ora in avanti la distruzione a Gaza determinerà le nostre vite e quelle dei nostri figli. È la testimonianza di una furia sfrenata. Un amico ha scritto sul muro della sala operativa: “Alla quiete si risponderà con la quiete, a Nova [il festival musicale attaccato in 7 ottobre da Hamas, ndt.] si risponderà con la Nakba.” I comandanti dell’esercito hanno adottato questa scritta.

Dal punto di vista militare la distruzione è inevitabile. Combattere contro un nemico ben equipaggiato in un’area urbana densamente popolata significa distruzione di edifici su vasta scala o la morte certa per i soldati. Se un comandante di brigata deve scegliere tra la vita dei soldati ai suoi ordini o spianare il territorio, un F-15 carico di bombe percorrerà la pista di decollo della base aerea di Nevatim e una batteria di cannoni prenderà la mira. Nessuno è disposto ad assumersi dei rischi. È la guerra.

Israele può combattere così grazie al flusso di armamenti che riceve dagli Stati Uniti, e la necessità di controllare il territorio con il minimo numero di soldati è spinta fino al limite. Ciò è vero sia per Gaza che per il Libano. La principale differenza tra il Libano e l’inferno giallo che ci circonda sono i civili. A differenza dei villaggi del sud del Libano i civili sono ancora qui. Trascinandosi da un punto di combattimento all’altro, portandosi dietro fagotti strapieni, taniche. Madri con bambini che arrancano lungo la strada. Se abbiamo dell’acqua gliela diamo. Le capacità tecnologiche dell’IDF si sono sviluppate in modo impressionante in questa guerra. La potenza di fuoco, la precisione, la raccolta di informazioni con i droni: ciò fornisce un contropotere rispetto al mondo sotterraneo che Hamas ed Hezbollah hanno costruito nel corso di molti anni.

Ti ritrovi per ore a osservare da lontano un civile che trascina una valigia per qualche chilometro sulla strada Salah al-Din. Il sole cocente picchia su di lui. E tu cerchi di capire: è un ordigno esplosivo? È ciò che resta della sua vita? Vedi gente che gironzola attorno a un gruppo di tende in mezzo al campo, cerchi ordigni esplosivi e fissi disegni sul muro con le tonalità grigie del carboncino. Qui, per esempio, c’è il disegno di una farfalla.

Questa settimana ho fatto una perlustrazione con un drone di un campo di rifugiati. Ho visto due donne che camminavano mano nella mano. Un giovane che è entrato in una casa semidistrutta ed è sparito.

Forse è un miliziano di Hamas ed è andato a consegnare un messaggio attraverso l’ingresso nascosto di un tunnel dove sono stati tenuti ostaggi? Da un’altezza di 250 metri ho seguito uno che andava in bicicletta lungo quella che una volta doveva essere una strada al limite del quartiere, un giretto pomeridiano in mezzo alla catastrofe. A uno degli incroci il ciclista si è fermato nei pressi di una casa da cui sono usciti alcuni bambini e poi si è inoltrato nel campo profughi.

In seguito ai bombardamenti tutti i tetti hanno dei buchi. Su ognuno di essi ci sono barili blu per la raccolta dell’acqua piovana. Se vedi un barile sulla strada devi informare il centro di controllo e segnalarlo come un possibile ordigno esplosivo. Ecco un uomo che cuoce focacce. Vicino a lui c’è un uomo che dorme su un materasso. Grazie a quale forza di inerzia la vita continua? Come può una persona svegliarsi in mezzo a un orrore come questo e trovare la forza di alzarsi, cercare del cibo, tentare di sopravvivere? Quale futuro gli riserva il mondo? Caldo, mosche, fetore, acqua sporca. Un altro giorno se ne va.

Sto aspettando lo scrittore che venga e scriva questo, un fotografo che lo documenti, ma ci sono solo io. Altri combattenti, se hanno un’opinione eretica, se la tengono per sé. Non stiamo parlando di politici perché ce l’hanno chiesto, ma la verità è che semplicemente ciò non interessa a chi abbia fatto 200 giorni di servizio militare nella riserva quest’anno. I riservisti stanno crollando. Chiunque arrivi è già indifferente, preoccupato da problemi personali o da altre questioni. Figli, licenziamenti, studi, mogli. Hanno cacciato il ministro della Difesa. Einav Zangauker [attivista dei familiari favorevoli a un accordo con i rapitori, ndt.], il cui figlio Matan è tenuto in ostaggio da qualche parte qui. I panini con la cotoletta sono arrivati.

Gli unici che si agitano per qualunque cosa sono gli animali. I cani, i cani. Scodinzolanti, corrono in grandi branchi, giocano tra di loro. Cercano avanzi di cibo che l’esercito ha lasciato dietro di sé. Qui e là osano avvicinarsi ai veicoli nel buio, cercano di portare via una scatola di salsicce kabanos [tipiche dell’Europa centro-orientale, ndt.] e sono cacciati da una cacofonia di urli. Ci sono anche molti cuccioli.

Nelle ultime due settimane la sinistra israeliana si è preoccupata del fatto che l’esercito sta scavando sulle strade che passano da est a ovest della Striscia di Gaza. La strada Netzarim, per esempio. Che cosa non è stato detto a questo proposito? Che è stata asfaltata, che vi sono basi a cinque stelle. Che l’IDF è lì per restare, che partendo da queste infrastrutture il progetto di colonizzazione della Striscia risorgerà.

Non escludo queste preoccupazioni. Ci sono abbastanza pazzi che stanno solo aspettando l’opportunità. Ma le strade Netzarim e Kissufim sono zone di combattimento, aree tra grandi concentrazioni di palestinesi. Una massa critica di disperazione, fame e sofferenza. Questa non è la Cisgiordania. Il consolidamento lungo la strada è tattico. Più che garantire un’occupazione civile del territorio ciò è destinato a fornire sicurezza a soldati sfiniti. Le basi e gli avamposti consistono in strutture trasportabili che possono essere smantellate e rimosse su un convoglio di camion in pochi giorni. Naturalmente ciò potrebbe cambiare.

Per tutti noi, da quelli che si trovano nella sala operativa fino all’ultimo combattente, è chiaro che il governo non ne sa un accidente su come continuare. Non ci sono obiettivi verso cui andare, nessuna capacità politica per ritirarsi. Salvo che a Jabalya non ci sono quasi combattimenti. Solo ai margini dei campi. E anche questo in parte, per timore che lì ci siano degli ostaggi. Il problema è diplomatico, non militare né tattico. E quindi ciò è chiaro a chiunque venga richiamato per un’altra fase per le stesse identiche missioni. Arriveranno ancora riservisti, ma meno.

Dov’è il limite tra la comprensione della “complessità” e la cieca obbedienza? Quando ti è stato dato il diritto di rifiutarti di prendere parte a un crimine di guerra? Questo è meno interessante. Quello che è più interessante è quando l’opinione pubblica israeliana si sveglierà, quando sorgerà un leader che spieghi ai cittadini in quale terribile pasticcio ci siamo messi, e chi sarà il primo con la kippah [estremista religioso, ndt.] che mi chiamerà traditore. Perché prima dell’Aia, delle università americane, della condanna del Consiglio di Sicurezza, questa è innanzitutto una questione interna nostra. E di due milioni di palestinesi.

L’autore è un militare in servizio nella riserva che ha partecipato a operazioni di terra in Libano e nella Striscia di Gaza durante lo scorso anno.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)