Summit del Cairo: il rifiuto di USA e Israele del piano arabo per Gaza è un momento/istante di verità

Da uno schermo gigante viene trasmessa l'accoglienza del re di Giordania da parte di Al Sisi al summit de il Cairo il 4 marzo. Foto: Khaled Desouki/AFP
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Soumaya Ghannoushi

5 marzo 2025 – Middle East Eye

Se la controproposta del vertice arabo mirava ad affermare un ruolo regionale nel futuro di Gaza, la risposta israelo-statunitense ha lasciato pochi dubbi su chi tenga tuttora le redini.

Martedì re e presidenti arabi si sono riuniti al Cairo, convocati dal peso della storia, trascinati su un palco dove si potevano decidere destini – non solo per la Palestina, ma per la stessa legittimità del loro potere.

Non si trattava della solita diplomazia. Non era un vertice di routine costellato di vuote dichiarazioni e logore promesse. Era una resa dei conti, un momento in cui il mondo arabo si è trovato davanti a uno specchio e si è chiesto: abbiamo ancora il potere di opporre un rifiuto o siamo stati addomesticati oltre ogni possibilità di scampo?

Al centro del vertice c’era un piano così mostruoso da rifuggire ogni logica: lo sfollamento forzato dei palestinesi da Gaza, un atto finale di cancellazione con l’intenzione di trasformarne il territorio in una “Riviera” sanificata e addomesticata dove le impronte dei suoi veri proprietari siiano cancellate dalla sabbia.

Il progetto è nato nei gabinetti di guerra di Tel Aviv e benedetto nei palazzi di Washington, un’audace mossa per trasformare le rovine di Gaza in un’appendice pacificata dello Stato israeliano. Ma per rendere reale questa fantasia è necessaria un’ultima condizione: il consenso arabo.

Il Cairo è diventato così l’arena in cui la storia sarebbe stata tradita o sfidata. Non era semplicemente in questione se i leader arabi avrebbero respinto lo spostamento dei palestinesi alcuni dovevano farlo, perché i loro troni vacillerebbero sotto il peso di una simile catastrofe.

La vera prova consisteva nel loro opporsi o meno anche alla pretesa più subdola nascosta sotto la superficie: il cosiddetto piano del giorno dopo”, la visione israelo-statunitense meticolosamente costruita per la Gaza del dopoguerra, in cui non solo la resistenza verrebbe soffocata, ma cancellata – dove la stessa idea di sovranità palestinese verrebbe estinta per sempre.

La controproposta

La strada per il Cairo è stata segnata da tensioni e fratture. Pochi giorni prima si era tenuto un summit più piccolo a Riyadh, una riunione ristretta di leader del Golfo insieme a Giordania ed Egitto, ammantato della retorica della “fratellanza”.

Eppure dietro questo velo di cameratismo c’era un deliberato atto di esclusione: l’Algeria, uno Stato con il suo peso e la sua storia, è stata messa da parte. Il presidente Abdelmadjid Tebboune, accortosi della farsa, si è rifiutato di partecipare al summit del Cairo inviando al suo posto il ministro degli Esteri.

Altrettanto eclatante è stata l’assenza dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi Uniti, sebbene le loro ragioni fossero completamente diverse. La loro condizione per impegnarsi nella ricostruzione di Gaza era inequivocabile: la completa neutralizzazione politica e militare di Hamas.

Gli Emirati Arabi Uniti hanno fatto un passo avanti, segnalando il loro allineamento con la visione di Trump attraverso il loro ambasciatore a Washington e il loro netto rifiuto di qualsiasi alternativa araba al piano israelo-statunitense.

E così, prima ancora che iniziasse il vertice principale, le divisioni sono state messe a nudo. Il fronte arabo, fragile e frammentato, ha mostrato la sua impotenza.

Mentre i governanti arabi tentennano, esitano e calcolano, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu si muove con la precisione di un uomo che sa che i suoi oppositori sono troppo deboli per fermarlo. Non ha aspettato l’esito del summit per stringere il cappio attorno a Gaza, soffocandola con un inasprimento del blocco e agitando lo spettro di una nuova devastazione.

Il suo messaggio ai leader arabi è stato esplicito ed umiliante: le parole non vi salveranno. Le dichiarazioni non altereranno i fatti sul campo. O vi allineate ai diktat di Washington e Tel Aviv o sarete irrilevanti.

Sotto il peso di queste pressioni il summit arabo ha ora adottato un piano in tre fasi per la ricostruzione di Gaza. La prima fase dura sei mesi e verte sulla rimozione di macerie e detriti.

La seconda riguarda la costruzione di infrastrutture a Rafah e nelle regioni meridionali della Striscia. La terza si estende alla ricostruzione delle aree centrali e settentrionali.

Questa è la controproposta del mondo arabo al programma di spostamenti forzati, una visione che cerca di stabilizzare Gaza senza sradicarne la popolazione.

Tuttavia, al di là dei meccanismi della ricostruzione, c’è una domanda molto più spinosa: chi governerà Gaza nel frattempo? La risposta del summit è: un comitato amministrativo temporaneo, incaricato di mantenere l’ordine e la stabilità finché l’Autorità Nazionale Palestinese non potrà assumere il pieno controllo.

In realtà la vera questione non riguarda solo la governance, ma anche l’autonomia. Gli Stati arabi saranno in grado di resistere alla spinta incessante dell’agenda israelo-statunitense, che cerca di plasmare non solo la geografia di Gaza ma la sua stessa identità e direzione politica?

In ciò risiede la grande contraddizione del summit. Ufficialmente, la posizione araba è stata di rifiuto. Egitto, Giordania e Arabia Saudita hanno tutti tracciato un limite, rifiutando lo spostamento di massa dei palestinesi.

Ma questo non è stato un atto di trasparenza morale, è stato un atto di autoconservazione. Questi regimi capiscono che l’espulsione forzata dei palestinesi non è solo una minaccia per la Palestina; è una sfida diretta alla loro stessa stabilità. Una nuova ondata di rifugiati, una nuova ferita scavata nel cuore della regione potrebbe destabilizzare i loro fragili equilibri di potere. La loro opposizione non è radicata nei principi, ma nella sopravvivenza.

E dietro questa apparente sfida si sta preparando un tradimento più profondo. Anche se i leader arabi potrebbero rifiutare lo spostamento, sono molto più malleabili quando si tratta del piano del “giorno dopo” – il lento e calcolato soffocamento della sovranità palestinese, la distruzione di Gaza attraverso una ricostruzione imposta – non con la forza, ma mediante un progetto di ristrutturazione delle sue fondamenta politiche ed economiche.

Questa è la massima ambizione israelo-statunitense: trasformare Gaza da un luogo di resilienza in un’entità murata, pacificata e neutralizzata, dove l’idea di libertà viene lentamente sepolta sotto strati di normalità imposta.

Se la controproposta del summit arabo intendeva affermare il ruolo regionale sul futuro di Gaza, la risposta di Stati Uniti e Israele ha lasciato pochi dubbi su chi tenga tuttora le redini.

Washington si è affrettata a liquidare il piano come irrealistico, con il portavoce del Consiglio per la sicurezza nazionale Brian Hughes che lo ha dichiarato “in disaccordo con la realtà sul campo”.

Di fatto la Casa Bianca ha rafforzato la posizione di Netanyahu: la ricostruzione di Gaza non può procedere secondo i termini arabi e qualsiasi sforzo di ricostruzione deve allinearsi al più ampio quadro americano-israeliano.

Da parte sua Israele ha ribadito la sua adesione alla visione di Trump, un piano che, in sostanza, mira a progettare una Gaza senza palestinesi, sia attraverso lo sfollamento forzato sia rendendo la vita nel territorio tanto insostenibile da spingere i suoi abitanti altrove.

E avendo sia gli Stati Uniti che Israele respinto del tutto il piano arabo lo spazio di manovra si è ridotto tanto da essere quasi inesistente. Il messaggio ai regimi arabi è chiaro: i loro sforzi per creare uno scenario postbellico secondo i propri termini sono, nella migliore delle ipotesi, irrilevanti e, nella peggiore una seccatura da accantonare.

Il giudizio della storia

Per 15 mesi Israele ha condotto a Gaza una guerra di spietata ferocia – e tuttavia, nonostante i fiumi di sangue e le montagne di macerie, non è riuscito a raggiungere i suoi obiettivi centrali. Non è riuscito a smantellare la resistenza palestinese. Non è riuscito a imporre la sua volontà con la forza.

Ma se la storia ha dimostrato qualcosa è che Israele non si arrende; si adatta. Ciò che non può prendere con i missili se lo assicura con la diplomazia. Ciò che non può ottenere con la guerra lo estorce con i negoziati. E ciò che non può imporre personalmente, costringe i regimi arabi a imporlo per suo conto.

I regimi arabi sono stati messi alla prova e il verdetto è stato emesso. Non gli è stato chiesto di condurre una guerra, semplicemente di resistere a un progetto concepito per cancellare la sovranità palestinese, ma quando è arrivato il momento hanno vacillato.

Hanno rigettato lo spostamento a parole, lasciando la porta aperta alla ricostruzione di Gaza sotto dettami stranieri, condannando una forma di cancellazione e concedendone un’altra. Non si sono arresi apertamente, ma non hanno nemmeno resistito. Invece, hanno perfezionato l’arte della sottomissione, velata dalla retorica della sfida.

Perché questi regimi non sono attori sovrani. Non governano; orbitano. La loro sopravvivenza è subordinata alla protezione straniera, le loro politiche sono scritte in capitali lontane. Alcuni ospitano basi militari statunitensi, altri sono sostenuti da aiuti finanziari occidentali e la maggior parte governa non per volontà del proprio popolo ma attraverso la macchina di repressione che li mantiene al potere.

Non sono liberi di agire, solo di obbedire.

Pertanto il summit segue la coreografia ben collaudata della duplicità: un assordante atto di rifiuto dello sfollamento che maschera una silenziosa acquiescenza al più ampio programma israelo-statunitense. Uno spettacolo di sfida che nasconde la costante erosione della sovranità palestinese.

Eppure, nel perseguire questa strada i regimi arabi non tradiscono semplicemente la Palestina. Tradiscono se stessi. Si lanciano in un pericoloso confronto, non solo con il popolo palestinese, ma con il proprio.

Per decenni nel mondo arabo la causa palestinese è stata la misura ultima della legittimità. Abbandonarla significa smantellare ciò che resta della loro credibilità politica. E sebbene questi governanti possano credere che il tempo offuschi il ricordo del tradimento, dimenticano che la rabbia è paziente e la storia è spietata.

Il tempo non assolve. Il popolo non dimentica. E il libro mastro della codardia è scritto con un inchiostro che non sbiadisce mai.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autrice e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Eye.

Soumaya Ghannoushi è una scrittrice tunisina britannica esperta di politica mediorientale. Il suo lavoro giornalistico è apparso su The Guardian, The Independent, Corriere della Sera, aljazeera.net e Al Quds. Una selezione dei suoi scritti può essere trovata su soumayaghannoushi.com e i suoi messaggi su X su @SMGhannoushi.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)