L’esercito israeliano sta affrontando la sua più grande crisi di obiezione di coscienza degli ultimi decenni.

Meron Rapoport

11 aprile 2025 – +972 Magazine

Secondo quanto riportato, oltre 100.000 israeliani hanno smesso di presentarsi al servizio militare nella riserva. Sebbene le motivazioni siano diverse, l’entità del fenomeno dimostra il calo di legittimità della guerra.

Nessuno può fornire cifre precise. Nessun partito o leader politico lo chiede esplicitamente. Ma chiunque nelle ultime settimane abbia partecipato a proteste antigovernative o abbia utilizzato i social media in lingua ebraica sa che è vero: in Israele il rifiuto di presentarsi al servizio militare sta diventando sempre più consueto, e non solo in seno alla sinistra radicale.

Nei mesi precedenti la guerra parlare di rifiuto – o più precisamente, di smettere di presentarsi volontario” nella riserva – era diventato un elemento centrale delle massicce proteste contro la riforma giudiziaria del governo israeliano. Al culmine di queste proteste, nel luglio 2023, oltre 1.000 piloti e membri dell’Aeronautica Militare dichiararono che non si sarebbero più presentati in servizio se la riforma giudiziaria non fosse stata sospesa, scatenando l’allarme di alti ufficiali militari e del capo dello Shin Bet [servizio di intelligence interno di Israele, ndt.], secondo cui la riforma giudiziaria avrebbe messo a repentaglio la sicurezza nazionale.

La destra israeliana continua a sostenere ancora oggi che quelle minacce di obiezione di coscienza non solo avrebbero incoraggiato Hamas ad attaccare Israele, ma avrebbero anche indebolito l’esercito. In realtà tutte le minacce sono svanite nel nulla il 7 ottobre, quando i manifestanti si sono offerti volontari in massa e con entusiasmo.

Per 18 mesi la stragrande maggioranza della popolazione ebraica israeliana si è schierata attorno alla bandiera a sostegno dell’attacco contro Gaza. Ma, soprattutto dopo la decisione del governo di interrompere il cessate il fuoco, il mese scorso hanno iniziato ad apparire delle crepe.

Nelle ultime settimane i media hanno riportato un calo significativo dei soldati che si presentano in servizio come riservisti. Sebbene i numeri esatti siano un segreto gelosamente custodito, a metà marzo l’esercito ha informato il Ministro della Difesa Israel Katz che il tasso di presenza si era attestato all’80%, rispetto a circa il 120% subito dopo il 7 ottobre. Secondo Kan, l’emittente pubblica israeliana, quel numero sarebbe piuttosto approssimativo: il tasso reale si avvicinerebbe al 60%. Altri rapporti parlano di tassi di partecipazione del 50% o inferiori, con alcune unità di riservisti che hanno dovuto far ricorso al reclutamento di soldati tramite i social media.

“Le obiezioni di coscienza arrivano a ondate, e questa è l’ondata più grande dalla Prima Guerra del Libano del 1982″, ha dichiarato a +972 Ishai Menuchin, uno dei leader del movimento per il rifiuto del servizio militare Yesh Gvul (“C’è un limite”), fondato durante quella guerra.

Come per la coscrizione nelle forze armate regolari a 18 anni, gli israeliani hanno l’obbligo di prestare servizio come riservisti fino all’età di 40 anni (anche se questo può variare a seconda del grado e dell’unità). In tempo di guerra, l’esercito dipende in misura notevole da queste forze.

All’inizio della guerra l’esercito ha dichiarato di aver reclutato circa 295.000 riservisti, oltre ai circa 100.000 soldati in servizio regolare. Se i dati relativi a una presenza del 50-60% nella riserva fossero corretti, ciò significherebbe che oltre 100.000 persone avrebbero smesso di presentarsi al servizio come riservisti. “È un numero enorme”, osserva Menuchin. “Significa che il governo avrà difficoltà a continuare la guerra”.

“Il 7 ottobre ha inizialmente creato un sentimento del tipo: ‘Insieme vinceremo’,; ma ora si è sfaldato”, ha detto Tom Mehager, un attivista che si è rifiutato di arruolarsi durante la Seconda Intifada e ora gestisce una pagina social che pubblica video in cui ex refusnik spiegano la loro decisione. “Per attaccare Gaza tre aerei sono sufficienti, ma il rifiuto traccia comunque delle linee rosse. Costringe il sistema a constatare i limiti del suo potere”.

“Giorno dopo giorno, vedo dichiarazioni di rifiuto”

La maggior parte di coloro che sfidano gli ordini di arruolamento sembrano essere i cosiddetti “obiettori grigi” – persone che non oppongono una vera obiezione ideologica alla guerra, ma che piuttosto sono demoralizzate, stanche o stufe del fatto che la guerra si trascini da così tanto tempo. Accanto a loro c’è una piccola ma crescente minoranza di riservisti che obiettano per motivi etici.

Secondo Menuchin dall’ottobre 2023 Yesh Gvul è stata in contatto con oltre 150 renitenti ideologici, mentre New Profile, un’altra organizzazione che sostiene i refusenik, ha gestito diverse centinaia di casi simili. Ma mentre gli adolescenti che rifiutano la leva obbligatoria per motivi ideologici sono soggetti a pene detentive di diversi mesi, Menuchin è a conoscenza di un solo riservista che è stato recentemente punito per un rifiuto, con una condanna a due settimane di libertà vigilata.

“Hanno paura di mettere in prigione i renitenti, perché, se lo facessero, potrebbero affossare il modello di ‘esercito popolare'”, spiega. “Il governo lo capisce e quindi non insiste troppo; è sufficiente che l’esercito congedi qualche riservista, come se questo risolvesse il problema.”

Di conseguenza Menuchin trova difficile valutare la reale portata di questo fenomeno. “Durante la guerra del Libano avevamo stimato che per ogni obiettore finito in prigione ce n’erano altri otto o dieci renitenti ideologici”, afferma. “Quindi, se 150 o 160 persone hanno dichiarato di non volersi arruolare per motivi ideologici, è ragionevole stimare che ci siano almeno 1.500 obiettori ideologici”. E questa è solo la punta dell’iceberg [considerando il numero molto più elevato di obiettori non ideologici]”.

Tuttavia secondo Yuval Green – che si è rifiutato di continuare il servizio a Gaza dopo aver disobbedito all’ordine di dare fuoco a un’abitazione palestinese e che ora guida un movimento contro la guerra chiamato “Soldati per gli Ostaggi” al quale hanno aderito 220 riservisti firmatari di una dichiarazione di rifiuto – questa categorizzazione binaria non racconta l’intera storia.

“Ci sono sempre più persone che potrebbero non avere necessariamente a cuore i palestinesi ma che non si sentono più in sintonia con gli obiettivi della guerra”, ha spiegato. “Lo chiamo ‘rifiuto ideologico grigio ‘. Non ho modo di conoscere il numero, ma sono sicuro che siano molti.

In passato dei miei conoscenti erano molto arrabbiati con me [per aver chiesto lobiezione di coscienza]”, continua Green. “Ora mi sento molto più compreso. Siamo diventati più rilevanti. I media ci seguono; siamo stati invitati su Canale 13 e Canale 11. Assisto giorno dopo giorno a dichiarazioni di rifiuto”.

Abbondano esempi recenti. La scorsa settimana Haaretz ha pubblicato un editoriale della madre di un soldato che affermava: “I nostri figli non combatteranno in una guerra messianica per loro scelta”. Un altro articolo sullo stesso giornale, scritto da un soldato anonimo, dichiarava: “L’attuale guerra a Gaza ha lo scopo di comprare la stabilità politica con il sangue. Non vi prenderò parte”.

Altri sono meno espliciti, ma il risultato è simile. In una recente intervista l’ex giudice della Corte Suprema Ayala Procaccia non è arrivata al punto di approvare il rifiuto, ma ha invocato la “disobbedienza civile”. Il 10 aprile, quasi 1.000 riservisti dell’Aeronautica Militare hanno pubblicato una lettera aperta chiedendo un accordo per [la liberazione degli] ostaggi che porrebbe fine alla guerra; a loro si sono presto uniti centinaia di riservisti della Marina e della squadra d’élite dell’intelligence, l’Unità 8200. Il Primo Ministro Netanyahu ha risposto: “Il rifiuto è rifiuto, anche quando è pronunciato implicitamente e con linguaggio ripulito”.

“La legittimità del regime è in pericolo”

Yael Berda, sociologa dell’Università Ebraica e attivista di sinistra, ha spiegato che il calo della disponibilità a presentarsi al servizio nella riserva deriva principalmente da preoccupazioni economiche. Ha fatto riferimento a un recente sondaggio del Servizio per l’Impiego Israeliano, che ha rilevato che il 48% dei riservisti ha segnalato una significativa perdita di reddito dal 7 ottobre e il 41% ha dichiarato di essere stato licenziato o costretto a lasciare il lavoro a causa dei lunghi periodi trascorsi nella riserva.

Anche Menuchin attribuisce un peso significativo ai fattori economici, ma offre un’ulteriore spiegazione: “Gli israeliani non vogliono sentirsi degli ingenui e stanno arrivando al punto in cui si sentono sfruttati. Vedono altri ottenere esenzioni e sono pronti a scommettere che se dovesse capitargli qualcosa nessuno sosterrà loro o le loro famiglie. C’è un senso di abbandono: vedono le famiglie degli ostaggi fare crowdfunding per la mera sopravvivenza. Il punto è che lo Stato è assente, e questo sta diventando chiaro a sempre più israeliani.

C’è molta disperazione”, continua Menuchin. “La gente non sa dove stiamo andando. Si assiste ad una corsa ai passaporti stranieri – già prima del 7 ottobre – e alla ricerca di posti ‘migliori’ in cui emigrare. C’è un crescente ripiegamento sulla preoccupazione per il proprio gruppo di interesse. E soprattutto, gli ostaggi non vengono riportati indietro.”

Per quanto riguarda il rifiuto ideologico, Berda identifica diverse categorie. “Un tipo di rifiuto deriva da ‘Quello che ho visto a Gaza’, ma si tratta di una minoranza”, spiega. “Un altro è legato alla perdita di fiducia nella leadership, dovuta soprattutto al fatto che il governo non ha fatto tutto il possibile per riportare indietro gli ostaggi. C’è un divario intollerabile tra ciò che il governo ha dichiarato di fare e ciò che ha effettivamente fatto. E questo divario fa in modo che le persone perdano fiducia”.

Un’ulteriore categoria, continua Berda, è quella del “disgusto per il discorso sul sacrificio” promosso dall’estrema destra religiosa, guidata da esponenti del calibro di Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich. “È una sorta di reazione alla narrazione dei coloni che afferma che sarebbe giusto sacrificare la propria vita per qualcosa di più grande”, spiega Berda. “Le persone reagiscono all’idea che la collettività sia più importante dell’individuo dicendo: ‘Gli obiettivi dello Stato sono importanti, ma io ho la mia vita’“.

Pur sottolineando che le minacce di obiezione di coscienza hanno rappresentato una parte importante delle proteste antigovernative del 2023, Berda afferma che “ora, dopo il fallimento del cessate il fuoco, si può affermare che l’intero movimento di protesta si oppone alla continuazione della guerra, sostenendo che si tratti della guerra di Netanyahu. Questa è sicuramente una novità; non c’è mai stata una rottura del genere, in cui la legittimità del regime fosse in pericolo.

Nel 1973 dicevano che Golda [Meir] era incompetente, che aveva commesso errori, ma nessuno dubitava della sua lealtà”, continua Berda. “Durante la prima guerra del Libano c’erano dubbi sulla lealtà di [Ariel] Sharon e [Menachem] Begin, ma erano considerazioni marginali. Ora, soprattutto alla luce dello scandalo “Qatargate”, la gente è convinta che Netanyahu sia disposto a distruggere lo Stato per il suo tornaconto personale”.

Tuttavia l’ondata di rifiuti e l’assenteismo non hanno ancora messo in ginocchio l’esercito. “La gente dice: ‘C’è il governo, e c’è lo Stato’,” spiega Berda. “Queste persone continuano a prestare servizio perché si aggrappano allo Stato e alle sue istituzioni di sicurezza, perché se non ci dovessero credere non gli rimarrebbe più niente.

L’opinione pubblica capisce che nel momento in cui la fiducia nell’esercito crollasse sarebbe tutto finito, e questo è spaventoso”, ha proseguito. “Temono di essere coinvolti nel crollo dell’esercito perché questo li renderebbe complici. Bibi sta costringendo gli israeliani a [quella che considerano] una scelta terribile. Qualunque cosa facciano, sarebbero complici di un crimine: o del crimine di genocidio o di quello di aver distrutto lo Stato.”

Meron Rapoport è un redattore di Local Call.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)