Israele deve porre fine all’occupazione della Palestina per smettere di alimentare l’apartheid e le violazioni sistematiche dei diritti umani

18 febbraio 2024 – Amnesty International

In occasione dell’inizio delle udienze pubbliche presso la Corte Internazionale di Giustizia (CIG) per l’esame delle conseguenze sul piano legale delloccupazione prolungata da parte di Israele Amnesty International ha dichiarato che Israele deve porre fine alla brutale occupazione di Gaza e della Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, iniziata nel 1967.

Le udienze pubbliche sono in programma all’Aia dal 19 al 26 febbraio in seguito alla risoluzione con cui nel dicembre 2022 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha richiesto un parere consultivo alla CGI sulla legalità delle politiche e delle prassi di Israele nei Territori Palestinesi Occupati (TPO) e sulle conseguenze per gli altri Stati e per l’ONU della condotta di Israele. Parteciperanno ai lavori più di 50 Stati, l’Unione Africana, la Lega Araba e l’Organizzazione per la Cooperazione Islamica.

Agnès Callamard, segretaria generale di Amnesty International, ha affermato: Loccupazione israeliana della Palestina è la più lunga e una delle più letali occupazioni militari al mondo, caratterizzata da decenni di diffuse e sistematiche violazioni dei diritti umani contro i palestinesi. Loccupazione militare ha anche consentito e rafforzato il sistema israeliano di apartheid imposto a tutti i palestinesi e nel corso degli anni si è trasformata in unoccupazione perpetua in flagrante violazione del diritto internazionale”.

Lattuale conflitto che infuria nella Striscia di Gaza occupata, dove la CIG ha stabilito che esiste un rischio reale e imminente di genocidio, ha messo in luce le conseguenze catastrofiche del permettere che i crimini internazionali di Israele nei territori occupati continuino impunemente per così tanto tempo.” – continua Callamard –Il mondo deve riconoscere che porre fine alloccupazione illegale di Israele è un prerequisito per fermare le ricorrenti violazioni dei diritti umani in Israele e nei TPO”.

Occupazione ‘perpetua’

Secondo il diritto internazionale umanitario loccupazione di un territorio durante un conflitto è intesa come temporanea. La potenza occupante è tenuta ad amministrare il territorio nell’interesse della popolazione sotto occupazione e a preservare quanto più possibile la situazione che esisteva all’inizio dell’occupazione, anche rispettando le leggi esistenti e astenendosi dall’introdurre cambiamenti demografici e dall’alterare l’integrità territoriale.

Loccupazione israeliana non è stata in grado di allinearsi con questi principi fondamentali del diritto umanitario internazionale. La durata delloccupazione israeliana – più di mezzo secolo – insieme allannessione ufficiale autoritaria e illegale di Gerusalemme Est occupata e allannessione di fatto di ampie aree della Cisgiordania attraverso la confisca delle terre e lespansione delle colonie, forniscono una chiara prova che lintenzione di Israele è rendere loccupazione permanente e a beneficio della potenza occupante e dei suoi cittadini.

La Striscia di Gaza è rimasta occupata anche dopo il ritiro delle forze israeliane e lallontanamento dei coloni nel 2005, poiché Israele ha mantenuto il dominio effettivo sul territorio e sulla sua popolazione, anche attraverso il controllo dei suoi confini, delle acque territoriali, dello spazio aereo e dell’anagrafe. Per 16 anni loccupazione è stata vissuta a Gaza attraverso il blocco illegale da parte di Israele che ha gravemente limitato la circolazione di persone e merci e ha devastato leconomia della Striscia, e dopo ripetuti episodi di ostilità che hanno ucciso e ferito migliaia di civili e distrutto gran parte delle infrastrutture e abitazioni di Gaza.

Tutti gli Stati devono rivedere le loro relazioni con Israele per garantire che non stiano contribuendo a sostenere loccupazione o il sistema di apartheid”, afferma Callamard. Mentre i ministri degli Esteri europei si riuniscono oggi a Bruxelles la necessità di lanciare un appello chiaro e unito per la fine delloccupazione israeliana non è mai stata così urgente”.

La vita sotto l’occupazione

I palestinesi che vivono sotto loccupazione israeliana sono soggetti a una miriade di violazioni dei diritti umani, mantenute da un regime istituzionalizzato di dominazione e oppressione sistematiche. Le leggi discriminatorie e repressive, ufficialmente adottate come parte delloccupazione ma di fatto al servizio degli obiettivi del sistema israeliano di apartheid israeliano, hanno frammentato e segregato i palestinesi nei territori occupati, sfruttando illegalmente le loro risorse, limitando arbitrariamente i loro diritti e le loro libertà e controllando quasi ogni aspetto della loro vita.

Anche prima delle ultime ostilità i palestinesi di Gaza sono stati sottoposti a numerose offensive militari israeliane – almeno sei tra il 2008 e il 2023 – oltre a un persistente blocco terrestre, aereo e marittimo che ha contribuito a mantenere un controllo effettivo e loccupazione di Gaza da parte di Israele. Durante quelle offensive, Amnesty International ha documentato una schema ricorrente di attacchi illegali, che costituiscono crimini di guerra e persino crimini contro lumanità, mentre il perdurare del blocco costituisce una punizione collettiva, anchessa un crimine di guerra.

In Cisgiordania, inclusa Gerusalemme Est occupata, i palestinesi affrontano regolarmente un uso eccessivo della forza, uccisioni illegali, arresti arbitrari, detenzione amministrativa, sfollamenti forzati, demolizioni di case, confisca di terre e risorse naturali e negazione dei diritti e delle libertà fondamentali. Il sistema di chiusura a più livelli di Israele, rafforzato da una sorveglianza di massa, barriere fisiche e restrizioni giuridiche, tra cui muri e recinzioni illegali, centinaia di checkpoint e posti di blocco e un regime arbitrario, ha limitato la libertà di movimento dei palestinesi e perpetuato la loro privazione dei diritti civili.

Tra gli esempi più emblematici del totale disprezzo di Israele per il diritto internazionale si evidenzia la creazione e lincessante diffusione di colonie israeliane in tutti i TPO e lannessione illegale di Gerusalemme Est occupata subito dopo la guerra del 1967, sancita costituzionalmente nel 1980. Attualmente in Cisgiordania, inclusa Gerusalemme est occupata, ci sono almeno 300 insediamenti e avamposti coloniali israeliani illegali con una popolazione di oltre 700.000 coloni.

Per 56 anni i palestinesi nei TPO hanno vissuto intrappolati e oppressi sotto la brutale occupazione israeliana, soggetti a una discriminazione sistematica. Ogni aspetto della loro vita quotidiana è sconvolto e controllato dalle autorità israeliane, che pongono restrizioni ai loro diritti di spostarsi, guadagnarsi da vivere, perseguire aspirazioni educative e professionali e godere di una qualità di vita dignitosa, oltre a privarli dellaccesso alla loro terra e alle loro risorse naturali”, afferma Agnès Callamard.

Inoltre Israele ha continuato le sue feroci politiche di furto di terre espandendo incessantemente le colonie illegali in violazione del diritto internazionale con conseguenze devastanti per i diritti umani e la sicurezza dei palestinesi. Da decenni i violenti coloni israeliani attaccano i palestinesi nella pressoché totale impunità.

Un sistema di controllo draconiano

Il draconiano sistema di controllo di Israele sui TPO comprende una vasta rete di posti di blocco militari, muri e recinzioni, basi e pattuglie militari, nonché una serie di imposizioni militari repressive.

Il controllo da parte di Israele dei confini dei TPO, dei registri anagrafici, della fornitura di acqua, elettricità, servizi di telecomunicazione, dell’assistenza umanitaria e allo sviluppo, e l’imposizione della sua valuta hanno avuto effetti devastanti sullo sviluppo economico e sociale del popolo palestinese nei TPO.

Questo controllo ha raggiunto livelli di crudeltà senza precedenti nella Striscia di Gaza, dove Israele mantiene da 16 anni un blocco illegale ulteriormente rafforzato dal 9 ottobre 2023. Il blocco, insieme alle ricorrenti operazioni militari israeliane, hanno gettato la Striscia di Gaza in una delle più gravi crisi umanitarie e dei diritti umani dei tempi moderni.

In quanto potenza occupante Israele ha lobbligo di garantire la protezione e il benessere di tutti coloro che risiedono nel territorio che controlla. Invece, ha perpetrato impunemente gravi e sistematiche violazioni dei diritti umani. Israele menziona come motivo delle sue politiche crudeli la necessità di mantenere la sicurezza. Ma la sicurezza non può mai giustificare lapartheid, le annessioni e gli insediamenti coloniali illegali, o i crimini di guerra contro la popolazione protetta. Lunico modo per garantire la sicurezza a israeliani e palestinesi è sostenere i diritti umani per tutti”, afferma Callamard.

Porre fine alloccupazione significherebbe ripristinare i diritti dei palestinesi revocando il brutale blocco su Gaza, smantellando le colonie israeliane in Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, e annullando la loro annessione illegale. Permetterebbe ai palestinesi di muoversi liberamente nelle aree in cui vivono e consentirebbe il ricongiungimento alle famiglie separate da condizioni diverse di riconoscimento giuridico – come la residenza a Gerusalemme e in Cisgiordania o nella Striscia di Gaza. Allevierebbe le sofferenze di massa e porrebbe fine alle violazioni su vasta scala dei diritti umani.

Contribuirebbe inoltre ad affrontare una delle cause profonde della violenza e dei crimini di guerra ricorrenti contro gli israeliani, contribuendo così a migliorare la tutela dei diritti umani e a garantire giustizia e riparazione per le vittime di tutte le parti.

Antefatti

Il 30 dicembre 2022 lAssemblea Generale dell’ONU ha adottato la risoluzione A/RES/77/247, con la quale ha richiesto alla Corte Internazionale di Giustizia un parere consultivo su questioni chiave riguardanti: le conseguenze legali derivanti dalla occupazione prolungata e dalla colonizzazione e annessione del territorio palestinese occupato dal 1967; la modalità in cui le politiche e le pratiche di Israele influenzano lo status giuridico delloccupazione; l’entità delle conseguenze legali scaturite da questo status per tutti gli Stati e per lONU.

Si prevede che la Corte emetta il suo parere consultivo entro la fine dell’anno.

Per sessantanni Amnesty International ha documentato come le forze israeliane abbiano commesso impunemente gravi violazioni dei diritti umani negli OPT. Nel 2022, lorganizzazione ha pubblicato il rapporto sullapartheid israeliano contro i palestinesi: “Un sistema crudele di dominazione e di crimini contro lumanità”. Questo rapporto evidenzia il ruolo radicato che lesercito israeliano e la sua occupazione hanno avuto nel perpetuare il sistema di apartheid. Molti dei risultati e delle raccomandazioni del rapporto sottolineano lurgente necessità di porre fine alloccupazione israeliana per rimuovere le circostanze che consentono i crimini contro lumanità e di guerra.

Contatta:  media@aiusa.org

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




‘Israeliani Contro l’Apartheid’ chiede alla CPI di agire per proteggere i palestinesi dal genocidio

Israeliani Contro l’Apartheid

6 novembre 2023 – Mondoweiss

Noi, Israeliani Contro l’Apartheid, associazione di ebrei israeliani per la decolonizzazione, che rappresenta oltre 1.500 cittadini preoccupati, chiediamo alla CPI (Corte Penale Internazionale) di agire prontamente contro i crescenti crimini di guerra israeliani e il genocidio del popolo palestinese.

Nota dell’Editore: I membri dell’associazione Israeliani Contro l’Apartheid, che raggruppa 1500 persone, il 2 novembre 2023 hanno inviato la seguente lettera a Karim A.A. Khan, Procuratore della Corte Penale Internazionale, chiedendo un immediato intervento internazionale per fermare il massacro a Gaza.

2.11.2023

A Karim A.A. Khan, Procuratore della Corte Penale Internazionale,

Noi, ‘Israeliani Contro l’Apartheid’, associazione di ebrei israeliani per la decolonizzazione, che rappresenta oltre 1.500 cittadini preoccupati, chiediamo alla CPI (Corte Penale Internazionale) di agire prontamente contro i crescenti crimini di guerra israeliani e il genocidio del popolo palestinese. Per la sicurezza e il futuro della regione devono essere applicati tutti gli elementi del diritto internazionale e devono essere indagati i crimini di guerra. Apprezziamo la vostra profonda preoccupazione per le vite dei palestinesi, degli israeliani e di altri, e traiamo coraggio dalla vostra determinazione a svolgere un’indagine approfondita sulle perduranti violazioni del diritto internazionale.

Come attivisti israeliani anticolonialisti abbiamo unito le nostre voci a quelle dei palestinesi che da decenni mettono in guardia sulla pericolosa deriva perseguita dallo Stato israeliano e hanno ripetutamente chiesto l’intervento internazionale.

La persistente impunità ha creato le condizioni per il consolidamento del regime di apartheid israeliano, che intende perpetrare la pulizia etnica e il genocidio della popolazione indigena palestinese. Il grave deterioramento delle imprescindibili condizioni di vita a cui ora stiamo assistendo avrebbe potuto essere evitato se Israele non avesse costantemente goduto dell’impunità per i suoi continui crimini.

Siamo riconoscenti per le vostre dichiarazioni del 29 ottobre che hanno sottolineato che impedire gli aiuti umanitari a Gaza potrebbe costituire un crimine che ricade sotto la giurisdizione della CPI e che Israele deve fare “manifesti sforzi, senza ulteriore ritardo, per garantire che i civili ricevano essenziale cibo, acqua e farmaci”. La fornitura immediata di aiuti agli abitanti di Gaza è essenziale per impedire le atrocità della fame e della sete per cause umane tra la popolazione palestinese occupata.

Ad aprile 2018, in seguito alla sistematica uccisione di manifestanti disarmati durante la Grande Marcia del Ritorno, la sua predecessora, Fatou Bensouda, avvertì: “La violenza contro i civili in una situazione come quella di Gaza potrebbe configurare crimini ai sensi dello Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale.” Vi scongiuriamo di assumervi la vostra responsabilità di emettere mandati di arresto e di chiamare a rispondere coloro che commettono questi atti criminali.

L’attuale escalation, dopo l’attacco di Hamas a Israele e l’incursione di gruppi armati palestinesi il 7 ottobre 2023, in cui sono stati uccisi più di mille israeliani e presi in ostaggio più di 200, ha condotto ad un’ondata di violenza e a crimini di guerra compiuti dallo Stato di Israele. Riteniamo cruciale che i tempi dell’inchiesta siano pertanto accelerati. Apprezziamo la vostra dichiarazione che le istituzioni preposte a proteggere la popolazione civile debbano indagare questi possibili crimini e ci aspettiamo che voi agiate con la stessa rapidità messa in atto nel caso dell’Ucraina, per garantire che venga fatta giustizia e vengano salvate vite innocenti.

Siamo estremamente preoccupati dagli inviti istituzionali da parte di Israele al genocidio, che vengono espressi a gran voce in ebraico e crediamo che dovrebbero essere seriamente presi in considerazione in quanto sono in gioco migliaia, se non milioni, di vite umane. Il 29 ottobre 2023 Benjamin Netanyahu ha fatto una dichiarazione pubblica riferendosi al popolo palestinese come “Amalek” [nipote di Esaù, è stato secondo la Bibbia il primo nemico ad attaccare gli Israeliti, subito dopo che questi avevano attraversato il Mar Rosso. Ha finito per rappresentare il male assoluto, il Demonio, ndt.] e citando la Bibbia: “distruggere completamente tutto quanto Amalek possiede e non risparmiare nessuno; bensì uccidere sia uomini che donne e bambini…”

Il personale militare e i giornalisti israeliani ora si appellano apertamente alla pulizia etnica e al genocidio. E’ evidente che Israele disprezza le vite dei civili a Gaza, ordinando loro di evacuare vaste aree anche se a Gaza non esiste un luogo sicuro dove la gente possa fuggire. E non dovrebbero neanche essere costretti a lasciare le proprie case: al contrario, la Risoluzione 194 dell’ONU promette loro il diritto al ritorno alle originarie abitazioni in quello che ora è lo Stato di Israele.

Ci dispiace moltissimo che, nonostante l’avvio di un’inchiesta, seguita dalla decisione del 2021 della Prima Camera Preliminare, secondo cui la Corte può esercitare la sua giurisdizione penale sulla situazione in Palestina, voi finora non abbiate intrapreso azioni concrete per fermare la tragica parabola di eventi nella nostra regione, accertando rendendo Israele responsabile.

Organizzazioni palestinesi, internazionali ed israeliane hanno fatto più volte appello al vostro ufficio perché intraprendiate azioni contro le sistematiche violazioni del diritto internazionale, i continui crimini di guerra e l’immane disprezzo dei più basilari diritti umani del popolo palestinese.

I crimini di guerra israeliani sono sistematici e continui e stanno aumentando. Le chiare e ben documentate prove di essi sono state sottoposte al vostro ufficio per anni. Vi invitiamo pressantemente a intraprendere azioni concrete e immediate.

Considerando l’intensificarsi della violenza e con l’obiettivo di salvare quante più vite possibile, vi esortiamo di:

  1. Emettere immediati mandati di arresto contro i dirigenti israeliani politici e della sicurezza militare che stanno commettendo crimini di guerra e crimini contro l’umanità;

  2. Accelerare la vostra inchiesta sui continui crimini perpetrati in questo momento dallo Stato di Israele, dalle sue forze militari e da cittadini israeliani armati sotto protezione dell’esercito; e

  3. Essere una tribuna valida ed equilibrata per presunti crimini che derivano dall’attuale situazione, piuttosto che fare riferimento ad accuse non convalidate e non verificate.

Allegato: Inviti al genocidio / Giustificazione del genocidio

Alcuni esempi di prove di dirigenti israeliani che invitano al genocidio:

  • Venerdì 13 ottobre il Presidente israeliano Isaac Herzog ha detto che tutti i cittadini di Gaza sono responsabili per gli attacchi che Hamas ha compiuto in Israele e che non ci sono civili innocenti a Gaza. Un elenco di simili inviti da parte di personaggi pubblici israeliani si può trovare qui.

  • Mercoledì 25 ottobre il sindaco di Sderot, ex deputato (n.3 del partito di Naftali Bennet) Alon Davidi ha detto: “Ogni abitante di Gaza è ISIS. Devono essere colpiti tutti…Non ho pietà per loro. Coloro che vivono là, due milioni di persone, sono nazisti. E’ una zona di nazisti e di ISIS che fornisce totale appoggio a Hamas e alla Jihad e, per quanto mi riguarda, ogni abitante di Gaza è di Hamas e dell’ISIS e dobbiamo ritenerli responsabili.” Davidi sottolinea che questo è il sentimento condiviso da tutti gli abitanti del sud (di Israele) con cui lui parla: “La gente vuole dirlo chiaramente: o noi o loro.” 

  • L’ex deputato Moshe Feiglin ha esortato alla completa distruzione di Gaza, come Hiroshima (senza armi nucleari)  

  • L’ex ambasciatore israeliano all’ONU Dan Gillerman ha definito i palestinesi “orribili animali disumani”

  • Un gruppo di esperti del governo israeliano ha recentemente delineato un piano per la completa pulizia etnica di Gaza.

Personaggi o organizzazioni pubbliche:

  • Eyal Golan, un popolare cantante israeliano, ha ribadito alla televisione israeliana la connotazione della popolazione di Gaza come “animali umani”, aggiungendo: “Dobbiamo cancellare Gaza e non lasciarvi nessuno vivo.”

  • Una propaganda distribuita sui social media da un movimento di destra dal titolo “Questa volta vinceremo – Eliminare Gaza” esplicita i suoi obbiettivi per la Striscia di Gaza: “Radere al suolo, Occupare, Colonizzare.”

Un opuscolo con “Codice Etico” fatto circolare ampiamente tra civili e soldati dalla “organizzazione per i diritti umani” di destra israeliana “Btsalmo” auspica il genocidio:

Codice etico per l’esercito di Israele”:

. Desidero offrire la mia anima per salvare il popolo ebraico.

. Il nemico deve essere eliminato piuttosto che neutralizzato.

. Una popolazione che appoggia il terrore è il nemico

. Un ordine di mettere a rischio le vite di civili o soldati allo scopo di

proteggere il nemico è manifestamente illegale.

. Lo sradicamento del male è un precetto morale ed è per il bene

dell’Umanità. Perseguiterò i miei nemici, li raggiungerò e non tornerò

prima della loro morte.

Firmato: Israeliani Contro l’Apartheid.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




La Chiesa anglicana del Sud Africa solidarizza con la Palestina e dichiara Israele Stato di apartheid

Redazione

02 ottobre 2023-The New Arab

La Chiesa anglicana in Sud Africa ha dichiarato Israele uno “Stato di apartheid”, a seguito di una campagna condotta da attivisti palestinesi.

Mercoledì il Comitato permanente provinciale della Chiesa cristiana ha approvato una risoluzione che definisce Israele come uno Stato di apartheid e rivede [le modalità dei] pellegrinaggi in Terra Santa.

Amnesty International, insieme ad altre ONG, definisce le condizioni in cui vivono i palestinesi sotto l’occupazione israeliana come “apartheid”, riferendosi al sistema oppressivo di segregazione razziale in Sud Africa in vigore fino al 1994.

“Come persone di fede che sono angosciate dal dolore dell’occupazione della Cisgiordania e di Gaza – e che desiderano la sicurezza e una pace giusta sia per la Palestina che per Israele – non possiamo più ignorare la realtà sul terreno”, ha affermato sul suo blog il capo della Chiesa anglicana sudafricana, l’arcivescovo Thabo Makgoba.

“Quando i neri sudafricani che hanno vissuto sotto l’apartheid visitano Israele i parallelismi con l’apartheid sono impossibili da ignorare. Se restiamo a guardare e restiamo in silenzio saremo complici della continua oppressione dei palestinesi”.

L’arcivescovo ha chiesto la pace per palestinesi e israeliani, ma ha condannato le politiche oppressive dei successivi governi israeliani e ha affermato che stanno “divenendo sempre più estreme”.

In un messaggio audio ha detto: “Per i cristiani, la Terra Santa è il luogo dove Gesù è nato, è stato allevato, cresciuto e crocifisso. I nostri cuori soffrono per i nostri fratelli e sorelle cristiani in Palestina, il cui numero include anglicani ma sta rapidamente diminuendo”.

“Le persone di tutte le fedi in Sud Africa hanno sia una profonda comprensione di cosa significhi vivere sotto l’oppressione, sia l’esperienza di come affrontare e vincere un governo ingiusto con mezzi pacifici”.

La risoluzione della Chiesa sudafricana chiede anche di stabilire rapporti con i cristiani palestinesi, compresi incontri con la comunità laica e il clero durante i pellegrinaggi, e che si attiri l’attenzione sulla persecuzione dei palestinesi.

La risoluzione dichiara: “Le visite ai cristiani di Palestina per ascoltare le loro storie spesso non rientrano nel programma di questi pellegrinaggi e, inoltre, la parola ‘Palestina’ non è mai o quasi mai usata nel materiale pubblicitario o nella preparazione del pellegrinaggio”.

“L’occupazione militare della Palestina non è quasi mai menzionata o discussa in questi pellegrinaggi e le somiglianze con l’apartheid in Sud Africa [sono] raramente discusse.”

Da tempo i leader neri sudafricani e gli attivisti del movimento per i diritti civili del Sudafrica tracciano parallelismi tra le loro esperienze durante l’apartheid e le condizioni dei palestinesi oggi.

Dopo essere diventato presidente del Sudafrica post-apartheid Nelson Mandela disse: “Sappiamo fin troppo bene che la nostra libertà è incompleta senza la libertà dei palestinesi”.

Anche l’ex leader della Chiesa anglicana sudafricana, l’’arcivescovo emerito Desmond Tutu, ha ripetutamente utilizzato la sua piattaforma mediatica per difendere i diritti dei palestinesi prima della sua morte nel 2021.

Ha detto che per molti versi le condizioni dei palestinesi che vivono sotto l’’occupazione israeliana sono peggiori di quelle sopportate dai neri sudafricani durante l’’apartheid.

“Sono stato testimone dell’umiliazione sistematica di uomini, donne e bambini palestinesi da parte di membri delle forze di sicurezza israeliane”, ha detto ai media sudafricani nel 2014.

“La loro umiliazione è familiare a tutti i neri sudafricani che sono stati rinchiusi, molestati, insultati e aggrediti dalle forze di sicurezza del governo dell’apartheid”.

(traduzione dall’Inglese di Giuseppe Ponsetti)




La lettera sull’”apartheid” di alcuni accademici ha lo scopo di infrangere il “muro di silenzio” delle istituzioni ebraiche

Philip Weiss

28 agosto 2023 – Mondoweiss

L’elenco dei firmatari di una lettera di accademici israeliani che attacca il sostegno ebraico all'”apartheid” rivela “la grande paura” all’interno della comunità ebraica: molti hanno paura di firmare la lettera per non compromettere la loro carriera.

Il 5 agosto un gruppo di accademici ebrei israeliani ha pubblicato una lettera intitolata Lelefante nella stanza, fortemente critica nei confronti dei leader ebrei americani. Li accusa di fare uneccezione rispetto all’ impegno ebraico per la giustiziasostenendo l’”apartheid” in Israele. Afferma che i palestinesi devono avere uguali diritti, in uno o due Stati, e che solo la democrazia può salvare Israele dalla dittatura.

Da allora la coraggiosa lettera ha guadagnato lattenzione dei media globali e oltre 2000 firme, in gran parte di accademici, compresi dei sionisti tradizionali come David Myers, Paul Scham, Dan Fleshler, Rabbi Arthur Waskow e Shaul Magid. Alcuni nomi sono una vera sorpresa: Benny Morris e lo studioso dellOlocausto Saul Friedlander. La lettera ha anche ottenuto il sostegno della sinistra.

Shira Klein, una delle autrici, mi fa sapere che la lettera è stata pensata come un colpo di martello: per rompere il muro di silenzioesistente nella comunità ebraica americana in materia di diritti dei palestinesi. E nonostante abbia ottenuto un grande successo, dice, lelenco dei 2147 firmatari rivela la grande paura” allinterno della comunità ebraica: molti ebrei nelle istituzioni ebraiche le hanno detto che hanno paura di firmare per timore che ciò comprometta la loro carriera.

La Klein dice di aver avuto lidea della lettera dopo una sconcertante discussione con un rabbino da cui emergeva l’omertà presente nella comunità ebraica statunitense a proposito della Palestina.

A giugno lei e altri tre accademici israeliani presso università americane si sono messi a lavorare sulla lettera: Omer Bartov, Meir Amor e Lior Sterneld. A loro si è unito presto l’accademico David Myers, ex capo del New Israel Fund [ONG a favore dei diritti sociali e uguaglianza in Israele con sede negli Stati Uniti, ndt.] e del Center for Jewish History.

Tutti noi siamo profondamente integrati nella comunità ebraica. Siamo tutti israeliani tranne David. Siamo cresciuti in Israele, abbiamo fatto il servizio militare e tutto il resto, dice Klein. Quindi sarebbe difficile liquidare qualcuno dei promotori come ebrei che odiano sè stessi”.

Klein è una docente di storia alla Chapman University, specializzata sul ruolo degli ebrei italiani in tale comunità. Ha anche pubblicato lavori sulle distorsioni del tema dell’Olocausto su Wikipedia.

La lettera è nata in seguito alla sensazione degli studiosi che esista una incredibile dissonanzatra lo splendido spirito progressistaquale caratteristica fondamentale della comunità ebraica americana su innumerevoli questioni di giustizia sociale, dalla razza ai diritti dei gay e il silenzio assoluto su tutto ciò che riguarda Israele”, dice Klein.

Aveva tre figli nelle scuole ebraiche e nel loro programma di studi la parola palestinesenon era nemmeno menzionata. Gli insegnanti le hanno detto che dovevano tenere la bocca chiusa. Cera una coltre di grande paura di esprimersi su Israele”, afferma.

La risposta alla lettera è stata straordinaria, afferma Klein, con centinaia di accademici che hanno concordato sul termine apartheid e sulla possibilità di uno Stato democratico. Ma è emerso chiaramente anche il [blocco legato ad un] divieto.

Molti potenziali firmatari hanno detto a Klein: Sono daccordo con ogni parola. Ma hanno espresso timore per la sicurezza del lavoro o per ritorsioni da parte dei consigli di amministrazione, o riguardo la possibilità che dei committenti ritirassero i finanziamenti, che le organizzazioni di cui sono responsabili reagissero negativamente.

L’elenco dei firmatari ebrei riflette questo clima. “La stragrande maggioranza dei rabbini sono professori emeriti o cappellani”, dice Klein. I cappellani in genere lavorano per istituzioni come gli ospedali e non devono rispondere ai consigli di amministrazione.

Molti rabbini sono Ricostruzionisti. “Ci sono pochissimi rabbini conservatori o riformati”, sostiene Klein, e non è sicura se ci siano rabbini ortodossi.

Allo stesso modo gli accademici ebrei tendono ad essere professori di ruolo o docenti emeriti.

Puoi sentire il suono del silenzio, afferma Klein. Dice che vorrebbe avere un dollaro per ogni docente che le ha detto che gli piacerebbe firmare ma che non può correre il rischio.

Noto che c’è una scarsità di firmatari provenienti da organizzazioni sioniste liberali come J Street, Americans for Peace Now e New Israel Fund. [La parola] apartheid e il discorso sullo Stato unico li hanno sicuramente bloccati.

I promotori hanno deliberatamente inserito la parola apartheid. In effetti, appare due volte nella lettera e ha spaventato alcuni potenziali firmatari. Sebbene Klein abbia affermato che i redattori hanno rinunciato alla tentazione di inserire la frase, “stiamo assistendo ad un potenziale genocidio”.

Il comitato direttivo per la lettera è cresciuto fino a comprendere Tamir Sorek, Omri Boehm, Hasia Diner, Nitzan Lebovic e Peter Bainart, dice Klein. “Vi hanno partecipato una dozzina di persone in tutto.”

Hanno cercato quante più firme potevano ottenere all’interno della comunità ebraica senza alienarsi le simpatie delle persone. Ma non volevamo delle dichiarazioni superficiali e ambigue, afferma Klein. “È stato difficile trovare quell’equilibrio.”

Ecco il passaggio più incisivo della lettera:

Senza uguali diritti per tutti, sia in uno Stato, due Stati, o in qualsiasi altro quadro politico, c’è sempre il pericolo di una dittatura. Non potrà esserci democrazia per gli ebrei in Israele finché i palestinesi vivranno sotto un regime di apartheid, come lo hanno descritto esperti di diritto israeliani.

Un segno importante del gradimento della lettera è dato dall’adesione di molti esponenti del movimento di sinistra, pragmatico e solidale con i palestinesi, che hanno trovato il linguaggio gradevole. Tra di loro, Diner, Marjorie Feld, Avi Shlaim, Mazin Qumsiyeh, Mark Braverman, Jacqueline Rose, Judith Butler, Nurit Peled Elhanan, Eva Illouz, Rabbi Ellen Lippmann, James Paul del Global Policy Forum, Ian Lustick, Lowell Johnston, Joseph Levine, Rabbi Brian Walt, Brian Klug, Mark LeVine, Estee Chandler e Juan Cole.

La lettera viene alla luce nel momento in cui il Partito Democratico ha varato la legge sullapartheid: in Israele e Palestina non esisterebbe apartheid, e decine di interventi al Congresso confermano questa convinzione.

Naturalmente il destinatario principale della lettera è la comunità ebraica. “La domanda da un milione di dollari è quale impatto avrà la lettera”, afferma Klein. , abbiamo lattenzione dei media. Ma si tradurrà in sermoni durante le festività principali? Si tradurrà nellinserimento dei palestinesi nei programmi di studio delle scuole ebraiche? Se così non fosse, non cambierebbe nulla”.

(traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Sempre più sionisti stanno infine ammettendo l’apartheid israeliano, ma poi cosa succede?

Jonathan Ofir

14 agosto 2023 – Mondoweiss

Il generale israeliano in pensione Amiram Levin e il giornalista sudafricano Benjamin Pogrund sono gli ultimi a intervenire sull’apartheid israeliano. Adesso sorge la domanda: che cosa intendono fare in proposito?

Ora che vi è consenso all’interno della comunità dei diritti umani sul fatto che Israele sia uno Stato di apartheid, molti incominciano ad ammetterlo, persino alcuni insigni israeliani e apologeti di Israele. Ma anche se affermano ciò che è evidente, cercano comunque di limitare il danno e al tempo stesso di celare la propria personale responsabilità e provare a circoscrivere i possibili rimedi.

E’ cominciato forse all’inizio di quest’anno, quando lo storico giornalista israeliano di centro Ron Ben Yishai ha messo in guardia dall’incombente apartheid come il principale obbiettivo delle riforme giudiziarie dell’attuale governo. Ora il generale israeliano in pensione Amiram Levin ha rilasciato un’intervista alla radio Kan in Israele in cui ha fatto riferimento al “totale apartheid” nella Cisgiordania occupata:

Da 56 anni non vi è democrazia. Vige un totale apartheid. L’IDF (esercito israeliano), che è costretto a gestire il potere in quei luoghi, è in disfacimento dall’interno. Osserva dal di fuori, sta a guardare i coloni teppisti e sta iniziando a diventare complice dei crimini di guerra.”

In Israele Levin è considerato un liberale ed ha un passato scandalosamente razzista. In passato ha minacciato di “fare a pezzi i palestinesi” e “cacciarli in Giordania”, ha detto che “i palestinesi hanno meritato l’occupazione” e che nella maggioranza i palestinesi sono “nati per morire comunque, noi semplicemente li aiutiamo a farlo”. Eppure sì, egli vede un “totale apartheid”.

L’intervista viene sulla scia di una recente lettera agli ebrei americani che li rimprovera di ignorare l’apartheid, l’“elefante nella stanza”. Molti accademici e personaggi pubblici israeliani hanno firmato questa lettera che al momento ha ottenuto più di 1500 firme. Tra i firmatari vi sono anche convinti sionisti come Benny Morris. La lettera contiene suggerimenti di azione, compresa una richiesta al governo USA di sanzionare Israele:

Si chiede che i leader eletti negli Stati Uniti agevolino la fine dell’occupazione, impediscano che gli aiuti militari americani vengano usati nei Territori Palestinesi Occupati e mettano fine all’impunità israeliana alle Nazioni Unite e in altre organizzazioni internazionali.”

Un chiaro appello all’azione che, volutamente o no, riecheggia gli appelli che gli attivisti del BDS (Boicottaggio, Disinvestimento, Sanzioni) lanciano da quasi 20 anni. Ma non tutti approvano che il BDS si rafforzi come naturale risposta a questo apartheid.

La settimana scorsa Benjamin Pogrund, che è stato giornalista nel Sudafrica dell’apartheid, ha scritto un articolo su Haaretz intitolato “Per decenni ho difeso Israele dalle accuse di apartheid. Non posso più farlo.” Pogrund spiega di essere stato interpellato nel 2001 dall’allora Primo Ministro israeliano Ariel Sharon per far parte della delegazione governativa di Israele alla Conferenza Mondiale Contro il Razzismo a Durban: “Il governo Sharon mi invitò a causa della mia esperienza di un quarto di secolo come giornalista in Sudafrica; la mia specializzazione era riferire in dettaglio sull’apartheid.” Ma dice di non poterlo più difendere. Cita la legge razzista dello ‘Stato-Nazione’ del 2018, che codifica i diritti esclusivi per chi ha nazionalità ebrea. Poi c’è l’occupazione:

Israele non può più addurre la sicurezza come motivo del nostro comportamento in Cisgiordania e dell’assedio di Gaza. Dopo 56 anni la nostra occupazione non può più essere definita temporanea in attesa di una soluzione del conflitto con i palestinesi. Stiamo andando verso l’annessione, con la richiesta di raddoppiare i 500.000 coloni israeliani già presenti in Cisgiordania.”

Purtroppo Pogrund ha già “annesso” Gerusalemme est, che fa parte della Cisgiordania, che aggiungerebbe circa 250.000 persone al numero di coloni citati. Ma la sua osservazione sulla temporaneità è valida – è una parte importante del perché non può essere definita occupazione, che si presume essere temporanea. E poi, sorprendentemente, si scaglia contro il movimento per il Boicottaggio, Disinvestimento, Sanzioni per quello che definisce “ignoranza e/o malevolenza”:

In Israele sono ora testimone dell’apartheid in cui sono cresciuto. Israele sta facendo un regalo ai suoi nemici del movimento Boicottaggio, Disinvestimento, Sanzioni e ai loro alleati, soprattutto in Sudafrica, dove la negazione dell’esistenza di Israele è forte tra molti neri, nei sindacati e negli ambienti comunisti e musulmani. Gli attivisti del BDS continueranno a lanciare le loro accuse, frutto di ignoranza e/o malevolenza, diffondendo menzogne su Israele. Hanno trasformato ciò che è già negativo in grottesco, ma ora lo rivendicano. Israele gli sta dando ragione.”

Pogrund è stizzito. Questi attivisti BDS sono arrivati prima di lui nel chiedere di redarguire Israele, ma vuole avere il controllo su quando definire qualcosa apartheid e quando no, quando difenderlo e quando no. Gli attivisti BDS utilizzano una strategia consolidata per isolare lo Stato dell’apartheid. Pogrund non vuole che ciò accada, ma sa che è destinato ad accadere, perché Israele alla fine li legittimerà.

Che prospettiva confusa.

Sia Pogrund che Levin sono arrabbiati, ma è chiaro che la loro rabbia non è dovuta al crimine contro l’umanità che si compie contro i palestinesi, ma a ciò che accade a loro. Levin, un veterano dell’apparato di sicurezza di Israele e responsabile proprio del sistema che ora critica, si scaglia contro l’attuale governo. Non addita le proprie responsabilità e fa di tutto per dire che non sta esprimendo preoccupazione per i palestinesi.

Non sto dicendo questo perché mi importa dei palestinesi. Mi importa di noi. Ci stiamo uccidendo dall’interno. Stiamo disfacendo l’esercito, stiamo disfacendo la società israeliana”, dice. Ed è tutta colpa di “Bibi” (il soprannome di Netanyahu). “Bibi ha fallito”.

Ciò è estenuante: il tipico narcisismo israeliano. Non ci importa dei palestinesi. Guardate che cosa provoca a noi questa occupazione. 

E’ interessante come si stia diffondendo il riconoscimento dell’apartheid, ma dobbiamo stare attenti ai sionisti che cercano di prendere il controllo della narrazione e limitare il dibattito. L’apartheid israeliano non è qualcosa che accade “da qualche parte”. E’ l’apartheid dal fiume (Giordano) al mare (Mediterraneo); è dovunque. E queste risposte sono anche un buon promemoria del perché la supremazia ebraica non porrà fine a sé stessa dall’interno, l’unica risposta è dall’esterno.

Jonathan Ofir

Musicista israeliano, conduttore e blogger che vive in Danimarca.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




Chi ha detto che il BDS ‘è già fallito’?: città europee boicottano l’Israele dell’apartheid

RamzyBaroud

2 maggio 2023 – Middle East Monitor

Una serie di eventi, a partire da Barcellona, Spagna, in febbraio, seguita in aprile da Liegi, Belgio e Oslo, Norvegia, ha inviato un forte messaggio a Israele: il movimento palestinese di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS) è vivo e vegeto.

A Barcellona la sindaca della città ha annullato un accordo di gemellaggio con la città israeliana di Tel Aviv. La decisione non è stata impulsiva, benché Ada Colau sia ben nota per le sue posizioni di principio su molte questioni. E’ stata piuttosto l’esito di un processo pienamente democratico, iniziato da una proposta presentata al consiglio comunale dai partiti di sinistra.

Alcune settimane dopo che fu presa questa decisione, precisamente l’8 febbraio, un’organizzazione legale filoisraeliana nota come The Lawfare Project, ha annunciato l’intenzione di intentare una causa contro Colau in quanto lei, presumibilmente, “ha agito al di fuori della competenza della sua autorità”.

The Lawfare Project intendeva comunicare un messaggio ad altri consigli comunali in Spagna e nel resto d’Europa, cioè che vi sarebbero state gravi ripercussioni sul piano giuridico al boicottaggio di Israele. Tuttavia con grande sorpresa dell’organizzazione – e di Israele – altre città hanno subito avviato le loro procedure di boicottaggio. Tra esse la città belga di Liegi e la capitale della Norvegia, Oslo.

I vertici comunali di Liegi non hanno cercato di nascondere le ragioni della loro decisione. E’ stato riferito che il consiglio comunale ha deciso di sospendere i rapporti con le autorità israeliane perché guidano un regime “di apartheid, colonizzazione e occupazione militare”. L’iniziativa è stata appoggiata da un voto di maggioranza nel consiglio, dimostrando ancora una volta che la posizione etica filopalestinese è pienamente compatibile con un processo democratico.

Oslo rappresenta un caso particolarmente interessante. Fu là che il “processo di pace” diede luogo agli Accordi di Oslo nel 1993, che sostanzialmente divisero i palestinesi e fornirono a Israele una copertura politica alla prosecuzione delle sue pratiche illegali, sostenendo di non avere un partner per la pace.

Ma Oslo non è più legata ai vuoti slogan del passato. Nel giugno 2022 il governo norvegese ha dichiarato l’intenzione di negare l’etichetta “Made in Israel” ai beni prodotti nelle colonie ebree israeliane illegali nella Palestina occupata.

Benché le colonie ebree siano illegali ai sensi del diritto internazionale, per anni l’Europa non si è fatta scrupolo di fare affari – di fatto affari lucrativi – con queste colonie. Nel novembre 2019 la Corte di Giustizia Europea ha comunque stabilito che tutti i beni prodotti nelle “aree occupate da Israele” dovevano essere etichettati come tali, in modo da non ingannare i consumatori. La decisione della Corte era una versione attenuata di ciò che i palestinesi si aspettavano: un completo boicottaggio, se non di Israele nel suo insieme, almeno delle sue colonie illegali.

Comunque la decisione è servita ad uno scopo. Ha fornito un’ulteriore base giuridica al boicottaggio, rafforzando le organizzazioni della società civile filopalestinese e ricordando a Israele che la sua influenza in Europa non è così illimitata come Tel Aviv vuole credere.

Il massimo che Israele ha potuto fare in termini di risposta è stato rilasciare dichiarazioni aggressive unitamente a confuse accuse di antisemitismo. Nell’agosto 2022 la Ministra degli Esteri norvegese Anniken Huitfeldt ha chiesto un incontro durante la sua visita in Israele con l’allora Primo Ministro di Israele Yair Lapid. Lapid ha rifiutato. Non solo tale arroganza ha prodotto una certa differenza nella posizione della Norvegia sull’occupazione israeliana della Palestina, ma ha anche allargato i margini per gli attivisti filopalestinesi per una maggiore incisività, conducendo alla decisione di Oslo in aprile di bandire l’importazione di beni prodotti nelle colonie illegali.

Il movimento BDS ha spiegato sul suo sito web il significato della decisione di Oslo: “La capitale della Norvegia…ha annunciato che non commercerà in beni e servizi prodotti in aree che sono illegalmente occupate in violazione del diritto internazionale”. In pratica ciò significa che “la politica di acquisti di Oslo esclude le imprese che direttamente o indirettamente contribuiscono all’impresa coloniale illegale di Israele – un crimine di guerra secondo il diritto internazionale.”

Tenendo conto di questi rapidi sviluppi, The Lawfare Project ora dovrà estendere le sue cause legali includendo Liegi, Oslo e una sempre più ampia lista di consigli comunali che stanno attivamente boicottando Israele. Ma anche in questo caso non vi sono certezze che l’esito di tali contenziosi sarà comunque favorevole a Israele. Di fatto è più probabile che sia vero il contrario.

Un caso specifico è stata la recente decisione delle città di Francoforte e Monaco in Germania di annullare i concerti della leggenda del rock and roll filopalestinese Roger Waters, come parte del suo tour ‘Questa non è un’esercitazione’. Francoforte ha giustificato la sua decisione stigmatizzando Waters come “uno dei più noti antisemiti al mondo”. La bizzarra ed infondata accusa è stata categoricamente respinta da un tribunale civile tedesco che il 24 aprile ha deliberato a favore di Waters.

Certo, mentre un crescente numero di città europee si sta schierando con la Palestina, coloro che appoggiano l’apartheid israeliano trovano difficile difendere o addirittura conservare la propria posizione, semplicemente perché le prime basano le proprie posizioni sul diritto internazionale, mentre i secondi si appoggiano su distorte e convenienti interpretazioni dell’antisemitismo.

Che cosa significa tutto questo per il movimento BDS?

In un articolo pubblicato lo scorso maggio sulla rivista Foreign Policy Steven Cook ha raggiunto la precipitosa conclusione che il movimento BDS “ha già perso”, perché, secondo la sua deduzione, gli sforzi per boicottare Israele non hanno avuto effetto “nei palazzi del governo”.

Se il BDS è un movimento politico soggetto a calcoli sbagliati e errori, è anche una campagna dal basso che opera per raggiungere obbiettivi politici attraverso successivi e controllati cambiamenti. Per avere successo sul lungo termine queste campagne per prima cosa devono impegnare nelle strade la gente comune, gli attivisti nelle università, nei luoghi di culto, ecc., il tutto attraverso calcolate strategie a lungo termine, esse stesse formulate da collettivi e organizzazioni della società civile locale e nazionale.

Il BDS continua ad essere una vicenda di successo e le ultime cruciali decisioni prese in Spagna, Belgio e Norvegia attestano il fatto che gli sforzi della base ottengono risultati.

Non si può negare che la strada sia lunga e ardua. Avrà certamente le sue svolte, i suoi rovesci e, sì, le occasionali battute d’arresto. Ma è questa la natura delle lotte di liberazione nazionale. Spesso richiedono alti costi e grandi sacrifici. Ma, con la resistenza popolare interna e un crescente supporto internazionale e la solidarietà dall’estero, la libertà della Palestina dovrebbe essere di fatto possibile.

Le opinioni espresse in questo articolo appartengono all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(Traduzione dall’inglese di Cristiana Cavagna)




La rivista Foreign Affairs conferma i fatti riguardanti l’apartheid israeliano e la supremazia ebraica

Nasim Ahmed

17 aprile 2023 – Middle East Monitor

La scorsa settimana la notevole velocità con cui il termine “apartheid” è passato dai margini al centro del dibattito israeliano-palestinese è apparsa evidente. La prestigiosa rivista statunitense Foreign Affairs, unanimemente considerata una delle più influenti riguardo alla politica internazionale e che plasma il pensiero di Washington, ha aggiunto il proprio peso a favore dell’affermazione secondo cui Israele ha imposto un regime di apartheid che discrimina sistematicamente i non-ebrei.

In un articolo intitolato “La realtà israeliana di uno Stato unico” gli autori Michael Barnett, Nathan Brown, Marc Lynch e Shibley Telhami evidenziano il cambiamento epocale in corso oggi nei circoli che guidano la politica. Descrivendo la situazione in Palestina e come Israele sia arrivato a praticare l’apartheid, affermano che quello che una volta era “indicibile” ora è “innegabile”.

Una soluzione a Stato unico non è un’eventualità del futuro, esiste già indipendentemente da quello che chiunque possa pensare,” affermano gli autori, tutti studiosi di Medio Oriente. “Tra il mar Mediterraneo e il fiume Giordano un solo Stato controlla l’ingresso e l’uscita di persone e cose, supervisiona la sicurezza e ha la capacità di imporre le proprie decisioni, leggi e politiche su milioni di persone senza il loro consenso.”

Israele, sostengono gli autori, “ha imposto un sistema di supremazia ebraica, in cui i non-ebrei sono strutturalmente discriminati o esclusi, in uno schema caratterizzato da più livelli: alcuni non-ebrei hanno molti, ma non tutti, i diritti degli ebrei, mentre la maggioranza dei non-ebrei vive soggetto a una dura segregazione, separazione e dominazione.” Significativamente essi affermano che questa situazione è “ovvia” per chiunque vi abbia prestato attenzione. Per varie ragioni Washington e i sostenitori di Israele hanno preferito mettere la testa nella sabbia e calunniare come antisemita chiunque abbia indicato la verità riguardo al sistema di apartheid israeliano. “Fino a poco tempo fa la situazione di uno Stato unico raramente era riconosciuta da attori importanti, e quanti dicevano la verità a voce alta sono stati ignorati o puniti per averlo fatto,” evidenzia l’articolo. “Tuttavia, con una notevole rapidità, l’indicibile si è notevolmente avvicinato al senso comune.”

Chiunque segua da vicino il dibattito sull’apartheid israeliano sarà a conoscenza di molti dei punti evidenziati dagli autori. Dal 2021 importanti organizzazioni per i diritti umani, tra cui Human Rights Watch e Amnesty International, B’Tselem e molte altre hanno utilizzato il termine per descrivere Israele. Così hanno fatto molti accademici: secondo un recente sondaggio su studiosi del Medio Oriente membri di tre grandi associazioni accademiche, il 65% di quanti hanno risposto ha descritto la situazione in Israele e nei territori palestinesi come la “realtà di uno Stato unico con diseguaglianze simili all’apartheid.”

Oltre a ripetere fatti ben noti riguardo a come Israele ha creato un regime di supremazia ebraica, l’articolo di Foreign Affairs si distingue per l’enfasi sulle responsabilità di Washington e di altre potenze straniere per aver consentito la creazione di un regime di apartheid. Secondo gli autori, i principali alleati di Israele sono responsabili di un “pensiero magico”. Per decenni soprattutto gli USA hanno difeso l’appoggio a Israele sulla base di una pia illusione, credendo che Israele condividesse gli stessi valori dell’Occidente. “Gli Stati Uniti non hanno ‘valori condivisi’ e non dovrebbero avere ‘legami inscindibili’ con uno Stato che discrimina o prevarica su milioni di abitanti in base alla loro etnia e religione.” Gli autori sostengono che è difficile tenere insieme l’impegno nei confronti del liberalismo con l’appoggio a uno Stato che offre i benefici della democrazia agli ebrei, ma li toglie esplicitamente alla maggioranza dei suoi abitanti non-ebrei.

Mentre è diventato di moda accusare il primo ministro Benjamin Netanyahu dello spostamento di Israele verso l’apartheid, si sostiene che l’attuale situazione che garantisce la supremazia ebraica sulla Palestina storica è fortemente radicata nel pensiero e nella pratica sionista. Iniziò a conquistarsi sostenitori poco dopo l’occupazione israeliana dei territori palestinesi nel 1967. Gli autori affermano che, benché non sia ancora una “visione egemonica”, essa può essere plausibilmente descritta come condivisa dalla maggioranza della società israeliana e non più essere definita una posizione estremista. Vale la pena di tenere a mente che Netanyahu, il primo ministro israeliano più a lungo in carica, ha scritto che “Israele non è uno Stato di tutti i suoi cittadini”, ma piuttosto “del popolo ebraico, e solo questo.” Il leader del Likud è stato anche accusato di aver cancellato i palestinesi e la loro storia, un fatto che alcuni membri dell’attuale coalizione di governo appoggiano.

I sostenitori di Israele che rifiutano la situazione di uno Stato unico sono invitati a cambiare occhiali per poter vedere l’apartheid per quello che è. Gli alleati di Israele sono soliti fare una distinzione tra i territori occupati e Israele vero e proprio e a pensare che la sovranità israeliana sia limitata al territorio che controllava prima del 1967. A questo proposito gli autori sostengono che Stato e sovranità non sono la stessa cosa. “Lo Stato è definito da quello che controlla, mentre la sovranità dipende dal fatto che gli altri Stati riconoscano la legittimità di quel controllo.” L’errore consiste nel confondere le due cose senza comprendere che Israele come Stato controlla ogni palmo della Palestina, benché agli occhi della comunità internazionale lo Stato occupante non abbia diritto alla sovranità sul territorio.

Si consideri Israele attraverso le lenti di uno Stato. Ha il controllo sul territorio tra il fiume e il mare, ha il quasi totale monopolio dell’uso della forza, utilizza il proprio potere per mantenere un blocco draconiano di Gaza e controlla la Cisgiordania con un sistema di posti di blocco, il mantenimento dell’ordine pubblico e l’espansione delle colonie,” affermano gli autori, chiarendo la distinzione rispetto alla sovranità. Spiegando come Israele sia stato in grado di sfruttare la situazione, l’articolo sostiene che “non formalizzando la sovranità, Israele può essere democratico per i suoi cittadini, ma non responsabile nei confronti di milioni di suoi abitanti.” Secondo gli autori questa situazione ha consentito a molti sostenitori di Israele di continuare a fingere che tutto ciò sia temporaneo, che Israele continui a essere una democrazia e che un giorno i palestinesi eserciteranno il loro diritto all’autodeterminazione.

Per quanto le politiche USA abbiano contribuito a rafforzare la situazione dello Stato unico, la normalizzazione con gli Stati arabi in base agli accordi di Abramo ha ulteriormente cementato il sistema di apartheid israeliano. La tradizionale posizione araba era che la normalizzazione sarebbe stata offerta in cambio del completo ritiro israeliano dai territori occupati. Il punto di partenza per i negoziati era che la pace con il mondo arabo avrebbe richiesto una soluzione del problema palestinese. Gli accordi di Abramo hanno rifiutato questo assunto e in cambio hanno premiato Israele per le sue pratiche di colonialismo di insediamento. “Separare la normalizzazione con gli arabi dalla questione palestinese ha avuto un impatto notevole per il rafforzamento della situazione di uno Stato unico.”

Ammonendo i poteri autoritari del Medio Oriente, gli autori spiegano efficacemente che la questione palestinese ha una grande risonanza tra la popolazione araba. “I governanti arabi possono non interessarsi dei palestinesi, ma il loro popolo lo fa, e quei governanti non si preoccupano di altro se non di mantenere il proprio potere.” Abbandonare totalmente i palestinesi dopo più di mezzo secolo di un appoggio quanto meno a parole rappresenterebbe un rischio per la loro autorità. “I dirigenti arabi non temono di perdere le elezioni, ma ricordano fin troppo bene le rivolte arabe del 2011,” affermano gli autori, sostenendo che abbandonare la causa palestinese potrebbe innescare una rivolta popolare.

Dopo aver elencato i passi concreti che dovrebbero essere intrapresi, gli autori affermano che i decisori politici e gli analisti che ignorano la realtà dello Stato unico saranno condannati al fallimento e all’irrilevanza, non facendo molto più che fornire una cortina fumogena per il rafforzamento dello status quo. Per porre fine alla profonda complicità di Washington nel creare una situazione di Stato unico, gli USA sono invitati a prendere misure “radicali”, tra cui l’imposizione di sanzioni contro Israele e, soprattutto, che l’Occidente guardi alle sue risposte all’invasione russa dell’Ucraina come un modello per difendere le leggi internazionali e il sistema basato sulle regole che sostiene di difendere.

Le opinioni espresse nell’articolo sono dell’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle East Monitor.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)




L’economia israeliana era il fiore all’occhiello di Netanyahu. L’apartheid può sopravvivere senza?

Nimrod Flaschenberg

27 marzo 2023 – +972 Magazine

Il primo ministro non prevedeva che il colpo di stato giudiziario avrebbe minato uno degli elementi fondamentali a tutela del regime di apartheid israeliano.

La combinazione finora riuscita di neoliberismo e apartheid in Israele sta finalmente incontrando degli ostacoli interni.

Dopo mesi di proteste e pressioni economiche il primo ministro Benjamin Netanyahu ha annunciato lunedì che avrebbe temporaneamente interrotto la fase successiva della sua riforma giudiziaria. L’annuncio è arrivato di notte, dopo che centinaia di migliaia di israeliani sono scesi in piazza in tutto il Paese in seguito al licenziamento del ministro della Difesa Yoav Gallant da parte di Netanyahu, e dopo un’azione congiunta – lunedì mattina – delle grandi imprese e dell’Histadrut, il più grande sindacato israeliano, che era stato riluttante ad aderire alla protesta contro la riforma giudiziaria.

Questa crisi rappresenta il culmine di diversi mesi di guerra economica intrapresa contro il governo da ampie fasce della società israeliana, e in particolare dalle sue élite. E questo scontro interno sta mettendo in luce una sorprendente debolezza nell’economia israeliana guidata dalla tecnologia, seppure in forte espansione. Ora resta la domanda: questa debolezza potrebbe anche segnare una breccia nella lotta contro l’occupazione e l’apartheid?

In tutti gli anni trascorsi nella veste di primo ministro israeliano, il risultato più significativo di Benjamin Netanyahu è stato quello di far sembrare l’occupazione indolore, o almeno senza costi. Sotto il suo regno, l’economia israeliana è esplosa, in gran parte grazie al fiorente settore dell’high-tech. Lo Stato ha migliorato e ampliato le sue relazioni diplomatiche, aprendo nuovi mercati per l’esportazione di software e sicurezza informatica, sviluppando legami di sicurezza con partner regionali e rendendo la sua tecnologia militare indispensabile per molti Paesi in tutto il mondo.

Il modello economico israeliano dall’inizio degli anni 2000 è stato interpretato dallo storico economico Arie Krampf come un neoliberismo isolazionista. Questo è il progetto di Netanyahu: un’economia orientata all’esportazione che dovrebbe costruire resilienza geopolitica attraverso una strategia di commercio diversificato, un basso rapporto debito/PIL e grandi riserve di valuta estera. Questo modello richiede anche una deregolamentazione aggressiva e tagli alla spesa sociale, che portano a sconcertanti disuguaglianze e ad un aumento della povertà. Il sistema di welfare si è sgretolato ma sono aumentati gli investimenti esteri; le nuove ricchezze di Israele non sono state divise equamente, ma l’élite economica è soddisfatta.

Attraverso questo modello Israele ha potuto diversificare i suoi rischi e interessi economici in tutto il mondo e diminuire in qualche modo la sua dipendenza dagli Stati Uniti. Le relazioni di Netanyahu con leader mondiali come Vladimir Putin e Narendra Modi si sono basate non solo sulla predilezione per nazionalisti aggressivi che la pensano allo stesso modo, ma su una strategia di riequilibrio della posizione di Israele nella sfera globale, che lo ha reso un ambìto partner commerciale e militare.

Sebbene la campagna internazionale per la liberazione della Palestina abbia avuto un impatto sull’opinione pubblica globale, non è stata in grado di sfidare veramente questo modello economico. Il movimento BDS ha in gran parte fallito nel far crescere il costo economico per il governo e la popolazione israeliana nel sostenere e radicare l’occupazione, ed è invece diventato un parafulmine per la delegittimazione delle voci pro-palestinesi da parte di ben finanziate organizzazioni di hasbara [propaganda per la diffusione di una immagine positiva di Israele all’estero, ndt.].

L’Autorità Nazionale Palestinese, da parte sua, non ha promosso misure economiche contro Israele a causa della dipendenza della Cisgiordania dall’economia israeliana e della morsa dell’occupazione militare israeliana. Quindi, mentre i governi israeliani si sono spostati nell’arco dei decenni verso destra, intensificando l’occupazione e consolidando il regime di apartheid, lo Stato non è stato danneggiato economicamente e la sua posizione diplomatica si è solo rafforzata.

Ironia della sorte, ciò che la campagna del BDS finora non è riuscita a ottenere è ora promosso dagli ebrei israeliani: le élite che si stanno rapidamente radicalizzando nello scontro contro il tentativo di revisione giuridica del governo israeliano. Gli inevitabili impatti economici della riforma minacciano il modello neoliberista isolazionista, che è stato a lungo basato su una forte industria di esportazione e sull’impunità internazionale. Netanyahu ha vaccinato con successo l’economia israeliana contro le pressioni esterne, ma nemmeno lui è in grado di affrontare l’attuale conflitto interno.

Pericoli reali

Martedì scorso Shira Greenberg, capo economista del ministero delle Finanze israeliano, ha pubblicato un rapporto in cui suggerisce che se la riforma legale venisse approvata nella sua interezza il PIL di Israele potrebbe diminuire fino a 270 miliardi di shekel [69 miliardi di euro, ndt.] nei prossimi cinque anni. Altre stime di funzionari dello stesso ministero, presentate al ministro delle finanze Bezalel Smotrich all’inizio di questa settimana, accennavano ad una perdita annua di 100 miliardi di shekel [26 miliardi di euro, ndt.]. Smotrich ha cercato di confondere i dati dicendo che nell’incontro sono stati presentati sia opportunità che rischi, ma fonti del ministero lo hanno contraddetto, dichiarando a Calcalist [il principale quotidiano finanziario israeliano, ndt.]: Non è chiaro di quali opportunità stia parlando il ministro. C’era accordo fra i convenuti sul fatto che queste iniziative potrebbero causare gravi danni all’economia israeliana”.

Da mesi le istituzioni finanziarie internazionali suonano campanelli d’allarme sulla proposta di riforma. L’agenzia di rating del credito Moody’s ha avvertito che la riforma potrebbe impedire l’aumento del rating del credito di Israele, indicando che i cambiamenti pianificati “potrebbero anche comportare rischi a lungo termine per le prospettive economiche di Israele, in particolare l’afflusso di capitali nell’importante settore high-tech”. The Economist, il principale quotidiano economico mondiale e barometro per le posizioni dell’élite degli affari globali, ha recentemente pubblicato una notizia di copertina intitolata: “Bibi distruggerà Israele?” Sta emergendo un consenso internazionale sul fatto che il nuovo governo potrebbe alterare in modo significativo la traiettoria del capitalismo israeliano.

Il presupposto alla base del ministero delle Finanze israeliano, di Moody’s e dell’Economist è che gli Stati non democratici non sono in grado di fare buoni affari. Questo, tuttavia, è un mito liberista: molti Paesi non democratici sono enormi poli commerciali. I migliori esempi sono i nuovi alleati di Israele nel Golfo; per molti aspetti, l’autoritarismo può servire bene il capitalismo.

Inoltre, lo stesso Israele non può attualmente essere definito una democrazia in quanto tiene milioni di persone sotto controllo militare negando loro i diritti fondamentali. Ma gli investitori non hanno mai dimostrato di avere problemi reali con l’occupazione. L’atteso rallentamento economico, quindi, non sarà una semplice reazione al restringimento dello spazio democratico in Israele ma piuttosto il risultato di una profonda lotta sociale all’interno di Israele che espone il rischio economico allo sguardo degli osservatori esterni.

L’evoluzione del panico negli ultimi mesi è una profezia che si autoavvera. Molti membri dell’élite israeliana sono pronti a combattere, e in testa c’è il settore dell’alta tecnologia. I lavoratori della tecnologia, dai manager e dipendenti agli investitori, sono profondamente coinvolti nelle proteste contro il governo. Parlano di fine della democrazia israeliana e sono disposti a fare di tutto per fermare i piani del governo.

Allo stesso tempo, si stanno salvaguardando dai rischi prendendo in considerazione destinazioni dove migrare o la possibilità di spostare i loro soldi all’estero. Rapporti recenti suggeriscono un esodo di aziende high-tech in Grecia, Cipro o Albania, dove la scorsa settimana 80 aziende tecnologiche israeliane hanno tenuto un incontro per esaminare un possibile trasloco. Ricchi lavoratori high-tech stanno acquistando proprietà in Portogallo, temendo che la riforma vada a buon fine. Questi movimenti interni inviano al sistema finanziario internazionale un messaggio secondo cui la crisi è reale e Israele non costituisce una piazza sicura.

Gli investitori capitalisti non hanno necessariamente bisogno della democrazia. Hanno bisogno di stabilità e prevedibilità, beni che in Israele sono attualmente molto scarsi.

È anche l’occupazione

La prevista revisione giuridica fa parte di un più ampio passaggio al dominio dell’estrema destra nella politica israeliana. Tra le altre cose, la riforma è progettata per legalizzare l’annessione della Cisgiordania e consentire l’ulteriore persecuzione dei cittadini palestinesi, così come degli israeliani di sinistra. Una strategia politica più calcolata per il governo di Netanyahu sarebbe stata quella di raffreddare il più possibile la questione palestinese mentre veniva portato avanti il progetto giuridico. Separando le questioni della democrazia interna” israeliana dalla questione palestinese forse sarebbe stato più facile contrastare il movimento di protesta e la pressione internazionale.

Ma i membri della coalizione di Netanyahu si rifiutano di separare questi temi: stanno chiarendo che la loro preoccupazione principale nel portare avanti la riforma è perseguire i palestinesi in modo più brutale, lamentandosi del fatto che la Corte Suprema renda troppo difficile demolire le case o deportare i palestinesi. La retorica razzista pronunciata ogni giorno dai ministri del governo, l’intensificarsi della violenza di Stato in Cisgiordania che ha ucciso circa 80 palestinesi dall’inizio dell’anno, e il pogrom dei coloni a Huwara elogiato dai ministri del governo sono tutti segnali che questo è un governo di fanatici, determinato a dare fuoco alla regione. Questo, a sua volta, sminuisce la reputazione di Netanyahu come efficace leader neoliberista orientato al business. Non ha il controllo e le forze destabilizzanti su tutti i fronti – economico, sociale e militare – sembrano inarrestabili.

Sembra che le proteste interne e la pressione internazionale siano riuscite a congelare, anche se solo temporaneamente, l’ondata di modifiche nel campo giudiziario. Tuttavia, secondo molti analisti economici, gran parte del danno è già stato fatto. L’instabilità degli ultimi mesi e l’estremismo del governo hanno già spaventato molti investitori qualificando come rischiosa l’economia israeliana. Anche se la riforma è sospesa, Israele è sulla buona strada per una significativa recessione economica.

In pratica, stiamo assistendo alla frattura dell’alleanza egemonica tra il neoliberismo in stile Netanyahu e il capitale israeliano. Per anni, il progetto di neoliberismo isolazionista di Netanyahu si è basato sul fatto che Israele fosse un investimento troppo buono per mancarlo. La potenza economica e strategica di Israele avrebbe dovuto contrastare il consenso internazionale contro gli insediamenti coloniali e a favore di una soluzione a due Stati. Quindi Il capitale globale che ha permesso all’economia israeliana di prosperare è stato un elemento centrale nella lotta diplomatica contro la causa palestinese e per lungo tempo ha avuto successo.

Se l’economia dovesse subire una grave recessione, ciò potrebbe avere ripercussioni sull’apartheid israeliano. Con il conseguente caos sociale ed economico, potremmo assistere alla formazione delle prime crepe nell’impunità di Israele sulla scena mondiale.

Nimrod Flaschenberg è ex consigliere parlamentare del partito Hadash [partito politico israeliano di sinistra, ndt.]. Ora studia storia a Berlino.

(Traduzione dall’inglese di Aldo Lotta)




Da un apartheid all’altro tra Soweto e Nazareth

Jean Stern, inviato speciale a Nazareth

6 febbraio 2023 – Orient XXI

Gli abitanti di Nazareth non vivono sotto occupazione militare come in Cisgiordania o sotto un blocco come a Gaza. Però, sia a Soweto visitata nel 1989 sia nella città araba del nord di Israele visitata nel 2022, lo spirito degli abitanti e l’organizzazione urbana e sociale riflettono il fulcro dell’apartheid che è la separazione.

Settembre 1989, Soweto. La gigantesca città nera alle porte di Johannesburg contava allora più di 2 milioni e mezzo di abitanti ed io mi ci recai poco prima che Nelson Mandela uscisse dal carcere, l’11 febbraio 1990. L’apartheid, che relegava i neri del Sudafrica in uno stato di cittadinanza di serie B e in zone specifiche, crollò allora ovunque. Sotto l’influenza di Mandela e dei suoi sostenitori le manifestazioni si moltiplicarono nelle strade delle città sudafricane. Vennero violentemente represse a Soweto come in tutto il Paese. Durante quelle proteste vennero uccisi centinaia di neri, così come dopo decenni centinaia di palestinesi durante manifestazioni a Gaza, nei Territori [palestinesi occupati, ndt.], a Gerusalemme est, ma anche a Nazareth. Nell’autunno del 2000 la polizia israeliana uccise molti abitanti di Nazareth, che manifestavano la loro solidarietà con la rivolta di Gerusalemme est.

Stiamo conquistando la nostra libertà”

Soweto nel 1989 era un mondo a parte, un immenso ghetto urbano, ma è meno tagliato fuori dal mondo di quanto non lo siano oggi Gaza e i territori palestinesi occupati. Si poteva entrare ed uscire anche se, a seconda delle circostanze, i poliziotti controllavano più o meno severamente l’accesso alle sue strette strade e alle sue casette di lamiera ondulata.

Percorsi di notte i locali clandestini di Soweto, gli shebeens, incontrai persone ottimiste che preparavano il futuro di un Paese presto liberato da un sistema razzista contestato dal mondo intero. “Stiamo conquistando la nostra libertà”, diceva Souizo, un uomo di una trentina d’anni, che ballava con me per la gioia di vedere crollare l’apartheid. Dopo tanta rabbia e tanti morti, Souizo sapeva che la mobilitazione mondiale aveva fatto uscire dall’ombra la loro lotta. Con i suoi amici era fiero di spazzare via un sofisticato e subdolo sistema di discriminazione.

A Nazareth, grosso centro orientale e polveroso, più di 30 anni dopo incontro invece persone inquiete, depresse, che pensano che il loro futuro sia bloccato. Città di pellegrinaggi per una parte della cristianità, conosciuta a livello mondiale quanto Soweto, la città della Galilea si trova all’interno delle frontiere del 1948, non lontano dal lago di Tiberiade. In linea d’aria Jenin è a una ventina di chilometri. Popolata soprattutto da arabi, musulmani e cristiani, il suo agglomerato urbano conta circa 200.000 abitanti.

I miei interlocutori condividono la visione premonitrice di Nelson Mandela, espressa nel 2001:

L’efficacia della separazione si misura in termini di capacità di Israele di mantenere lo Stato ebraico e di non avere una minoranza palestinese che potrebbe avere la possibilità di diventare maggioritaria nel futuro. Se questo accadesse, ciò costringerebbe Israele a diventare uno Stato democratico o binazionale laico, oppure a trasformarsi in uno Stato di apartheid de facto.”

Sì, siamo guardati con ostilità”

La maggior parte di coloro che incontro, che una volta venivano chiamati arabi israeliani e che oggi in gran parte preferiscono definirsi palestinesi, ne è testimone. Mandela aveva ragione. Cittadini di serie B, solidali con i palestinesi rinchiusi dall’altra parte del muro o bloccati a Gaza, hanno assolutamente l’impressione di vivere quotidianamente un apartheid. “Sì, per noi l’orizzonte è bloccato, a meno di lasciare questo Paese. Sì, siamo guardati con ostilità dalla maggioranza ebrea di questo Paese. Non dicono tutti i giorni ‘morte agli arabi’, come i coloni più estremisti, ma molti lo pensano”, dice Nassira, una giovane architetta.

Nazareth è cambiata dopo la creazione dello Stato di Israele nel 1948. All’inizio c’era Nazareth “bassa”, 75.000 abitanti di cui il 35% cristiani. Dopo oltre un secolo la città della presunta Annunciazione è in maggioranza musulmana. “Nazareth è stata segnata nel 1948 dall’espulsione della popolazione e dalla demolizione da parte degli israeliani di due villaggi palestinesi contigui, Saffuriya e Ma’aloul”, mi spiega Reda, un intellettuale palestinese trentenne molto impegnato. Fare partire la popolazione araba era l’obbiettivo della creazione nel 1956 di “Nazareth alta”, ©, 40.000 abitanti, ribattezzata nel 2019 Nof HaGalil [Vista sulla Galilea] per distinguersi dalla sua rivale araba. Nazareth Illit è un progetto urbano concepito per riequilibrare la popolazione della Galilea. In questo Paese la demografia governa la politica, come osservava Mandela. Nel 1973 centinaia di persone appena arrivate dall’URSS si stabilirono a Nazareth Illit. Già allora, dopo un sordido fatto di cronaca scesero per le strade al grido di “morte agli arabi”.

La separazione urbana si vede a occhio nudo, anche se non ci sono posti di blocco né barriere tra la vecchia Nazareth araba e la nuova Nazareth a maggioranza ebrea.

Arrivando si scoprono due centri commerciali, il primo nella conca alle porte della città vecchia e il secondo sulle alture all’entrata di Nof HaGalil.

Quello in basso si chiama Big Fashion e quello in alto Mail One. Sono quasi uno di fronte all’altro, a qualche centinaio di metri. Gli stessi marchi internazionali, in basso H&M, Adidas, Mango, Pizza Hut, McDonald e in alto ancora Adidas e anche Mango, Castro, Diesel. La separazione è fatta, un centro per gli arabi, un altro per gli ebrei. A Nazareth ci si evita. I neri di Soweto non avevano il diritto di aggirarsi nei lussuosi centri commerciali del centro di Johannesburg e si accontentavano dei negozi del ghetto, spesso gestiti da indiani, classificati come “indians” dall’apartheid.

L’apartheid inizia nel mio letto”

Ricchi e poveri, bianchi o neri, ebrei o arabi, la regola della separazione produce società spaccate. Si può tradurre il termine apartheid con ‘mettere da parte’, ed è proprio ciò che accade in Israele. Mata, cittadino israeliano, musicista di una quarantina d’anni, riccioli alla Jim Morrison, lo racconta: “La legge produce discriminazione. Per esempio mia moglie ed io abbiamo due status differenti; l’apartheid quindi è già nel mio letto.” Nassira, sua moglie, è “residente” di Gerusalemme est, dove è nata, e di fatto non ha gli stessi diritti di suo marito.

È semplice,” mi spiega Nassira. “Mata ha il diritto di voto, io no. Può prendere l’aereo per andare dove vuole da un momento all’altro, io no. Ha potuto andare nell’università che ha scelto, io no. Viviamo qui insieme, ma io potrei essere costretta da un momento all’altro a ritornare a Gerusalemme est.” Infatti l’assemblea nazionale israeliana nella primavera del 2022 ha rimesso in vigore una legge che impedisce il ricongiungimento familiare per matrimonio tra palestinesi di Israele, di Gerusalemme est e dei territori [palestinesi occupati].

Quale democrazia prevede per una parte della sua popolazione quattro status differenti, a seconda che abiti, come a Nazareth, entro le frontiere del 1948 [cioè in Israele, ndt.], a Gerusalemme est, in Cisgiordania o a Gaza?

L’identità araba è percepita come una minaccia”

Reda denuncia anche la legge del 2018 sullo Stato-Nazione del popolo ebraico, che consacra Israele come una teocrazia ebraica. “Non capisco come gli amici di Israele possano accettare questo. A me non importa di essere ebreo, cristiano o musulmano. Qui l’identità araba è percepita come una minaccia. I media, la vox populi, ci fanno sapere chiaramente che facciamo parte di coloro che minacciano Israele”, precisa.

La piccola galleria-libreria- sala da concerto nel cuore di un suk in piena rinascita, dove ci ritroviamo una sera per un’avvincente esibizione della cantante elettro-folk Sama Mustafa, è un locale accogliente, come i numerosi caffè nei dintorni, come il Centro Baladna – “la nostra città” in arabo – aperto nel 2021 da un collettivo di giovani palestinesi.

Ritrovo l’atmosfera degli shebeens [bar clandestini sudafricani in cui si servivano alcoolici senza licenza, ndt.]. Come a Soweto, ognuno racconta una storia di oppressione, di umiliazione. “Si sta bene qui ed è il nostro momento di tranquillità”, mi spiega Louisa. “Essere israeliane non significa niente per noi. Il mio bisnonno era turco, mio nonno inglese, mio padre israeliano. Israele non è il mio Paese, e me lo fa sapere.”

Quarantenne gioviale, Siman viene da una famiglia comunista e cristiana di Nazareth. Ha lavorato a lungo nel cinema, a Tel Aviv e in tutto il mondo. “Nell’ottobre 2000 si erano organizzate a Nazareth delle manifestazioni a sostegno dell’Intifada. Sono state brutalmente represse, ci sono stati dei morti. Allora ho capito che Israele era uno Stato di apartheid. Non voglio più essere una marionetta imprigionata.” Siman fa una pausa. “Gli israeliani non vogliono porre rimedio alle discriminazioni, le utilizzano e le gestiscono. È questo il loro apartheid.”

Khaled, un professore di matematica incontrato il giorno seguente, mi dice più o meno la stessa cosa. “L’apartheid? Bisogna intendersi sul senso dei termini. Per esempio, io posso dirvi che sono antisionista, quindi godo di una certa libertà di espressione, ma non posso sposare una ragazza di Ramallah o di Gaza, che non potrà venire a vivere con me. E se per esempio io lavorassi nella filiale di Nazareth di una ditta di informatica di Tel Aviv, sarei pagato il 40% in meno di un ebreo israeliano…”

A Soweto avevo incontrato un commesso di una profumeria, che guadagnava nettamente meno dei suoi colleghi bianchi e non lavorava nemmeno nello stesso posto.

Ho capito che era la mia terra”

Certo a Nazareth c’è una borghesia araba ricca, come a Soweto c’era una borghesia nera. Amat, un aitante giovanotto anch’egli molto gioviale, lavora in una società di gestione e guadagna bene. A 27 anni gira in decappottabile, porta vestiti di marca, si destreggia con due cellulari. Si fa il segno della croce davanti ad ogni chiesa, rendendo la scoperta delle stradine strette e ripide nel suo coupé divertente, ma caotica… “Io dico che sono Amat, non dico mai che sono cristiano, musulmano o ebreo”, mi spiega trascinandomi in una visita approfondita dei confini della città, alcuni visibili, un viale, la fine di un isolato, altri invisibili. “Ci sono molti bambini musulmani nelle scuole cristiane, ma non ci sono cristiani o musulmani nelle scuole ebraiche”, dice ad esempio. Amat sottolinea anche la crescente insicurezza. I numerosi e sanguinosi regolamenti di conti fra trafficanti di droga per lui sono la prova che il governo si cura poco della vita degli arabi. Amat segnala l’impossibilità per la sua famiglia di acquistare un appartamento sulle alture di Haifa o a Tel Aviv. Non è una questione di soldi, ma “nessuno vende a noi.”

Kaid è un ragazzo gracile, appena uscito dall’adolescenza. A 18 anni, nella primavera del 2021 ha subito un arresto arbitrario, un pestaggio e tre notti di prigione. Kaid manifestava la sua solidarietà con i palestinesi di Gerusalemme est, di Gaza, della Cisgiordania. La manifestazione è stata brutalmente dispersa, molti giovani arrestati a Nazareth, ma anche a Haifa e a Lod [altre città israeliane con presenza araba, ndt.]. Kaid ammette senza vergogna di aver avuto paura. “Ho l’età per divertirmi, ma le cose che mi sono successe mi hanno cambiato. Dopo sono andato a Gerusalemme e a Betlemme, per la prima volta nella mia vita. Ho capito che era la mia terra.” Ciò che lo rende orgoglioso è che suo nonno e suo padre si sono battuti senza sosta per farlo liberare e non hanno avuto una parola di rimprovero per aver manifestato.

Per Reda, a cui racconto la storia di Kaid, “parlare di una polizia che ci prende di mira è parlare di apartheid. Dieci o venti anni fa quando parlavamo di apartheid ci si accusava di radicalismo, aggiunge. Un’organizzazione israeliana, B’Tselem, ha posto la questione dell’apartheid, seguita da Amnesty. È bello sapere che almeno il problema dei nostri diritti non è più a geometria variabile.”

Anche se, aggiunge Mata, “le cose non stanno cambiando. È molto deprimente.”

L’accesso all’acqua e all’educazione al primo posto

Due esempi tratti dal rapporto di Amnesty International chiariscono le differenze di livello nelle discriminazioni di cui sono vittima i palestinesi a seconda del luogo in cui risiedono. Per chi vive nei territori [palestinesi occupati, ndt.] l’accesso all’acqua è limitato. Il loro consumo è di circa 70 litri al giorno per persona, contro i 369 litri per un colono israeliano. Secondo le Nazioni Unite il 90% delle famiglie di Gaza deve comprare l’acqua a un prezzo molto alto presso gli impianti di desalinizzazione o di purificazione. I palestinesi che vivono in Israele invece hanno accesso alle stesse quantità di acqua degli altri cittadini. Con la notevole eccezione dei beduini del Negev, soggetti ad una serie di misure restrittive, compreso l’accesso all’acqua corrente…

Quanto all’educazione, gli alunni palestinesi di ambienti sfavoriti in Israele e a Gerusalemme est dispongono di meno risorse rispetto agli alunni ebrei. Secondo uno studio del 2016 il 30% di finanziamenti in meno per ora di apprendimento nella scuola elementare, il 50% in meno alle medie inferiori e il 75% in meno alle superiori.

Molti detrattori della posizione di Amnesty considerano che ciò che può sembrare pertinente per la Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme est non lo è per l’Israele di prima del 1967. Significa dimenticare che dopo la Nakba gli arabi rimasti in Israele sono stati sottoposti dal 1948 al 1966 ad un regime militare con espulsione dalle case, arresti arbitrari e un sistema drastico di controllo e sorveglianza – antenato di Pegasus [sistema israeliano di spionaggio elettronico, ndt.]. Rimuovere la polvere della Storia è uno dei meriti del rapporto di Amnesty.

Jean Stern

Veterano di Libération, La Tribune e La Chronique d’Amnesty International. Ha pubblicato nel 2012 Les patrons de la presse nationale, tous mauvais [I padroni della stampa nazionale, tutti cattivi] per La Fabrique; per le edizioni Libertalia: nel 2017 Mirage gay à Tel Aviv [Miraggio gay a Tel Aviv] e nel 2020 Canicule [Canicola].

(Traduzione dal francese di Cristiana Cavagna)




Il ballo in maschera dell’Israele liberale: un apartheid più sofisticato

Hagai El-Ad

30 gennaio 2023 – Haaretz

Dalle elezioni del primo novembre Israele si è rapidamente “tolto la maschera”, un processo evidenziato dagli accordi di coalizione prima dell’insediamento del il nuovo governo di Benjamin Netanyahu il 29 dicembre. In tali accordi la Legge Fondamentale del 2018 su Israele come Stato-Nazione del popolo ebraico evidenzia palesemente e ampiamente la supremazia ebraica ovunque Israele comandi tra il mare Mediterraneo e il fiume Giordano.

Gli esempi sono molteplici. Il governo ha iniziato con questa dichiarazione programmatica: “Il popolo ebraico ha un diritto esclusivo e indiscutibile su tutte le aree della Terra di Israele.” Oltre a ciò, ci sono passi per “legalizzare” avamposti dei coloni in Cisgiordania e il tentativo di affrontare “la bilancia demografica” nel Negev e in Galilea, e un’iniziativa per espandere la legge sulle commissioni di ammissione [che concedono a una persona il permesso di abitare in una certa zona della Galilea o del Negev e che escludono sistematicamente i palestinesi, ndt.] a comunità con 600 o più famiglie rispetto alle attuali 400.

In un Paese in cui “l’insediamento ebraico” è un “valore nazionale”, come stabilito dalla Legge Fondamentale che non è stata bocciata dalla Corte Suprema, la bussola è la supremazia ebraica. Il trentasettesimo governo sta ampiamente avendo cura di ostentare tutto ciò.

Ma, mentre alcune maschere sono state rimosse, ne sono state messe in vendita delle altre. La storia secondo cui “i territori stanno occupando Israele” ci propone la nostalgia dell’Israele illuminato che verrà occupato in ogni minuto dal Selvaggio West dei territori. Dopotutto da questo lato della Linea Verde [cioè in Israele, ndt.] abbiamo democrazia, uguaglianza e stato di diritto, mentre nei territori l’apartheid si sta approfondendo. Quello che succede “lì” potrebbe avvenire “qui”, ci viene detto.

Tutto ciò è lontano sia dalla storia che dalla realtà. Dopotutto Israele non ha solo occupato i territori [palestinesi], ha anche messo in atto “lì” pratiche che aveva introdotto “qui” a partire dal 1948. Queste pratiche includono l’imposizione di un governo militare e la promozione dell’“insediamento ebraico”, l’appropriazione ebraica di terra palestinese e una riprogettazione del potere politico, della geografica e della demografia. Tutto è iniziato “qui”, e dal 1967 [la guerra dei Sei Giorni e l’occupazione delle Alture del Golan, di Gerusalemme est, della Cisgiordania e di Gaza, ndt.] è stato messo in pratica anche “lì”: la stessa ideologia e le stesse politiche “in tutte le zone della Terra di Israele.”

Il rimpianto per come stanno le cose ora porta a un fenomeno veramente grottesco se consideriamo le reazioni alle modifiche che il nuovo governo ha previsto al progetto di espropriazione da parte di Israele in Cisgiordania. Si è duramente protestato contro questi cambiamenti, un “trasferimento di poteri” dall’esercito a un ente civile, uno schiaffo all’“indipendenza” del consulente giuridico dell’esercito per la Cisgiordania e l’illegalità di queste iniziative in base alle leggi internazionali.

La lotta contro il governo di estrema destra deve essere una lotta per i diritti di tutte le persone che vivono tra il Mediterraneo e il Giordano, non la grande menzogna che cerca di ripristinare gli immaginari giorni gloriosi di una democrazia liberale israeliana. Ma di cosa hanno paura i manifestanti [contro il nuovo governo Netanyahu, ndt.], che diventi evidente che non c’è una sovranità “separata” in Cisgiordania? Che l’Amministrazione Civile dell’establishment della difesa abbia sempre messo in pratica lì le politiche governative invece di una politica indipendente realizzata dal capo del comando centrale dell’esercito in base al suo profondo rispetto delle leggi internazionale e della comunità palestinese?

Il consigliere giuridico per la Cisgiordania si è sempre adoperato per fornire il beneplacito al furto di terra palestinese da parte di Israele. Ciò era vero sotto un governo “di sinistra” e lo sarà sotto il governo “totalmente di destra”. Le politiche israeliane nei territori, in parte responsabilità di quell’organizzazione burocratica chiamata l’Amministrazione Civile, sono sempre state solo questo: le politiche israeliane nei territori, non un’amministrazione separata o un regime separato.

Nessuno stava ad aspettare la nomina di un membro dell’“estrema destra” a ministro incaricato di questi problemi nel ministero della Difesa. Ministri e parlamentari da uomini di Stato, procure e ufficiali dell’esercito hanno definito l’infrastruttura politica, amministrativa e giudiziaria di Israele per portare avanti queste politiche.

Anche la Corte Suprema ha svolto fedelmente il proprio ruolo. Dalla sera alla mattina gli israeliani ripetono il mantra secondo cui dobbiamo proteggere la Corte dai demolitori della democrazia e dello stato di diritto. Che cosa stanno cercando di nascondere qui?

Soprattutto il ruolo della Corte nell’approvare il progetto di spoliazione dei palestinesi e nell’impedire che i criminali responsabili di ciò fossero chiamati a risponderne. Come ha detto lo scorso mese Elyakim Rubinstein, ex procuratore generale e giudice della Corte Suprema: “Chi è il nostro giubbotto antiproiettile contro l’Aia [la Corte Penale Internazionale, ndt.]? Soprattutto la Corte Suprema… Indebolire la Corte significa indebolirci all’Aia.”

In altre parole, non abbiamo una Corte che protegge i diritti umani, abbiamo una Corte che protegge israeliani dall’essere chiamati a rispondere per aver minato i diritti umani dei palestinesi.

E perché noi si possa continuare così senza un intervento internazionale, dobbiamo salvaguardare l’“indipendenza” della Corte. La Corte continuerà, in modo indipendente, ad approvare la demolizione di case palestinesi, il furto di terra palestinese, il fatto di sparare a manifestanti palestinesi e ucciderli, la continua detenzione di palestinesi in sciopero della fame che stanno per morire e tutto quello che il regime di supremazia ebraica desidera per portare avanti i nostri diritti esclusivi.

La menzogna definitiva, che tutte queste cose non si trovano al centro del consenso al regime di supremazia ebraica, ma sono un’esclusiva dei “partiti dell’estrema destra radicale”, è stata menzionata in un editoriale del New York Times lo scorso mese. Gli stessi “estremisti” stanno chiedendo di “estendere e legalizzare colonie in un modo che renderebbe effettivamente impossibile uno Stato palestinese in Cisgiordania,” ha scritto il Times.

Questo è davvero un nuovo programma di estrema destra? Non hanno forse tutti i governi israeliani dal 1967 costruito, esteso e legalizzato colonie? Non è stato il (non estremista) partito Laburista a patrocinare tutto questo? Non hanno giocato le (non estremiste) Procura generale e Corte Suprema un ruolo nell’approvare il progetto?

L’idea che la formazione di uno Stato palestinese “sia impossibile” è una vecchia politica israeliana al centro degli accordi che hanno reso possibile il precedente “governo del cambiamento”. I leader di questa politica non sono considerati “estremisti”. È una posizione di centro: garantire ai palestinesi non uguaglianza e libertà, ma apartheid.

Cos’è ancora limitato solo agli “estremisti”, secondo il New York Times? “Modificare lo status quo sul Monte del Tempio [la Spianata delle Moschee, ndt.], un atto che rischia di provocare un nuovo ciclo di violenze tra arabi e israeliani.” Questa è veramente una questione imprevedibile e delicata. Ma nientemeno che il precedente primo ministro non estremista e non di destra, Yair Lapid, quando ha riassunto alla Knesset i successi del suo governo liberale, ha affermato che “l’anno scorso un numero record di ebrei ha visitato il Monte del Tempio”.

Ci sono probabilmente delle persone che credono che, con l’aiuto di tali maschere, possiamo costruire delle barricate migliori dietro le quali combattere il nuovo governo e i pericoli che esso rappresenta. Ma una barricata costruita sulle menzogne è una barricata inefficace, destinata a crollare. Dopo tutte queste bugie, la stessa “lotta” è diventata una grande menzogna che sta cercando di ripristinare gli immaginari giorni gloriosi di una democrazia liberale, come se i suoi fautori dicessero: “Se solo vivessimo ancora nel mondo ugualitario e illuminato del 31 ottobre 2022 [il giorno prima delle ultime elezioni, ndt.]!”

Non c’è nient’altro che nostalgia per un apartheid un poco più raffinato, un poco meno banditesco, l’apartheid di Benny Gantz [politico centrista ed ex generale, ndt.] e Elyakim Rubinstein, dio ce ne scampi non di Benjamin

Ovviamente non dobbiamo sottovalutare il pericolo rappresentato dal nuovo governo e dalle sue politiche. Ma la grande esplosione che potrebbe scatenarsi in qualunque momento implica che dobbiamo rifiutare di chiudere gli occhi sul quotidiano orrore sanguinoso che sono le vite dei palestinesi all’ombra del potere israeliano. Esattamente perché è un momento così pericoloso, vergognoso e razzista, dobbiamo combatterlo con onestà e non basare la lotta su menzogne.

Non può essere una lotta per “lo stato di diritto” (al servizio degli ebrei), o per il “senso dello Stato” (ebraico) o “uno Stato ebraico e democratico” (per gli ebrei). Deve essere una lotta per i diritti di tutte le persone che vivono tra il Mediterraneo e il Giordano. Una lotta senza maschere.

Hagai El-Ad è un il direttore esecutivo dell’associazione per i diritti umani B’Tselem.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)