Primo anniversario Grande Marcia del Ritorno a Gaza

Mentre la Grande Marcia del Ritorno di Gaza si avvicina al primo anniversario, l’iniziatore delle proteste, Ahmed Abu Artema, discute della costruzione di un movimento non violento

 

MondoWeiss

Allison Deger – 22 marzo 2019

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Tutto è iniziato a causa di un uccello. Ahmed Abu Artema, l’improbabile leader del più ampio movimento palestinese da decenni, un pomeriggio di febbraio dello scorso anno camminava a grandi passi lungo la barriera di separazione che divide la sua casa nella Striscia di Gaza da Israele. Al crepuscolo ha visto uccelli volare nel cielo, attraversare la barriera “e nessuno li fermava”.

È stato un momento di assoluta chiarezza. Ahmed era fisicamente intrappolato dentro un territorio non statale assediato, e nello stesso luogo c’era uno stormo di uccelli più libero di lui.

“Perché complichiamo questioni semplici? Una persona non ha il diritto di muoversi liberamente come un uccello?” si è chiesto. Guardando di nuovo la barriera, frustrato ha pensato: “Mi tarpa le ali,” “Uccide i miei sogni” e “interrompe le mie camminate serali.”

“E se uno di noi- palestinesi di Gaza – vedesse se stesso come un uccello e decidesse di arrivare fino a un albero dall’altra parte della barriera?” Ahmed ha supposto: “Se quell’uccello fosse palestinese, gli sparerebbero.”

Più tardi quella notte Ahmed ha postato su Facebook un messaggio che è diventato virale in cui chiedeva ai palestinesi di marciare verso la barriera con l’obiettivo di accamparsi a pochi chilometri dall’altra parte della barriera, un vero diritto al ritorno per i rifugiati palestinesi che non possono più aspettare una soluzione dal moribondo processo di pace. Pochi mesi dopo, il 30 marzo 2018, la festa palestinese del Giorno della Terra, generalmente celebrata con manifestazioni, ha segnato l’inizio della prospettiva di Ahmed.

Denominate la Grande Marcia del Ritorno, le proteste da allora sono continuate ogni venerdì, a volte con decine di migliaia di partecipanti. Negli ultimi mesi ad intermittenza un piccolo gruppo di israeliani si è unito a loro dall’altra parte della zona cuscinetto.

“L’idea si è talmente diffusa da essere diventata nella Striscia di Gaza un movimento sociale,” mi ha detto questa settimana Ahmen durante una camminata in giro per monumenti a Washington in un tranquillo pomeriggio di primavera. Aveva una spilla con la bandiera palestinese appuntata sulla sua elegante camicia. Al mattino aveva parlato al “Carnegie Endowement for International Peace” [fondazione Carnagie per la Pace Internazionale, centro di ricerca per la pace mondiale, ndt.] nel contesto di un giro di tre settimane organizzato dall’ “American Friends Service Committee” [Comitato del Servizio degli Amici Americani, associazione religiosa quacchera che si impegna per la pace e la convivenza, ndt.]. Le sue osservazioni in questo articolo sono tratte sia dal suo discorso ufficiale che dalla conversazione con me che ne è seguita.

A 34 anni è un padre occhialuto, affabile eppure metodico, di quattro bambini con meno di 8 anni, con qualche capello grigio. È stato negli USA per circa due mesi ed è ancora stupito di alcuni degli aspetti della vita fuori dall’assedio che Gaza sta subendo nell’ultimo decennio. Il suono degli aeroplani, in particolare. “Quando senti un aereo, è un segno di vita, ma a Gaza è un segno di morte,” dice.

Ahmed aveva viaggiato all’estero solo una volta prima d’ora, un breve soggiorno in Egitto. Questo è il suo primo viaggio da adulto da qualche parte e la prima occasione in cui è stato lontano dalle proteste del venerdì. “L’ho scritto come un sogno, poi sono andato a dormire,” dice. “Non è stato il mio potere come individuo che ha fatto diffondere l’idea.”

Non c’è un confine internazionale che delimita Gaza. È stretta dalla linea armistiziale della guerra arabo-israeliana del 1948, rafforzata dopo la guerra del giugno 1967. Una zona cuscinetto si estende lungo la frontiera orientale, ed è profonda circa un chilometro. Dentro Gaza il filo spinato e la rete metallica sono visibili dalla principale autostrada che in un altro contesto sarebbe chiamata una strada di campagna. Via Saladino, che prende il nome dal fondatore del califfato degli Ayyubidi, che inaugurarono un periodo di prosperità economica in buona parte del Medio Oriente, può essere percorsa in auto in soli 30 minuti, senza andare in fretta.

In questa strada, “se tu guardi alla tua destra puoi vedere la barriera di filo spinato,” dice Ahmed, e alla tua sinistra una flotta navale israeliana nel mar Mediterraneo.

“Immagina di essere confinato in un simile spazio,” e nello stesso momento circondato dai 2,2 milioni di abitanti di Gaza, dei quali due terzi sono rifugiati originari di terre all’interno di Israele, aggiunge Ahmed.

Dal punto di vista funzionale Gaza continua ad essere un non Stato, quasi un’aberrazione storica in cui un’enclave dell’impero ottomano e in seguito del mandato britannico non ha mai conquistato l’indipendenza come Stato palestinese durante la colonizzazione di tutto il Medio Oriente che fece seguito alla Seconda Guerra Mondiale. Durante gli accordi di pace di Oslo venne promesso uno Stato, ma deve ancora essere realizzato. In base alle leggi internazionali sarebbe la parte occidentale del frammentato territorio palestinese occupato. Eppure per i suoi abitanti più vecchi la Striscia è stata soggetta a un turbinio di poteri stranieri senza che se ne veda la fine. Un ottantenne palestinese ha vissuto sotto il controllo britannico, giordano ed ora israeliano. Benché i coloni e i soldati israeliani se ne siano andati da Gaza durante il disimpegno del 2005, originato da un precedente accordo di pace, Israele controlla ancora tutti i posti di blocco dentro e fuori Gaza tranne uno, e ha giurisdizione su cielo e mare.

Durante l’ultimo decennio e mezzo Gaza è stata governata dal movimento islamico Hamas. In questo periodo Gaza non solo è stata fisicamente separata dalla Cisgiordania, ma sempre più isolata politicamente da Ramallah dopo che il governo si è diviso nel 2006, pochi mesi prima che iniziasse l’assedio israeliano e un anno dopo le elezioni palestinesi, le ultime a parte le elezioni comunali. Da allora l’Autorità Nazionale Palestinese con sede in Cisgiordania ha intavolato negoziati di pace con Israele con la mediazione degli USA, promossi direttamente da John Kerry e ora dal presidente Donald Trump, con il destino di Gaza spesso messo in secondo piano.

Da quando lo scorso anno Trump ha dichiarato Israele come capitale di Gerusalemme, secondo Ahmed c’è stato un punto di svolta per i suoi amici e per lui. Da quel momento egli non conosce più nessuno che veda gli USA come un mediatore imparziale del processo di pace. “Sappiamo ovviamente che storicamente le amministrazioni americane sono state vicine ad Israele,” dice Ahmed. “La nostra esperienza non ci lasciava alcuno spazio per fidarci dell’amministrazione USA, ma Trump è l’esempio più estremo.”

Trump, dice Ahmed, è stato la ragione per cui i palestinesi si sono sentiti spinti ai margini. Protestare vicino alla barriera con Israele è sempre stato considerato da tutti come pericoloso. “Con le sue politiche che influenzano Israele ha provocato l’incendio. Le persone hanno sentito che i propri diritti fondamentali erano in pericolo.”

L’ONU dice che nelle manifestazioni iniziate lo scorso marzo le forze israeliane hanno ucciso 260 palestinesi, e ne hanno feriti più di 26.000, circa 7.000 dei quali sono stati colpiti da proiettili veri. Durante le proteste nei pressi della barriera i palestinesi hanno ucciso due soldati israeliani e ne hanno feriti quattro.

In passato Ahmed ha cercato di organizzare a Gaza un movimento nonviolento che facesse breccia negli sbarramenti con Israele. Il momento in cui ci è arrivato più vicino è stato quando aiutò a organizzare una manifestazione nel maggio 2011 in cui rifugiati palestinesi in Libano e in Siria si riunirono a migliaia sui confini con Israele e a decine entrarono in Israele. “The Guardian” [giornale inglese di centro sinistra, ndt.] all’epoca informò che le forze israeliane ne avevano uccisi 13 sul fronte settentrionale e feriti 60 a Gaza con proiettili veri. Contemporaneamente nella regione hanno avuto luogo cambiamenti drammatici.

“Quando sono iniziate le primavera arabe, soprattutto dopo la caduta di Hosni Mubarak (in Egitto), ci siamo sentiti ispirati,” dice Ahmed.

Infatti, mentre si stava svolgendo un’insurrezione in piazza Tahrir, giovani chiusi nei caffè a Gaza e Ramallah e scoraggiati come Ahmed hanno tentato una rivoluzione palestinese di quel genere. La “Coalizione della marcia del 15”, a volte chiamata Hirak Shababi [“Il movimento dei giovani”, che ha partecipato alle proteste contro la politica economica del governo giordano, ndt.], ha galvanizzato i giovani palestinesi in Cisgiordania e a Gaza per chiedere la riconciliazione tra Fatah, con base in Cisgiordania, e Gaza, governata da Hamas. È stato il primo movimento sociale dell’epoca di twitter, e il primo episodio di intenso attivismo che prendeva di mira la loro stessa dirigenza. Ma la dissidenza ha avuto vita breve, contrassegnata da divisioni interne e repressione brutale. Dopo due anni il nuovo movimento dei giovani è finito in niente.

“Avevano dei limiti politici,” dice delle proteste precedenti, “non c’era una posizione chiara riguardo alle divisioni politiche e a quale fosse la causa scatenante.”

“Hamas diceva di essere contro la divisione, Fatah diceva di essere contro la divisione. Che senso ha quando tutti dicono la stessa cosa?” Per Ahmed, il suo obiettivo aveva bisogno di un linguaggio semplice: “Vogliamo tornare alle nostre case e siamo rifugiati.”

Ahmed è ben conscio del fatto che grandi zone in cui una volta si trovavano i villaggi palestinesi in Israele distrutti nella guerra del 1948 non sono mai state economicamente sfruttate. Attivisti del gruppo israeliano “Zochrot” e urbanisti dell’organizzazione palestinese “Badil” hanno suggerito la possibilità di utilizzare le riserve naturali di Israele come luoghi per il reinsediamento dei palestinesi. Però in Israele c’è uno scarso appoggio a questa idea, tranne che da parte di qualche centinaio di persone di estrema sinistra, e questa causa non è mai stata abbracciata da alcun partito politico, compresi i partiti arabi in Israele.

Un precedente negoziato di pace tra l’ex primo ministro israeliano Ehud Olmert e il presidente palestinese Mahmoud Abbas sarebbe fallito in parte sul numero di palestinesi a cui consentire eventualmente di tornare in Israele. Olmert ne aveva accettati 5.000 e il presidente George W. Bush, che sovrintendeva ai colloqui, offrì di concedere 100.000 cittadinanze USA nel contesto di una soluzione dei due Stati. Per i palestinesi questi numeri erano bassi in modo offensivo. I rifugiati palestinesi sono più di 7 milioni.

“Se il mondo ne avesse la volontà sarebbe in grado di mettere fine alla tragedia di questi rifugiati,” dice Ahmed. “Vogliamo una soluzione basata sulle fondamenta della giustizia, dell’uguaglianza e dell’umanità,” per “coesistere con i nostri vicini ebrei in base ai valori della cittadinanza.”

“Mentre il popolo ebraico ha il diritto di vivere in pace e sicurezza, non è giusto risolvere una tragedia creandone un’altra,” dice.

Per come la vede Ahmed, parte di questa ingiustizia è dovuta al fatto che la vita a Gaza è cambiata, rapidamente. Molte case hanno l’elettricità solo per sei ore al giorno, con interruzioni che durano fino a 16 ore. Il sistema sanitario sta crollando. I tagli dell’amministrazione Trump ai servizi per i rifugiati hanno provocato la chiusura di ambulatori. Gravi malattie non possono essere trattate sul posto e i permessi per uscire per essere curati in un ospedale israeliano, egiziano o in altri luoghi sono sempre più difficili da ottenere.

Ahmed ha smesso tre anni fa di portare i suoi figli a nuotare al mare perché l’inquinamento è molto grave ed è stato messo in rapporto con alcuni decessi. Ora, durante i giorni caldi d’estate vanno ancora sulla spiaggia, ma la famiglia rimane sulla sabbia. Quando i jet israeliani passano sullo spazio aereo di Gaza, un rumore che descrive come frequente, terrorizzano suo figlio, “Abdelrahman ha molta paura ogni volta che sente un aereo.”

“So di molti bambini che sono morti alla sua età, ma io non gli ho mai parlato di questo,” dice Ahmed.

“Questa è una delle ragioni per cui sono un attivista. Cerco, non da solo, anzi, noi cerchiamo di creare un mondo migliore per i nostri bambini,” dice. “Non posso immaginare per loro la stessa vita che ha vissuto mio padre, che vivo io.”

La decadenza delle infrastrutture iniziò sul serio circa dieci anni fa, quando l’ONU avvertì che Gaza sarebbe diventata “inabitabile” entro il 2020. Il rapporto venne pubblicato in risposta al peggioramento delle condizioni dovute al blocco, ma Ahmed sostiene che “un completo collasso economico è già avvenuto” un anno prima della scadenza prevista, “rendendo Gaza una terra totalmente desolata.”

“Accetteresti una vita come questa o chiederesti qualcosa di meglio?” chiede.

“Se tu fossi un giovane di Gaza potresti arrivare a 35 anni senza avere mai avuto un lavoro,” spiega. “Essere padre a Gaza significa che ti vergogni perché non puoi provvedere alla tua famiglia.”

Con Gaza che sta diventando inabitabile, peggiorata dal fattore Trump, Ahmed si è trovato con un pubblico impaziente di cercare alternative. A Gaza i tempi erano maturi per tentare la nonviolenza su vasta scala.

Nel suo primo post su Facebook nel gennaio 2018 ha auspicato tattiche pacifiste.

“E se 200.000 manifestanti accompagnati dai media internazionali marciassero pacificamente e oltrepassassero la barriera di filo spinato a est di Gaza per entrare per qualche chilometro nella nostra terra occupata, portando la bandiera palestinese e le chiavi del ritorno [molti profughi palestinesi hanno conservato le chiavi delle case da cui sono stati cacciati da Israele, ndt.]?” Ha scritto Ahmed. “E se decine di migliaia di palestinesi erigessero un villaggio di tende all’interno di Israele e continuassero ad utilizzare metodi pacifisti rimanendo là senza fare ricorso ad alcuna forma di violenza?”

La maggioranza dei dimostranti ha rispettato l’insistenza sulle proteste pacifiche, anche se molti hanno lanciato pietre, gomme incendiate o fatto volare aquiloni incendiari che hanno bruciato ettari di terreno agricolo israeliano. Le forze israeliane hanno sparato sui dimostranti proiettili veri e lacrimogeni, gli aquiloni ora sono intercettati dai droni. Le scene sono a volte caotiche e Ahmed viene a sapere delle vittime solo quando la manifestazione del venerdì si disperde e lui ha il tempo di controllare le notizie.

Israele sostiene di avere il diritto di utilizzare una forza letale per difendere i propri confini. Rispondendo a un recente rapporto sui diritti umani pubblicato all’ONU un portavoce del ministero degli Esteri israeliano, Emmanuel Nahshon, ha affermato che le proteste sono inscenate da Hamas. Ha detto al “Christian Broadcasting Network” [Rete Televisiva Cristiana, gestita da gruppi evangelici filo-israeliani, ndt.] che “Hamas utilizza i civili a Gaza come scudi umani per i terroristi.”

Ahmed sa che il suo impegno di lunga data per la nonviolenza non è condiviso da tutti. Ma vede il sostegno da gruppi come Hamas subordinato alla spinta di quelli che praticano la nonviolenza, non viceversa. La resistenza pacifica è di nuovo diffusa.

“Le nostre richieste sono semplici e oneste, vogliamo tornare, vogliamo una vita dignitosa. Persino quelli impegnati nella resistenza armata hanno iniziato a capire come può essere efficace la non violenza pacifica,” dice.

“Ci sono persone nella Striscia di Gaza che si oppongono ad Hamas, e c’è un contesto che circonda le attuali proteste nella Striscia di Gaza e ciò include la dura situazione che molte persone vivono,” dice “e molti errori che Hamas ha commesso nell’amministrare la Striscia di Gaza.”

“Ma io vorrei affermare che tutto questo dissenso con Hamas riguarda l’amministrazione e il modo di governare. Questi dissensi non riguardano l’occupazione” dice.

 

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Soldati israeliani arrestano bambino di 10 anni

Soldati israeliani irrompono in una scuola palestinese e arrestano un bambino di 10 anni

Soldati pesantemente armati entrano nella scuola a Hebron occupata, minacciano gli insegnanti e portano via un bambino andando probabilmente oltre il loro potere di arrestarlo perché troppo giovane

+972

Di Meron Rapoport – 21 marzo 2019

 

Questa settimana soldati israeliani pesantemente armati hanno fatto irruzione in una scuola palestinese a Hebron, nella Cisgiordania occupata, ed hanno portato via un bambino di 10 anni. Per le leggi israeliane sia civili che militari l’età minima per essere imputati penalmente è di 12 anni.

Benché i soldati in questo caso siano probabilmente andati oltre il loro potere, non sarebbe la prima volta che ciò accade. È stato documentato che nel corso degli anni soldati israeliani hanno arrestato e imprigionato bambini palestinesi ancora più giovani, soprattutto ad Hebron.

L’episodio di questa settimana è avvenuto alla scuola Haj Ziad Jaber di Hebron, una città della Cisgiordania in cui centinaia di soldati israeliani sono dislocati in permanenza vicino a centinaia di coloni ebrei e a decine di migliaia di palestinesi.

Mentre i coloni ebrei che vivono nella stessa città sono sottoposti alle leggi civili israeliane, i palestinesi, anche quelli che abitano nella stessa via, sono sottoposti alle leggi militari e possono essere arrestati in qualunque momento dalle truppe israeliane – un esercito straniero.

Secondo un articolo di Ma’an News [sito di notizie palestinese, ndt.], che ha pubblicato un video dell’episodio, i soldati hanno fatto irruzione nella scuola e hanno trascinato via il bambino dall’aula. La scuola ha scritto sulla sua pagina Facebook che il bambino frequenta la quarta elementare.

Nel video si può vedere un ufficiale dell’esercito israeliano afferrare il bambino, che sembra giovanissimo. Qualche adulto palestinese, compreso il vice-preside della scuola, cerca di impedire ai soldati di portarselo via.

Si vede un altro soldato israeliano spingere un anziano palestinese, che Ma’an ha identificato come il vice-preside. Quando un altro insegnante palestinese cerca di spiegare ai soldati che si tratta di un bambino piccolo, l’ufficiale israeliano gli risponde in ebraico: “Hanno lanciato pietre, non mi importa la loro età,” aggiungendo che li avrebbe portati in una stazione di polizia israeliana.

Quando il vice-preside chiede ai soldati israeliani di spiegare in arabo quello che sta succedendo, l’ufficiale dell’esercito risponde, di nuovo in ebraico: “Non me ne frega niente del tuo arabo.”

La maggioranza dei palestinesi non parla ebraico e quasi tutti i soldati israeliani, persino quelli con funzioni che richiedono loro di interagire quotidianamente con la popolazione palestinese occupata, non parla arabo.

Nel video ad un certo punto si vede l’ufficiale israeliano parlare nella sua radio e ordinare ad altri soldati di entrare a scuola, dicendo: “Ci sono insegnanti che mi stanno saltando addosso.” Un altro soldato allora minaccia di rompere un braccio a uno dei maestri palestinesi.

Quando un insegnante palestinese chiede di parlare con un ufficiale israeliano di grado superiore, l’ufficiale che per primo ha fatto irruzione nella scuola per arrestare il bambino risponde: “Parla con chi vuoi, non me ne frega niente.”

Alla fine, dopo che i rinforzi dell’esercito israeliano hanno occupato i corridoi della scuola elementare, ognuno con in mano un fucile da guerra, i soldati portano via il bambino palestinese di 10 anni e almeno uno degli adulti.

Secondo Ma’an, “fonti locali” hanno detto che a quel punto le autorità palestinesi hanno cercato di intervenire e il bambino è stato rilasciato qualche tempo dopo.

Gaby Lasky, avvocatessa israeliana specializzata in diritti umani nei territori palestinesi occupati, ha affermato che, poiché l’età minima per essere imputati penalmente è di 12 anni, “i soldati non avevano l’autorità di arrestare il bambino.”

“Ogni soldato, e sicuramente ogni ufficiale, dovrebbe sapere di non avere l’autorità legale di arrestare o giudicare un bambino di quell’età,” ha spiegato Lasky. Anche entrare in una scuola durante le ore di lezione con delle armi, senza autorizzazione e senza essersi messi d’accordo con la direzione della scuola è una cosa che dovrebbe essere vietata. Di solito, dice, persino l’esercito evita di farlo.

Lasky dice che sta pensando di presentare un esposto contro i soldati per essere entrati nella scuola ed aver arrestato il bambino.

Un portavoce dell’esercito israeliano ha risposto affermando che un gruppo di studenti aveva lanciato pietre verso auto israeliane nella colonia ebraica di Hebron e che, in seguito all’incidente, una “forza militare ha fatto un ammonimento verbale agli scolari, ma non sono stati arrestati.”

Tuttavia, ha aggiunto il portavoce, “l’episodio verrà indagato e in base a ciò verrà chiarito il regolamento.”

 

Meron Rapoport è un giornalista di “Local Call” [sito di notizie in ebraico di +972, ndt.], dove è già stata pubblicata una versione in ebraico di questo articolo.

 

(traduzione di Amedeo Rossi)

 

 




Alture del Golan: Trump e Netanyahu

Alture del Golan: Trump intende ‘puntellare’ Netanyahu prima del voto in Israele

Alcuni analisti affermano che la dichiarazione ‘si fa beffe delle leggi internazionali’ per aiutare Netanyahu nelle imminenti elezioni israeliane

Middle East Eye

 

Di Ali Harb da Washington – 21 marzo 2019

 

Secondo alcuni analisti l’annuncio di Donald Trump che Washington riconoscerà la sovranità israeliana sulle Alture del Golan siriane occupate è un tentativo di rilanciare le possibilità di rielezione del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu.

Le affermazioni del presidente USA, fatte su twitter giovedì pomeriggio, arrivano a soli 19 giorni dalle elezioni israeliane.

E con esse Trump ha chiarito di voler “puntellare” Netanyhau, che vi si sta avvicinando indebolito, dice a MEE Khalil Jahshan, direttore esecutivo dell’“Arab Center Washington DC” [Centro Arabo di Washington].

“Il messaggio alla gente là, soprattutto nella regione, e al resto del mondo [è]: se hai la potenza militare e l’appoggio degli USA, vai avanti e occupa con la forza la terra di un altro popolo,” dice Jahshan a MEE.

Jahshan aggiunge che l’affermazione del presidente USA serve come distrazione per i rispettivi , sia di Trump che di Netanyahu, problemi giudiziari in patria.

Il leader israeliano sta affrontando una serie di inchieste per corruzione e un’imminente incriminazione da parte del procuratore generale del Paese, mentre politici USA stanno anticipando la pubblicazione del rapporto del procuratore speciale Robert Mueller sulla possibile collusione tra la squadra della campagna elettorale di Trump e la Russia.

Jahshan afferma che, in mezzo a scandali che possono minacciare la sua presidenza, Trump sta anche cercando di riaffermare il proprio impegno a favore di Israele prima dell’annuale conferenza dell’AIPAC [principale associazione della lobby filo-israeliana negli USA, ndt.] all’inizio della prossima settimana.

In effetti il presidente USA ha recentemente invitato gli ebrei americani ad abbandonare il partito Democratico, sottolineando le proprie leali politiche filo-israeliane, compresi lo spostamento dell’ambasciata USA a Gerusalemme e il ritiro dall’accordo nucleare con l’Iran.

Jahshan sostiene che la dichiarazione sul Golan coincide anche con l’imminente visita di Netanyahu a Washington, dove il primo ministro israeliano incontrerà Trump e la prossima settimana parteciperà alla conferenza dell’AIPAC come principale oratore.

 

“Presidente razzista”

Nihad Awad, direttore esecutivo del “Council on American Islamic Relations” [Comitato per le Relazioni Islamico-Americane] (CAIR), ha definito il tweet di Trump sul Golan un chiaro tentativo di intervenire nella politica israeliana e di dare un aiuto a Netanyahu.

“Trump sta intervenendo nelle elezioni di un Paese straniero a favore di un politico che si è schierato con i razzisti e che in Israele ha fatto approvare leggi segregazioniste sullo Stato-Nazione,” dice Awad del primo ministro israeliano.

Lo scorso anno Israele ha approvato la controversa legge sullo Stato-Nazione, che afferma che il Paese è “unicamente del popolo ebraico”. Chi l’ha criticata ha condannato la legge come razzista, affermando che sancisce la discriminazione contro la minoranza palestinese di Israele per legge.

Netanyahu l’ha citata la scorsa settimana per affermare che Israele è solo per gli ebrei, “non uno Stato per tutti i suoi cittadini”.

Awad mette in relazione le politiche interne di Trump contro immigranti e musulmani e la politica estera di Netanyahu.

“Ora è visto come un simbolo dei nazionalisti e dei suprematisti bianchi in America e nel resto del mondo,” afferma Awad. “Cosa ci possiamo aspettare da un presidente razzista se non che vomiti politiche razziste e posizioni contrarie a persone di colore, a minoranze e a un popolo sotto occupazione?”

Awad dice a MEE che, nonostante le sue affermazioni, il presidente USA non ha l’autorità morale né legale di concedere la sovranità israeliana su terra siriana: “Non spetta a lui legittimare l’occupazione di una terra straniera da parte dello Stato di Israele.”

 

Netanyahu loda l’iniziativa

Israele ha occupato le Alture del Golan siriane nella guerra del 1967 e le ha annesse nel 1981. Ora vi si trovano 34 colonie che ospitano decine di migliaia di israeliani.

Ariel Gold, co-direttrice del gruppo femminista contro la Guerra CODEPINK, dice che Trump sta rafforzando la sua alleanza con dirigenti di destra in tutto il mondo, compresi Netanyahu e il brasiliano Jair Bolsonaro.

La dichiarazione sul Golan isola ulteriormente gli USA dal consenso globale – l’annessione del Golan da parte di Israele non è mai stata riconosciuta dalla comunità internazionale – mentre riduce le prospettive di una pace in Medio Oriente.

“Ciò – come lo spostamento dell’ambasciata – fa sì che Israele sappia che il suo governo ha il sostegno degli USA, e così, con l’appoggio della superpotenza mondiale, non deve prendere troppo in considerazione quello che aiuterebbe a fare la pace,” dice Gold a MEE.

È esattamente quello che lo stesso Netanyahu ha detto giovedì, quando ha lodato la dichiarazione di Trump che riconosce il possesso israeliano delle Alture del Golan.

“Il messaggio che il presidente Trump ha dato al mondo è che l’America sta con Israele,” ha detto in un comunicato.

“Siamo profondamente grati per l’appoggio USA. Siamo profondamente grati dell’incredibile e incomparabile appoggio alla nostra sicurezza e al nostro diritto di difenderci.”

 

“Beffa alle leggi internationali”

L’annuncio di Trump ha suscitato timori che il riconoscimento da parte degli USA della sovranità israeliana sul Golan possa portare all’annessione da parte di Israele di parti della Cisgiordania palestinese occupata, se non di tutto il territorio, con l’appoggio degli USA.

Omar Baddar, vice direttore dell’“Arab American Institute” [Istituto Arabo Americano] dice che Trump sta mettendo ai margini il ruolo degli USA nel mondo non tenendo conto delle leggi internazionali e promettendo “totale appoggio all’illegittima acquisizione del territorio con la forza da parte di Israele.”

Sia Trump che Netanyahu hanno sottolineato che il possesso israeliano sul Golan deve continuare in modo indefinito per garantire la sicurezza del Paese, citando in particolare la guerra civile siriana in corso e la presenza di truppe iraniane nei pressi del suo territorio.

Baddar rifiuta questo ragionamento.

“Ciò che è più insultante per l’intelligenza di chiunque riguardo all’annuncio di Trump è che viene definito come un tentativo di migliorare la ‘sicurezza’ e la ‘stabilità regionale’, quando la verità è che l’occupazione è forse il maggior contributo all’instabilità e alla violenza,” ha scritto in un’email a MEE.

Certo, il tweet di giovedì è l’ultimo esempio della dimostrazione del disprezzo che Trump dimostra nei confronti delle norme e delle istituzioni internazionali per favorire Israele.

Dopo che la sua amministrazione ha riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele contro le obiezioni di alcuni degli alleati più vicini a Washington, ha anche lasciato la Commissione ONU per i Diritti Umani per protesta contro le sue critiche alle politiche di Israele.

Washington ha anche tagliato l’aiuto umanitario ai palestinesi.

Ma Trump non si preoccupa delle risoluzioni dell’ONU e dei trattati internazionali che governano le dispute territoriali, dice Jahshan, dell’“Arab Center”.

Ciò è risultato evidente giovedì, dice Jahshan, in quanto la dichiarazione del presidente “si è fatta beffe delle leggi internazionali.”

 

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Attore israeliano appoggia il BDS

Finalmente libero, l’attore israeliano Itay Tiran appoggia il BDS e afferma che il sionismo è razzismo

Jonathan Ofir

8 settembre 2018,Mondoweiss

 

Sono rimasto molto colpito dalla recitazione di Itay Tiran nell’avvincente mini-serie britannica “La promessa”, diretta da Peter Kosminsky. La serie riguarda Israele-Palestina, e va avanti e indietro tra gli anni precedenti la fondazione dello Stato [di Israele] e gli avvenimenti attuali. Tiran recitava la parte di un ebreo israeliano di sinistra che si unisce a “Combattenti per la pace” [gruppo di israeliani e palestinesi per la pace e la convivenza, inizialmente formato solo da ex-combattenti, ndtr.], e sua sorella lo considera un antisionista. È molto credibile nel suo ruolo, mentre sfida i suoi genitori “sionisti progressisti” e mette in evidenza la loro ipocrisia.

Ora l’attore trentottenne sta per lasciare Israele per andare in Germania, ed ha rilasciato ad “Haaretz” [quotidiano israeliano di centro sinistra, ndtr.] un’intervista in cui si esprime liberamente. Parla a favore del BDS [movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni contro Israele, ndtr.], in modo ragionato. Definisce il sionismo razzista – non come iperbole –, si esprime a questo proposito in modo razionale e logico.

È davvero liberatorio leggerlo. Ci sono espressioni che i sionisti stanno cercando di vietare in tutto il mondo – ed egli è totalmente libero di parlarne! Immagino che se lo sia tenuto in serbo per il momento in cui sarebbe andato via, perché le conseguenze che ne possono derivare in Israele possono essere disastrose.

Negli estratti di intervista pubblicati finora da “Haaretz” (pensano di pubblicare l’intervista completa nel supplemento culturale in ebraico di “Haaretz”), Tiran dice che il BDS è assolutamente legittimo:

Il BDS è una forma di resistenza assolutamente legittima. E se noi vogliamo invocare un certo tipo di discussione politica che non è violenta, dobbiamo rafforzare queste voci, anche se è difficile. Del resto non importa quello che faranno i palestinesi. Quando commettono un atto di terrorismo vengono definiti terroristi violenti, sanguinari. E quando appoggiano il BDS sono terroristi politici. Se ciò che alla fine porterà a una soluzione qui saranno pressioni non violente, portate avanti come discorso politico, allora perché non appoggiarlo?

È un atteggiamento umanitario, ed è anche concreto, e penso che eviterà le prossime guerre.

Non è certo un’opinione condivisa in Israele, che ha interi ministeri e notevoli fondi destinati a lottare contro il BDS. Tiran va anche oltre.

Parla del fascismo di Israele, e della sua negazione:

Ti alzi la mattina, bevi il tuo caffè e leggi i giornali. Vedi un articolo e dici: ‘Dunque questo è il momento in cui siamo diventati fascisti o no?’ Stai lì seduto e giochi una specie di gioco e gradualmente capisci che tutto quello che fai è continuare a farti quella domanda e a stare al gioco, senza deciderti.

Parla di come la legge fondamentale recentemente approvata, che dichiara Israele lo Stato-Nazione del popolo ebraico, non sia per niente nuova, e che in questo senso non è del tutto negativa, se serve come segnale d’allarme:

Se la legge sullo Stato –Nazione è un punto di riferimento, in base al quale stabilire dove è arrivata la società israeliana, allora è chiaramente una legge razzista e non egualitaria, un altro passo nella deriva nazionalista che avviene qui. D’altra parte dico che non è solo negativa. Perché? Perché fa emergere una sorta di subcosciente collettivo che qui c’è sempre stato. La “Dichiarazione di Indipendenza” e discorsi su uguaglianza e valori, tutto ciò fu l’autoesaltazione di un colonialismo che si vantava di essere un liberalismo illuminato. C’è gente che si definisce ancora di centrosinistra, e pensa ancora che se inseriscono la parola “uguaglianza” nella legge tutto sarà a posto. Non lo credo. E realmente, l’obiezione giustificata della Destra è stato: ‘Aspettate un attimo, ma c’è la legge del [diritto al] ritorno. Come mai solo la legge sullo Stato – Nazione vi fa diventare matti?’

Ottima osservazione. Quindi l’intervistatore, Ravit Hecht, gli pone un’importante domanda:

 “Pertanto stai dicendo che il sionismo, non importa quale, è uguale al razzismo?”

“Sì”, risponde Tiran.

Semplicemente così. L’ex ambasciatore di Israele all’ONU Chaim Herzog si infuriò su tale questione, e com’è noto fece a pezzi la risoluzione del 1975 che equiparava il sionismo al razzismo. L’ambasciatore USA all’ONU, Daniel Patrick Moynihan, pronunciò un famoso discorso denunciando la risoluzione come opera dei nazisti.

L’aberrazione dell’antisemitismo ha assunto l’aspetto di una sanzione internazionale. L’Assemblea Generale oggi concede un indulto simbolico – e qualcosa in più – agli assassini di sei milioni di ebrei europei.

E c’è Tiran, che accetta l’equazione, razionalmente, pacificamente e inequivocabilmente.

Di conseguenza la discussione prosegue.

“Che il sionismo equivalga al colonialismo?” chiede Hecht.

“Sì, esatto. Tutti noi dobbiamo quindi vedere la verità, e poi prendere posizione.”

Non potrebbe essere più chiaro di così. Non è complicato. L’intervista integrale sicuramente sarà qualcosa a cui guardare con impazienza. Come ho già detto, una liberazione.

 

Su Jonathan Ofir

Musicista israeliano, conduttore e blogger / writer che vive in Danimarca.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Vittoria BDS al festival israeliano Meteor

Vince il BDS: 15 artisti annullano la loro esibizione al festival israeliano “Meteor”

Ma’an News

7 settembre 2018

 

Betlemme (Ma’an) – Un’ondata di cancellazioni ha fatto seguito all’annuncio da parte di Lana del Rey dell’annullamento della sua esibizione al festival musicale “Meteor”, nel nord di Israele questo fine settimana.

Secondo la “Palestinian Campaign for the Academic and Cultural Boycott of Israel” [Campagna Palestinese per il Boicottaggio Accademico e Culturale di Israele] (PACBI), in seguito all’impegno del movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) e alle critiche internazionali, più di 15 musicisti hanno annullato la propria esibizione al festival “Meteor” in Israele.

La prima rinuncia, che doveva essere il principale avvenimento del festival, è stata quella della cantautrice americana Lana Del Rey, che ha twittato: “Per me è importante esibirmi sia in Palestina che in Israele e trattare tutti i miei fan allo stesso modo.”

Il musicista americano Henry Laufer, noto anche come Shlohmo, ha annunciato la cancellazione del suo concerto solo poche ore dopo Del Rey.

Shlohmo ha postato sul suo twitter: “Mi spiace per il breve preavviso, ma non suonerò in Israele la prossima settimana. Per me è più importante appoggiare gli oppressi con la mia assenza, soprattutto dopo le recenti atrocità del governo [israeliano] contro i diritti umani.”

Un gruppo pop americano indipendente di Montreal ha annullato l’esibizione con un post sulla propria pagina Facebook: “Abbiamo deciso di annullare la nostra presenza al festival “Meteor”. Dopo aver escluso ogni diverso modo possibile per giustificare il fatto di suonare in un festival israeliano, mentre i dirigenti politici e militari del Paese continuano a mettere in atto le loro politiche assassine e brutali contro il popolo palestinese, siamo arrivati alla conclusione che non ci sia altra iniziativa concreta che non sia annullare lo spettacolo.”

L’annullamento più recente è stato annunciato dalla cantante e attrice inglese Little Simz, che ha scritto: “I rapporti tra palestinesi ed israeliani sono molto più complicati di quanto sapessi. Non comparirò al festival ‘Meteor’.”

Tra gli altri nomi famosi, che non parteciperanno al programma del festival ci sono il DJ britannico Shanti Celeste, il famoso DJ e produttore britannico Leon Vynehall, così come il DJ svedese Seinfeld e il DJ australiano Mall Grab. Anche la cantante turca Selda, DJ Volvox, DJ Python, Black Motion e gruppi come Khalas e Zenobia hanno rinunciato all’evento.

Il BDS e i suoi sostenitori, compreso Roger Waters [leader dei Pink Floyd, ndtr.], avevano chiesto a molti degli artisti, compresa Lana Del Rey, di annullare la loro esibizione al festival come gesto di solidarietà con il popolo palestinese.

Durante un’intervista a “The Real News Network” [sito di notizie nordamericano, ndtr.] Roger Waters ha parlato della vicenda, sottolineando che “se rimani neutrale dove avvengono ingiustizie, stai dalla parte dell’oppressore.”

Waters ha aggiunto che “rimanere neutrale è stare dalla parte dell’occupazione e dello Stato dell’apartheid. È così e basta. La cosa giusta da fare è annullare [il concerto].”

Nonostante tutte queste cancellazioni ci saranno più di 130 esibizioni al festival “Meteor”. Esibirsi in Israele rimane ancora una questione molto politicizzata, con molte critiche riguardo al fatto che le azioni militari di Israele contro i palestinesi sono più che sufficienti per giustificare il boicottaggio culturale.

 

(traduzione di Amedeo Rossi)




Netanyahu: una biografia, un destino

Il mare è sempre il solito mare

The London Review of Books

Adam Shatz

Bibi: The Turbulent Life and Times of Benjamin Netanyahu [Bibi: La vita e i tempi turbolenti di Benjamin Netanyahu]di Anshel Pfeffer, Hurst, 423 pp, £20.00, Maggio.

“Il problema di Israele,” ha scritto Tony Judt sulla New York Review of Books nel 2003,

“non è –come qualcuno ha sostenuto – che sia un’‘enclave’ europea nel mondo arabo, ma piuttosto che è arrivato troppo tardi. Ha importato un progetto di separatismo tipico della fine del XIX° secolo in un mondo che è andato avanti, un mondo di diritti individuali, frontiere aperte e leggi internazionali. La stessa idea di uno ‘Stato ebraico’ – uno Stato in cui gli ebrei e la religione ebraica hanno privilegi esclusivi da cui i cittadini non ebrei siano per sempre esclusi – è radicata in un altro tempo e luogo. In breve, Israele è un anacronismo.”

Oggi è la certezza internazionalista liberale di Judt che sembra un anacronismo, mentre Israele – una “società ibrida di antiche fobie e speranze di tecnologia avanzata, una combinazione di tribalismo e globalizzazione”, nelle parole del giornalista Anshel Pfeffer – assomiglia sempre più all’embrione di un nuovo mondo governato da timori atavici, il cui sintomo più malefico è la presidenza di Donald Trump.

Pfeffer, corrispondente di “Haaretz”, ha scritto una biografia di Benjamin Netanyahu per spiegare l’odierno Israele – un compito per niente invidiabile. Dite quello che volete dei predecessori di Netanyahu, ma essi avevano un loro fascino, dall’autodisciplina monacale di David Ben-Gurion all’avidità di Ariel Sharon. Netanyahu sembra un personaggio vuoto: un “responsabile del marketing”, con le parole di Max Hastings, che lo ha incontrato mentre scriveva una biografia di suo fratello Jonathan. Eppure Netanyahu può difficilmente essere ignorato, o la sua capacità di sopravvivenza negata. Se non verrà obbligato a lasciare il suo incarico per accuse di corruzione prima del luglio 2019, sarà il primo ministro più a lungo in carica, superando Ben-Gurion. La democrazia israeliana, il marchio del responsabile del marketing, è caduta in un discredito totale tra i progressisti dell’Occidente, ma lui non si è mai preoccupato di quello che pensano i progressisti, ed essi hanno un’influenza molto minore in un’era di demagogia populista. Trump, Putin, Modi, Orbán: Netanyahu non potrebbe essere più a suo agio in un mondo di uomini forti nazionalisti. Senza restituire neppure un centimetro di terra occupata, ha sconfitto gli Stati arabi sunniti, paralizzati dal timore per l’Iran sciita, che ne hanno abbastanza dei palestinesi e incapaci di esercitare pressioni su Israele. La resistenza palestinese in Cisgiordania ha in pratica subito una battuta d’arresto. Gli ebrei israeliani –  più di 600.000 dei quali vivono nelle colonie – non hanno alcuna ragione per preoccuparsi dei palestinesi, salvo che si stiano appassionando agli episodi di “Fauda”, la serie televisiva israeliana sull’occupazione. La maggioranza degli ebrei israeliani considera l’assedio di Gaza, che ha reso il territorio quasi inabitabile, un prezzo accettabile da pagare per la ‘sicurezza’, anche se è proprio la miseria provocata dall’assedio che accresce la loro insicurezza. Questa opinione non è condivisa dai cittadini palestinesi di Israele, circa il 20% della popolazione, ma essi sono degli emarginati interni.

L’Israele di Netanyahu incarna quello che Ze’ev Jabotinsky, l’idolo di suo padre, chiamava “un muro di ferro di baionette ebraiche”. Jabotinsky, il fondatore del sionismo revisionista [corrente di destra del sionismo, ndtr.], sognava un Israele su entrambe le rive del Giordano. Netanyahu ha fatto la pace con il dominio degli Hascemiti [la dinastia regnante, ndtr.] sulla Giordania, ma nel suo impegno per un Israele più grande e nella sua implacabile opposizione all’autodeterminazione dei palestinesi rimane figlio di suo padre. Nato nel 1910 in una famiglia sionista a Varsavia, Benzion Mileikowsky si stabilì a Gerusalemme nel 1924 e si unì a “Hatzohar”, l’Unione Mondiale dei Sionisti Revisionisti, sionisti di destra ma laici, profondamente influenzati dal nazionalismo sangue e terra, ed adottò lo pseudonimo di suo padre, ‘Netanyahu’, ‘donato da dio’. Diventò uno studioso dell’inquisizione spagnola, proponendo la tesi spietata secondo cui, invece di morire per la loro fede, i conversos accettarono la Chiesa [cattolica] per ambizione.

Il maggior risultato raggiunto da Benzion in “Hatzohar” fu di esserne il rappresentante ad una conferenza del 1940 a New York: era un militante di destra di poco conto, “al massimo, una figura marginale nel circolo del leader”. Ma era uno che ci credeva davvero, sconvolto dalla sconfitta del movimento nella sua rivalità con il sionismo socialista di Ben-Gurion, che per questioni di tattica accettò l’idea della partizione della Palestina. Con la fondazione dello Stato di Israele sotto la direzione di Ben-Gurion, uomini come Benzion Netanyahu vennero lasciati a leccarsi le ferite. Uomo rigido e cupo, continuò a leccarsele per tutta la vita, per lo più passata in un orgoglioso e autoimposto esilio da Sion. Convinto che “il cuore della nostra Nazione sia stato distrutto” dopo l’Olocausto, vedeva i nuovi dirigenti dello Stato come uomini deboli, che preparavano la strada per la “liquidazione dei sionisti”. Dopo l’indipendenza trovò lavoro come uno dei redattori della nuova Encyclopedia Hebraica, ma si rodeva dall’amarezza per la sua incapacità di garantirsi un incarico accademico degno di quelle che sentiva essere le sue capacità.

Bejamin Netanyahu, ‘Bibi’ per la sua famiglia, è nato nel 1949 a Tel Aviv, tre anni dopo il suo fratello maggiore, Jonathan (‘Yoni’), ed è cresciuto a Katamon, un sobborgo abitato prevalentemente da arabi cristiani prima della guerra del 1948. (Un terzo figlio, Iddo, è nato nel 1952). Nel 1963 i ragazzi vennero sradicati quando il padre, convinto di essere stato messo nella lista nera dal mondo accademico, spostò la sua famiglia a Elkins Park, un verdeggiante quartiere periferico di Filadelfia. Per una famiglia revisionista lasciare Israele non era un’umiliazione da poco: gli ebrei che emigrano [da Israele] sono noti come yordim, quelli che scendono (gli immigrati fanno aliyah e “salgono”). Scendendo, i ragazzi Netanyahu dovettero rimandare il loro ingresso nell’esercito, la loro più profonda aspirazione: sia Yoni che Bibi erano decisi a lavare l’onta del loro colto padre, un profeta reietto nello Stato ebraico. Le lettere di Yoni ai suoi amici in patria fanno pensare ad  un Sayyid Qutb [leader islamico egiziano, dirigente della Fratellanza musulmana, ndtr.] sionista, disgustato dall’edonismo americano: “Qui la gente parla di macchine e ragazze. La loro vita gira attorno ad un argomento – il sesso – e penso che Freud qui avrebbe avuto un fertile campo per seminare e raccogliere i suoi frutti. Mi sto convincendo di vivere in mezzo a scimmie, non a esseri umani.” Yoni inizialmente si accontentò di predicare il sionismo con i suoi compagni di classe, ma nel 1964 tornò in Israele per diventare paracadutista, realizzando la fantasia di suo padre del guerriero ebreo che difende la sua terra dagli arabi, che vedeva come “una marmaglia di cavernicoli”.

Senza il fratello maggiore, che adorava, Netanyahu sembra si sia perso nella selva degli anni ’60 americani. A “Cheltenham High” [prestigioso college nei pressi di Filadelfia, ndtr.] era noto come Ben, non Bibi. Giocava nella squadra di calcio ed era membro della società di scacchi, ma per lo più se ne stava per conto suo. Aveva poco in comune con i suoi compagni di classe ebrei progressisti infervorati dal movimento per i diritti civili [degli afroamericani, ndtr.]. Lettore di Ayn Rand [scrittrice e filosofa liberale di destra, ndtr.], era preoccupato dei mali del comunismo, non di quelli del razzismo. Una settimana prima dello scoppio della guerra del 1967 [tra Israele e gli Stati arabi, nota come la Guerra dei Sei Giorni, ndtr.] volò in Israele. Netanyahu sostiene di essere tornato per lottare per il suo Paese, ma Pfeffer afferma che la ragione principale era che gli mancava Yoni.

Tornato in Israele, Bibi si addestrò come soldato combattente, e si unì a “Sayeret Matkal”, un’unità speciale d’élite la cui esistenza rimase un segreto ufficiale fino al 1992. Benché più corpulento del suo slanciato e spartano fratello maggiore, era estremamente in forma, e rimase nell’esercito per cinque anni, partecipando a molti attacchi al di là dei confini, compresa la battaglia di Karameh, in Giordania, del 1968 [nota come prima vittoria dei palestinesi contro l’esercito israeliano, ndtr.], in cui combatté contro i guerriglieri palestinesi sotto il comando di Arafat. Nel maggio 1972 venne ferito a una spalla da fuoco amico durante la liberazione del Boeing 707 della Sabena dirottato [dal gruppo palestinese “Settembre nero”, per chiedere uno scambio di prigionieri, ndtr.].

Bibi avrebbe potuto continuare la carriera militare come Yoni, ma aveva ambizioni più mondane. Due mesi dopo la liberazione del volo Sabena ritornò negli Stati Uniti con la sua ragazza, Miki Weizmann, con cui si sposò poco dopo. Si iscrisse ad un corso di architettura e urbanistica al MIT [Massachusetts Institute of Technology, ndtr.] (in seguito prese una seconda laurea alla scuola di management), mentre Weizmann studiò chimica a Brandeis [prestigiosa università nei pressi di Boston, ndtr.]. Ritornò a chiamarsi Ben invece di Bibi; cambiò persino il suo cognome in ‘Nitay’ perché gli americani facevano fatica a pronunciare ‘Netanyahu’. Era un tipico insieme di zelo assimilazionista e di disprezzo per l’unico Paese in cui aveva conosciuto qualcosa di simile a una vita civile: in Israele da adulto è stato solo un soldato o un politico. Pochi mesi prima dello scoppio della guerra del 1973 indusse Yoni, diventato ora vice di Ehud Barak nell’unità “Sayeret Matkal”, a passare il semestre estivo ad Harvard. Benché Yoni condividesse l’ammirazione di Bibi per l’intraprendenza americana, gli attivisti contro la guerra nel campus lo disgustarono, soprattutto quelli ebrei: “Sembra che abbiano smesso da molto tempo di essere obiettivi. Un peccato per l’America, perché questi pazzi la distruggeranno.” (Tutti e due i fratelli parteciparono alla guerra: Bibi ha raccontato con orgoglio di essere stato vicino ad Ariel Sharon e a Ehud Barak sulle sponde del Canale di Suez, ma Barak dice di non ricordarsi di un simile incontro).

Il dramma che ha segnato la vita di Netanyahu da giovane ha avuto luogo nel luglio 1976, quando Yoni venne ucciso all’aeroporto di Entebbe durante una missione per la liberazione di ostaggi israeliani ed ebrei del volo Air France 139, dirottato da quattro membri di una cellula tedesca del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina [gruppo armato marxista, ndtr.]. La storia della sua morte e di chi l’abbia ucciso rimane controversa. Secondo il racconto più ampiamente accettato, contravvenne agli ordini aprendo il fuoco contro i soldati ugandesi, attirando quindi l’attenzione della torre di controllo, da cui molto probabilmente vennero sparati i colpi che lo uccisero. La famiglia Netanyahu, tuttavia, rifiutò di credere che il loro figlio fosse stato ucciso da un soldato semplice ugandese, e insistettero che fosse stato ucciso dal comandante tedesco dei dirottatori. Benché Yoni fosse stato depresso per mesi e poco comunicativo nelle riunioni, venne esaltato nella mitologia familiare come “l’impareggiabile comandante”, trasformato in un’icona anche prima del suo funerale. “Mi aspettavo che il padre dicesse quanto amasse suo figlio e gli mancasse,” ricordò dopo il funerale Moshe Arens, politico del Likud. “Invece Benzion disse: ‘Gli arabi non sanno ancora quale perdita hanno inflitto agli ebrei.’”

Incaricato dalla famiglia di scrivere la biografia di Yoni, Max Hastings lo ritrasse come un tipo scontroso, testardo e solitario, molto simile al padre, solo senza la sua intelligenza – “un giovane problematico di media intelligenza, che si sforzava di fare i conti con concetti intellettuali al di là della sua comprensione.” Lungi dall’essere un comandante senza pari, Yoni era stato “attivamente detestato da non pochi dei suoi uomini.” Furiosi contro Hastings, i Netanyahu pubblicarono il libro in forma depurata. Hastings, che nelle sue memorie scrisse dei suoi incontri con la famiglia (“uno dei più spiacevoli episodi della mia carriera”), prese in particolare antipatia Bibi, che si vantò: “Nella prossima guerra, se facciamo le cose come si deve, avremo la possibilità di buttar fuori tutti gli arabi…Possiamo ripulire la Cisgiordania, mettere a posto Gerusalemme.” Il razzismo di Bibi, ricordò Hastings, non si limitava agli arabi: “Scherzava sulla brigata Golani, il corpo di fanteria [dell’esercito israeliano, ndtr.] in cui molti uomini erano ebrei nordafricani o yemeniti. ‘Vanno bene finché sono guidati da ufficiali bianchi,’ ghignava.”

Con tutta la sua spacconeria, ‘Ben Nitay’ era ancora confuso in pieni anni ’70. Tenne occasionali discorsi nella zona di Boston a favore del governo israeliano, che riconobbe in lui un elemento prezioso per la sua esperienza nelle forze speciali, per il suo accento americano, per il bell’aspetto e, non da ultimo, per la sua predisposizione per l’hasbara – una parola ebraica che significa difendere Israele attraverso una presentazione notevolmente selettiva dei fatti. Ma a 25 dollari a discorso, l’hasbara non lo ripagava delle spese, o non ancora, per cui Netanyahu si mantenne con il suo lavoro di consulente e, per un breve periodo, come direttore commerciale per un produttore di mobili in Israele. La sua vita privata  era un disastro. Il suo matrimonio finì poco dopo la nascita della figlia Noa nel 1978, quando Weizmann venne a sapere della sua storia con Fleur Cates, una donna anglo-tedesca che aveva incontrato nella biblioteca della facoltà di economia di Harvard e che in seguito sposò.

Netanyahu rimase nell’ombra di Yoni, il figlio favorito: si impegnò nella supervisione della pubblicazione delle lettere di suo fratello e nella costituzione di un gruppo di ricerca intitolato a lui. L’elezione di Menachem Begin nel 1977, che portò al potere il Likud e preannunciò un grande riassetto nella politica israeliana a favore della Destra, avrebbe dovuto migliorare le sue prospettive. Ma Begin, l’ex-comandante della milizia “Irgun” e seguace di Jabotinsky, considerava il padre di Bibi “un borioso parolaio che aveva preferito una comoda vita negli Stati Uniti”, e guardava con sospetto al suo figlio yordim [espatriato]. Quando Begin acconsentì a ritirarsi dal Sinai, Netanyahu vide la decisione come un tradimento, ma fu abbastanza calcolatore da non firmare nessuna petizione di protesta: la famiglia aveva bisogno del beneplacito di Begin per la prima conferenza internazionale dell’istituto “Jonathan”, tenutasi a Gerusalemme nel 1979.

Due anni più tardi il discorso di Netanyahu a quella conferenza gli diede la prima occasione in politica come vicecapo della missione diretta da Moshe Arens, il nuovo ambasciatore di Israele negli USA, un falco. Tanto edotto del pensiero di Ayn Rand quanto fluente in inglese, Netanyahu prosperò nella Washington di Reagan, dove l’economia ultraliberista e il sionismo revisionista erano i due pilastri di centri di ricerca di destra come l’”American Enterprise Institute” e la “Heritage Foundation”. Egli si abituò alle interviste davanti alle telecamere e imparò a “tenere l’occhio fisso sugli obiettivi mentre presentava la parte sinistra del suo viso, quella senza la cicatrice sul labbro”. (Netanyahu si tagliò il labbro superiore da bambino quando scivolò dalle braccia di Yoni mentre scavalcavano un cancello, un’altra ‘eresia’ eliminata dalla mitologia di Yoni.) “Giovane, di bell’aspetto e ostentando fiducia in se stesso” come lo presenta Pfeffer, si ingraziò i campioni di Israele nei media americani, da William Safire, un editorialista neoconservatore del “New York Times”, al più affabile sionista Ted Koppel dell’ABC, nel cui spettacolo, “Nightline”, fece frequenti apparizioni come ‘esperto di terrorismo’. Safire chiese ad Israele di nominare Netanyahu suo nuovo ambasciatore quando Arens sostituì Sharon come ministro della Difesa, dopo che Sharon fu obbligato a dimettersi in seguito al massacro di Sabra e Shatila [campi profughi palestinesi a Beirut in cui nel settembre 1982, durante la prima guerra di Israele contro il Libano, i miliziani cristiani massacrarono centinaia di civili con la complicità delle truppe israeliane, ndtr.]. Ma Yitzhak Shamir, il nuovo primo ministro, considerava Netanyahu “superficiale, vanitoso, autodistruttivo e prono alle pressioni.” Come diceva lui: “Il mare è il solito mare e Netanyahu è il solito Netanyahu.”

I ‘principi’ del Likud forse avevano poco tempo da dedicare a Netanyahu, ma egli ebbe successo nel corteggiare Shimon Peres, il dirigente laburista, che lo nominò ambasciatore alle Nazioni Unite nel 1984, dopo aver formato un governo di unità nazionale con Shamir. Appena Netanyahu si trasferì a New York fece richiesta di ristrutturazioni nella residenza dell’ambasciatore di fronte al Met [Metropolitan Museum of Art, ndtr.]. Egli visse nel lusso con Fleur all’hotel Regency finché l’appartamento fu pronto, e corteggiò ricchi ebrei newyorkesi come Ronald Lauder, che lo presentò ad altri miliardari, tra cui Donald Trump. Benché non praticante, strinse alleanza con il leader dei Lubavitcher [setta chassidica originaria della Bielorussia, ndtr.] Menachem Mendel Schneerson, che lo accolse nella sua residenza di Brooklyn e gli ordinò di “accendere una candela per la verità e per il popolo ebraico” in quella “casa di menzogne”, l’ONU.

Nel suo ruolo di ambasciatore, Netanyahu era poco più che un corretto professionista dell’hasbara – un “modesto demagogo”, nelle parole di Reuven Rivlin, segretario della sezione di Gerusalemme del Likud ed ora presidente di Israele. Ma trovò un alleato più utile in Moshe Arens, che nel 1988 convinse Shamir a nominarlo rappresentante al ministero degli Esteri. Netanyahu ingaggiò un collaboratore non ufficiale: Avigdor Lieberman [attuale ministro e capo di un partito di estrema destra, ndtr.], un colono estremista moldavo, di nove anni più giovane, un ex buttafuori di nightclub. Benché Arens fosse il suo capo, Netanyahu aveva difficoltà a controllarsi, al punto da denunciare la politica americana come “fondata su menzogne e distorsioni”.  James Baker, il segretario di Stato di George Bush, gli vietò di entrare nel dipartimento di Stato. “Ero offeso dalla sua disinvoltura e dalle sue critiche alla politica USA – per non parlare dell’arroganza e della sua bizzarra ambizione,” ricorda nelle sue memorie Robert Gates, allora vice consigliere per la sicurezza nazionale.

*

Ma Netanyahu aveva come obiettivo impossessarsi del Likud, non la pace in Medio Oriente; si stava esibendo per il pubblico di casa. Il suo insieme di magniloquenza e calcolo funzionò. Durante la prima guerra del Golfo mise in relazione la minaccia degli attacchi iracheni con gas letale con le camere a gas naziste, e si mise una maschera antigas durante un’intervista con la CNN. Dovette trovarne una speciale, con il filtro di fianco, dato che quelle normali hanno un grande filtro sul davanti che non permette di ascoltare le parole di chi se le mette. “Devo dire che questo è il modo più stupido per fare un’intervista,” disse. “Tuttavia quello che mette in evidenza è la minaccia che Israele deve affrontare.” Di fatto, la minaccia che cercava di neutralizzare non era Saddam Hussein, ma il suo principale rivale nel Likud, David Levy, un ebreo marocchino che non parlava inglese e non aveva talento per l’hasbara.

Netanyahu quasi perse la sua lotta con Levy quando la sua nuova moglie, Sara Ben Artzi, una giovane hostess che aveva incontrato ad Amsterdam poco dopo la fine del suo matrimonio con Fleur, ricevette una telefonata da una fonte anonima che sosteneva di avere un video di lui che faceva sesso con un’altra donna. Cacciato dalla dimora del suo ultimo matrimonio e finito a casa dei suoi genitori, Netanyahu si dichiarò vittima di “un delitto senza precedenti nella storia della democrazia” e praticamente accusò Levy. Il matrimonio sopravvisse, grazie ad un accordo architettato da avvocati che concedeva a Sara pieno accesso alla sua agenda e il diritto di bloccare la nomina di ogni membro dello staff. E Netanyahu venne regolarmente eletto leader del Likud, con il 52% dei voti degli iscritti al partito. Si circondò di israeliani di destra che erano nati negli USA o vi avevano passato lunghi periodi: David Bar-Ilan, un pianista da concerto che era editorialista del Jerusalem Post [giornale israeliano in inglese e francese, all’epoca di destra, ndtr.], Dore Gold, un docente universitario del Connecticut che aveva scritto la sua tesi di laurea sull’appoggio dei sauditi al terrorismo (ora un argomento delicato, suppongo [si riferisce al recente avvicinamento tra Arabia Saudita ed Israele, ndtr.]), e l’intellettuale revisionista Yoram Hazony.

“Pochi politici hanno avuto una così lunga ed intensa carriera senza che le loro opinioni cambiassero,” scrive Pfeffer. Queste opinioni sono state espresse chiaramente con impressionante ampiezza nel libro del 1993 di Netanyahu “Un posto tra le Nazioni”, in cui (nell’utile riassunto di Pfeffer) egli sostenne che il conflitto arabo-israeliano non ha niente a che vedere con “palestinesi, confini o rifugiati. Non riguarda neanche Israele. Deriva da un odio implacabile di arabi e musulmani nei riguardi dell’Occidente, e di Israele come avamposto dell’Occidente in Medio Oriente”. Solo la “pace della deterrenza” farà rigare dritti gli arabi; un compromesso territoriale era impensabile, persino un tradimento. “Sei peggio di Chamberlain [primo ministro inglese che consegnò la Cecoslovacchia a Hitler pensando di salvare la pace, ndtr.],” disse Netanyahu a Rabin [primo ministro israeliano che firmò gli accordi di Oslo, ndtr.] nella Knesset [il parlamento israeliano, ndtr.], quando nell’agosto 1993 i colloqui di Oslo vennero rivelati per la prima volta. “Egli mise in pericolo un’altra Nazione, ma tu lo stai facendo con la tua stessa Nazione.” Pfeffer insiste che i discorsi di Netanyahu contro Rabin erano “misurati”, e lo difende dall’accusa di essere responsabile per la campagna di istigazione all’odio che portò all’uccisione di Rabin il 4 novembre 1995. “Pur cavalcando la tigre dell’estrema destra,” scrive, “in nessun momento Netanyahu utilizzò il vocabolario dell’estrema destra contro Rabin ed i suoi ministri.” Ma non ne aveva bisogno. Doveva semplicemente andare ai comizi in cui Rabin veniva chiamato assassino e traditore, e non dire niente. La vedova di Rabin, Leah, rifiutò di stringergli la mano durante i funerali di Stato: “Non lo perdonerò finché vivrò.”

Nelle elezioni del 1996, Netanyahu sconfisse di poco Peres, che aveva fallito la campagna contro Hezbollah, e la cui operazione “Furore” culminò con il bombardamento di una struttura dell’ONU nel sud del Libano [la cosiddetta strage di Canaa, ndtr.] e l’uccisione di più di cento civili che vi si erano rifugiati. “Per gli ebrei ci vuole Netanyahu” fu lo slogan della sua campagna. “Gli ebrei hanno sconfitto gli israeliani,” commentò Peres, un’amara allusione all’oscura mentalità da shtetl  [villaggi ebraici dell’Europa orientale, ndtr.]  che, secondo lui, isolava il revisionismo di Netanyahu dal fiducioso ethos sabra [gli ebrei nati in Palestina prima della nascita dello Stato di Israele, ndtr.] promosso da Ben-Gurion. Nel suo primo discorso, Netanyahu promise di incoraggiare “colonie d’avanguardia” e non tracciò distinzioni tra i due lati della Linea Verde che separava i confini di Israele prima del 1967 e i territori occupati: “I coloni sono i veri pionieri dei nostri giorni e meritano il nostro aiuto e la nostra stima.” I coloni del complesso di Gush Etzion [prima colonia costruita nei territori palestinesi occupati, ndtr.] presto avrebbero goduto dei benefici di una nuova strada e di un tunnel –creazione del ministro alle Infrastrutture di Netanyahu, Ariel Sharon – che permise loro un accesso diretto a Gerusalemme, evitando le città palestinesi.

Diventando primo ministro, Netanyahu aveva superato Yoni, ma suo padre non rimase impressionato: “Sarebbe stato un eccellente ministro dell’hasbara,” o “un ottimo ministro degli Esteri,” disse Benzion a un giornalista poco dopo le elezioni. Cosa ne pensa come primo ministro, chiese il giornalista: “Il tempo lo dirà.” Il primo mandato di Netanyahu fu burrascoso ed effimero come una prova di matrimonio. Si circondò di persone leali con poca o nessuna esperienza, tutte approvate da Sara, che egli “non cercò mai di contrastare.” (Lei si fece anche la fama di terrorizzare le bambinaie del loro figlioletto, Yair). Dopo il suo primo incontro con Arafat annunciò immediatamente la costruzione di 1.500 abitazioni per i coloni, e minacciò di chiudere il dipartimento dell’OLP a Gerusalemme est. Con un puro e semplice tentativo di affermare la sovranità ebraica su Gerusalemme, aprì l’uscita del tunnel di Asmodeo che unisce la via Dolorosa al Muro del pianto. Dato che l’uscita era nel quartiere musulmano della Città Vecchia, ciò era destinato a far infuriare i palestinesi, ma Netanyahu insistette che l’uscita “riguarda i fondamenti della nostra esistenza.” Il risultato fu una breve guerra, che lasciò un centinaio di palestinesi e 17 soldati israeliani uccisi. Pfeffer atrribuisce a Bibi il fatto di essere stato il primo dirigente del Likud ad aver ordinato il ritiro di truppe israeliane da una parte della “terra di Israele” quando accettò il controllo dell’Autorità Nazionale Palestinese su una parte di Hebron. Ma il ‘compromesso di Hebron’ lasciò lì 450 coloni ebrei con il controllo sul 20% della città, e migliaia di palestinesi ed il centro della città sotto occupazione militare.

Pfeffer sostiene che Netanyahu era detestato dalla sinistra in parte perché proveniva dallo stesso contesto askenazita [lett. “tedeschi”, ebrei originari dell’Europa centro-orientale, ndtr.] cosmopolita e secolarizzato, eppure condivideva le convinzioni dell’“altro Israele”, di cui facevano parte la classe operaia, i mizrahi [ebrei originari dei Paesi arabi o musulmani, ndtr.] e gli ebrei russi. Può darsi, ma la sua determinazione ad uccidere Rabin per la seconda volta, seppellendo ogni possibilità di accordo con i palestinesi, era più importante. Era irresponsabile quanto provocatore. Nel 1997 cercò di far avvelenare Khaled Meshal, il capo dell’ufficio politico di Hamas, ad Amman, violando l’ordine di Rabin di porre fine alle operazioni clandestine in Giordania, e danneggiando gravemente le relazioni di Israele con il suo unico reale alleato arabo.

Non solo Netanyahu venne obbligato a fornire l’antidoto che salvò la vita di Meshal, ma dovette anche rilasciare lo sceicco Ahmed Yassin, il leader di Hamas a Gaza, un grave colpo per Arafat, il presunto partner per la pace con Israele. “The Economist” [settimanale liberal-democratico inglese, ndtr.] definì Netanyahu il “pasticcione seriale di Israele”. Alla fine del suo primo mandato, aveva perso persino il rispetto della destra religiosa, il suo più prezioso alleato. Il rabbino Ovadya Yosef, il fanatico clericale nato in Iraq che guidava il partito Shas, lo definì “una capra cieca”.

Nelle elezioni del 1999 Netanyahu venne sconfitto da Barak, che corse con l’appoggio del rivale di Netanyahu nel Likud, David Levy. Solo pochi mesi dopo venne aperta un’inchiesta sul suo esorbitante appannaggio mensile per i sigari cubani e la stravagante ristrutturazione della residenza di Netanyahu che Sara, “la sua perfetta co-reggente”, aveva ordinato. Ma nel suo ultimo anno di governo Netanyahu fece una serie di mosse che lo avrebbero profumatamente ripagato. Mentre tranquillizzava Bill Clinton che il “Monicagate” [scandalo sessuale tra il presidente USA e Monica Levinsky, ndtr.] “si sgonfierà”, iniziò a comparire nei comizi degli evangelici tenuti da detrattori di Clinton come Pat Robertson e Jerry Falwell [pastori evangelici di estrema destra, ndtr.], forgiando l’alleanza tra Israele e gli evangelici che ora è un pilastro del mondo di Trump. E il seguace di Ayn Rand si reinventò come uomo del popolo, candidato, come lo raccontava lui, contro “i ricchi, gli artisti…quelle élite. Odiano chiunque…Odiano il popolo. Odiano i mizrahi, i russi, chiunque non sia come loro.”

Quel messaggio non funzionò nelle elezioni del 1999. Né Netanyahu si fece amici tra “il popolo” quando, come ministro delle Finanze di Barak [in un governo di unità nazionale, ndtr.], umiliò una madre single, elettrice del Likud, che aveva marciato dal Negev fino a Gerusalemme per protestare contro i tagli all’assistenza. (“Probabilmente fa jogging tutte le sere”). Ma, come sottolinea Pfeffer, l’uomo del marketing aveva una particolare intuizione su come la politica stesse passando dalle strade a internet, e dell’importanza fondamentale della comunicazione. Contrattò un nuovo consigliere, Ron Dermer, un consulente nato in America che sarebbe diventato famoso come “il cervello di Bibi”, e decise che aveva bisogno di un “suo personale media”. Il magnate americano dei casinò   Sheldon Adelson accettò, e nel 2007 creò  “Yisrael Hayom” (Israele oggi), un quotidiano gratuito di destra, al costo di circa 25 milioni di dollari all’anno. Per conservare la sua immagine di uomo del popolo, Netanyahu annullò la pubblicazione del suo manifesto per il libero mercato “La tigre israeliana”, per non inimicarsi i votanti colpiti dalla crisi finanziaria del 2008. (Non è mai stato pubblicato). E nel 2009 ritornò al potere, con Barak come suo ministro della Difesa. Il ministro degli Esteri – promosso a ministro della Difesa quando Barak diede le dimissioni – fu il suo vecchio amico, l’irriducibile colono moldavo Avigdor Lieberman, che sosteneva che i cittadini palestinesi di Israele dovrebbero essere obbligati a prestare un giuramento di fedeltà o perdere la cittadinanza.

Pfeffer afferma che Netanyahu “non è un guerrafondaio”, e che “nonostante le sue chiacchiere sullo scontro con la minaccia iraniana, è stato talmente prudente da non scatenare nessuna guerra – il che depone a suo favore.” È vero in parte. Netanyahu è un pragmatico di destra la cui principale preoccupazione è sempre stata di rimanere al potere; ha il senso del limite. Ma, come dimostra Pfeffer, ha il gusto del rischio calcolato, soprattutto quando si tratta dell’Iran, il cui programma nucleare è stato la sua ossessione negli ultimi due decenni. Nel 2010 Netanyahu e Barak ordinarono a Gabi Ashkenazi, il capo di stato maggiore dell’esercito israeliano, di mettere l’esercito in massima allerta, utilizzando il termine che in ebraico significa “alzare il cane della pistola”. Cedettero quando Ashkenazi ricordò loro che fare ciò sarebbe stato un atto di guerra, che in base alla legge richiede l’autorizzazione di tutto il governo. Nell’estate del 2012 progettò di avviare un attacco preventivo contro le strutture nucleari dell’Iran poco dopo un’esercitazione congiunta con l’esercito americano, e due settimane prima delle elezioni presidenziali USA. Un gruppo di ex-ufficiali dell’intelligence, che comprendeva comandanti di “Sayeret Matkal”, gli inviarono una lettera riservata avvertendolo del “terribile caos che ne sarebbe derivato in vari modi dopo l’euforia iniziale.” Barak sostiene che non aveva bisogno di essere convinto: attaccando poco prima di un’elezione, “avremmo piazzato una trappola politica per il presidente degli Stati Uniti.”

That president was, of course, Barack Obama, whom Netanyahu famously loathed (the feeling was mutual). Netanyahu lobbied furiously against Obama’s efforts to reach a peaceful agreement over Iran’s nuclear programme, most notably in his bellicose speech to a joint session of Congress in 2014. For this shameless defiance of Israel’s major patron, he received 26 standing ovations – in Jon Stewart’s words, ‘by far the longest blowjob a Jewish man has ever received’. There were side benefits to Obama’s Iran diplomacy, which, as Pfeffer notes, ‘saved Netanyahu from making progress with the Palestinians’. Even so, Netanyahu cast Obama ‘in the consciousness of the Israeli public as the nation’s enemy’. They didn’t require much persuading: the son of a Kenyan father with a Muslim middle name and a surname that rhymed with Osama, Obama cut a suspiciously Third World figure in a country where race prejudice runs deep, as not only Palestinian Arabs but African asylum-seekers and Ethiopian and Moroccan Jews can attest. Never mind that Obama had declared the American bond with Israel ‘unbreakable’: he had also described the occupation’s ‘daily humiliations’ as ‘intolerable’. Worst of all, in the minds of Netanyahu and his supporters, he had suggested that Israel was created because of the Holocaust, rather than because of the Jews’ ancestral claim to the land, tapping into Zionist anxieties about ultimate ownership rights.

Quel presidente era ovviamente Barack Obama, che notoriamente Netanyahu detestava (ricambiato). Netanyahu fece pesanti pressioni contro i tentativi di Obama per raggiungere un accordo pacifico sul programma nucleare iraniano, in particolare nel suo bellicoso discorso durante una sessione congiunta del Congresso nel 2014. Per la sua sfida senza pudore al maggiore protettore di Israele, ricevette 26 ovazioni – secondo Jon Stewart “in assoluto il più lungo pompino che un ebreo abbia mai ricevuto.”  C’erano vantaggi secondari per la diplomazia di Obama con l’Iran, che, come nota Pfeffer, “evitarono a Netanyahu di fare progressi [nei colloqui di pace] con i palestinesi.” Nonostante ciò, Netanyahu assegnò ad Obama la parte di “nemico della Nazione nella coscienza dell’opinione pubblica israeliana.” Non ci voleva molto per convincerla: figlio di un padre  keniota con un secondo nome musulmano e un cognome che fa rima con Osama, Obama era un personaggio sospettosamente terzomondista in un Paese in cui i pregiudizi razziali sono molto profondi, come possono testimoniare non solo arabi palestinesi, ma anche richiedenti asilo africani ed ebrei etiopi e marocchini. Non importa che Obama abbia dichiarato “indistruttibile” il legame dell’America con Israele: egli ha anche descritto le “quotidiane umiliazioni” dell’occupazione come “intollerabili”. Peggio ancora, nelle menti di Netanyahu e dei suoi sostenitori, ha insinuato che Israele è stato creato a causa dell’Olocausto, piuttosto che a causa dell’ancestrale rivendicazione degli ebrei sulla terra, andando a toccare le preoccupazioni sioniste sui definitivi diritti di proprietà.

Nella sua risposta al discorso di Obama, Netanyahu fece finta di riconoscere la necessità di uno Stato palestinese, ma la sua versione di un simile Stato corrispondeva a cantoni demilitarizzati e aggiunse una nuova precondizione: che prima che venisse raggiunto un qualsiasi accordo i palestinesi riconoscessero Israele come “Stato del popolo ebraico”. Israele non chiese mai all’Egitto o alla Giordania di concedere un tale riconoscimento, né Netanyahu fece lo stesso con la Siria quando cercò di aprire negoziati con Damasco durante il suo primo mandato come primo ministro. “Che bisogno abbiamo che i palestinesi, o chiunque altro, ci legittimino come Stato ebraico?” scrive (Ehud) Barak nelle sue memorie. “La tua retorica suggerisce che tu abbia una spina dorsale d’acciaio,” dice di aver detto a Netanyahu, “ma il tuo comportamento è una prova vivente del vecchio detto che sia più facile portare gli ebrei fuori dal galut” – la diaspora – “che portar fuori il galut dagli ebrei.” Secondo Barak, Netanyahu non sembrava tanto un primo ministro israeliano quanto un timoroso “rabbino di uno shtetl, o un oratore che cerca di raccogliere fondi per Israele all’estero.” Ma qui sta il punto: la nuova precondizione di Netanyahu era semplice hasbara. Sapeva che nessun dirigente palestinese – ancora meno un uomo vecchio, debole e screditato come Mahmoud Abbas –  avrebbe potuto riconoscere Israele come Stato del popolo ebraico, dato che ciò sarebbe stato come approvare il sionismo, il progetto che aveva lasciato i palestinesi senza uno Stato. Ma questo rifiuto poteva essere bollato come ‘rifiuto di trattare’ e invocato come pretesto per continuare a prendere tempo, e lui sapeva che Obama non aveva intenzione di imporre nessuna reale sanzione. Nella sua ultima intervista prima di morire, all’età di 102 anni, Benzion Netanyahu chiarì che suo figlio non appoggiava la creazione di uno Stato palestinese. “Non c’è posto qui per gli arabi, e non ce ne sarà. Non ne accetteranno mai le condizioni.” Quando nel 2014 fu candidato alle elezioni per un secondo mandato, Netanyahu promise che non ci sarebbe mai stato uno Stato palestinese, dato che sarebbe diventato solo un trampolino di lancio per l’’Islam radicale’. L’argomento giocò un ruolo importante tra gli ebrei israeliani già spaventati dalle turbolenze nel mondo arabo. La guerra in Siria non fece altro che confermare che, in un futuro prevedibile, le Alture del Golan rimarranno in mani israeliane.

I palestinesi pagano un caro prezzo per resistere all’occupazione, sia con la violenza che con la non-violenza. L’esercito israeliano lo chiama ‘falciare il prato’. Pfeffer descrive Netanyahu come “il primo ministro con la più bassa percentuale di vittime nella storia di Israele,” ma sta contando solo i morti israeliani. Nel 2014 nella sola guerra di Gaza più di duemila palestinesi vennero uccisi, due terzi dei quali civili, mentre il numero di morti israeliani si limitò a 64 soldati e 6 civili. La risposta di Netanyahu fu accusare Hamas di usare “i morti palestinesi in modo telegenico per la propria causa”. La maggioranza degli israeliani condivide questa opinione. Nel 2016 a Hebron, durante l’’Intifada dei coltelli’ di breve durata, il sergente Elor Azaria venne filmato mentre giustiziava un ferito sospetto [di aver accoltellato un soldato, ndtr.] di nome Abdel Fattah al-Sharif. Era steso a terra da 10 minuti quando Azaria gli sparò. Azaria venne condannato dal ministro della Difesa di Netanyahu, Moshe Yaalon, ma quando la maggioranza degli israeliani sembrò sollevarsi in sua difesa, Netanyahu cambiò atteggiamento, facendo una telefonata di solidarietà alla famiglia dell’assassino. Dopo nove mesi in prigione, Azaria è stato liberato.

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II progressisti israeliani sono soliti consolarsi con l’idea che all’interno della Linea Verde [cioè in territorio israeliano, ndtr.] le cose fossero diverse: passare dalla Cisgiordania a Israele era come entrare nelle ricche praterie di una vivace democrazia. Ciò è sempre stata una favola: la democrazia israeliana non è mai rimasta immune dall’occupazione, o dal governo militare autoritario imposto ai palestinesi dal 1948 al 1966, un anno prima che l’occupazione iniziasse. Eppure i progressisti israeliani potrebbero ragionevolmente invocare le libere elezioni e una stampa vivace come prova della vitalità democratica nel Paese, almeno per gli ebrei. Sotto Netanyahu non solo l’occupazione è diventata ancora più dura, ma il confine tra Israele ed i territori occupati ha continuato a sfumare. Ahmed Tibi, un deputato palestinese della Knesset, ha spesso evidenziato che Israele è una democrazia per gli ebrei ma uno Stato ebraico per gli arabi. Con l’approvazione della nuova ‘legge fondamentale’, che dichiara Israele ‘lo Stato-Nazione del popolo ebraico’, ciò ora è iscritto nella costituzione dello Stato. Israele è ufficialmente diventato quello che è sempre stato nella pratica: una democrazia herrenvolk [del popolo superiore], in cui solo gli ebrei hanno pieno diritto di cittadinanza e i non-ebrei sono al massimo una minoranza tollerata, in cui un immigrato da Miami o da Mosca può spadroneggiare su un cittadino palestinese nativo la cui famiglia ha vissuto ad Haifa o a Nazareth per secoli. L’arabo, in precedenza lingua ufficiale, è stato declassato a idioma con ‘status speciale’.

Quelli che all’interno di Israele si oppongono all’occupazione o alle discriminazioni contro gli arabi non sono più critici, sono nemici. Giornalisti progressisti, artisti e professori di sinistra, ricercatori per i diritti umani, elettori arabi ‘che vanno in massa a votare’: a sentire Netanyahu c’è da immaginare un complotto interno contro Israele. “Abbiamo due nemici principali, il ‘New York Times’ e ‘Haaretz’,” ha detto Netanyahu durante un incontro privato. “Essi definiscono l’agenda della campagna contro Israele in tutto il mondo.” Quando Sara Netanyahu venne accusata di truffa e di abuso d’ufficio nel settembre 2017, dopo essere stata incriminata per aver speso illegalmente fondi pubblici per cene preparate da chef famosi, il figlio della coppia, Yair, postò su Facebook un cartone neonazista su cui aveva sovrimpresso i volti di chi criticava i suoi genitori.

Con tutta la sua ossessione nei confronti dell’antisemitismo dei palestinesi, Netanyahu ha assunto un atteggiamento più indulgente verso l’antisemitismo dei suoi amici. Quando Victor Orbàn lanciò una campagna antisemita contro George Soros, provocando le ire dell’ambasciatore israeliano a Budapest, Netanyahu difese il suo alleato ungherese contro Soros, critico dell’occupazione [dei territori palestinesi].  Né l’antisemitismo dei sauditi né l’appoggio saudita agli jihadisti in Siria ha impedito il crescente amore-che-non-osa-dire-il-suo-nome tra Tel Aviv e Ryad. E poi c’è Donald Trump, la cui campagna per le presidenziali è stata appoggiata dal patrono di Netanyahu, Sheldon Adelson, e che si è circondato di un inquietante entourage di ebrei di destra e nazionalisti bianchi. Puntando su Trump nelle elezioni del 2016, Netanyahu ha sfidato quello che a lungo è stato il più importante sostegno di Israele all’estero: gli ebrei americani, molti dei quali detestano Trump e erano turbati dalle notizie sull’antisemitismo di Bannon. Ma Ron Dermer gli garantì che Bannon era un convinto sostenitore di Israele, e ciò per lui era sufficiente. (Come Netanyahu, Bannon è stato cresciuto dal padre nella convinzione che la Reconquista, la vittoria dei cristiani sui mori in Spagna, avesse salvato la civiltà, e prefigurato il ritorno a Sion). Trump ha onorato Netanyahu lodando il muro di Israele come un modello del muro che spera di costruire sul confine degli USA con il Messico, e Netanyahu ha risposto a tono su Twitter. Ora l’America è a tutti gli effetti schierata con i coloni. L’apertura dell’ambasciata USA a Gerusalemme è stata festeggiata mentre decine di palestinesi disarmati venivano uccisi a Gaza. E la strada verso una guerra ancora più sanguinosa è stata aperta dal ritiro di Trump dall’accordo con l’Iran.

“Siamo proprio come te,” ha detto Sara Netanyahu a Trump. “I media ci odiano ma il popolo ci ama.” Ha ragione per metà: suo marito rimane popolare tra gli ebrei israeliani. Ma il ‘popolo’ di Trump include pochissimi ebrei americani, e l’alleanza di Israele con lui ha accentuato la divisione tra gli ebrei americani e lo Stato ebraico. Molti ebrei americani, persino alcuni liberal, erano disposti a ignorare, o a giustificare, le violazioni dei diritti umani contro i palestinesi da parte di Israele. Ma non sono disposti ad approvare la guerra contro gli immigrati, il divieto di ingresso ai musulmani o l’erosione della democrazia americana. La convergenza tra il populismo autoritario di Trump e il sionismo colonialista di Netanyahu ha ulteriormente evidenziato le contraddizioni tra le loro convinzioni progressiste e l’Israele attuale. Il risultato è stato una sinistra ebrea americana con nuova linfa e sempre più radicale. Bernie Sanders si è espresso eloquentemente contro le uccisioni da parte di Israele a Gaza, risparmiando ai suoi ascoltatori i luoghi comuni sulla sicurezza di Israele, e il movimento per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni è guidato, in parte, da “Jewish Voices for Peace” [“Voci ebraiche per la pace”, organizzazione americana contro l’occupazione, ndtr.]. Alcuni democratici ebrei rimangono fedeli sostenitori di Israele, ma sono sempre più in difficoltà, e il sostegno ad Israele tra i giovani ebrei americani è in declino.

Netanyahu non se ne preoccupa. Come ha spiegato recentemente Dermer al “New York Times”, i cristiani evangelici, che sommano “un buon quarto della popolazione, e sono forse 10, 15, 20 volte la popolazione ebraica,” ora costituiscono il ‘nocciolo duro’ del sostegno USA ad Israele. Le loro idee nei confronti degli ebrei non sono affatto tenere. Il reverendo Robert Jeffress, che ha pronunciato la preghiera iniziale per l’apertura dell’ambasciata a Gerusalemme, dice che “non puoi essere salvato se sei un ebreo.” Il reverendo John C. Hagee, il tele-evangelico che ha dato la benedizione conclusiva, ha descritto l’Olocausto come il modo in cui dio ha fatto in modo che gli ebrei “tornassero alla terra di Israele.” Netanyahu si deve ancora pronunciare su questa teoria dell’Olocausto, ma ha espresso l’opinione che gli ebrei americani sono destinati ad essere assimilati e a scomparire come i conversos spagnoli che suo padre disprezzava. Appoggiato da Trump e dagli evangelici sionisti, l’Israele di Netanyahu non ha bisogno degli ebrei, per lo meno non di quelli politicamente inaffidabili della diaspora.

Dove tutto questo porterà rimane incerto. Netanyahu, per il momento, sembra molto attivo, incoraggiato dai suoi legami con Trump, dall’espansione del commercio con l’Asia e dalla complicità dei regimi arabo-sunniti. La posizione strategica di Israele non è mai stata così forte, o i suoi vicini così deboli. Ma le scene dei manifestanti disarmati uccisi dai cecchini israeliani a Gaza sono un richiamo allo scontento che giace sotto la superficie. Con Netanyahu, Israele ha accumulato un consistente conto di sangue e lacrime. Come la carta di credito di sua moglie, prima o poi dovrà pagarlo.

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Khan al-Ahmar: peggio di un crimine di guerra

Nota redazionale: pubblichiamo solo ora questo articolo del 9 luglio 2018 relativo alla minaccia di demolizione del villaggio di Khan al-Ahmar. All’epoca la distruzione e la deportazione degli abitanti vennero bloccate da un ricorso all’Alta corte israeliana. Lo abbiamo tradotto ora, dopo che la corte ha deciso di dare il via libera alla demolizione, in quanto riteniamo che i punti affrontati nell’articolo siano molto utili per capire le ragioni di questo accanimento e perché l’UE si sia finora mobilitata in difesa del villaggio.

 

La demolizione di Khan al-Ahmar è più di un semplice crimine di guerra

Mentre l’imminente distruzione di Khan al-Ahmar è un gravissimo problema umanitario e molto probabilmente un crimine di guerra, molti hanno trascurato l’importanza strategica di questo piccolo villaggio per il futuro del conflitto israelo-palestinese

+972

 Edo Konrad – 9 luglio 2018

 

Gli abitanti di Khan al-Ahmar hanno passato le ultime settimane in attesa dell’arrivo dei bulldozer israeliani per demolire completamente il loro villaggio e deportare tutte le 170 persone che vi abitano, un’iniziativa che secondo organizzazioni dei diritti umani e qualche governo europeo rappresenterebbe un crimine di guerra.

Ma mentre la situazione umanitaria e la legalità della demolizione e della deportazione rappresentano un grave problema, la maggior parte delle informazioni mediatiche e dell’attivismo relativo a Khan al-Ahmar ha trascurato l’importanza strategica di questo piccolo villaggio.

Khan al-Ahmar si trova nella E1, nome di un’area di 12 km2  situata tra Gerusalemme e la colonia di Ma’ale Adumim, in Cisgiordania. Per decenni Israele ha sperato di costruire delle colonie in quell’area per collegare le due città. Così facendo dividerebbe in due la Cisgiordania, portando a quello che nel corso degli anni è stato descritto come il colpo di grazia alla soluzione dei due Stati.

In una dichiarazione pubblicata alla fine della scorsa settimana, la missione locale dell’Unione Europea ha condannato duramente i progetti israeliani di demolire Khan al-Ahmar, insieme alla progettata costruzione di una colonia nella E1, affermando che “aggravano le minacce per la praticabilità della soluzione dei due Stati e danneggiano ulteriormente le prospettive di una pace definitiva.”

“Questo è un campanello d’allarme per i membri più importanti dell’Unione Europea,” ha spiegato Daniel Seidemann, avvocato e attivista che dirige l’Ong israeliana “Gerusalemme terrestre”, e che ha passato gli ultimi 20 anni a monitorare come il cambiamento del paesaggio della città stia rendendo sempre più difficile una soluzione politica. “Se dovesse distruggere il villaggio nonostante l’impegno europeo, probabilmente Israele ne patirà le conseguenze.”

+972 ha parlato lunedì [9 luglio 2018, ndtr.] con Seidemann del perché Netanyahu voglia correre un tale rischio per un piccolo villaggio, delle implicazioni geopolitiche della E1 e di come probabilmente l’amministrazione Trump gestirà la crisi.

 

Nelle scorse settimane Khan al-Ahmar è stato la centro dell’attenzione mondiale. Perché il governo israeliano è così deciso a deportare una comunità talmente piccola?

“È una domanda da un milione di dollari. Khan al-Ahmar recentemente è finito sulle prime pagine dei giornali, ma è rimasto latente e oggetto di grande attenzione per molti anni, a tal punto che se svegli capi di Stato europei alle 3 del mattino e gli chiedi cos’è Khan al-Ahmar, sono in grado di risponderti. Quello che questi capi di Stato hanno continuato a dire ai dirigenti israeliani è che deportare con la forza la popolazione civile sotto occupazione è un crimine di guerra. Non lo avete ancora fatto, quindi non fatelo. Non vi possiamo difendere se lo fate, quindi lasciate stare.”

“La domanda è perché Israele voglia esporsi in questo modo. La scorsa settimana 12 consoli generali sono stati nel villaggio. Perché rischiare così tanto per un piccolo accampamento? È chiaro che si tratta di un’ossessione partita dai più alti livelli in Israele. Che viene da Netanyahu. [La minaccia di distruzione di] Khan al-Ahmar non avrebbe potuto avvenire senza il consenso e l’appoggio del primo ministro.”

 

Khan al-Ahmar si trova nell’area estremamente delicata nota come E1, tra Gerusalemme e la colonia di Ma’ale Adumim. Perché è così importante?

“Per quanto disperata e notevolmente problematica sia la situazione di Khan al-Ahmar, non avrebbe ricevuto l’attenzione che ha sollevato se non fosse nella E1, la zona che determinerà se potrà esistere o meno uno Stato palestinese sostenibile e con continuità territoriale. Khan al-Ahmar è diventato il problema umanitario del giorno. L’E1 è diventata il problema geopolitco degli ultimi 23 anni.

“Considera che Gerusalemme è al centro, e immediatamente a est di Gerusalemme, in Cisgiordania, a metà strada dal Mar Morto, c’è Ma’ale Adumim, la terza più grande colonia in Cisgiordania con circa 40.000 abitanti. Fin da metà degli anni ’90, quando Netanyahu è andato per la prima volta al potere, è stata intenzione del governo israeliano costruire un enorme collegamento verso Ma’ale Adumim con decine di migliaia di unità abitative. L’E1 è il settore tra Gerusalemme e Ma’ale Adumim.

 

In un documento del 2012 la sua organizzazione ha affermato che l’E1, “se edificata, è un punto di svolta, forse il punto finale” per la soluzione dei due Stati. Ce lo può spiegare?

“Fin dal momento in cui Ma’ale Adumim è stata fondata, è stata vista come una colonia da giorno del giudizio, in quanto può distruggere la sostenibilità della soluzione dei due Stati, perché smembrerebbe, frammenterebbe e spezzerebbe qualunque possibile Stato palestinese, e dividerebbe la Cisgiordania in un cantone settentrionale di Ramallah e uno meridionale di Betlemme ed Hebron.

“C’è una ragione per cui ogni amministrazione prima di Trump si è opposta a edificare lì. Quando Ariel Sharon iniziò la costruzione nel 2004, il presidente Bush e la segretaria di Stato Condoleeza Rice lo bloccarono dopo un grave conflitto all’interno della Casa Bianca sulla scelta di intervenire.”

 

Qualche anno fa Netanyahu tentò di costruirvi ma si piegò alle pressioni internazionali. Ora che c’è Trump alla Casa Bianca il governo sta preparando il terreno per l’operazione?

“Netanyahu ha proceduto nella E1 dal 30 novembre 2012 come rappresaglia per l’accettazione della Palestina come Stato osservatore non-membro all’Assemblea Generale dell’ONU. Le pressioni internazionali sono riuscite a bloccare le costruzioni, e da allora non è andata avanti. Ora credo che ci siano pressioni da parte del suo governo per procedere nella E1, e quello a cui stiamo assistendo è che Netanyahu sta facendo di tutto tranne andare avanti. Invece stiamo vedendo ogni possibile fase preliminare.

“Dal punto di vista di Israele la E1 è un’importante terreno edificabile. Per i palestinesi è un terreno edificabile devastante. Ma a prescindere, è il terreno più conteso della Cisgiordania, soprattutto perché riguarda i confini di un futuro status permanente. Così quando gli americani sono intervenuti non hanno detto ‘Questo non è Palestina, giù le mani.’ Hanno detto: ‘Volete la E1? Bene. È una questione che riguarda lo status permanente, negoziatelo e non imponete il risultato finale.’”

“La gente di Khan al-Ahmar è finita nel mirino di Netanyahu in quanto si trova in un’area su cui c’è una disputa titanica. E’ anche la più evidente esemplificazione di un crimine di guerra, e c’è anche una popolazione particolarmente vulnerabile. Per cui prendi le implicazioni geopolitiche della E1 e le crude implicazioni umanitarie di Khan al-Ahmar, le metti insieme e hai la miscela perfetta per il BDS [movimento per il boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro Israele, ndtr.].”

 

L’attuale iniziativa è il risultato della completa mancanza di impegno di Trump in merito? Cos’altro ci si può aspettare come conseguenza?

“Personalmente ho sentito dire due cose da membri di alto livello del governo. Un’opinione è che la E1 non preoccupa i palestinesi, possono aggirarla. La seconda è che Trump non ha cambiato la politica USA sulla E1.”

“Riguardo a Khan al-Ahmar è impossibile sapere se la demolizione avrà luogo o no. Quello che posso dirti è il presentimento che in un modo o nell’altro Khan al-Ahmar stia per diventare un punto di svolta. Se la demolizione viene bloccata, è chiaro che l’unica ragione sarà il serio, conseguente, articolato impegno internazionale da parte delle principali capitali europee. Questa è una lezione che sarà presa in considerazione sia a Gerusalemme che in Europa. Per quanto possa essere un personaggio problematico, Netanyahu può essere affrontato e può essere dissuaso.

Il secondo scenario è che vada comunque avanti con la demolizione, nel cui caso il messaggio sarà forte e chiaro: ‘Chi ha bisogno di Londra, Parigi, Berlino e Bruxelles quando abbiamo Varsavia e Budapest?’”

 

Perché è diverso da Susya, per esempio, il villaggio che è riuscito a evitare un’imminente demolizione con il sostegno della comunità internazionale?

“Penso che Susya fosse una prova generale per Khan al-Ahmar. Ma annettere Susya, cosa che in ogni caso non auspico, non avrebbe impedito la praticabilità di uno Stato palestinese. Con Khan al-Ahmar c’è l’alchimia di avere un problema umanitario molto grave, che ti obbliga a vedere le cose in bianco e nero, strettamente connesso al dramma geopolitico della E1, che sta chiaramente diventando uno dei problemi più controversi di qualunque futuro negoziato. Unire la questione geopolitica a quella umanitaria all’apice della loro gravità è un’atto da esplosione nucleare.”

 

(traduzione di Amedeo Rossi)




Boicottaggio Eurovisione in Israele

Artisti internazionali invocano il boicottaggio di “Eurovisione” in Israele

The Electronic Intifada

Ali Abunimah – 7 settembre 2018

 

Più di 140 importanti artisti internazionali hanno appoggiato la richiesta palestinese di boicottare il “Concorso Canoro Eurovisione” del prossimo anno se verrà ospitato in Israele.

Nel contempo sono emerse ulteriori prove della manipolazione da parte di Israele della competizione del 2018, e gli organizzatori dell’Eurovisione hanno chiesto che, come Paese ospitante del prossimo anno, Israele garantisca la libertà di espressione e di movimento.

“Eurovisione 2019” dovrebbe essere boicottata se verrà ospitata da Israele, finché continua con le sue gravi e decennali violazioni dei diritti umani dei palestinesi,” affermano gli artisti in una lettera pubblicata venerdì da “The Guardian” [giornale inglese di centro sinistra, ndtr.].

La lettera si riferisce a come Israele solo il 14 maggio ha massacrato più di 60 palestinesi a Gaza, due giorni dopo che Netta Barzilai aveva vinto l’Eurovisione 2018, garantendo ad Israele il diritto di ospitare l’edizione del prossimo anno della rinomata competizione.

Tra i firmatari ci sono gli ex partecipanti all’Eurovisione di vari Paesi, compresi Charlie McGettigan, che vinse il concorso canoro per l’Irlanda nel 1994, e i finalisti finlandesi di Eurovisione Kaija Kärkinen (1991) e Kyösti Laihi (1988).

Vi sono anche il compositore Brian Eno, i commediografi Eve Ensler e Caryl Churchill, i registi Mike Leigh e Ken Loach e l’attore di Arrested Development [“Ti presento i miei”, serie televisiva USA trasmessa anche in Italia, ndtr.]  Alia Shawkat. Molti dei firmatari sono musicisti, tra cui Moddi dalla Norvegia, Nick Seymour del gruppo australiano “Crowded House” e il cantautore catalano Lluís Llach.

Altri sostenitori dell’appello sono il direttore del teatro nazionale portoghese Tiago Rodrigues, l’attore, cantante e commediografo italiano Moni Ovadia e l’artista comico francese Tardi. Il PACBI, la Campagna Palestinese per il Boicottaggio Accademico e Culturale di Israele, ha accolto con favore la dichiarazione degli artisti. Ha anche sottolineato che l’“Unione Europea della Radiodiffusione”, l’ente internazionale che produce l’Eurovisione, negli scorsi giorni ha “chiesto che Israele rispetti la libertà di espressione e di movimento come condizione per ospitare il concorso.”

Secondo il quotidiano israeliano “Haaretz”, l’“Unione Europea della Radiodiffusione” ha chiesto al governo del primo ministro Benjamin Netanyahu garanzie scritte che “ai visitatori di Israele sia consentito di viaggiare ovunque senza restrizioni indipendentemente dalle loro opinioni politiche o dal loro orientamento sessuale, e che Kan (la radiodiffusione pubblica israeliana) abbia la completa libertà di montare la trasmissione.”

“Le condizioni riguardanti la libertà di movimento e di espressione sono poste solo a Paesi in cui ci sono preoccupazioni a questo proposito,” ha informato Haaretz.

Gilad Erdan, il ministro israeliano degli Affari Strategici, che ha sistematicamente bloccato l’ingresso nei territori controllati da Israele di attivisti solidali con i palestinesi o critici nei confronti delle violazioni israeliane dei diritti umani, ha chiesto che Netanyahu rifiuti queste condizioni.

“Non capisco in base a quale diritto l’‘Unione Europea della Radiodiffusione’ abbia l’audacia di arrivare e fare simili richieste e domande, contrarie alle leggi di uno Stato democratico, che a una persona debba essere consentito l’ingresso in Israele anche se lavora giorno e notte per danneggiare Israele in modo da boicottarlo e isolarlo,” ha affermato Erdan.

Altri ministri hanno insistito che nessuna prova di Eurovisione si tenga durante il sabato ebraico, una condizione che renderebbe praticamente impossibile lo svolgimento della competizione.

Funzionari pubblici israeliani incaricati di lottare contro il movimento internazionale di solidarietà con la Palestina vedono il fatto di ospitare l’Eurovisione come un “progetto nazionale” e il governo sta spendendo milioni di dollari per organizzare un evento che sperano contribuirà a ripulire l’immagine di Israele, soprattutto in seguito ai recenti massacri di manifestanti della “Grande Marcia del Ritorno” a Gaza.

Fonti ufficiali dell’Eurovisione hanno in precedenza espresso preoccupazione per i tentativi di Israele di utilizzare la competizione canora come parte della sua campagna di propaganda internazionale, compresa l’insistenza iniziale affinché si tenga a Gerusalemme.

Ma Israele ha rinunciato a questa richiesta in giugno, ed ha affermato che Gerusalemme sarebbe solo una delle varie possibili sedi, comprese Tel Aviv, Haifa e Eilat.

Con le possibilità a quanto sembra limitate a Gerusalemme e Tel Aviv, l’annuncio della città ospitante è atteso da un momento all’altro.

“Capiamo che l’“Unione Europea della Radiodiffusione” chieda che Israele trovi un luogo ‘non divisivo’ per l’Eurovisione 2019,” affermano gli artisti nella loro lettera su “The Guardian” – un riferimento a quanto Tel Aviv sia vista dai responsabili di Eurovisione come una sede meno discutibile di Gerusalemme.

Ma gli artisti affermano che l’“Unione Europea della Radiodiffusione” “dovrebbe annullare del tutto il fatto che sia Israele ad ospitare la competizione e spostarla in un altro Paese con migliori risultati in termini di diritti umani. L’ingiustizia divide, mentre il perseguimento della dignità e dei diritti umani unisce.”

 

La campagna israeliana di condizionamento

Nel contempo, è emersa un’ulteriore prova dei tentativi israeliani di influenzare il voto nel concorso del 2018 per contribuire a garantire la vittoria di Netta Barzilai.

Il 13 maggio, in giorno dopo la competizione del 2018, i gestori dell’applicazione Act.IL [per prodotti della Apple, ndtr.] hanno inviato un messaggio ai sostenitori rivendicando il merito di aver raggiunto “centinaia di migliaia di votanti che hanno appoggiato Netta portandola ad una bella vittoria.”

Di recente “The Electronic Intifada” ha ottenuto una copia dell’email.

L’ applicazione Act.IL sostenuta dal governo israeliano è utilizzata per lanciare false campagne di massa sui media sociali – una strategia nota come “astroturfing” – perché sembri che Israele abbia un maggiore appoggio dell’opinione pubblica di quanta ne ha in realtà.

“L’ applicazione Act.IL è un prodotto della collaborazione tra centri studi israeliani, gruppi lobbistici e il ministero degli Affari Strategici, che ha investito quasi 600.000 dollari nel progetto,” ha informato in maggio “The Electronic Intifada”.

Act.IL si è vantato di aver intrapreso la sua campagna per influenzare l’Eurovisione in collaborazione con gruppi antipalestinesi quali “StandWithUS” [organizzazione californiana antimusulmana e filoisraeliana, ndtr.] e il “Consiglio Israelo-Americano” [gruppo americano filoisraeliano, ndtr.], e con un account sulle reti sociali che si chiama come, ma a quanto pare non legato a, la nota agenzia israeliana di spionaggio e assassinii “Mossad”.

Israele ha utilizzato l’applicazione Act.IL anche per cercare di manipolare sondaggi di opinione riguardo a se dovesse essere boicottata l’Eurovisione in Israele.

Tra gli altri, Act.IL sostiene che il suo tentativo è stato “alimentato” dal “Consiglio Israelo-Americano”, il gruppo lobbistico diretto e foraggiato dal finanziere filoisraeliano condannato per evasione fiscale Adam Milstein.

Lo scorso mese “The Electronic Intifada” ha rivelato con un’esclusiva che Milstein viene nominato in un documentario di Al Jazeera censurato come il principale finanziatore di “Canary Mission”, un sito informatico anonimo che calunnia e perseguita studenti e docenti che sostengono i diritti dei palestinesi.

Una campagna sostenuta da un governo per influenzare il voto popolare dell’Eurovisione per fini politici di uno Stato reietto è chiaramente scorretta e contrasta con lo spirito della competizione, le cui norme vietano ai partecipanti di promuovere alcuna causa politica o di fare discorsi o gesti politici.

L’“Unione Europea della Radiodiffusione” non ha risposto a una richiesta di informazioni da parte di “The Electronic Intifada”.

 

(traduzione di Amedeo Rossi)




Alta Corte israeliana autorizza crimine di guerra

I giudici israeliani danno l’approvazione definitiva a un crimine di guerra a Khan al-Ahmar

The Electronic Intifada

Tamara Nassar – 5 settembre 2018

 

 

L’Alta Corte israeliana ha dato l’approvazione definitiva alla deportazione della comunità palestinese di Khan al-Ahmar, nella Cisgiordania occupata.

Il gruppo israeliano per i diritti umani B’Tselem afferma che la decisione renderà i giudici complici di un crimine di guerra se la demolizione – che dovrebbe avvenire a giorni – avrà luogo.

Inizialmente la corte a maggio aveva approvato la demolizione dell’intero villaggio, ma l’azione era stata temporaneamente sospesa a luglio, dopo che gli avvocati dei circa 200 abitanti di Khan al-Ahmar avevano presentato due ricorsi all’Alta Corte.

I giudici hanno accettato uno dei ricorsi ed hanno tenuto un’udienza in agosto.

Mercoledì l’Alta Corte l’ha respinto, ha revocato la sospensione provvisoria e ha dato alle autorità israeliane il via libera per espellere gli abitanti entro una settimana.

Il giornale israeliano “Haaretz” [di centro sinistra, ndtr.] ha affermato che i giudici “hanno detto che il principale problema di questo caso non era se si dovesse portare a termine l’espulsione, ma dove sarebbero stati risistemati gli abitanti.”

Israele vuole deportare a forza gli abitanti di Khan al-Ahmar in una zona nei pressi di una discarica nota come al-Jabal ovest.

Uno dei giudici ha respinto la richiesta degli abitanti di sospendere l’evacuazione finché non avranno trovato un luogo alternativo per andare a vivere ed ha criticato il loro rifiuto di vivere nei pressi della discarica.

Molto prima della decisione della corte di mercoledì Israele ha iniziato i preparativi per la demolizione del villaggio.

 

Non c’è giustizia nei tribunali israeliani

Nella loro sentenza, i giudici dell’Alta Corte israeliana “hanno descritto un mondo immaginario con un sistema di pianificazione uguale per tutti che prende in considerazione le necessità dei palestinesi, come se non ci fosse mai stata un’occupazione,” ha detto mercoledì B’Tselem.

“La realtà è diametralmente opposta a questa fantasia: i palestinesi non possono costruire legalmente e sono esclusi dai meccanismi decisionali che determinano come saranno le loro vite,” ha aggiunto l’associazione. “I sistemi di pianificazione sono esclusivamente destinati a beneficiare i coloni.”

“Questa sentenza mostra ancora una volta che chi è sotto occupazione non può chiedere giustizia nei tribunali dell’occupante,” ha affermato B’Tselem.

 

I dirigenti israeliani festeggiano un crimine di guerra

I dirigenti israeliani hanno lodato i giudici per aver approvato la deportazione della comunità, che in base alle leggi internazionali è un crimine di guerra.

Secondo le leggi che governano un’occupazione militare, un occupante può spostare persone in caso di necessità militari. Ma Israele vuole espellere gli abitanti di Khan al-Ahmar dalla zona est di Gerusalemme, dove è impegnato in un’intensa colonizzazione – anche questa in violazione delle leggi internazionali.

Yuli Edelstein, il presidente del parlamento israeliano e membro del partito di governo Likud, si è vantato su twitter che “la pressione” da parte dell’Unione Europea non sia riuscita a bloccare la decisione della corte.

“In Israele c’è una legge e chiunque è uguale di fronte ad essa,” ha affermato Edelstein – l’esatto contrario della realtà.

Diplomatici europei hanno fatto visita a Khan al-Ahmar nello scorso anno per mostrare il proprio sostegno alla comunità, ma, a parte un tale atto simbolico, l’Unione Europea – che fornisce ad Israele notevoli somme in aiuti e commercio – non ha preso nessuna iniziativa per chiedere conto ad Israele.

Allo stesso modo l’UE non ha fatto niente quando Israele ha demolito o confiscato scuole o altri edifici per i palestinesi che essa o suoi Stati membri hanno finanziato.

Pare che diplomatici europei abbiano detto a media israeliani che continuare con la demolizione di Khan al-Ahmar “innescherebbe una reazione da parte di Stati membri dell’UE.”

Ma, visto il lungo elenco di mancate reazioni dell’UE, simili avvertimenti dovrebbero essere presi con una notevole dose di scetticismo.

Anche il ministro della Difesa Avigdor Lieberman si è rallegrato per la decisione della corte, twittando che “Khan al-Ahmar sarà evacuato.”

Ha lodato i giudici per “una decisione coraggiosa e necessaria di fronte ad una campagna ipocrita orchestrata da Abu Mazen (il capo dell’Autorità Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas), dalla sinistra e dai Paesi europei.”

Fino a mercoledì sera i portavoce dell’UE non avevano ancora rilasciato una reazione alla decisione della corte.

 

(traduzione di Amedeo Rossi)

 




Politica estera UE e demolizione del villaggio di Khan al-Ahmar

Il momento della verità per la politica UE su Israele/Palestina

Che gli Stati europei diano un seguito alle loro minacce ed ai loro avvertimenti in merito alla demolizione di Khan al-Ahmar oppure no definirà in notevole misura l’importanza dell’UE e la sua capacità di influire sulla politica israeliana nei confronti dei palestinesi

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Di Michael Schaeffer Omer-Man – 5 settembre 2018

 

Le potenze europee stanno per dover fare una scelta fondamentale nella prossima settimana. Due mesi dopo che cinque Stati europei pare abbiano messo in guardia Israele che la demolizione e la deportazione di Khan al-Ahmar avrebbe “innescato una reazione” da parte dei suoi alleati, mercoledì [5 settembre] la Corte Suprema israeliana ha dato il suo beneplacito definitivo al fatto che la demolizione prosegua.

  • Insieme al villaggio di Susya, a sud della Cisgiordania, l’UE ha dichiarato, apparentemente in modo arbitrario, Khan al-Ahmar come una delle poche linee da non superare nella pluridecennale politica israeliana di demolizione di case palestinesi ed espansione del suo piano di estensione delle colonie nei territori occupati (per una spiegazione del perché, vedi l’intervista di Edo Konrad con l’esperto di Gerusalemme Daniel Seidemann).
  • Ogni volta che piccoli e fatiscenti villaggi nell’Area C [in base agli accordi di Oslo, sotto totale ma temporaneo controllo di Israele, ndtr.] stanno per essere distrutti, arrivano file di diplomatici. Dichiarazioni di condanna ed occasionali ammonizioni vengono diffuse nell’etere.

Finora questo approccio ha funzionato parzialmente. Ma le cose sono cambiate negli ultimi due anni: la principale differenza è che l’attuale Casa Bianca – la cui politica in Medio Oriente è guidata da personaggi sfacciatamente di destra e a favore dei coloni come Jared Kushner [genero e consigliere per il Medio Oriente di Trump, ndtr.] e David Friedman [attuale ambasciatore USA in Israele e proprietario di una casa in una colonia, ndtr.]  – non si preoccupa più di quello che Israele fa ai palestinesi. E se le importa, non è disposta a mormorare neppure un minimo segno di disapprovazione.

Ciò significa che le potenze europee, per dirla senza mezzi termini, dovranno decidere se opporsi o stare zitte riguardo al loro impegno nei confronti di Khan al-Ahmar. Anche se dovessero agire, è improbabile che lo facciano come blocco unitario, data la nascente amicizia di Israele con governi di estrema destra europei, che detengono il potere di veto effettivo nel sistema di politica estera consensuale dell’UE. I governi dovrebbero quindi intervenire singolarmente.

Tenendo conto su quante poche questioni la comunità internazionale ha intenzione di prendere una posizione nei confronti di Israele, e che i dirigenti dell’UE si sono assunti la responsabilità di tracciare una linea rossa più o meno coerente su Khan al-Ahmar, le risposte di Germania, Francia, Gran Bretagna, Spagna e Italia saranno fondamentali per determinare il destino dell’impegno internazionale sulla questione palestinese.

Con gli Stati Uniti non più interessati ad applicare neppure pressioni simboliche su Israele, le potenze europee, che detengono leve economiche significative, dovranno dimostrare se i loro avvertimenti sono effettivamente serie minacce o parole vuote. Se non reagiscono con una qualche sorta di sanzioni o di misure punitive, avranno perso quel poco che è rimasto della loro deterrenza per porre fine alla continua campagna del governo israeliano per rendere la soluzione dei due Stati (sostenuta dall’UE) un’idea obsoleta.

Ma è improbabile che simili punizioni vengano imposte. Le minacce diplomatiche non sono quasi mai fatte con l’intenzione di darvi seguito; per questo le conseguenze non sono mai specificate o accennate. Israele crede da tempo che sia così, ed ora comincia a mettere ulteriormente alla prova i confini della sua impunità – una cosa che ha fatto sempre più audacemente negli ultimi anni.

La conseguenza è che l’attuale governo israeliano, e i governi futuri, saranno incoraggiati a diventare ancora più aggressivi nel riscrivere le norme che governano il proprio comportamento: in questo caso, quelle che regolano con quanta rapidità può portare avanti la sua silenziosa annessione, un pezzo alla volta, della Palestina nei prossimi anni.

 

(traduzione di Amedeo Rossi)